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Autore: Helmyra    08/07/2015    3 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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"E forse non è vero amore se ti dico che mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso."

Franz Kafka, Lettere a Milena


Visse ancora. Visse per lunghi anni, serbando i segreti nel cuore e benedetta da un immacolato silenzio. Ondolemar si mostrò paziente; del resto, i supplizi peggiori portavano alla prostrazione psicologica, più che fisica; e da una situazione sfavorevole aveva imparato a trarne solo i benefici.
Elanilde trepidava, agognava la forca quanto un premio, una liberazione da quella vita orribile. Provava a proferire una sillaba, ad emettere un suono: la gola era una cavità vuota, talvolta e con grossi sforzi, riusciva a mettere in fila dei grugniti. Aveva imparato ad esprimersi a gesti e, all’occorrenza, metteva per iscritto i suoi pensieri su piccoli brandelli di carta, che allungava ai soldati nel momento in cui l’emissario Thalmor avesse messaggi da recapitare.
Era inutile; come soldato, come scudiero e come servo valeva ben poco. Era ribelle, per giunta: in passato aveva deliberatamente disubbidito agli ordini di Ondolemar. Si era divertita ad attirare la sua disapprovazione: prima o poi ne avrebbe avuto abbastanza, pensava; era pur sempre un elfo algido, severo, con una perenne espressione di disprezzo a deturpargli il volto. Mettere alla prova la sua sopportazione la infervorava in una sorta di rivalsa, avrebbe raggiunto il limite. Anche un’armatura d’acciaio cade a pezzi, se esposta alla violenza insistente del nemico.
Quando si stancava, Ondolemar ricorreva alle corde o alla frusta come se proprio non potesse farne a meno. Metteva così poca convinzione nell’atto da fomentare in lei rabbia e rancore... e non escludeva affatto che, durante quella parodia di castigo, lui ne traesse un sottile piacere.
Lurido porco. Era sempre stata un passatempo, un giocattolo divertente. Ora che era ormai adulta, avrebbe finalmente conosciuto il suo destino. Combattere per Alinor e i Thalmor la disgustava, ma desiderava brandire una spada e darsi da fare, proprio come gli altri soldati della scorta. Non avrebbe mai avuto un posto in prima linea, giacché il giustiziere Thalmor era molto geloso, e mai e poi mai avrebbe accettato che al suo bel burattino si spezzassero i fili. Anni ed anni di servizio non erano riusciti a piegare la sua brama di vendetta: unendosi all’esercito, avrebbe potuto allacciare i contatti con i rivoltosi, oppure diventare una spia fidata per l’Impero, a cui era ancora fedele.
Tempo al tempo. Di sera, Ondolemar si chiudeva nella sala preparata per lui nelle rovine dwemer di Markarth, e si tratteneva lì in un bagno ristoratore. Elanilde era sempre presente, per insaponargli le spalle, massaggiargli i muscoli e sostituire l’acqua tiepida con quella calda, che da un piccolo canale di scolo, dalla vasca fino al bordo della piattaforma, confluiva in uno dei canali interni del palazzo.
L’elfo aveva le sue manie, talvolta assurde. Sosteneva che i Nord fossero una popolazione incivile, dedita a bagordi ed inutili dispute territoriali. Da quando si era trasferito a Skyrim, aveva preso l’abitudine di farsi rasare il capo per scongiurare il pericolo dei parassiti. Ogni cosa attorno a lui era sporca, rozza, immeritevole di considerazione. Aveva preservato le usanze Aldmeri anche lì, e compieva gli stessi riti con una pedanteria asfissiante.
S’inginocchiava di fronte all’effigie in pietra di Auri-el, giungeva le mani e salutava la divinità, bisbigliando a bassa voce dei versi astrusi che non avevano nessun significato per lei.
Benché a pochi fosse garantito l’accesso ad una cerimonia così intima, Elanilde non aveva nulla di cui vantarsi. Anzi, imprecava contro la divinità e la malediceva, sebbene questo avvenisse solo nei suoi pensieri.
Cosa aveva Ondolemar? Il prestigio, il rispetto dei sottoposti, campo libero e potere di vita e di morte sui prigionieri. Poteva fregiarsi di un titolo nobiliare, del successo in numerose missioni... a parte questo, chiunque avrebbe disdegnato la sua compagnia. Un temibile alleato, ma un pessimo amico.
L’acqua scivolava sulla pelle lucida, sul torace irrobustito da anni di allenamento. Elanilde stava ben attenta a non irritarlo e a sfregare la spugna quel tanto che bastava: gli ultimi eventi l’avevano reso d’animo irascibile, per fortuna non l’avrebbe indisposto a parole.
“Elanilde...”
L’elfa drizzò le orecchie: da tanto non la chiamava così. Di solito, in pubblico e temendo di destare sospetti, si concedeva un blando Elanil, nome con cui era conosciuta.
Abbassò il capo, in segno di riguardo, e continuò il lavoro.
“Ho considerato la tua richiesta...” il comandante chiuse gli occhi, valutando ciò che aveva da dire, “so dei progressi alla forgia, di quanto ti stai impegnando. Mi hai chiesto di farti cavaliere... no, non posso concedertelo. Adesso, con troppa umiltà, mi chiedi di assegnarti come armaiolo agli accampamenti di frontiera, non posso concederti nemmeno questo.”
Strizzò gli occhi, scosse la testa: davvero avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni a servirlo, continuando a fargli da lacché?
“Forse non capisci.” Spiegò Ondolemar, mellifluo. Aveva imparato ad interpretare ogni alterazione, ogni piccolo movimento del suo corpo. “Sì, molte figlie di Alinor sono al servizio della patria, e sanno difendersi con la lingua e con la spada. E tu? Gli uomini di queste lande sono barbari: l’ambasciatrice viaggia sempre sotto protezione, tu vuoi affrontare chiunque servendoti solo di tanto coraggio. Devo dedurre, però, che non vedi l’ora di andartene da qui... o di farla finita, in un modo o nell’altro.”
