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Autore: Francine    08/07/2015    5 recensioni
La luce del sole ti colpisce all’improvviso.
Fende lo spazio tra le tue ciglia, le fronde degli alberi e le creste bianche delle nuvole. E vorresti perderti in lei, che ha fatto tutta quella strada per arrivare a te. Pura. Assoluta. Calda. Ne ha di cose da raccontare, la luce del sole. Prestale orecchio, perché la sua voce è soave e argentina come un campanellino, e il suo colore è impossibile da dimenticare. Ed è diversa da quella fredda e malinconica delle stelle, anche se il sole è una stella anche lui. Ci vuole un po’ per crederlo. Per fidarti di chi ti assicura che la luce del sole è come quella di Antares, Vega o Arturo. Può cambiare il colore – bianco, rosso, azzurro, giallo – ma la natura –il destino – di una stella resta la medesima, a qualsiasi costellazione essa appartenga. Deve ardere. Fino a consumare se stessa. Danzando nel velluto nero profondo del cielo, assieme ai pianeti, alle comete e alle altre galassie in un carosello di luce. Di quelli che ti fanno girare la testa. Fino a non poterne più.

Storia del complesso rapporto tra il Santo del Cancro e la sua armatura. [Spoiler Soul of Gold]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Long and Winding Road'
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10.







Una buona morte giustifica qualsiasi cosa, anche qualsiasi vita.

L’ha scritto – o deve ancora scriverlo? – uno spagnolo e io sono d’accordo con lui. Perché è vero. Ogni singola sillaba. Lo so per esperienza. Quand’ero ancora un ammasso di carne e sangue e corazza, ho fatto una scelta. Lui era lì. Enorme. Smargiasso e smisurato. Possente. Tirava ceffoni all’Idra come fosse un cuscino da sprimacciare. E stava per soccombere, l’Idra. Perché lui, il figlio di Zeus, aveva deciso di usare le maniere forti. Le aveva serrato quante più teste poteva in una sola mano. E intanto, strappava le altre, nemmeno fossero i petali di una margherita. Lo sapeva. Una sola era la testa mortale, quella che non sarebbe mai ricresciuta. Ed era quella che cercava, andando per tentativi. Strappandole una dopo l’altra, in cerca di quella giusta.

La Madre osservava con cipiglio crescente la scena, assisa sul suo trono di nuvole, col ventaglio di piume di pavone tra le belle mani. Potrei dire che l’ho fatto per lei; ma sarebbe una bugia. L’ho fatto per me. Perché mi si ricordasse. Perché il nome di Karkinos perdurasse e non si esaurisse assieme alle vite di chi aveva avuto anche solo timore di pensare a dove si trovasse la mia tana. E allora allanguava il percorso, pur di non passare accanto alla palude di Lerna. Cosa resta di te quando la gente smette di credere? Nulla. Una favoletta da raccontare ai bambini. Parole che annoiano chi le sente ripetere, che scivolano addosso come un riflesso sbiadito dal tempo. Uno spauracchio per monelli dispettosi. E io non volevo questo. Io volevo di più. Meritavo di più. E se per ottenerlo era necessario morire, che importava? Ero stanco di tendere agguati ai viandanti e trascinarmeli sotto l’acqua limacciosa della palude. Urlavano. Gridavano. Si dibattevano. Come se così facendo avessero avuto un’opportunità – una sola – di liberarsi dalle mie chele. Una noia mortale. E poi, l’eroe era lì. E la Madre non gradiva affatto come stessero andando le cose – anche se, detto tra noi, io ho sempre sostenuto che a lei piacesse quel ragazzo tutto muscoli e niente cervello. Era tutta una posa, la sua, per dimostrare al consorte che anche il suo stesso seme doveva dimostrarsi meritevole di calpestare il suolo dell’Olimpo.

