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Autore: kaos3003    19/01/2009    2 recensioni
Questo racconto è un po' la storia di una famiglia, ma vista attraverso il vetrino di un padre assente e di una figlia confusa. Non ci saranno episodi epocali o avvenimenti degni di nota per il solo fatto che gli stessi protagonisti non meritano un'attenzione particolare.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Siamo una brutta confezione regalo di tè.'
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Rating: 14 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 4609 parole con Open Office, circa sei pagine e mezza, un unico capitolo
Avvertimenti: nessuno
Genere: Generale, Introspettivo
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me -trovate voi un altro pazzo che scriva uno boiata simile.
Credits: una frase prende puramente ispirazione da “La casa degli spiriti” di Isabella Allende, giochiamo a chi la trova?
Na', sono troppo buona: è il secondo paragrafo.
Passiamo al secondo punto. Robert Scott è un nome piuttosto comune, ergo non ha una derivazione precisa. Mary Douglas, invece, è il nome di una nota antropologa britannica. Non pensate nemmeno per un secondo che il carattere il personaggio abbia qualcosa in comune con la persona reale, semplicemente mi sembrava giusto dire come fosse nata l'idea.
Altro credit di poca... no, forse è il più importante dei tre, riguarda la Bachianinha n°1. Questo brano per chitarra classica è di Paulinho Nogueira e io sono tanto, ma tanto buona e vi metto un bel link al video
Note dell'Autore: Questo racconto è un po' la storia di una famiglia, ma vista attraverso il vetrino di un padre assente e di una figlia confusa. Non ci saranno episodi epocali o avvenimenti degni di nota per il solo fatto che gli stessi protagonisti non meritano un'attenzione particolare.
La parola da cui è partito tutto è l'indifferenza, ma fanno la loro comparsa il rancore, la stabilità, o, meglio, la mancanza della stessa, e la complicità, perché i rapporti umani non hanno l'aspetto di una lastra di cristallo.
La storia mi piace? No. Purtroppo è troppo tardi per ritirarsi senza incorrere nell'ira delle amministratrici -esseri temibili per antonomasia, essendolo a mia volta lo so XD.
Introduzione alla Storia: siamo cresciuti col mito della famiglia perfetta, e non parlo di quella del Mulino Bianco, tanto leziosa e zuccherosa da cariare i denti più delle merendine. Quasi tutti abbiamo un rapporto ordinato con chi amiamo e sappiamo rintracciarli. È importante tutto questo? Probabilmente sì.
La storia di un abbandono e di una riscoperta, o meglio del prendere la vita come viene, perché è anche importante non essere troppo fiscali.



Questa storia è protetta da una licenza






Le prime cose che si notavano entrando in quella casa erano il penetrante odore d'incenso e un baule. Non che avesse qualcosa di particolare, in tanti anni non avevo nemmeno capito se fosse di legno o un semplice abbellimento di plastica, ma era uno dei tanti simboli che avevo imparato ad associare a Robert, uno degli uomini di spicco della mia vita e mio padre, almeno per la legge.
Robert Scott aveva ereditato tutta la pazzia della famiglia, come sostenevano le mie prozie ancora zitelle, e questo aveva permesso ai suoi fratelli di intraprendere la sicura e prevedibile via del burocrate con rilevanti risultati.
Non so molto della sua infanzia, nelle sue sbornie migliori ripeteva continuamente che era possibile stendere tranquillamente un lurido lenzuolo su quegli anni per un semplice motivo: da bambino era stato idiota, esattamente come tutti i bambini hanno diritto ad essere e come l'ottanta per cento degli adulti rimane fino alla morte.
Aspetti, una cosa la so: cominciò a chiamarsi Robert Scott solo all'età di sei anni, fino ad allora tutti lo conoscevano come Robert Scotti. Credo che la sua famiglia intendesse darsi un tono storpiando il cognome e dandogli quella musicalità americana.
