Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Knetgummi    10/07/2015    0 recensioni
[Ex "Canarini al microonde"]
*ATTENZIONE: STORIA INCOMPIUTA*
Michele è un ragazzo come tanti altri. Né magro ne grasso, né basso né alto, occhi e capelli castani come il novanta percento della popolazione italiana. Suona il basso, legge tanto e si barcamena tra la scuola e una madre opprimente che lo crede etero -- cioè, non che lui non si definisca un uomo etero, ma sua madre lo crede una ragazza a cui piacciono i ragazzi. L'unica cosa che ha di diverso da un qualsiasi adolescente, infatti, è che non è nato maschio.
Poi arriva Valentino, che cercando di dare un senso alla sua vita di universitario mancato si ritrova faccia a faccia con la forza, il carattere, il fascino, il culo di Michele.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Canarini al microonde - Capitolo II

Capitolo II


 

Le vie del centro erano stranamente gremite di gente. Mentre passeggiava a fianco di Eleonora, con il sottofondo dei suoi tacchi sull'acciottolato e delle sue chiacchiere allegre ad accompagnarlo lungo la strada, iniziò a notare tutti i particolari che gli erano sfuggiti fino a quel momento: scatole di cartone, giornali e borse di plastica erano disseminati un po' ovunque, e i passanti, spesso con bambini attaccati alle gambe, sembravano tutti abbastanza stanchi.

“Ehi, mi ero dimenticato che è sabato mattina”, disse interrompendo improvvisamente la parlantina della sua amica. “Forse siamo ancora in tempo per beccare le ultime bancarelle del mercato.”

Ele prese il telefono dalla borsa e guardò l'ora sullo schermo. “Sono le undici e zero due, e direi proprio che ce la possiamo fare. Spero che la signora che vende quei fantastici costumi da bagno sia ancora in piazza, perché ho tutta l'intenzione di svaligiarle il furgone!”. Strinse il braccio di Michele in un moto di contentezza, e lui non poté che sorridere e alzare gli occhi al cielo.

“Che c'è, lesbicona, non sopporti un frociastro come me?”, lo riprese Ele agitando una mano. Poi lanciò all'aria una risata argentina, fin troppo squillante per le orecchie ormai abituate di Michele.

Eleonora era una ragazza d'acciaio, che amava scherzare più ancora di quanto amasse spendere. Era allegra, spavalda, sempre attenta a tutto ciò che succedeva intorno a lei, e non mancava mai di far notare alle persone ciò che pensava di loro, sparando parole a mitraglietta su ogni cosa e persona nel raggio di venti metri.

Michele l'aveva conosciuta quasi per caso qualche mese prima, grazie a un gruppo su Facebook contro l'omotransfobia a Brescia. Si erano scambiati qualche messaggio, avevano riso insieme alle uscite stupide di un conoscente che avevano in comune e poi erano andati avanti con le loro vite senza contattarsi molto, fino a che non si erano incontrati dal vivo per la prima volta, del tutto casualmente. Era stato durante una conferenza sul lavoro dedicata agli studenti dei licei bresciani, in cui entrambi si erano ritrovati per colpa delle loro professoresse un po' pedanti. Avevano riso nel vedersi per la prima volta in faccia senza i filtri di Retrica e Eleonora, dalle vette del suo metro e settantacinque, aveva subito fatto notare al suo nuovo amico che nelle foto di Facebook sembrava più alto. Da quel momento, benché fossero l'uno l'opposto dell'altra, uno amasse la solitudine e l'altra le attenzioni altrui, uno preferisse la musica e l'altra i telefilm, uno fosse un FtM con ancora una piede nell'armadio e l'altra una combattiva e appariscente donna trans, divennero amici inseparabili.