Così uscii dalle acque della palude. Presi l’eroe alle spalle e feci quello che ogni granchio ha sempre fatto da che esiste questa palla di fango. Gli pizzicai il tallone.
Come s’incazzò, l’eroe!
Come strillò!
Come risuonò alto e forte – e pure un filo femmineo! – il suo «Ahia!»!
Ma seriamente; cos’altro avrei dovuto fare?!
Lui mi guardò. Incredulo. E poi abbassò il piede. Mi schiacciò il carapace con un colpo deciso del tallone. E io pensai,
Avanti! Non sai davvero fare di meglio?! E riprese a combattere – Una testa le tagli, un’altra le ricresce – e mi lasciò a morire lì, agonizzante a riva, l’acqua della palude oramai troppo lontana per immergermi. L’eroe vinse. Uccise la bestia, se l’issò in spalla e su Lerna scese ancora una volta il silenzio. Venne la Madre. Mi raccolse nelle sue mani morbide, come fossi una cosa preziosa, e sorrise. Mi pose in cielo. Per ringraziarmi. Pose in cielo me, accanto all’Ariete di Giasone, alle Sette Sorelle, all’Acquario, allo Scorpione che uccise Orione e i suoi Cani da caccia. Il piccolo Karkinos, un mostruoso granchio di palude, trattava da pari a pari con le costellazioni più importanti e luminose. Quelle dello Zodiaco.

Che successe, poi?
Il Fabbro prese una scintilla da ciascuna di noi e ci trasformò in corazze. Bronzo, Argento, Oro. Anche Karkinos, sì. Perché la Fanciulla aveva bisogno di qualcuno che fosse disposto a mettersi in gioco fino in fondo. Qualcuno come me. Quando nasci in una palude, non fai troppo caso al fango. Ci sei abituato. E se c’è da spalare un chilo di merda o due, lo fai. Senza turarti il naso. Perché serve qualcuno che risolva i problemi, non che pianti una cagnara su questioni d’onore. È a questo che servono quelli come me. Per arrivare lì dove gli orgogliosi Scorpioni, i sensibili Pesci e gli integerrimi Capricorni non oserebbero mai concepire di poter giungere.

Poi ditemi se non ha ragione lo spagnolo a dire che una buona morte giustifica qualsiasi cosa, anche qualsiasi vita…

 
Andreas ride. Di lui, che tiene tra le braccia quella ragazzina nemmeno fosse la brutta copia di un principe, uno di quelli che ha impegnato mantello e cavallo bianco per arrivare alla fine del mese. Helena è più morta che viva. È fredda al tatto e grazie al Cielo è svenuta. Aphrodite che parla con le rose si ritrova con un rovo grosso quanto il tronco di un faggio che gli attraversa il busto da parte a parte. Con buona pace dell’armatura dei Pesci. E Marco non sa che fare. E Marco non sa che pesci prendere – ah, ah, ha fatto la battuta! E Marco fissa Andreas ridere. Assaggiando la sua stessa medicina. Scoprendo che quando la vita ti lascia con le pezze sotto al culo – e forse nemmeno più con quelle – non è poi così divertente osservare il cattivo da operetta ridere di te, del tuo disorientamento, della tua paura. Perché sì, Marco ha paura. Non di morire, nossignore. C’è già passato. Quando vivi quello che temi di più, cos’altro può spaventarti? Nulla. Eccetto sapere, al cento per cento, senza possibilità d’errore, che i giochi sono fatti. Che quello scrigno non si aprirà più. E che Andreas lo schiaccerà nemmeno fosse un granchietto dispettoso che potrebbe pizzicargli il calcagno.