Eravamo rimaste... ah, sì, era idiota e fortunatamente si svegliò per frequentare l'università. Assetato di conoscenza, o semplicemente nullafacente, aveva iniziato gli studi giuridici, medici, biologici e ingegneristici, per finire laureato in filosofia, con sommo scorno dei genitori che lo volevano commercialista, visto che in famiglia c'erano già un avvocato ed un medico.
Sarebbe toccato al fratello minore, zio Lucas, intraprendere quel percorso, ma all'epoca era troppo impegnato a sbucciarsi le ginocchia per curarsi di come il fratello gli stesse condizionando la vita.
Fu su quei banchi che Robert conobbe Maria, mia madre. Galeotti per loro furono, almeno sentendo la sua versione, il Panta Rei di Parmenide e la grotta di Platone. Forse fu questo a farmi ridere della filosofia nei miei anni liceali: immaginare quel povero schiavo come un guardone non mi permise mai di pensare agli studi filosofici come ad una faccenda seria.
Appena laureati si sposarono e si sbrigarono a sfornare figli. Per primi vennero i miei due fratelli, Marco e Giacomo, gemelli ma talmente diversi da sembrare due estranei, e infine io, terza ed unica figlia. Quella volta mia madre doveva essere troppo sfiancata e sonnolenta per lottare con il marito, visto che accettò che mi chiamasse Minerva, in ricordo della dea della sapienza romana.
In sua difesa posso dire che il nome è stato certamente un buon auspicio, considerando che mi sono laureata con una certa facilità e colleziono civette in ogni loro forma e dimensione.
Comunque Robert non fu mai un marito e un padre modello: non accettava un lavoro stabile ed era troppo abituato a scomparire per lunghi periodi per poter pensare di cambiare la sua vita; fin dalla prima volta i carabinieri si rifiutarono di cercarlo, invitando la moglie alla calma e sostenendo fra le risate trattenute che sarebbe tornato. Effettivamente tornava ogni volta, magari dopo una o due settimane, ma tornava.
Più volte, durante gli incontri degli ultimi anni, gli chiesi cosa facesse veramente in quei periodi d'assenza, se avesse un'amante. Credo fu questo, più d'ogni altra cosa, ad incrinare il nostro rapporto, il fatto che, nonostante tutti i suoi tentativi d'educazione, potessi avere pensieri tanto banali e provinciali.
Ma sto correndo troppo, ed è un vizio che dovrei togliermi.
I litigi iniziarono in quello che avrebbe dovuto essere il mio primo anno alla scuola d'infanzia. Robert aveva accettato ad iscrivere i miei fratelli ad una vicina scuola parrocchiale, ma non volle dare il suo consenso per me e per un anno si fece carico di tutto, limitando le sue fughe al periodo di ferie di mamma. Poi riprese ad uscire, magari per poche ore.
Non ricordo bene come successe, ma in una delle sue assenze caddi dalla scala e mi ruppi il polso. Fu la nostra vicina, una donnona sud americana con un persistente odore di marsiglia e un seno enorme, a sentire le mie grida e portarmi in ospedale.
All'epoca avevo solo quattro anni e di quel giorno ho ben pochi ricordi nitidi: un dolore lancinante e le urla di mamma e papà, culminate con lo sbattere di troppe porte.
L'indomani mi trovai iscritta al famoso istituto religioso e mia madre aveva avviato le pratiche per il divorzio. Ora che ho quasi trent'anni credo di capire perché non sopportasse questo suo atteggiamento libero e perché non gli avesse mai perdonato il mio tardo inserimento in società, ma, come ho già detto, all'epoca ero troppo piccola per interessarmi vagamente a queste faccende da adulti.
Dalle pratiche che sono riuscita a recuperare alla sua morte, ho scoperto che usò molto dell'anno che io e Robert condividemmo. Al giudice non presentò solamente il referto ospedaliero di quella giornata, ma anche schede appositamente compilate dalle suore che attestavano delle difficoltà particolarmente inquietanti per la mia età, tra cui l'assoluta incapacità di colorare entro i bordi con una cura decente e una leggera forma di iperattività.