Non le importava di essere maschio, di essere femmina. Subiva le scelte altrui da quel traumatico giorno. Da quando aveva perso casa, famiglia e futuro. Senza conoscere la felicità, l’esaltazione, l’amore.
“Mi stai provocando incresciosi fastidi. In panni maschili non hai mai suscitato tanto rispetto... se non ti trattano con fraternità, spesso i soldati si divertono a tormentarti perché sei debole, ai loro occhi. E metterti nelle condizioni di dover assumere la tua identità femminile non è proprio semplice. Ha funzionato in passato, perché pochi avrebbero saputo notare la differenza, ma non ora... non più. È difficile nascondere quel corpo sotto un’armatura, avvolgere i fianchi in un paio di braghe che non rivelino ciò che sei. Vuoi diventare cavaliere, vuoi diventare armaiolo... va bene. Non pensi mai, però, all’altra strada.”
Elanilde sollevò il palmo della mano e stese il braccio in avanti, mimando il lancio di un incantesimo. Ondolemar scosse la testa, e per un attimo sembrò inabissarsi nell’acqua profumata.
“Sì, forse. Sei abbastanza versatile, questo devo ammetterlo. Tuttavia... io avevo immaginato un altro destino, per te.”
Si erse lentamente dalla vasca, in tutta la sua nudità. Quel corpo non era un mistero per lei, ma il fatto che avesse rinunciato così presto al bagno la insospettiva. Sviò lo sguardo, recuperò un telo e fece per avvolgerglielo attorno al bacino.
“No.” Tuonò lui, scostandolo via. “All’inizio volevo che cantassi per me. Sfortuna volle che perdesti la voce... non è questo, però, che mi ha spinto a prenderti. Sì, sei stata utile, sei alquanto abile. Non credo che qualcuno avrà da ridire se ti mandassi via. Se ti facessi sparire, per poi far ritorno nei panni di una gentildonna... ciò che dovresti essere. Dunque: cavaliere, armaiolo, mago. Hai mai pensato, invece, di essere una signora?”
Il telo sfuggì via, cadde in acqua. Elanilde lo raccolse, lo strizzò e si prostrò in mille scuse, sottraendosi alla sua riprovazione.
“Avrei voluto ucciderti e tener fede al monito. Devi vivere, piuttosto, e continuare a farlo. Per me.”
Di tutte le possibili alternative, non ne avrebbe auspicata una peggiore. Sì, la stava uccidendo, ma in modo differente.
“La guerra ha sterminato la tua famiglia, non io.” Osservò, saltando a conclusioni ovvie. “Ogni altmer serve uno scopo: magniloquenza, eccellenza, dominio incontrastato. In quel momento, il nostro era dimostrare agli uomini che hanno vinto solo contando sulla superiorità numerica. Hanno vita breve, queste creature indegne, ma si riproducono come cani. Spargono il loro seme al vento, e Talos è un falso dio. Quello che intendo farti capire, Elanilde, è che non siamo individui, quanto parte di un progetto. Ti ho adottata, e non l’ho fatto per compassione; ti ho mantenuta in vita, e non l’ho fatto per pietà. Mi sono reso conto che stavi crescendo quando hai iniziato a spogliarti lontano dalla mia vista. A cambiare, poi, è stato il tuo corpo. Il periodo di prova è durato abbastanza, non trovi? Per istituirti cavaliere ho bisogno dell’approvazione del Concilio, per promuoverti armaiolo dell’iscrizione alla corporazione. Per diventare una signora... solo di una notte.”
Il tocco dell’acqua calda sulla fronte sudata la fece rabbrividire. Socchiuse le labbra, incapace di esprimere un dissenso verbale, e lui v’insinuò un dito.
“I capelli ricresceranno presto, rinunciamo a questo taglio da paggio. Alla tua età, una donna avrebbe già partorito un esercito di figli, e sarebbe considerata matura. Basta coi giochi, dolce, fedele scudiero. Io...”
Scivolò a terra, scalciò per rimettersi in piedi e abbandonò la camera, la tenuta sotterranea di Markarth. Se avesse potuto avrebbe bestemmiato Auri-el, i suoi servi maledetti, gettato la rovina su Alinor e Ondolemar, quella serpe astuta, quel viscido verme che le le aveva tolto persino la speranza di morire.
Esiste qualcosa per cui non ti sia debitrice? Qualcosa che mi porti lontano da te? Non voglio il tuo amore, non voglio i tuoi figli. Non voglio!
Una delle guardie del corpo la ritrovò nel santuario di Dibella, a pregare davanti l’altare. Non sentì ragioni, e quando le strattonò il braccio capì che conveniva andar via.
Il tempo, lo spazio, le più elementari manifestazioni dell’anima... nulla di questo le apparteneva, neanche il suo corpo.
 
Dormiva ai suoi piedi, come un cane, in un sacco a pelo. Se avesse avuto la voce, avrebbe cantato delle canzoni per conciliargli il sonno, o letto romanzi d’avventure ed altre amenità letterarie per intrattenerlo sino a notte fonda. Gli scaldava il letto con un mattone caldo, batteva i cuscini per renderli più morbidi. Vagava avanti e indietro, accendendo e spegnendo lampade ad olio, candele di sego. E in un presunto attentato, sarebbe stata la penultima vittima dopo i soldati che montavano la guardia.
Ondolemar l’aveva lasciata macerare nel suo orgoglio, o s’augurava che stemperasse lo sbalordimento in una lenta assuefazione alla notizia. Ora che conosceva le sue intenzioni, aveva paura.