«Cos’è quello sguardo, Santo di Athena?»
Si fa beffe di lui. Senza pudore alcuno. Un sorriso smarginato, di quelli che si regalano ai pagliacci con la faccia lorda di torta alla crema e fragole e segatura scadente. Adesso mi farà anche l’applauso, pensa Marco.
«Non dirmi che vorresti combattere?»
Un ghigno. Perché l’essere umano è fatto così; segue percorsi collaudati. Sicuri. Per gestire quelle situazioni che di sicuro non hanno nulla. Così Marco piega le labbra in una smorfia. Un bluff, cui aggiunge: «E se fosse?».
Andreas arcua le sopracciglia. «E l’armatura?», chiede. Sapendo che lei non verrà. Contando proprio su quello.
Ma allora perché non lo spazza via?
Perché si sta divertendo, il bastardo, pensa Marco, prima di aggiungere: «Non ne ho bisogno». Mentendo. Ad Andreas. Ma soprattutto a se stesso.
 
L’ultimo si chiama Marco. Arriva in due tempi, ma sempre con quel tarlo maledetto dell’inadeguatezza a piombargli i polsi. Ovvio. I nodi karmici non sono bagattelle che spezzi così, come i lacci dei calzari. Marco ha voluto rinascere. Per servire Athena – per servire Sasha. L’ha voluto con tutto il cuore, nonostante sapesse quanto fosse caro il prezzo da pagare, ché il karma non scherza, su certe cose. E voler ripercorrere lo stesso percorso è visto come un azzardo. Un atto di tracotanza. Hybris.
E Marco di casini da risolvere ne ha a carrettate, ma stavolta, quando il secolo è il Ventesimo e l’uomo sta per calpestare il suolo lunare, non gliene frega nulla di dimostrare di non essere spazzatura. Questo lo sa già, quando si tuffa nelle acque di Pergusa. Quello che Marco vuole è dimostrare di essere forte. Il più forte. Nonostante quello che si dice in giro della sua corazza. Di me. La meno brillante di tutte e dodici le costellazioni. Quella con il riverbero cosmico più debole. Quella schiacciata tra l’ampia Gemelli e la brillante Leone. Quella che apre la danza dell’Estate, nonostante la sconfinata estensione della Vergine.
Che sia, pensa lui. Perché Marco non è scemo. Ingenuotto, forse. Ma scemo no, perché il ragazzo sa che è meglio passare inosservati, così da stupire il nemico con tutta la tua potenza. Perché lui non se l’aspetta che il lunatico Cancro ti spedisca per direttissima nella Valle della Morte, nossignore. Lui ti prende sottogamba. Ti sottostima, l’idiota, almeno fino a quando tu non lo mandi all’Inferno – nel senso più letterale del termine – senza tante cerimonie. Ridendo, magari; della sua tracotanza, della sua scarsa lungimiranza, del suo stupore. Il nemico, conta. Solo lui è il testimone silenzioso della tua vera forza. Peccato non possa andarlo a raccontare in giro, ma per quello ci sono le teste. Come le tacche sul bancone del bar o i trofei di caccia che ti osservano con occhi vitrei dalle pareti del salotto buono.
Marco si è sempre detto che la fama non è roba per lui. Costa, la fama. Mantenerla, soprattutto. Devi stare attento a quello che dici, a come ti muovi, a cosa pensi. È una bella gabbia dorata, la fama. E lui non ha alcuna intenzione di infilarcisi per far contento chicchessia. Perché poi la gente, quella stessa che sparge i fiori al tuo cospetto nemmeno tu fossi il nuovo Messia, pretende da te un certo comportamento. Una certa condotta. Ed è allora che l’armatura diventa una prigione. D’oro massiccio, senza dubbio. Ma pur sempre una prigione.
 
I Mastini sono alle sue spalle. Sente il fetore del loro alito – caldo, denso, pesante, zuccherino – scaldargli i peli della nuca. Sa che sono ancora lontani – questione di una manciata di passi – ma sa anche che non gli faranno la cortesia di attendere che estragga l’armatura da sotto quel masso. Nossignore. Così l’osservano, quel tanto che basta al predatore per inquadrare la preda, capire qual è la sua strategia di salvezza e quali sono i suoi punti deboli. Quelli dove affondare i denti.
Marco è a un bivio. Insistere con quel masso maledetto, oppure voltarsi ed affrontare i Mastini? Senza armatura?, si dice. Come se fino ad adesso non avesse combattuto in mutande. Ma una Melusina è un discorso. Un paio di Mastini – tre, si corregge – un altro. Che non sono cagnoloni troppo cresciuti o lupacchiotti che avrebbero bisogno di una bella insaponata.