Be', credo fosse comprensibile. Fino ad allora non avevo mai dovuto rispettare orari precisi e le mie principali attività consistevano nello scarabocchiare su qualsiasi cosa trovassi e correre per la casa fino a quando il cuore non mi batteva tanto forte da sembrare un tamburo.
Per ovvie esigenze ora mi sono adattata a orari e scadenze, ma ammetto che l'atto del colorare è rimasto un mio forte handicap.
Purtroppo sto divagando ancora una volta. Tornando a mia madre, sono quasi sicura che fece tutto questo per un forte senso di ripicca. Era una donna sola, che già nei primi anni di matrimonio aveva capito di non poter avere un vero rapporto con quel marito distante e 'alternativo', e non poteva sopportare che una bambina riuscisse dove lei aveva fallito.
Comunque, i suoi tentativi ebbero successo e circa un mese dopo abbandonammo la nostra casa nel quartiere popolare per trasferirci in una piccola casetta a schiera nel centro, frutto di anni di risparmio dei miei nonni paterni, da sempre frustati di quel figlio e felici nell'accontentare una nuora tanto deliziosa. Purtroppo nemmeno la stanza nuova piena di giocattoli e la prospettiva di due week-end al mese con lui bastarono a mitigare i miei sensi di colpa per il braccio e tutto quel baccano.
Sui prossimi anni cercherò di essere il più sintetica possibile, dal momento che non vidi nemmeno casualmente Robert.
Ammetto che avrei potuto insospettirmi. Era sempre mia madre ad accompagnarci alla vecchia casa popolare ed erano i miei fratelli a salire per primi, tornando dopo pochi minuti all'auto, tra gli sguardi ben poco discreti e gentili delle vicine, dicendo che papà non c'era. Puntualmente tornavamo a casa, seguiti dagli sguardi cattivi di quelle donne rimaste tra i bambini che giocavano a pallone sul vialetto e i due trans che ricevevano i propri clienti nell'appartamento del terzo piano.
Per quasi dodici anni non si sarebbe fatto trovare in casa per le nostre visite del venerdì sera e pian piano sono arrivata ad odiarlo quasi quanto i miei fratelli. Non mi fraintenda, non sto cercando giustificazioni, semplicemente racconto come sono andate le cose, le posso assicurare che non era un idiota e non si aspettava l'assoluzione da una bambina di quattro anni.
Ma andiamo avanti. Pochi anni dopo il divorzio, mia madre conobbe il suo secondo marito grazie alla persistente intromissione di mia nonna nella sua vita. Da quando si era decisa a mettere fine a quel matrimonio increscioso, eravamo invitati una sera al mese a casa dei nonni per cena.
Casualmente in quelle piccole riunioni familiari irrompevano dei giovanotti adorabili, come li definiva mia nonna. Giovanni era uno di questi e aveva tutto ciò che si potesse desiderare: un lavoro stabile, una buona posizione sociale e un gran desiderio di famiglia. Credo fosse quest'ultima cosa ad attirare mia madre.
Il giorno del mo sesto compleanno la famiglia si riunii per celebrare quello che si auguravano essere un'unione fortunata per quella povera ragazza. La sposa era bellissima nel suo sontuoso abito color avorio e lo stesso si poteva dire dello sposo e dei miei fratelli, rigidi ed eleganti nei formali completi scuri, solo io assomigliavo ad una meringa mal riuscita. Il mio abito bianco, scelto dalla nonna e dalle prozie, era sovraccarico di pizzi e merletti e questo non contribuiva a nascondere quei rotoli di grasso che un'alimentazione incostante e una fame nervosa crescente avevano contribuito a creare.