Più di tutto Eleonora amava scherzare sulla sua condizione, perché lei era riuscita a crearsi una corazza indistruttibile, per quanto graziosamente smaltata a cuoricini e fiorellini. Era riuscita ad essere così sfrontatamente sicura di se stessa da affrontare uno dei peggiori tipi di discriminazione – quella rivolta alle donne transessuali, derise, picchiate, uccise e umiliate ogni giorno e in ogni parte del mondo – come fosse una sfida, un gioco, qualcosa che la spronava a dare del suo meglio piuttosto che ad arrendersi.

Non di rado per strada la sua figura alta e brillante veniva additata, chiamata sottovoce “frocio”, “travestito”, “puttana”, a volte richiamata maleducatamente. Quando Michele era presente era lui a mettere un grugno ostile, a rispondere con tono aggressivo. Eleonora, dall'alto delle sue belle scarpe ticchettanti e della sua superiorità morale, sorrideva. Lei sorrideva sempre, come avrebbe voluto saper fare anche Michele; e aveva una decina di sorrisi diversi, uno per ogni stato d'animo. Quand'era felice socchiudeva gli occhi, quand'era sorpresa li spalancava creando una “o” leggera con le labbra, quand'era incazzata sollevava un sopracciglio, sempre quello sinistro. Il suo migliore amico aveva imparato a riconoscerli tutti, e ad accettare le sue battute sceme come un segno di assoluta certezza della propria identità.

L'anziana signora dei costumi si era stabilita, come ogni sabato della bella stagione, vicino a piazza del Duomo. Era molto gentile con Eleonora e non aveva mai sbagliato con i pronomi, dandole sempre del femminile, un po' per sincera accortezza e un po', pensava Michele, per non perdere una cliente pronta a spendere senza esitazione.

“Quello nero a pois viene quindici, quello turchese dieci. Se li prendi entrambi facciamo ventidue, cara.”

Mentre la ragazza contrattava e pagava, Michele iniziò a sentire il caldo.

Poco prima le ultime nuvole avevano abbandonato il cielo, lasciando scoperto il sole abbagliante di metà maggio. Dopo qualche minuto il maglione verde già scaldava la mano al tocco, mentre i jeans neri iniziavano ad appiccicarglisi all'inguine e dietro le ginocchia per colpa del sudore.

“Spendacciona, avresti dell'acqua?”, chiese alla sua amica appena quella si fu allontanata dalla bancarella per venirgli incontro.

Quella rovistò nell'enorme borsa, ma non parve trovare altro che due pacchetti di fazzoletti, degli occhiali da sole e le chiavi della macchina.

“Nulla, Michi, mi dispiace. Hai tanto caldo?”

“Un po'...”

“Dai, maschione, puoi resistere.” Gli diede una pacca sulla spalla, insultandolo un po' meno del solito. “Adesso andiamo in piazza e cerchiamo un bar.”

Si avviarono alla ricerca di qualcosa da bere mentre Ele si compiaceva dei suoi acquisti, rovistando continuamente nella borsa di plastica.

Giunti a destinazione, purtroppo per loro, trovarono ben altro.

In piazza Duomo a Brescia ci sono due chiese, e sono molto diverse tra loro: il Duomo vecchio è un edificio tondo in stile romanico, uno dei pochi sopravvissuti con quella pianta, col muro a mattoni a vista e pochi fronzoli; il Duomo nuovo invece è in marmo bianco, ha una facciata in stile barocco e una grande cupola verderame. Uno è basso, umile, povero, caotico; l'altro è massiccio e imponente, arrogante nella sua sobrietà.

La loro contrapposizione architettonica era l'esatta rappresentazione di quella umana, estesa per tutta la piazza, che si presentò agli occhi di Eleonora e Michele quando vi misero piede.

“Mi sale il genocidio.”

“Aspetta un minuto, com'è che non ne sapevo niente?”, disse Eleonora mentre faceva scorrere lo sguardo per le file di Sentinelle in Piedi, diritte e composte all'interno di uno spazio ben recintato da transenne metalliche. “Di solito quando succedono cose del genere qualcuno me lo viene a dire! Come posso io mancare alle contromanifestazioni? Ehi, guarda”, disse, rivolta a Michele, “questa volta hanno pure la scorta.”