L’armatura. È la mia unica speranza di salvezza, pensa Marco. Spingendo il masso. Mettendoci il cuore, l’anima ed il cosmo nel tentativo di smuovere quel tanto che basta per. Sì, per fare cosa?, si chiede. Puntando i piedi a terra e spingendo, spingendo, spingendo. I Mastini hanno iniziato a ringhiare basso. Lo stanno avvisando tramite un conto alla rovescia, finito il quale attaccheranno. Un istante di silenzio e poi si apriranno le danze. Una cortesia che ha il sapore dei tempi andati, ma la mente di Marco si concentra sull’inamovibilità di quel masso maledetto e sulla necessità che ha di spostarlo. Anche di poco. E poi sia quel che sia. Accadrà quelle che deve accadere nel modo in cui deve accadere. Tonio non gli ha mai parlato di parole magiche, di eventuali «Apriti, Sesamo!» da formulare con voce stentorea davanti all’armatura. Non ha neanche idea di come sia fatta, la sua armatura. La troverà in pezzi e dovrà mettersi alla ricerca della corazza, dei bracciali e via dicendo, oppure?

Spostati, dannazione!, pensa Marco, i piedi puntellati a terra e le mani sulla roccia calda. Il ringhio dei mastini sta salendo d’intensità. Il capo gli sta girando attorno, in cerchi via via sempre più stretti. Ci siamo. Manca poco. Il sangue della Melusina è viscido. Non gli consente una buona presa. Ecco perché non si sposta, quel masso maledetto. Ecco perché non ha ancora stanato il granchio dal suo nascondiglio.
Se solo Marco sapesse – se solo Marco intuisse – quello che c’è realmente da fare, non starebbe faticando come un dannato. Ma Marco non è Teseo. Marco ancora non sa usare l’astuzia, come Odisseo. Marco non sa che a volte, per ottenere ciò che si vuole, non serve la forza bruta. A volte, basta solo chiedere. Farsi uscire il fiato. Ingollare l’orgoglio e rimettersi all’altrui volontà. Perché lui sarà pure il Santo, d’accordo; ma è l’armatura che fa il Santo. Mai il contrario.
«Insomma! Che devo fare con te? Chiedertelo in ginocchio?», sbotta, la testa all’indietro, il collo teso e la voce che rimbalza nell’aria immobile della Valle dell’Ade. «Per favore!», esclama. Sputando fuori quelle due parole come se fossero veleno. Ringhiandole. Masticandole sotto ai denti, mentre le dita affondano nella roccia e il sangue di Marco diventa una cosa sola con quello della Melusina. Colando. Verso il basso, verso quell’anfratto da cui occhieggia la luce calda delle stelle.
 
Il problema di questo Marco è che è sempre stato cocciuto. Troppo. Non ha mai sviluppato un punto di vista a lungo termine, concentrandosi solo sull’immediato. Come se la sua vita fosse un insieme di primissimi piani o di particolari che si susseguono uno dopo l’altro. Gliel’ha detto anche quella prugna secca di Doko. Trasecolando, di fronte alla copia carbone di Manigoldo. Avrei voluto dirgli tante cose, al vecchio Doko. Non giudicare il libro dalla copertina, ad esempio. Perché a parte quei due fregi sul busto – opera di Sion – e un paio di occhi blu mare, invece che violetto, quello che aveva davanti non era Manigoldo. Era sempre Marco, sì; ma stavolta aveva deciso che fosse necessario spalare un po’ di fango in più. Aveva voluto credere ai sogni di gloria, alla voce di una sirena bravissima a toccare i tasti giusti. Un atteggiamento borderline, d’accordo. Ma Athena avrebbe chiuso un occhio, anche stavolta. Avrebbe assestato a Marco e agli altri un lisciabbusso da manuale, ma poi li avrebbe perdonati. Lei aveva bisogno di loro. La guerra contro Ade era alle porte, giusto? Quale mentecatto si sarebbe privato di pedine così importanti poco prima della partita finale? Nessuno. Men che meno Athena.