Quell'evento, a cui presenziò l'intero quartiere, segnò l'inizio di un periodo di relativa quiete nella casetta in centro. Giovanni aveva cura di noi come fossimo suoi figli e continuò a farlo anche dopo che mamma diede alla luce Marica, sua figlia. Se ben ricordo provò perfino ad adottarci, purtroppo non riuscirono mai ad ottenere la rinuncia alla patria genitoriale da Robert per, almeno come dicono i documenti, irreperibilità.
In pochi mesi abbandonammo quel poco che era rimasto della nostra vecchia vita: gli amici, le nostre abitudini, i giochi in strada e perfino l'istituto religioso che aveva contribuito a tenerci occupati nei primi anni di vita. Man mano che arrivava il nostro sesto compleanno, fummo iscritti ad un istituto comprensivo di madrelingua inglese che richiedeva una piccola fortuna al mese per vestirci come damerini e insegnarci a parlare in una lingua che, con ogni probabilità, non avremmo mai usato.
I miei sedici anni arrivarono così, tra la scuola, corsi di danza classica e moderna, lezioni di canto e pomeriggi nelle librerie e nei cinema che potevo raggiungere tranquillamente a piedi. Tutte le estati viaggiavamo per l'Europa, visitando antiche abbazie e prendendo il sole in spiagge straripanti di turisti sovrappeso, in evidente imbarazzo nei loro costumi all'ultima moda, ma pronti a tutto pur di sfuggire alla calura estiva della città.
Nulla avrebbe potuto farmi presagire quello che sarebbe avvenuto.
La sera del mio compleanno avevo boicottato la classica cena in famiglia per una serata fra amici in un vecchio pub. Ero arrivata con un leggero anticipo e sedevo al tavolo, aspettando che arrivassero gli altri, quando un uomo al bancone mi colpì. Non vedevo Robert da quasi dodici anni, eppure, incontrandolo in quel locale semi-nascosto tra gli istituti bancari, sentii una scossa elettrica.
Ero ancora indecisa se aspettare i miei amici e proporre una fuga precipitosa o fare semplicemente finta di nulla, quando me lo ritrovai seduto di fronte. Evidentemente non avevo incrociato un barista discreto.
Credo che quello fosse il momento più deprimente da quando uscii dalla vecchia casa popolare dimenticando il mio peluche preferito. Per quelle che sembrarono diverse ore ci limitammo a fissare le nostre bevande mentre pregavo che tornasse nell'oblio da cui era uscito.
Non so come riuscì a trovare la forza e il coraggio per chiedergli di andarsene nel bel mezzo del locale. Forse fu il pensiero di come mi avrebbero vista i miei amici, forse fu semplicemente la rabbia di quegli anni passati da figlia abbandonata, ma seppi ignorare il suo sguardo basso e gli dissi di andarsene.
Ad oggi so di avergli fatto un gran male, ma allora mi importava talmente poco di lui che non badai affatto alla busta che fece scivolare sul tavolo prima di uscire. Fu Monica poco più tardi a passarmela, forse credendo fosse mia, forse avendo riconosciuto Giacomo nell'uomo che sostava all'uscita del locale fissandomi.
Mi scusi, sono troppo romantica e mi perdo in trame che potrebbero essere di un pessimo Harmony. Lei non poteva sapere nulla di Robert, non lo aveva visto nemmeno in foto e mio fratello era sempre fuori casa... Lasciamo perdere.
Passi le giornate seguenti a far scorrere la carta fra le dita, a togliere quella busta dal cassetto per rigettarcela subito dopo e chiuderlo con violenza e a nasconderla fra le pagine dell'agenda scolastica. Occupai le ore di filosofia pensando a cosa farne, tanto per ribadire quanto poco mi interessasse quella materia.
Avrei voluto gettarla e riuscire a dimenticarla, in fondo Robert non aveva fatto parte della mia vita per quasi dodici anni, sia io che miei fratelli eravamo cresciuti bene senza di lui, eppure da qualche parte nei miei ricordi avevo ritrovato l'odore delle caldarroste di un chiosco sotto casa e le note di quella che ho scoperto essere la Bachianinha n°1, le stesse note che sentii sul pianerottolo di casa sua un mese dopo il nostro incontro.