Oltre le transenne, infatti, vagava anche qualche poliziotto intento a scrutare tra le file dei manifestanti dei centri sociali.

Michele era ancora sorpreso per la scoperta inaspettata, ma non osava guardare in faccia le sentinelle.

La loro organizzazione era nata proprio nella sua città, quindi c'erano state altre due o tre manifestazioni; lui era sempre stato presente. La prima volta per lui era stata come un gioco. Aveva quindici anni, non aveva mai subito in prima persona l'omofobia né la transfobia ed era stato trascinato in piazza da amici. Nessuna delle facce delle sentinelle gli era risultata familiare: aveva riso, cantato, si era unito ai cori di protesta e alla fine aveva persino ballato con una perfetta sconosciuta, il tutto in un'aria di festa e ribellione adolescenziale, sotto gli sguardi seri, da falco, degli organizzatori adulti.

La seconda volta, qualche mese dopo, era stata appena dopo un litigio con sua mamma. Si era azzardato a prendere una felpa da ragazzo ai saldi invernali, usando la debole scusa che nel reparto maschile la roba costava di meno come se la sua famiglia avesse mai avuto problemi di quel tipo. Sua madre non era particolarmente fedele agli stereotipi – lavorava, dopo la maternità aveva affidato i figli a delle babysitter e amava il fai da te, tanto che quando si erano trasferiti in centro città aveva curato personalmente mobili, porte e pavimenti, evitando ovviamente i lavori più pesanti – e talvolta ne sfuggiva lei stessa, sempre nel limite del socialmente accettabile. Quella volta in particolare, però, lasciò cadere un commento che accese in Michele il fuoco della ribellione.

“Non mi starai mica diventando lesbica, eh?” gli aveva detto in tono molto leggero e scherzoso, come per fare una battuta in tono confidenziale.

“Mamma...” aveva replicato il ragazzo con tono schifato. Odiava quando lo scambiavano per una donna omosessuale. Gli piacevano le ragazze, sì, ma in modo totalmente diverso, e il solo pensiero di farsi toccare in certi modi e in certi posti lo disgustava profondamente. Per un periodo aveva creduto di esserlo ma, lentamente e inesorabilmente, aveva iniziato a sentire la parola lesbica affibbiata a lui come qualcosa di viscido, oltraggioso, fuori posto; uno sputo sulla sua faccia pura e pulita. “No! E anche se fosse?”

“Michela, so benissimo che non lo sei. E lo spero bene.”

A quelle parole lui aveva rizzato le orecchie come un gatto incazzato. “Come, scusa?”

“Non mi piacciono queste cose, lo sai. Sono all'antica. Donne e uomini sono fatti per stare insieme, e se scoprissi che ti piacciono le ragazze o a tuo fratello gli uomini penserei di aver sbagliato qualcosa nella vostra educazione. Amerei avere dei nipotini... e poi tra lesbiche non si può nemmeno avere rapporti sessuali. Non capisco proprio queste persone, cerco solo di vivere e lasciar vivere. Tranquilla, tesoro, non volevo offenderti.” Concluse la cascata di parole confuse tendendo una mano verso il figlio, come per accarezzargli i capelli.

Questi la evitò proprio come sua madre aveva ignorato l'indignazione dipinta sul suo viso. Calcò la mano, cosciente di eccedere nei suoi ragionamenti infantili ma troppo arrabbiato per preoccuparsene. “Secondo me sono solo cazzate. È la Chiesa che vi mette in testa queste cose.”