Eppure, Marco è finito nella pila degli scarti. Ce l’ho mandato io. Chiamandomi fuori. Lui non ha mai capito perché l’’abbia fatto, perché l’abbia lasciato in mezzo ad una strada nel momento più nero e difficile della sua stessa vita. Ha pensato che ad un certo punto avesse tirato troppo la corda e gliene fosse rimasta un pezzo in mano. La risposta è nel mezzo, come sempre. Non l’ho abbandonato perché stava facendo chissà quale nefandezza. Stava combattendo. Stava per gettare nella Bocca dell’Ade un nemico.  E una battaglia non è mai un picnic tra i fiori.

Il problema di Marco è stato non avere riconosciuto il cosmo di Athena.
Lei era lì. Alle sue spalle. Eppure, lui era tutto preso da
altro. Dalla voce di una ragazzina che pregava per il suo fidanzatino. Questo lo ha perso. Nient’altro. E lui non ci arriva. E lui pensa che l’abbia lasciato in mezzo ad una strada per chissà cosa. Per un capriccio. Nemmeno fossi una donnicciola. Sì, Karkinos è diventato un’armatura. Una corazza. Femmina. E un po’ me la sono goduta nel far ammattire i miei guerrieri. Non lo nego. Ma se Karkinos è diventato il Cancro è stato perché ha saputo riconoscere la presenza di un dio. E schierarsi di conseguenza. Con gli dei, mai con gli uomini.
Marco, no. Marco non ha riconosciuto il cosmo di Athena, che brillava sul ciglio del burrone come una supernova appena nata. Ecco perché l’ho abbandonato. Perché io non sono roba sua, nonostante a lui piaccia – e faccia comodo – crederlo. Io appartengo ad Athena. Sempre. Quando sorride, quando versa le sue lacrime e quando le si tappa una vena perché qualcuno l’ha fatta fuori dal vasetto.


Marco ce l’ha con me. Certo. È facile prendersela con chi non ti può rispondere. Come il bambino geloso che riversa sul fratellino appena arrivato l’odio che non può permettersi di provare per mamma e papà. Non può ammetterlo. Nemmeno con se stesso. È un’enormità che fa tremare i polsi al solo pensiero. Così si cerca un capro espiatorio. Qualcuno su cui riversare le proprie frustrazioni. Perché odiare Athena, in fondo, è troppo anche per Marco. E allora odia me. Con la testardaggine che lo contraddistingue, con il rancore e la rabbia di una ferita ancora aperta. Su cui hanno versato una manciata generosa di sale.
 

«Io non ho bisogno della mia corazza!»
Marco lo grida a pieni polmoni, per convincere se stesso, più che Andreas. Non gliene frega nulla di Andreas. Vuole solo farlo a pezzi. Niente di personale. Andreas ha appena ammazzato un suo compagno. Strano, vanitoso, con un guardaroba allucinante e il vezzo di parlare con le piante. Ma Aphrodite è – era? – un suo compagno. Qualcuno con cui ha visto la morte in faccia ed ha provato a gabbarla. Qualcuno che c’è andato di mezzo perché Andreas ha ritenuto che Marco fosse innocuo. E l’orgoglio di Marco, l’orgoglio del Karkinos di questa epoca, non può tacere oltre.
Pessima idea, Andreas. Davvero, una pessima idea.
«Non ne hai bisogno?»
Andreas gli regala lo sguardo con cui si osserva un animale bizzarro.
«No!» Marco si alza, Helena dorme ancora. Marco si alza, ma le sue caviglie sono di gelatina. Si tiene in piedi per scommessa. Crollerà. Adesso. Davanti ad Andreas. Crollerà perché per quanto sia bravo a raccontare e a raccontarsi palle, Marco sa che combattere a mani nude è una cosa e vestire una corazza è un’altra. Sì, ha ancora il cosmo. Sì, è incazzato quanto basta per rovesciare tutta Fensalir e ficcargliela lì dove non batte il sole, ad Andreas. Ma Marco si sente incompleto. Mancante. Ed è il rimorso a piombargli il cuore.
Se solo tu fossi ancora con me, pensa. Ricacciando indietro il dispiacere e il timore di non farcela.