La busta nelle mie mani era ridotta a uno straccio, ma questo non m'impedì di accartocciarla ulteriormente mentre aspettavo che la porta si aprisse.
Fu quella la prima volta che vidi il baule. Più avanti mi avrebbe raccontato, fra un sorso whisky e uno di vodka, che mia madre aveva voluto nasconderlo nella piccola soffitta destinata agli inquilini dell'appartamento del quinto piano.
Non avevo mai visto qualcosa di simile, a meno che non si trattasse di un'illustrazione di un libro o di carta da regalo; l'intera superficie era ricoperta di adesivi dalle diverse parti del mondo: un canguro dell'Australia era in procinto di compiere un balzo sulla Route 66, fiancheggiata da una pagoda e dalla torre Eiffel.
Quelle immagini si sovrapponevano l'una all'altra come a mostrare una vita priva di stabilità e di continui viaggi che le prozie imputavano più alle manie di grandezza che ad un reale girovagare. Non si preoccupi, ho scoperto che quegli adesivi si trovano praticamente ovunque e che non c'è bisogno di cambiare stato o continente, ma dopo pochi mesi in compagnia di Robert le giudicai delle semplici ripicche. Per come la vedo io la sua vita era semplicemente troppo girovaga perché avesse bisogno di fingere.
Ma il baule era solo una delle tante cose di quella casa che mi ricordano lui.
Quando passammo nel piccolo soggiorno ci trovammo in una di quelle tristi situazioni di convenevoli che tanto entusiasmavano la mia nonna materna.
Si vedeva che non era abituato a ricevere visite, troppa solerzia nei suoi gesti, troppo entusiasmo nelle sue parole. Cerchi di capirmi, lei prima mi ha offerto un caffè come se passassi qui tutti i miei pomeriggi. Ecco, lei è a suo agio, tutto le viene naturale e io non mi sento un'ospite.
Ma siamo stati fortunati. In nostro aiuto vennero due filtri di tè russo e un vecchio tavolino con una gamba più corta.
Appena mi sedetti su una delle vecchie sedie traballanti di quella stanza, Robert mi mise una tazza fumante piena fino all'orlo fra le mani, credo fosse una vecchia reminiscenza delle riunioni della suocera. Non volevo essere scortese, in fondo volevo solo restituirgli quella dannata busta, ordinargli di uscire dalla mia vita... ero già scortese, vero? Ad ogni modo, sapevo che il mio stomaco non avrebbe accettato una singola goccia di quella bevanda, sicché feci un rapido cenno col capo e appoggia la tazza su un tavolino stranamente sgombro.
Quello che successe si potrebbe dire simbolico, quasi catartico. Il peso della tazza fece incrinare il tavolino e tre gocce del tè caddero sul linoleum, formando altrettante piccole pozzanghere. Non ricordavo di aver rovesciato qualcosa da quando ero bambina, a casa si doveva prestare molta attenzione per non macchiare le mattonelle dipinte a mano -sì, so che sono assurde- o il parquet di olivo greco.
Non so bene il perché, ma scoppiai a ridere. Risi veramente tanto quel pomeriggio, ricordo che smisi solo perché mi dolevano le costole.
Fu quel piccolo incidente a rompere il ghiaccio fra di noi e passammo le seguenti due ore a parlare del più e del meno. So cosa sta pensando, avrei potuto chiedere perché non fosse tornato in quei dodici anni, perché mi volesse ora... forse avrei dovuto, sarebbe stato gentile, ma la cosa non mi interessava. Anche dopo, quando tentava di spiegarmi come non fosse pronto per fare il padre e quanto fosse spaventato quando mia madre ci portò via e in che modi assurdi avesse tentato di mettersi in contatto con noi... ci pensa, si appostava sotto la vecchia scuola e noi non studiavamo lì da anni.