Sua madre non poté più ignorarlo, e di lì a poco iniziarono a discutere seriamente e poi a litigare. La donna, per evitare il discorso omosessualità, lo accusò di essere un ingrato che non riconosceva alla sua famiglia e alla società tutto ciò che da loro gli era stato dato. Le accuse erano plausibili e veritiere, dato che il ragazzo aveva dimostrato più di una volta di non apprezzare particolarmente l'educazione vecchio stile che gli era stata impartita, ma Michele riuscì benissimo a percepire il rimbombo delle silenti affermazioni discriminatorie di poco prima.

Da quel momento, un po' per ripicca e un po' per necessità di esprimersi, iniziò a vestire quasi del tutto al maschile. Il discorso venne sepolto per sempre sotto una coltre di ostile indifferenza.

Pochi giorni dopo ci fu la seconda manifestazione delle Sentinelle. Michele partì per la città con lo slancio di qualche mese prima, poi, con sgomento, sentendo ancora l'eco sottile delle parole di sua madre, scoprì un viso conosciuto tra quelle schiere.

Era suo zio Sandro, il suo preferito. Quello con cui giocava a nascondino da piccolo, quello che lo faceva sempre ridere, quello che gli aveva regalato la sua prima PlayStation a dieci anni; lo stesso che una volta, tanti anni prima, aveva fatto spaventare a morte una sua compagna di classe antipatica dicendole che se avesse continuato a prendere in giro Michele l'avrebbe fatta arrestare dalla polizia; lo stesso che lo difendeva sempre dai rimproveri severi dei suoi genitori. Qualche volta da lui si era sentito dire aveva di comportarsi arsi da femmina e di non fare il maschiaccio, ma mai avrebbe pensato che discorsi così leggeri e relativamente innocui derivassero da un'ideologia.

Non era un suo zio naturale, bensì un amico d'infanzia di suo padre; ciononostante era stato una figura importante della sua infanzia, e scoprirlo lì, al fianco di sua moglie e degli altri manifestanti, con il grosso naso conficcato tra le pagine di Ivanhoe – un romanzo probabilmente scelto secondo il criterio casuale delle sentinelle – aveva rincarato il colpo infertogli da sua madre poco tempo prima. Invece di cantare e ballare, quella seconda volta se ne andò silenzioso come un fantasma dalla piazza gelida. La sua vita da quel giorno sarebbe stata per sempre divisa a metà: da una parte c'erano i tempi facili e felici di quando non aveva nulla da nascondere, dall'altra l'ignoto, la paura delle reazioni altrui quando avessero scoperto che in lui c'era qualcosa che non andava. E così sua madre, suo padre, suo zio e chissà quanti altri, da quel momento, poterono esistere per lui solo nella mezza vita della finzione.

Iniziò a sentirsi sempre più distaccato dalla sua famiglia, spaventato dall'idea che potessero scoprirlo. Sentì, per la prima volta, il peso dell'essere diverso.

“Ma guarda chi c'è! Ehi, coso, ti lascio un attimo da solo. Vado dalla Lu, che è tanto che non la vedo.”

Il ticchettio sempre più lontano dei passi di Ele lo riportò alla realtà. Erano passati mesi, ma ancora non si azzardava ad alzare il capo accaldato per guardare in faccia i manifestanti. Non ne aveva più timore, non si sentiva più smarrito all'idea di essere estraneo alla sua stessa famiglia. Era, però, rimasta nel suo cuore una vaga tristezza, una malinconia che lo spingeva a non volerne sapere di più, un istinto di conservazione di tutti i bei ricordi che aveva di quando ancora era un bambino con la testa bella vuota e una sola vita, ancora tutta intera.

Aveva sempre più caldo. Volse lo sguardo alla folla allegra e colorata dall'altro lato delle transenne, e si rese conto di avere la vista appannata.

Un paio di sue compagne di scuola stavano chiacchierando con un ragazzo altissimo e occhialuto, mentre un uomo sulla trentina, suo conoscente, distribuiva volantini e schizzava da un lato all'altro della piazza per aggiustare bandiere arcobaleno, parlare con tutti quelli che incontrava sulla sua strada e intonare cori di tanto in tanto. Non sembravano esserci altre sue conoscenze, ma sul momento non gli interessava.