Se solo tu me lo chiedessi…

Ed è allora che Marco la sente. La voce della sua corazza. Che lo chiama. Che gli sussurra qualcosa all’orecchio – «Prendiamo a calci nel culo questo stronzetto, vuoi?» – prima che la luce dorata dell’armatura esploda dentro di lui. Ed entri in risonanza con il suo cosmo.
Marco sorride.
«Vuoi davvero combattere ancora assieme a me, Cancer?!», grida. Con tutto il fiato che gli resta in gola. E la risposta che ottiene ha il colore dell’oro e lo splendore delle stelle. Il respiro di Karkinos sulla pelle. La sua corazza è di nuovo lì. Con lui. Insieme a lui.
Ci voleva tanto?, si sente chiedere Marco. Un sorriso bonario a galleggiare su quella domanda.
Donne, pensa Death Mask di Cancer. Prima di lanciarsi in battaglia, il cuore che batte, il sangue che ruggisce nelle vene, il cosmo pronto ad esplodere ancora una volta.

 
Una buona morte giustifica qualsiasi cosa, anche qualsiasi vita.
Ecco perché ho lasciato che succedesse. Ecco perché ti ho dato la possibilità di morire in piedi. Ecco perché me ne sono rimasta in silenzio. Non avevi bisogno di me, di sentirmi addosso, nemmeno fossi la tua personale coperta di Linus. Avevi bisogno di capire da te quello che era successo. Di arrivarci piano piano. Senza fretta. Tanto sei morto, no? Chi ti corre dietro?

Quando la vita è un groviglio inestricabile c’è poco da fare se non fermarti e districarlo. Piano piano. Filo dopo filo. C’è bisogno di tempo. Certo, puoi anche decidere di tagliare a metà quel gomitolo, ci mancherebbe. Ma poi? Hai ancora un gomitolo, poi, o un ammasso informe di lana? E la domanda è: ti serve quel gomitolo, oppure no? Perché se davvero non ti serve, se davvero non è roba che fa per te, io mi chiedo che senso abbia portarselo appresso. Meglio lasciarla a qualcun altro, quella rogna. Meglio non averci nulla a che fare. Meglio vivere un’altra vita; diversa, normale, in cui gli unici crucci sono le bollette da pagare, i conti dei fornitori da saldare e mettere assieme il pranzo con la cena.  
E ci hai pensato. Adesso come due secoli e mezzo fa, quando c’era un’altra ragazzina ad inciampare nei tuoi passi, con una scimmietta dispettosa ed il vezzo di alleggerire le tasche altrui con le sue manine di fata.
Ammettilo, ché non è un disonore. La normalità è pericolosa, come un miraggio nel deserto. Agli occhi di un guerriero appare preziosa come un diamante sfaccettato. Ma la normalità è il canto melodioso della sirena nascosta dietro le rocce, la tagliola che brilla argentina sotto la luna piena. Quando la vivi, quando vi sei dentro, scopri che non è più possibile tirarsi indietro. Che se ti lasci la via dei Santi alle spalle, sei come il marinaio che sogna la terraferma ed il corpo della sua donna quando la nave beccheggia ed il mare fa bestemmiare; ma che si strugge non appena scende sul molo e muore dalla voglia di imbarcarsi ancora. Nonostante tutto. Nonostante il mare sia pericoloso e non ti lasci scampo. Nonostante lui sia più forte di te e l’unica cosa che tu possa fare è essere preparato quando toccherà alla tua barca calare a picco. Magari nel bel mezzo della notte.