Mi scusi, mi dia solo un minuto per calmarmi. Dicevo... ah, sì. Da allora passavo da lui ogni volta che ne avevo possibilità, senza essere sicura di trovarlo.
Credo fosse questo suo apparire e scomparire ad attrarmi. Quella sera al bar avevo deciso che non lo volevo come padre, ma mi incuriosiva la sua esistenza libera.
Avevo sedici anni ed ero stupida; lei lo sa, a quell'età o si è stupidi o si è strani, come tutte le ragazze del mio giro ero attratta dal classico bello e impossibile, quel ragazzo che va e viene quando vuole, ha una vita piena che sembra uscita da un film.
Le mie amiche avevano il bello della quinta C, io avevo Robert.
Tra di noi iniziò uno scambio di libri, musica e conoscenze che è durato fino al mese scorso, grazie a lui sono entrata in contatto con tematiche che difficilmente mi avrebbero toccato, o almeno lui provava a coinvolgermi. Mi scusi se sono ripetitiva, ma non sono mai stata brava nell'improvvisare un discorso. Comunque, dicevo che questo suo andare e venire non lasciava certo lo spazio per costruire qualcosa: quando lui non c'era leggevo i suoi libri e quando tornava quel poco che capivo mi doveva bastare per comprendere il suo mondo.
Forse fu proprio questa instabilità, questo suo non poter essere legato a non permettere che ci considerassimo padre e figlia e d'essere, invece, confidenti. Non posso dire che la cosa fosse sempre facile, ma in fondo io avevo già trovato in Giovanni la mia figura paterna e non pensavo di poterne pretendere una da qualcuno che, evidentemente, non aveva alcun desiderio d'esserlo.
Era bello, in un certo senso. No, aspetti, non bello... bizzarro... utile... non so come dirlo. Comunque, avevo accanto a me un uomo di quarant'anni, con l'esperienza che ha un uomo di quell'età a cui potevo raccontare le cazzate che mio padre non avrebbe mai potuto sapere, tutto perché non aveva la maturità per essere mio padre.
Sa, prima di venire qui sono stata in quella palazzina, passare oggi su quel pianerottolo, sapendo che la casa è vuota, mi ha fatto uno strano effetto. In questi anni ho passato interi pomeriggi seduta davanti alla sua porta, mentre due piani più sotto i clienti dei viados si avvicendavano in un ritmo continuo. Quei pochi che non erano spesi in quello squallore li passavo a litigare con mia madre.
Sapevo che non avrebbe preso bene il ritorno dell'ex marito, non ero tanto stupida da illudermi del contrario, ma mai mi sarei aspettata di vederla prendere la macchina e partire a tutta velocità per tornare dopo ore, bagnata fradicia e con gli occhi rossi di pianto. Il giorno dopo una delle vicine mi raccontò di come si era precipitata verso l'appartamento di Robert e aveva tempestato la porta di pugni, urlandogli di lasciarla in pace, minacciandolo di chiamare la polizia.
Sospetto che Robert fosse in casa quel giorno perché per tre mesi non riuscì ad incontrarlo.
Che fosse sempre stato infatuato di Maria non era un mistero per nessuno, ma in quel momento vidi chiaramente quale era il mio ruolo: io ero una parte di Maria che lui poteva plasmare e ricreare, improvvisandosi novello Demiurgo. E fu la gelosia e il risentimento di Maria ad averlo portato lontano per dodici anni: lo scarso interesse che poteva avere per una bimba, senza basi su cui costruire, era stato soffocato dal vedere l'immagine del suo benessere offuscata dall'ombra.
Furono proprio queste consapevolezze a permettermi di non accontentarlo quando mi chiese di aprire la busta davanti a lui o quando mi chiedeva di chiamarlo papà. Quella era l'ultima parte del suo piano, il tassello che avrebbe rotto la precaria stabilità che avevamo raggiunto.