Decise di avvicinarsi a Marco – si ricordò quello che probabilmente era il suo nome – sperando di attaccare bottone e distrarsi finché non fosse tornata Ele. Aveva lasciato il portafoglio nella sua borsa, e con quello ogni speranza di procurarsi da bere.

Lentamente i forti raggi del sole, che di primo mattino lo avevano ringalluzzito con la prospettiva di una giornata di vacanza da scuola da passare sotto il primo cielo blu dell'anno, divennero una tortura. Aveva la sensazione che ogni parte di lui stesse per collassare su se stessa e sciogliersi. La fronte era imperlata di sudore, i vestiti umidi gli aderivano alla pelle, le bende sul petto iniziavano a bruciare come fuoco e con tutta probabilità gli avevano già inciso un solco nella pelle sottile del torace, stringendogli le costole come una serpe tagliente.

Non aveva più pensieri per la testa. Voleva solo rinfrescarsi, parlare con qualcuno e tornare a casa a studiare o a strimpellare qualche canzone in solitudine. Era già stanco, nonostante fossero le undici e mezza. Non era da lui.

Poco lontano brillava l'insegna metallica di una gelateria, e si chiese da dove arrivasse la luce che le permetteva di proiettare quel riflesso intermittente. Alzò lo sguardo verso il tetto dell'edificio e lì, ritta nei raggi perpendicolari del sole, una bandiera oscillava debolmente, a tratti ombreggiando l'insegna e a tratti illuminandola. Sotto quella silente bandiera blu ogni cosa cambiava colore a seconda dei suoi volubili movimenti. L'insegna – bianca, grigia, bianca – un anziano signore seduto a un tavolo – abbronzato, pallido, abbronzato – i tavolini di plastica – rosa, rossi, rosa, rossi. Michele vedeva solo i colori di quello spettacolo mediocre, le linee le aveva lavate via il sole col sudore che gli imperlava le ciglia.

Si rese conto all'improvviso di essersi fermato a metà strada tra l'accesso alla piazza e la folla. Non sapeva dove fosse diretto prima di fermarsi. Sentiva solo caldo. Chiamò ad alta voce Eleonora, ma nessuno rispose.

Nel frattempo una macchia grigia e nerastra era entrata nel suo campo visivo, e ora gli galleggiava davanti perfettamente immobile.

Stette ferma per un po' a debita distanza, ma dopo un lasso di tempo indeterminato iniziò ad avvicinarglisi oscillando. Poggiava su un lungo corpo e aveva occhi e bocca.

“Stavo per chiederti se volessi un volantino su, ehm, Nascita e morte del DDL Scalfarotto, solo che non mi sembri del tutto a posto.”

Era un ragazzo forse poco più grande di lui che portava degli occhiali leggeri, tondi, grandi e argentati, che gli ingrandivano gli occhi chiari. Michele si convinse di stare guardando un film in bianco e nero quando si accorse che la macchia grigia che prima gli galleggiava nel campo visivo erano i suoi capelli. Non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto rispondergli.

“Cosa?” Che strana voce aveva, quel ragazzo. “Ehi... se hai biascicato qualcosa non ho capito. Puoi ripetere, per favore?”

“Non credo di non molto... sentirmi troppo bene. Sto andando a fuoco”, articolò finalmente Michele.

“Ti senti male?”

“No, cioè sì, ma non riesco a capire.”

Le sopracciglia dritte e scure – non erano grigie – dello sconosciuto si affossarono al centro, formando due bellissimi sorrisi preoccupati. A Michele uscì di gola un risolino a quella strana visione.

“Sei qui con qualcuno, ehm...?” Indugiò sul nome.

“Eleonora. Michele, io mi chiamo così.”