Ci hai pensato. Un attimo soltanto. Non sai il rischio che hai corso. O forse sì, lo sai. Ed è per questo che sei corso fuori città. Altro che cavalier servente. Altro che principe azzurro. Un bluff, così convincente da farti credere che sì, fosse possibile essere qualsiasi cosa tu volessi essere. Anche un perdigiorno sposato ad una ragazzetta dallo sguardo gentile, che passa le giornate scaricando casse di fiori ed alzando il gomito all’osteria. Ma io ti chiedo: è davvero questo quello che vuoi essere, Marco? O piuttosto non è che in fondo al tuo cuore ci sia la via del Santo, quella che hai cercato, senza successo, di lasciarti alle spalle?
Io la risposta la so. Tu? Non dici nulla? No, certo. Svicolerai, sempre e comunque, nascondendoti sotto la sabbia e le rocce. E va bene così. Perché con me non hai bisogno di dire nulla. Con me devi solo essere te stesso. Marco. A cui non importa se Karkinos sia la più flebile delle costellazioni dello Zodiaco. Quello che se ne frega se l’ampiezza azimutale non sia smodata, o se la magnitudine di Acubens sia poco più che un puntino visibile ad occhio nudo. Tu sei il Cancro. E non devi dimostrare niente a nessuno. Ma, se proprio ci tiene, sarai più che disposto a spedire questo signor nessuno tra le stelle di Praesepe. Per fargli toccare con mano cosa significa sottovalutare te.

 
L’ultimo pensiero di Helena è un pensiero d’amore, ma non è rivolto a lui.
«I miei fratellini.»
Marco annuisce. Ci penserà lui a sistemare quei marmocchi, sempre nascosti dietro alle sue gonne. Quelli che lo guardano con occhi spalancati perché lui è un uomo. Così diverso da lei, dolce e gentile, e così diverso da tutti gli altri uomini che gironzolano in città. Lui puzza di avventura lontano un miglio, e agli occhi di un bambino le avventure sono colorate di tinte accese e sgargianti, nella beata incoscienza che non comprende – non vuole ipotizzare – che non puoi ottenere colori brillanti se non c’è l’ombra a delinearne il bilanciamento.
Sì, ci penserà lui ad affidarli ad Olev. E poi, quando tutto questo sarà finito, si vedrà. Tornerà a prenderli, magari, per insegnare loro a difendersi. A vivere come Santi di Athena. Sempre ammesso che lui esca vivo – ammesso che sia vivo – da questa faccenda.
«Non sforzarti», le dice Marco. Tenendola tra le braccia mentre il mondo attorno a loro brucia. Proteggendola dalle ombre che strisciano verso di loro. Come farebbe un vero cavaliere nella sua scintillante armatura.
«Resta… con me», gli chiede. «Non… lasciarmi… da sola.»
Lui annuisce. «Starai meglio», le promette. Una pietosa bugia. Marco lo sa. Helena lo sa. Per questo sorride. Per questo allunga una mano a sfiorargli il viso.
«Grazie», gli dice lei. Per essere venuto a salvarmi. Per averci provato. Per essere stato il mio cavaliere. Anche se sono morta. «Grazie», un sussurro e poco più e poi Marco vede l’anima di Helena staccarsi dal suo corpo e galleggiare via, verso l’alto, come un palloncino dispettoso che punta al cielo, lasciandosi alle spalle le lacrime e le urla del bambino. Helena è sorda alla sua voce. Che la chiama, nonostante sappia che no, non c’è più niente da fare. Che è andata così. Che non avrebbe senso riacciuffarla e costringerla a tornare nel suo corpo, perché la sua vita è arrivata al capolinea. Qui ed ora. Tra le sue braccia.