Le locandiere, le servette della taverna, parlavano sfacciatamente di certi argomenti. Elanilde si sentiva attratta da qualche viso dolce, dai tratti delicati di qualche commilitone, ma era costretta a rinunciare a un possibile approccio per via del suo travestimento.
Solo lui, e lui soltanto, era a conoscenza del segreto. Era curiosa di conoscere l’amore, di sperimentare ciò di cui parlavano le signorine della locanda con un uomo che non la rifiutasse.
No, Ondolemar non l’avrebbe rifiutata; se si fosse spogliata, truccata; se fosse sgattaiolata nel suo letto e avesse cominciato a baciargli la nuca, l’incavo tra il collo ed il mento. Lo disprezzava, ma il capriccio di una notte valeva come rivincita.
Aveva pochi tratti che considerava piacenti: gli occhi penetranti ed espressivi, di un tagliente verde ambra. Le labbra carnose, larghe, che attenuavano la ferocia del naso imponente, a becco; e la fronte alta, solcata da profonde rughe dettate dall’odio. Non era più il giovane dai capelli lunghi che aveva visto la prima volta dalla balaustra, ma un adulto autorevole, temprato dalle necessità e dalla guerra; fiero e orgoglioso.
Era stato Varelmo, dopo anni di devoto servizio, a nominarlo comandante delle truppe a Skyrim: aveva deciso di godersi gli anni che gli restavano ad Alinor, pianificando le spedizioni militari dietro una scrivania, in compagnia di sua madre. L’aveva amata, viziata con doni preziosi e parole dolci. Le aveva riempito la bocca di prelibatezze; tuttavia, aveva saputo che non riusciva ad amarlo, per quanto egli si sforzasse nel risultarle gradito. Quando il comandante supremo inviava una missiva al suo secondo, si premurava sempre di includere una nota della concubina per la figlia. Ondolemar le allungava le belle pergamene con un gesto sgarbato, livido in viso. A lei non importava, no; non le importava quanto gualcisse il foglio o si mostrasse sprezzante. Sapeva che la invidiava, per la confidenza e l’affetto che a lei soltanto avrebbe rivolto.
Forse per ripicca, o ineluttabilità delle circostanze, la corrispondenza si era interrotta: la rottura coincideva con il fiorire della sua femminilità, o con verità scomode che Ondolemar non intendeva rivelarle. Solo per puro caso, dopo molti anni, aveva saputo che Saranwe era stata costretta a sposare Valermo, e che gli aveva dato due gemelli. Si nascose agli occhi del padrone e pianse, pianse lontana dalla sua vista, per non concedergli l’ennesima vittoria. Pianse, perché non ci sarebbe stato più posto per lei nella vita della madre, e sarebbe stata costretta a dimenticarla per il bene di entrambe.
Ondolemar era l’unico, l’unico ad accoglierla tra le sue braccia. No, non l’avrebbe rifiutata.
Padrone, signore, amante.
Discese le scale e attraversò il corridoio dimesso fino al laboratorio di Cancelmo e del nipote. Il ragazzo era un elfo taciturno, aveva più o meno la sua stessa età e avrebbe fatto strada. Li osservò da lontano, senza intromettersi nei loro affari. L’acqua scrosciava rumorosa, l’assordava con un boato incessante, fastidioso. Attese il momento giusto, quando lo Jarl e il suo consigliere si sarebbero ritirati nelle loro stanze, quando la tenuta sotterranea di Markarth dormiva e le stelle danzavano in cielo, disseminando polvere iridescente in un blu terso, gelido, come i mari di Skyrim.
Era solo. Consumava il pasto serale in silenzio, meditando su chissà cosa. Elanilde s’affacciò alla porta d’ottone e s’inchino, ripetendo un rituale ormai consolidato.
“Sei tornata, ti stavo aspettando. Perché non sei venuta ad apparecchiare?”
Non era un rimprovero, quanto una domanda. Formalmente era lì per servirlo ma, di tanto in tanto, poteva assentarsi e avere un po’ di tempo per lei.
“Cosa c’è che non va?” Soggiunse bruscamente. “Siccome non hai nulla da dirmi, non startene lì impalata. Piuttosto, prepara un bagno... o è questo che intendevi evitare?”
Tenne la testa bassa e s’avvicinò, pian piano, raggiungendo il centro della stanza. Era dubbiosa, interdetta, ma allettata dalla propria audacia. Non avrebbe avuto altre possibilità, non ci sarebbe stato nessun altro accanto a lei.
La verità feriva, era una selce acuminata sottopelle, però... aveva un sapore nuovo.
“Muoviti, hai perso già troppo tempo. Te ne approfitti perché, alla fin fine, sono troppo buono con te. Megera, hai capito che non ti potrei fare del male, sì... hai capito che non ti tengo per servirmi.”
Elanilde socchiuse le labbra, lasciando trapelare un sospiro. Portò le mani al collo e disfece i lacci della casacca informe con uno strattone impacciato. Allargò i lembi dell’indumento, per mostrare la camicia al di sotto. L’inquisitore impiegò alcuni attimi per realizzare cosa intendesse, e sgranò gli occhi.
Le sue dita lunghe e nodose la liberarono senza sforzo da quella costrizione, non le concesse alternative né ripensamenti. La trasse a sé, vicino, troppo vicino. Alzò il mento per incontrare gli occhi dell’altmer, mai come prima le erano parsi così chiari, così vivi.
“Ti aiuto a svestirti, se vuoi.” Anche il tono di voce era cambiato, possibile? “Andiamo nella sala da bagno.”
Scosse la testa, e lui rise. Non lo aveva mai sentito ridere in quel modo, gli sembrava di stare accanto ad uno sconosciuto.
“Va bene, allora. Rimaniamo qui, se ti tranquillizza. Sono contento che sia finita così, io... sono davvero felice.”