Il giovane senza nome si girò e lanciò un grido cantilenante: “Eleono-raaa. Chiunque tu sia vieni qui da Michele.” Poi si voltò di nuovo verso il ragazzo, finendo di arrotolarsi le maniche della camicia fino a sopra i gomiti giusto in tempo per sorreggerlo, perché era inciampato sui suoi stessi piedi cercando di scorgere Ele oltre le spalle dello sconosciuto.

“Cazzo, cazzo. Ti sei preso un bel colpo di calore, Mick. Ti dispiace se ti chiamo così? No, vero? Vieni qui, stai alla mia destra, ti porto un po' all'ombra”, disse questi con una parlantina a metà tra il nervoso e il divertito. Per Michele quella voce profonda e bizzarramente modulata fu poco rassicurante, ma la situazione comica sembrò riagganciarlo alla realtà.

Lo sconosciuto si spostò una ciocca di capelli dalla fronte con delle lunghe dita pallide e la aggiustò indietro facendoci scorrere le unghie tonde. Camminava veloce, sorreggendo l'infermo su un fianco e cercando aiuto con lo sguardo e qualche cenno della mano.

Michele quasi non si era reso conto del suo braccio snello intorno alle spalle e si ritrovò dal nulla a fissargli le mani, grandi pianure bianche solcate da vene verdastre in rilievo, a nord quattro montagne arrossate, intirizzite come d'inverno, a sud una valle tra le sporgenze ossute del polso.

Realizzò di essere in stato confusionale e che probabilmente, se non fosse tornato immediatamente da quel luogo silente e misterioso, sarebbe passato per via diretta dalle valli della mano sconosciuta all'ospedale più vicino.

“Mia madre...”, mormorò confusamente, sentendo insinuarsi nello stomaco l'ansia che accompagnava quel nome da sempre.

Lo sconosciuto dai capelli grigi lo guardò di sbieco, rinchiudendosi in una sorta di guscio lontano e cambiando radicalmente atteggiamento. “Tua mamma? Vuoi... tua madre?”, gli chiese, quasi nauseato, mentre si sedevano all'ombra di un portico.

Michele si lasciò cadere di schiena sul pavimento. “Ah... è fresco...” La nebbia che aveva nel cervello sembrò diradarsi a quel contatto. Riprese a sentire gli arti come parte del suo corpo e il peso dei suoi vestiti umidi sulle ossa, mentre lasciava che avvenisse lo scambio termico tra lui e la pietra del pavimento.

Si soffermò per la prima volta a guardare il ragazzo che l'aveva portato all'ombra, che faceva gesti inconsulti in direzione della piazza come per richiamare qualcuno. Aveva un profilo strano, ossuto e pallido, con degli zigomi alti e un naso leggermente aquilino, molto maschile. Doveva avere poco meno di vent'anni, anche se sembrava più vecchio per molti tratti. Forse andava in quinta, o all'università, considerando com'era vestito: pantaloni grigi dal taglio formale, camicia bianca e scarpe nere che Michele avrebbe considerato da vecchio, perché era la prima volta che le vedeva su un suo quasi coetaneo. L'unico tocco di colore nella sua figura allampanata erano gli occhi azzurro slavato, anche quelli tendenti al grigio, e i bottoni della camicia che splendevano di un verde brillante.

Aveva un modo teatrale di gesticolare, sembrava serbare una sorta di imbarazzo sociale temperato da un comportamento e un aspetto fuori luogo, che attiravano l'attenzione come una risata a un funerale. L'aveva aiutato, ma sembrava dai suoi movimenti e dai suoi sguardi che, avendolo fatto come preso da un impulso infantile, se ne fosse pentito subito dopo e volesse semplicemente tornare a starsene per i fatti suoi. Da amichevole era diventato freddo e poi di nuovo caldo, o almeno tiepido, tralasciando completamente il fatto che la salute di una persona fosse in pericolo. Non sembrava davvero preoccupato per lui, quanto più incuriosito.