Grazie per essere rimasto con me.

È appena un sussurro, un alito lieve che gli scompiglia i capelli mentre tutto brucia e l’armatura si accende di bagliori rossastri. Marco è solo, adesso. Helena è andata, Aphrodite è andato e gli altri sono finiti chissà dove a fare chissà che. Marco sa che deve raggiungerli, ma lo farà con calma. Piano piano. Ognuno ha i suoi tempi, giusto?
Restiamo ancora un po’ qui, pensa. Rivolgendosi alla sua corazza. Stringendosi al petto il corpicino inerte di Helena. Resta insieme a me, pensa, il respiro del metallo sul corpo che lo rassicura come una mano posata sulla spalla. E sulle labbra, una preghiera. Quella che sua madre gli ripeteva al suo capezzale, da bambino, accarezzandogli i capelli prima che il sonno se lo portasse via, dove non c’erano Cristi, luci gloriose, salmi e preghiere di redenzione da snocciolare per qualsiasi cosa. Resta con me perché è scesa la sera ed il giorno è già declinato.
 
 
Note:
Ce l’abbiamo fatta. Più o meno. Mi spiace aver saltato l’appuntamento del 24 Giugno, ma non era cosa. Non sono al cento per cento, ma la scrittura è come andare in bicicletta o nuotare. Piano piano, si ricomincia a correre. Un passo dopo l’altro. Ma prima, devo rimettermi a camminare. Con lentezza.

Grazie. Per aver seguito questa storia. Per averla letta. Per averla commentata. Nonostante tutto. E adesso, via con le note.

Una buena muerte justifica cualquier cosa, incluso cualquier vida.
(Arturo Pérez-Reverte, El Maestro de Esgrima, Mondadori,  Madrid, 1988, trad. it. Il Maestro di Scherma, Marco Tropea Editore, Milano, 1999)

 Il titolo della storia si rifà ad un passo del Vangelo di Luca capitolo 24, versetto 29:  Ma essi lo trattennero, dicendo: «Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno è già declinato». Egli dunque entrò per rimanere con loro. (versione Nuova Diodati)

Karkinos era, secondo la mitologia, un granchio mostruoso che viveva nella palude nei pressi di Lerna, la stessa dove abitava l’Idra (bel posticino, vero?). Quando Eracle giunse per uccidere il mostro, Karkinos uscì dall’acqua e pizzicò il tallone dell’eroe, il quale pensò bene di disfarsi del seccatore schiacciandolo. Era pose il granchio nel firmamento, creando così la Costellazione del Cancro.

Quanto all’ampiezza della Costellazione, il Cancro è una delle meno luminose dello Zodiaco, pur avendo delle dimensioni tutto sommato nella media. Poiché Kurumada non dice mai nulla in maniera schietta e diretta, possiamo solo supporre che la luminosità delle Costellazioni determini la forza e la vicinanza del Santo corrispondente alla dea Athena. Non è un caso che i tre sgherri del Sacerdote – Shura, Aphrodite e Mask – appartengano alle tre costellazioni meno visibili dell’Ellittica (Capricorno, Pesci e Cancro), così come Shaka – l’anello di congiunzione tra l’uomo e la divinità – appartenga a quell’ammasso smodato che è la Vergine. Quindi, ha ragione Andreas a ricordargli che lui, Death Mask, è retto da una costellazione un po’ meh (grazie, eh!); ma Andreas commette l’errore di sottostimare il proprio avversario. Niente, nonostante i centoquarantaquattro episodi della serie, i cattivi ancora non hanno imparato la lezione…

Non credo vi sia altro da dire. E semmai io avessi dimenticato qualcosa per strada, fatemi pure un fischio. Magari non risponderò subito, ma mi farò perdonare il ritardo con una buona tazza di caffè. Promesso.
Alla prossima e grazie per aver letto fin qui.
   
 
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