Il cuore rimbombava in petto, solo le cascate d’acqua attenuavano quel suono cupo, il presagio di un legame ambiguo, un sentimento nato quando lei era troppo giovane per capire.
“Ho sempre pensato che quella sera mi hai guardato perché il tuo animo infantile rivolgeva a me quella canzone. Non hai più le parole, mio fedele scudiero... un gesto, però, dice tante cose. Solo così avrei potuto giustificare la tua presenza. Solo così ti avrei avuta accanto in ogni momento della giornata, proprio come detta la tradizione. Finalmente posso ringraziare Auri-el, mi ha concesso la compagna che più desideravo...”
I palmi incontrarono la rozza fasciatura, che a stento bastava per nascondere la sua natura femminile. Somigliava alla madre, fin troppo, si era coperta di stracci e di ridicolo solo per ingannare gli altri, ma non lui. Aveva atteso quel sogno snervante, ossessivo, con molta pazienza... e alla fine era stato debitamente ripagato. Le ingiurie contro le divinità aldmeri le si stavano ritorcendo contro, mentre l’altro disegnava le curve dei fianchi con le mani, incitato a farlo da un apparente assenso.
Elanilde non capiva: lo odiava, in quel momento lo stava solo sfruttando, ma si sentiva pervasa dalle sue attenzioni... come se non potesse farne a meno.
“Non sai quanto mi costa, ma... mi devi perdonare. Forse non sono stato gentile in tutto questo tempo, vero? Credevo che mi disprezzassi, e quindi... mi limitavo a recitare un ruolo, ancor più fermo nell’intento di incuterti timore, rispetto. Volevo essere il tuo padrone, perché ero incapace di ammettere questi sentimenti. Per negarli, cancellarli, sminuirli del tutto. Invece, tu mi hai scelto e io... ero troppo cieco per rendermene conto.”
Gli afferrò il bavero della lunga palandrana, e in tremito convulso provò a slacciar via gli alamari, provando a se stessa di potercela fare, sì... di andare oltre le parole e pensare solo all’atto.
Non cambierà nulla, sono tutte bugie. Ti sta ingannando perché è stato lui il primo a farsi avanti, alla sua maniera. Del resto, anche ora, non pensa altro che al profitto personale. Belle parole, per buttare giù il boccone amaro. Usa le tue debolezze contro di te, perché alla fin fine non hai nessuno... c’è lui, solo lui. Inabile ad allacciare qualsiasi rapporto col prossimo poiché perfido, subdolo. Non farti ingannare. Quel sorriso, quegli occhi sinceri, fanno parte della recita...
“Ah, come vorrei che il nostro incontro non fosse uno sterile monologo. Quanto desidero sentire il mio nome, pronunciato dalle tue labbra. Questo può aiutare? Non so... ma ti darò me stesso. Sì, ogni sera ho atteso, e pensavo di aver fallito. Sia ringraziato Auri-el! Ti tratterò bene, lo prometto”.
Pose le mani avanti. Mimò l’aggrovigliarsi di una corda sottile, soffice ma implacabile. Ondolemar restò interdetto, e similmente le sfiorò i polsi, in una risata roca, liberandola da quel ricordo.
“No, quello no. Nella frustrazione era l’unico modo per averti. Ti confesso, però, che mi piace. Non come questo, però...”
L’elfo chiuse gli occhi, e cercò le sue labbra, le sue guance. Sentì la barba improfumata contro il mento, i polpastrelli induriti dal metallo elfico. Ricambiò goffamente, ma non le importava. Sembrava che non fosse un problema: amava decidere, quindi l’avrebbe di certo compiaciuto.
Ogni volta che provava a scostarsi, lui rideva e la stringeva forte, facendo scivolare le mani dalle spalle al fondoschiena. Troneggiava carponi su di lei, contemplandola da capo a piedi. La spogliò ancora, e lei s’abbandonò fino a quando... fino a quando riaffiorò alla memoria l’immagine di quella violenza, di sua madre che dava piacere allo straniero. Colui che l’avrebbe costretta a sposarlo, perché le signorine della taverna erano sciocche, e lei era stata ancor più stupida a cadere nel tranello.
Mia signora.
Gli occhi vitrei di Voranil, l’insaziabile libidine di Valermo. La divisa Thalmor e l’animo sordo ad ogni protesta.
“Elanilde?”
Pianse, e raccolse in fretta gli abiti, pezze di poco conto. In un turbine di angoscia, ansia e dolore, si rivestì in fretta mentre Ondolemar la seguiva in silenzio, per venirle incontro.
Voleva urlare, maledire il mondo e se stessa, ma non riuscì. Disprezzava la cultura dell’opportunismo, della dominazione e della prevaricazione mentale. Apparteneva ad una stirpe infida, crudele. Sebbene fosse cresciuta a Cyrodiil, e avesse adottato i costumi imperiali, l’avrebbero odiata per ciò che rappresentava. Per ciò che era stata costretta a subire.
“Non lasciarmi adesso, Elan.”
Sorda alla preghiera, si voltò e serrò la pesante lastra d’ottone; i bassorilievi nel metallo e la grana fine della pietra erano punti confusi, figure sfocate che annegavano tra le lacrime.
Quando finirà questa sofferenza?
Si tuffò in acqua con addosso gli abiti. L’avrebbe purificata, lo schiaffo delle piccole onde sulla pelle le avrebbe fatto dimenticare la follia di quella sera, l’affetto represso di Ondolemar che veniva alla luce in un manto di carezze.
Vigliacco. Come tutti loro, sei solo un vigliacco.
E chiuse gli occhi, sotto una cascata di ghiaccio.