Si ricordò della domanda che gli era stata posta e guardò profondamente negli occhi il ragazzo seduto al suo fianco, che ora lo osservava dall'alto, riuscendo finalmente a ragionare con lucidità nonostante un'impercettibile punta di vermiglio gli stesse colorando le guance e il naso. “Veramente voglio solo tenerla lontana da me. E non voglio che veda Eleonora, perché non passerebbe come ragazza di nascita, sai, non prende ancora ormoni. È transessuale”, disse freddamente, incespicando un po'.

Le sopracciglia folte dell'altro si incurvarono verso l'alto dalla sorpresa, stavolta formando due smorfie tristi. Sorrise beffardo incurvando le labbra chiare e sottili. “Che c'è, i tuoi non sanno che sei gay?”

La domanda colpì Michele come una secchiata d'acqua in faccia.

Se prima si sentiva in imbarazzo per la situazione ridicola – si era fatto trascinare da un perfetto sconosciuto, perdipiù strano, in giro per una piazza affollata biascicando cose senza senso e inciampando sui suoi stessi piedi – ora era del tutto sconvolto da quel tizio. Iniziava a sembrargli un pizzico inquietante, come se avesse qualcosa di sbagliato nel cervello. Nessuna persona sana di mente, fino a quel giorno, si era posta domande riguardo al suo sesso biologico senza saltarne fuori con la brillante idea che lui fosse una femmina. Era triste, ma almeno gli risparmiava spiegazioni riguardo alla sua situazione se le cose si mettevano male.

“Come, scusa?”

“Ah, non sei gaio? Chiedo perdono. Dovrò mandare il mio gay radar in riparazione. Pensavo che la propria omosessualità fosse l'unico motivo capace di spingere un ragazzetto della tua età a manifestare contro le Sentinelle in Culo.”

Cosa?!”, esclamò Michele stizzito. Il tipo occhialuto aveva proferito quelle parole con una sicurezza assoluta e un tono scherzoso, quasi ostentatamente da frocio, che gli stavano iniziando a dare sui nervi. Odiava che gli si desse del bambino, anche se si sentiva lusingato per essere stato scambiato per un ragazzo bio. “Senti, sono etero e ho diciassette anni. Se ti sembro più piccolo è perché ho... insomma, sono trans. Si può dire che ho dei problemi ormonali, ecco.”

“Ehi, ehi. Calmo”, disse il ragazzo grigio alzando le mani. Cambiò di nuovo atteggiamento come se stesse recitando diversi ruoli in un copione, e da sornione divenne serio e affabile. “Voleva essere un complimento. Se fossi stato un tredicenne etero e cisgender che protesta contro l'omofobia avresti meritato tanto di cappello.”

Wow, sa cosa significa cisgender, pensò Michele.

“Comunque mi chiamo Valentino, Vale per i pigri. Non dico 'piacere di conoscerti' perché sarebbe assai ipocrita. Cioè, da dire, come frase. Presentarsi non è conoscersi.”

I due si diedero la mano, guardandosi negli occhi, stringendo uno il palmo umido dell'altro. Si sorrisero sinceramente.

“Michele... ma te l'ho già detto. La lista dei soprannomi sarebbe troppo lunga da snocciolare.”

Mentre parlava lo stordimento tornò a farsi sentire, lieve ma insistente, accompagnato da un martellare sordo nella scatola cranica. Giusto in tempo per l'arrivo di un getto d'acqua che lo colpì in piena fronte.

“Oh, mio Dio, Michele! Cos'è successo? Come stai?” Ele era arrivata in quel momento correndo trafelata, armeggiando con una bottiglia che agitava come un'arma da fuoco. “Vi ho visti da laggiù... scusa il ritardo, ho preso l'acqua che ti serviva pensando di farti un favore e invece eri quaggiù disteso e stavi chissà come! Mi dispiace... oh, mi dispiace, Michi!” e si profuse in mille attenzioni, tastando i polsi e la fronte dell'amico senza dargli il tempo di reagire.