 
“Sembra che abbia ingoiato il fiele, stamani. Certi capi-guerrieri della mia gente sembrano cuccioli infidesi, a confronto. Abbaia e ringhia contro le guardie, avresti dovuto sentirlo, Elanil. Non dirmi niente, ma a volte non capisco voi elfi.”
Si pulì il sudore sulla manica, mentre sotto il martello la lama incandescente si piegava al volere dell’abile fabbro.
“Passami le tenaglie, ragazzo... ecco, sì. Adesso va meglio. Dovrebbero essere tutti come te, muti e laboriosi. Non volermene a male, quella che per alcuni è una mancanza, per me è un tesoro. Niente chiacchiere inutili, niente giri a vuoto. Perderò un bravo aiutante quando andrai via, me lo sento. A me non importa, straniero o no, se l’acciaio è ben lavorato e le rifiniture sono fatte ad arte, chiunque va bene.”
Elanilde sorrise. Moth-gro Bagol aveva contribuito a migliorarle la vita a Markarth, il tempo passato alla forgia erano momenti in cui non le toccava prestare servizio come paggio. Ai doveri militari badavano i soldati, lei si occupava di dar da mangiare ai cavalli e provvedere ai bisogni del comandante.
“Quando si dice svegliarsi col piede storto...” Grugnì l’orco, piegato a riscaldare le braci. “Per gli Otto Déi, dovrebbe bere di più. Gli farebbe bene una sbornia, magari diventerebbe più allegro e ci lascerebbe in pace. Odio il frastuono... mi basta lo scoppiettare del fuoco, lo stridore del metallo sulla mola. So qual è il problema, ragazzo. Troppo lavoro e troppi uomini.”
Moth-gro Bagol le indirizzò un’occhiata esasperata.
“A volte serve per dissipare le energie,” spiegò, mantenendo il tono duro e trattando l’argomento come un dato di fatto, “ma a me non interessa. Una brava donna, onesta e lavoratrice, è il cardine per garantirsi una discendenza, per trovare comprensione ed invecchiare insieme. No, niente sordidi giochetti. Sai qual è la differenza... più stanno in alto e più si divertono. Posso capire la prigionia, i lavori forzati... ma la schiavitù, ragazzo? Un orco serve solo se stesso!”
Le dita sottili, sul telaio da conciatura, si muovevano veloci e nervose. Elanilde ondeggiava il coltello, infliggendo alle pelli lo stesso trattamento che avrebbe riservato ad Ondolemar, se fosse stata realmente un soldato. Anche la sua presunta inoffensibilità faceva parte del meccanismo di controllo ordito dall’inquisitore.
Il tempo passato alla fucina le dava un senso. Si trattenne fino a notte inoltrata, per cercare di evitare il padrone e sgattaiolare subito a letto, levandosi poi all’alba, prima del risveglio di Markarth.
Uno dei segugi dello Jarl le venne incontro, e si mise ad abbaiare facendole le feste: la fece cadere a terra e prese a leccarle il viso, contento di poter giocare con l’unica persona che non gli impartisse ordini, che gli offrisse qualcosa in più rispetto ad una ciotola colma di avanzi.
Lampo! Seduto, forza... altrimenti mi scopriranno!
Balzò in piedi poggiandosi sulle mani, mentre gli accarezzava il pelo tra le orecchie. La guardò con occhi tristi, riluttante a lasciarla andare.
Forse solo lui capiva quanto fosse difficile esprimersi e non avere la parola. Erano simili, dannatamente simili, perché lei stessa era il cane di Ondolemar.
Raccattò un rozzo telo da lavoro, se lo mise addosso a mo’ di mantella: guardandosi in giro, circospetta, eluse la sorveglianza delle guardie – statue marmoree sulla pietra della tenuta – e discese rapida gli scalini verso i quartieri bassi, ormai teatro di litigi ed omicidi per il controllo della città.
Era disposta a correre il rischio, perché erano le corde di un liuto ad attirarla alla locanda, legate alla sua natura così sensibile ad ogni nota musicale.
“Elanil, che ti succede? Sembri triste, va tutto bene?”
Ogmund le concesse un saluto gentile, mentre Frabbi le allungò un boccale di succo di mirtilli con fare complice. Si accomodò accanto al fuoco, di fronte il vecchio bardo, sentendosi finalmente risollevata.
Sfavillii arancioni marcavano le linee frastagliate sul suo viso, scolpendo i suoi lineamenti come una statua abbozzata nel legno. Le allungò il liuto, senza che se ne accorgesse; Elanilde se lo ritrovò sulle ginocchia e ne sfiorò le corde, riluttante a cedere.
“Avanti, suona. Non dirmi che hai dimenticato come si fa.”
Scosse la testa, aveva paura. Qualcuno poteva vederla, poteva scoprire il segreto; non quello che covava dentro da anni, ma un indulgenza troppo piacevole, troppo pericolosa. Giocava con un passato malandato, i ricordi. Non aveva più la voce, ma le note cantavano dentro di lei: così tradiva Ondolemar, senza che lui sapesse, per negargli l’unico piacere che avrebbe motivato la schiavitù e riacceso la parte di se stesso negata dietro un’uniforme.
Quella che a lei negava sotto abiti maschili.
 
Se le avesse ordinato di spogliarsi davanti a lui, di slacciarsi la tunica e stendersi sul letto a pancia in giù, non avrebbe avuto la stessa soddisfazione. Non avrebbe mai avuto la conferma che, dopo anni di controllo forzato e impliciti inviti a concedersi, lo scudiero ricambiasse tanto ardentemente. Era fuggita via, solo perché indossava gli abiti Thalmor: come poteva perdonarsi una tale svista? Non gli restava che rimediare.
Era affiorato tutto all’improvviso: quelle parole, il desiderio immutato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo. La dolce Elanilde; ingenua,  spaurita... sarebbe stato diverso, quella notte. Avrebbe battuto un ultimo colpo di martello sul chiodo che da anni era conficcato nel legno, tra la carne. Non sarebbe riuscito ad immaginare una tortura più dolorosa.
L’inquisitore passò la mano sui capelli corti, appena ricresciuti. Le incuteva timore, e a dirla tutta non faceva molto per migliorare la situazione. Cosa mai aveva visto in lui? Si era risolto ad attenderla, una volta smontato il turno alla forgia. Aveva indossato un abito di seta cangiante, di una tinta indaco scura e preziosa; si era oleato la barba chiara, di un biondo quasi bianco, e aveva disegnato sul volto i marchi della nobiltà di Alinor. Le si poneva innanzi come se avesse a che fare con la divinità. Era sempre stata una pari, la considerava tale, ma aveva bisogno di mantenere la stretta, per non mostrare alcuna debolezza.
Sarebbe scappata via, in quel caso... e non poteva permetterlo. L’elfa era più importante di quanto immaginasse, la proteggeva per proteggere se stesso, per salvaguardare i frammenti della propria individualità. Era un’appendice del Dominio, un servo, la cellula di un organismo che doveva nutrire e far sopravvivere a tutti i costi, col sangue e le risorse mentali. Elanilde era una concessione, un pensiero eversivo... ancora per poco. Valermo l’aveva addestrato bene, intendeva agire esattamente allo stesso modo: la necessità di sposarsi, di dare una discendenza alla famiglia... deboli scuse, per nascondere la verità.
Si alzò, spazientito: nel frattempo si era dedicato alla corrispondenza, alla gestione delle truppe per setacciare le zone rurali di Skyrim; aveva addirittura cominciato a leggere un racconto di fantasia su una casa stregata, col risultato di sentirsi ancora più indisposto.
“Dov’è il mio scudiero, il mio servo...” Sibilò le ultime parole quasi stesse sputando del veleno. Le guardie non si chiesero perché fosse in abiti da cerimonia, accennarono un inchino e cominciarono le indagini, quasi come se il ragazzetto altmer fosse una specie di criminale incallito. Uno di essi tornò, proprio quando Ondolemar stava per indossare il mantello e risolvere lui stesso la questione.
“È alla locanda, signore.” Annunciò Girdaren, un giovane dai capelli color cenere e gli occhi grandi, sotto addestramento per diventare un mago guerriero. “In compagnia di un anziano bardo. L’ho visto... L’ho visto attraverso i vetri della finestra, mentre suonava il liuto.”
“Il liuto, dici?” In quel momento pensò solo a se stesso, al presunto oltraggio, a ciò che avveniva fuori e dentro le mura. Avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta: cosa lo aveva ferito di più? Sapere che la schiava aveva appreso qualche arpeggio di nascosto; o essere ridicolizzato, per il semplice fatto di avere lei, solo lei; di conoscerne la vita anche nelle minuzie superflue, come un albo di illustrazioni spaginato?
Aveva la bocca impastata, la rabbia che risaliva dall’interno. Si tuffò tra le strade spiraleggianti di Markarth, poi la vide. Stava improvvisando una melodia allegra, e rideva, rideva di buon cuore.
Un piede s’abbatté sulla porta e la spalancò all’improvviso: Ogmund alzò gli occhi, dalle dita di Elanilde congelate in un accordo alla fronte madida dell’elfo alto. Entrambi si scrutarono da lontano, il vecchio skald dalla sedia; l’altro sulla porta e coi denti scoperti, pronti a strappar via la carne.
Sapeva che sarebbe arrivato, quel momento. Elanilde si contrasse sullo strumento, quasi a proteggerlo, temendo che le venisse sequestrato per vederlo sparire in tante piccole schegge. Provò ad alzarsi, a giustificarsi, a raggiungere l’elfo.
“No.” Ogmund le si parò innanzi, aveva intenzione di difenderla, ma non poteva immaginarlo. Per lui era solo ciò che dimostrava di essere, un ragazzino senza speranze obbligato a servire.
Ondolemar lo ignorò e strisciò in avanti, lentamente.
“Perché mi hai mentito?”
Lei scosse la testa. Aveva detto mille volte a se stessa di avere il coraggio per affrontarlo, per rivelargli quanto lo disprezzasse. Sì, l’aveva costretta alla menzogna: voleva evitare che le lezioni di musica venissero contaminate dalla mortificazione di ogni giorno.
“Dimmi perché l’hai fatto.” La sua voce secca, una folata di vento improvvisa. “Hai degli obblighi nei miei confronti, e te ne vai a bighellonare. Ti ho aspettato... a lungo. Muoviti, vieni via, stupido ingrato. Faremo i conti altrove.”
“No.” Ebbe il coraggio di sfidarlo. L’elfa trattenne le lacrime e invano cercò di suggerirgli, a gesti, di lasciar stare. Era una prova d’affetto; Ogmund non aveva eredi e le aveva insegnato tutto ciò che sapeva, per lui era il figlio che avrebbe desiderato crescere. Forse per questo andavano d’accordo, insieme si completavano a vicenda. Erano quasi una famiglia.
“È solo un ragazzo.” Osservò lo skald, rammaricato. “Ha anche voglia di imparare qualcosa di diverso. Signore, vi prego...”
“È il mio servo, e da prigioniero di guerra qual è, deve ricordare che ogni giorno in più è solo frutto della mia benevolenza. Non è un ragazzo, ma un individuo a cui ho risparmiato la vita perché io ho voluto. E adesso, vecchio, tu stai lì a berciarmi contro proprio perché il Dominio Aldmeri ha deciso di risparmiarvi. Oh, sì... sono molto tollerante. Tollerante, proprio perché conosco la mia forza.”