“Colpo di calore. Sembra stare meglio”, dichiarò lapidario Vale, placidamente disteso a terra sui gomiti immacolati, una gamba piegata. A Michele non piacevano le persone che rispondevano al posto suo, ma in questo caso lo lasciò fare. Non pareva volergli togliere le parole di bocca per farlo sembrare uno stupido, come faceva di solito la gente. “Era in mezzo alla piazza in stato confusionale e nel distendersi all'ombra è tornato lucido. Deve bere, stare al fresco e direi anche cambiarsi”, continuò, guardando Michele come accorgendosi in quel momento degli abiti troppo pesanti.

“Oh, no no! Lui deve andare in ospedale, adesso!”

“Tu sei pazza”, si spaventò Michele, quasi sputando l'ultimo sorso d'acqua. “No, no. In ospedale chiamerebbero i miei, e se dico alla vecchia che mi ha portato qui un'amica me ne viene a chiedere nome, cognome e stato civile. Non voglio che pensi che ho amici strani.” Vide con la coda dell'occhio lo sguardo sorpreso e divertito di Valentino e decise di raddrizzare il tiro, anche se Eleonora aveva capito benissimo cosa intendesse. “Cioè, già ha trovato il binder e tutto il resto, non ho sbatta di doverle dire ogni volta con chi esco perché teme che brutte compagnie mi confondano sessualmente ancora di più.”

“Potremmo chiamare un'ambulanza”, disse Eleonora trastullandosi nervosamente una ciocca di capelli fiammanti, allungando poi una mano nella borsa per prendere il telefono.

“No, non se ne parla neanche. Me ne starò qui.”

“Sentite, io avrei un'idea”, li interruppe Valentino alzandosi e spolverandosi i pantaloni, dandosi grandi pacche sulle cosce. Eleonora sembrava divertirlo. Guardò Michele sospirando, gli occhi azzurri gli brillavano di nuovo come davanti a un bello spettacolo comico. “Sono qui con degli amici dall'aspetto eterissimo. Uno ha una macchina, una patente e un debito con me, quindi ti potremmo dare un passaggio.” Guardò Michele, che sul suo volto vide solo un enorme sorriso incosciente. “Che ne dici, Mick?”





Buon pomeriggio a tutti.
Sono finalmente riuscito a trovare un tempo d'aggiornamento decente, e il ritmo sembra essere bisettimanale... spero proprio di riuscire a mantenerlo. I miei capitoli per ora si aggirano tra le 3500 e le 4500 parole, quindi dovrei scrivere più o meno tra le 2/350 parole al giorno. Poche, dite? Beh, io sono pigro, non scrivo mica tutti i giorni :P Per fortuna quando mi ci metto di brutto riesco a buttarne giù 700/1000.
Ed ecco che Vale entra in scena. Ve lo aspettavate diverso? E INVECE E' COSI'! Muahah. Ho i miei gusti, capitemi. Spero che abbiate comunque apprezzato la sua comparsa e che non vi siate annoiati con la storia famigliare di Michele (che è necessaria perché... beh, insomma, saprete).
Ne approfitto per ringraziare tienimiancora per le recensioni alla storia, più i tre gentilissimi utenti che l'hanno preferita e i sette che la seguono! Non mi aspettavo che avesse un gran seguito, ma vedo che siete interessati e ne sono felice. ♥
Che dire? Ci sentiamo tra due giorni con l'aggiornamento del Simposio. See ya!
PS per il mio ragazzo: amore, so che stai leggendo. Sai come potresti rendermi davvero felice? Lasciandomi una recensione qui e non via WhatsApp. Fai il bravo, dai C: Ti amoooh :*
- Knet

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Knetgummi