“Non mi aspettavo altro da quelli come te, nemmeno il rispetto per un individuo della stessa stirpe.” Dichiarò Ogmund. “Sarebbe troppo facile, troppo umiliante... troppo simile a te, giusto? Non me la conti giusta... c’è qualcosa nel tuo sguardo, nella tua rabbia smisurata. Come se ti avessero preso il cuore per gettarlo nel profondo del mare”.
Con la sua saggezza secolare e le parole semplici, schiette, il bardo aveva stanato la volpe. Lo aveva costretto a uscire allo scoperto, a rivelare l’anima oltre il freddo conforto dell’ideologia. Ne usciva a pezzi, nella credibilità e nell’orgoglio... ma i pensieri vagavano, in un momento ben preciso.
Elanilde cantava, gli riempiva la mente di note. Ondolemar aveva dimenticato quanto i suoi accordi fossero sgraziati, la voce insicura e malferma sull’accompagnamento musicale. Eccelleva negli studi magici, però aveva il cuore chiuso alle emozioni. Lo spartito era un codice da decifrare, una reazione alchemica di toni alti e bassi... non aveva talento, e quando il maestro di musica lo aveva cortesemente invitato ad investire le energie in un’attività che mettesse a frutto la sua viva intelligenza, una corda si era spezzata.
Forse per questo desiderava la serva, nel fisico e nell’anima. Voleva assorbirne la vitalità, il fervore.
E la musica era tornata, in maniera differente, ad eccitare i sensi.
Un fiotto di sangue gli colorì il volto.
“Non lascerò questo affronto impunito, bardo. Stai attento: ti seguirò ovunque, non lascerò cadere la cosa e presto ti pentirai di aver parlato troppo. Sono un alto funzionario dei Thalmor, gli araldi di un nuovo ordine...”
“Una superiorità, un predominio che si fonda su fumosi preconcetti.” Lo interruppe Ogmund, secco. “Vai, Elanil, e stai sereno. Qualunque cosa io abbia fatto, sappi che è per il tuo bene.”
L’elfa si lasciò trascinare dalla mano salda del padrone, trattenendo a stento le lacrime. Rivide le scale illuminate dalla luce corposa delle torce, le porte di metallo dietro di lei, la lunga ascesa verso le stanze maledette... sapeva cosa l’attendeva, e non pensava a nulla, solo alla fine della tortura.
L’accompagnò in camera da letto, la fece sedere dietro un tavolinetto di ottone e pietra.
Un malloppo di fogli alla rinfusa, un calamaio riempito a metà e una penna di falco spuntata.
“Scrivi.” Ordinò Ondolemar, senza mezzi termini. “Ti farò delle domande, tu risponderai. Voglio sapere tutto, adesso.”
Non aveva scelta: le dita tremanti si avvolsero attorno alle morbide frange piumate e raggiunsero il pennino. Intingere la penna senza macchiare il foglio le costò uno sforzo immane.
“Chi è quell’uomo... quando l’hai conosciuto? Da quanto tempo va avanti questa storia?”
Mesi, scrisse Elanilde, senza altre spiegazioni.
“Perché non ne sono stato informato? Dunque, questo facevi in attesa che m’assopissi... scappavi via, andavi alla taverna e prendevi lezioni dal bardo. È per la tua voce che ti ho voluta... credevo che fossi incapace di produrre musica, invece non è così. So che significa, non mi devi giustificazioni.”
La punta sbeccata indugiò a mezza aria. Un rivolo d’inchiostro sembrava riversarsi sul foglio, ma la domanda seguente non le concesse attenuanti.
“Era meglio che continuassi a mentirmi, non è così?”
Volevo che non mi rovinaste l’unico piacere che mi è rimasto in questa vita.
Sentì la guancia gonfiarsi in un colpo secco, spietato. Elanilde urlò: non era il veleno, non era la magia, ma faceva ugualmente male.
“Ti sei divertita a farmi cadere in ridicolo, non è così? Ti ho aspettato per ore... credevo che fosse la divisa il problema, invece mi odi. Mi odi con tutte le tue forze.”
Non vi era motivo per negare.
Sì, vi odio. Vi odio perché non mi avete lasciata a morire. Vi odio perché mi avete precluso ogni via di fuga, imprigionandomi con questo travestimento. Vi odio perché siete un codardo... un gioco di potere, ecco cos’è, lo scudo dei vostri sentimenti. Sentimenti che non ricambio: per me eravate un oggetto, così come io lo sono per voi. Ero solo curiosa, e siete un uomo. No, non vi amo perché non mi avete mai dato ragioni per farlo.
“Idiota. Ti ho protetta, ho fatto in modo che avessi la libertà... la vita. L’ho fatto per te, non capisci?”
Solo una cosa ho capito: c’è una frattura in voi, un dolore che avete cercato di dimenticare, ma è vivo. Evoca pensieri negativi, frustrazione, inferiorità... sensazioni che scacciate via. Un fanatismo totalizzante, un ideale abbracciato per stare a posto con la coscienza. Non ho più parlato perché non ne ho avuto bisogno, e voi non avevate bisogno di dolcezze, di gioia. Non so più nemmeno come si faccia a cantare... e lo stesso vale per voi. Disillusione ed arroganza hanno avuto la meglio, non sapete amare.
Lo schiaffo si trasformò in una carezza.
“Ti ho salvata perché volevo proteggere me stesso. Ti prego, suona per me... suona per me, col liuto, la melodia del nostro primo incontro. Suona... voglio provare di nuovo quelle emozioni.”
Elanilde acconsentì: non poteva dar voce alle note, ma dentro di sé le parole fluivano in un guizzo di acque felici. La figura dell’inquisitore si piegò, si lasciò andare in un sospiro beato. L’elfa non perse la concentrazione, chiuse gli occhi e ogni corda vibrava in un gesto calcolato, sapiente.
Un fruscio di crespo, la stoffa cangiante a terra in un mulinello spiraleggiante. Non sapeva cos’era a darle il brividi, forse il sudore freddo, forse le nocche ossute di lui che percorrevano la curva delle sue guance.
“Non lasciarmi solo, Elanilde.” Pronunciò ancora, slacciando la camicia di cotone grezzo.
Sbagliò tono.
“Questa non è una punizione.” Sussurrò, cercando le sue labbra. “Ritroveremo noi stessi, in questo modo.”
Le sembrò di impazzire, di morire strangolata da una forza estranea, violenta. Elanilde prese a boccheggiare, a rantolare come un animale impazzito; dalla gola fuoriuscivano suoni rasposi, ma comprensibili.
“N...n...No.”
Ondolemar si ritrasse con la costernazione in volto.
“D’accordo.”
Aveva parlato. Quale sentimento l’aveva spinta ad infrangere anni di silenzio? La paura o l’incertezza?
“Ciò che voglio è che tu riprenda a cantare, che la trasformazione avvenuta in te possa essere invertita. Stammi accanto stanotte, ti prego. L’ho sempre desiderato...”
L’elfa scosse la testa, ancora incredula per aver dato voce ad un debole dissenso. Crollò sul suo giaciglio, così com’era vestita. Così come aveva sempre fatto, ogni notte della sua vita.
I letti di Markarth erano scolpiti in pietra, la realtà... la realtà, però, era più dura da accettare. Sarebbe sempre stato prigioniero di quell’identità che si era creato.
Esiste una divinità che può offrirmi il suo cuore su un piatto d’argento? Se sì, la invoco... chiunque essa sia. E contribuirò a glorificarla, qualora possa concedermi questa grazia!
Era quello che voleva sentire, finalmente era stato costretto dall’esasperazione... o dalla necessità?
Sam sorrideva, mentre riscaldava sullo spiedo carne fresca di capra appena cacciata. Markarth avrebbe accolto a braccia aperte la sua dolce ancella, che osservava il fuoco scoppiettante con sguardo stanco e assente.
“Manca ancora tanto, allora?” Domandò l’elfa oscura, con la veste che lasciava intravedere il misterioso intrico di tatuaggi a decorarle gli arti morbidi e flessuosi. Il mago bretone sorrise, fingendo di non cogliere l’allusione.
“Non ancora... c’è del sangue che cola sulle braci, ma ceneremo presto, mia cara.”
“Intendo per Markarth, briccone! Non ho idea perché tu mi abbia costretta ad intraprendere un viaggio così lungo... mi avevi promesso di aiutarmi a far luce sul mistero dei draghi, invece...”
“Porta pazienza, Dorisa, mia amata.” La blandì lui, con fare suadente. “Ogni cosa a suo tempo, voi mortali davvero perdete il senso dell’attesa, per certe cose.”
L’avrebbe detto anche all’elfo che si struggeva a qualche lega di distanza dal campo di fortuna allestito lungo la strada, sulle pendici montane.
“È un luogo meraviglioso per un tempio, accanto alle rovine dwemer, magari. Presente e passato, impulso e razionalità. Tutto così romantico.”
“Al momento, la cosa più romantica a cui riesco a pensare è il mio stomaco pieno, dopo settimane di cammino.” Commentò la maga, rannicchiandosi sul sacco a pelo.
“Sei diventata venale, non va affatto bene...”
Due braccia forti e muscolose l’attrassero a sé, a giocare con le orecchie a punta dell’elfa oscura erano un naso a punta, lungo e ben disegnato, le labbra sottili e nere che spiccavano su un volto tatuato.
“No, non ora!” Dorisa si scostò, stiracchiando un braccio verso lo spiedo e il catino in cui bolliva una zuppa vegetale. “La cena! Di sicuro si brucerà tutto.”
“Oh, certo... ma non puoi ignorare la passione che brucia dentro di me, bambina mia.”
“Padrone...”
Insistere in certi momenti era una battaglia persa: sarebbe rimasta a stomaco vuoto, Sanguine non aveva mai capito che, da mortale, doveva soddisfare anche appetiti che non fossero di un certo tipo.
Sbuffò, spazientita, ma ricambiò l’abbraccio.
“Va bene... se non fosse che la città è a poca distanza, e molto probabilmente sarà un’attesa breve...”
“E non solo per te...” Soggiunse il principe daedrico, lasciando la questione deliberatamente in sospeso.

 

Come al solito le scuse non bastano mai, qualcosa c’è da dire, però... ho sfruttato il primo giorno di “vera libertà” da tutti gli impegni per finire il capitolo che vegetava da mesi nella mia cartella dei documenti. Cerco di semplificare, di tentare nuove strade, di “modernizzarmi”. Mi dispiace per l’eccessiva mielosità di questa parte della storia (e anche per la lunghezza), ma dovevo dar senso a troppe cose. Ho reso Ondolemar un personaggio “in 3D”: non so se giocando avete avuto la stessa idea, ma per me era decisamente bidimensionale. Quale poteva essere la sua storia, il suo passato? Perché ha un carattere così scontroso, introverso? E come dare senso ad Elanilde? In passato, le donne costrette ad indossare abiti maschili lo facevano per sicurezza personale, per ottenere maggiori diritti o per affrontare situazioni durissime, come guerre e lunghi viaggi. Anche per nascondere la propria identità: è la reputazione di Ondolemar ad essere in discussione, quindi uno scudiero di sesso maschile genera meno pettegolezzi, senza contare che in questo modo “la vera Elanilde” è morta, come dovrebbe essere. Spero che mi seguirete ancora in questa storia un po’ particolare, forse insolita rispetto alle altre. Grazie per aver letto, e se avete dei pareri sarei felice se poteste condividerli con me! :)

 
  
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