In questi anni d'incontri più o meno clandestini, in cui io aspettavo e lui telefonava dopo settimane di silenzio, non l'ho mai visto tentare di riparare quel tavolino, anche solo con un libro sotto la gamba più corta. Anzi, se capitava si metteva a costruire castelli di carte che, immancabilmente, crollavano al minimo movimento di uno dei due.
Era un sadico di merda. Per quanto la menasse con le storie sulla visione della realtà, sulla condizione precaria della società io sapevo che quel castello serviva a rimarcare quanto instabile fosse il nostro rapporto. Era scappato per dodici anni ed era tornato, e ora fuggiva per poco tempo, lasciandomi ad aspettare e a chiedermi se lo avrei rivisto.
Sa, era capace di telefonare alle tre di notte solo per raccontarmi di un uccellino che si posava sul davanzale e poi non farsi sentire per giorni. Era come se il tempo non avesse significato... credo lo abbia già capito, vero.
È strano, oggi gli operai hanno sgombrato l'appartamento e probabilmente quel vecchio tavolino e il baule saranno finiti in qualche discarica sotto sei piedi di rifiuti. Alla fine Robert se n'è andato ancora una volta, ma io non ho un carabiniere rilassato a promettermi il suo ritorno.
Mamma e papà decisero di non presenziare al funerale, i miei fratelli vennero sotto minaccia della nonna che temeva uno scandalo.
Intorno a noi tre c'era una passerella di casi umani: artisti, persone che si credevano poeti che avevo incontrato in qualcuna delle serate nel vecchio appartamento popolare, gli abitanti di quel quartiere, perfino i due viados. Dalle voci che circolavano, sembrava che uno avesse una relazione con Robert, o che almeno passassero parecchio tempo insieme.
Non credo che Marco e Giacomo avessero interesse per tutta quella folla umana, ma io rimasi impressionata nel vedere quante persone volessero vedere per l'ultima volta quello che la palazzina aveva soprannominato 'l'uccello migratore'. Non mi guardi così, dubito che una persona che fatica ad arrivare a metà mese o vive al limite della legalità, possa interessare d'essere ben vista in un funerale disertato perfino dalle fedeli dei lutti.
È... strano... Dio, sembra che oggi abbia il lessico di un bambino di prima elementare... dicevo, è strano a raccontarsi, ma era come se ancora una volta mi rinfacciassero di non sapere nulla di lui. E io sapevo che lui non ricordava quando fosse il mio compleanno o quale lavoro facessi.
Alla fine della cerimonia fu uno dei due inquilini del terzo piano ad avvicinarsi a me, ancheggiando sui suoi tacchi alti... non si scandalizzi, i miei fratelli avevano già abbandonato il cimitero. Disse di chiamarsi Margot e mi chiese di aprire quella busta, sostenendo che era stato Robert a chiederlo, poco prima di morire.
Converrà con me che le voci su una loro relazione non dovevano essere poi tanto false.
“E ha mai scoperto cosa contenesse quella busta?”
Be', ora so che effetto farebbe una doccia gelida. Ho sprecato del nastro prezioso invece di fare il mio lavoro, per fortuna la spia rossa del registratore è ancora accesa.
E dire che Giorgio mi aveva avvertito: Mary Douglas è brava ad incantare le persone, fai attenzione o domani non esci in prima pagina.
“Signora Douglas, dovremmo veramente fare quest'intervista.” dico cercando si riportare la sua attenzione sul motivo della mia presenza. “Non vuole far sapere a tutti come è andata?”
Mary mi osserva guardinga e istintivamente mi mordo il labbro. Bene, Minerva, hai fatto l'ennesimo errore della giornata, prima spifferi i fatti tuoi a quella che dovrebbe essere il tuo lascia passare per il giornalismo serio e ora vorresti prendere in mano in maniera plateale la conversazione?
Scordatelo. Mary Douglas non è una donna stupida e sarà lei a dettare le regole del gioco, o almeno questo devi farle credere.
“Ho ripescato la busta dal fondo del cassetto solamente qualche giorno fa, comunque all'interno non c'erano lettere o spiegazioni, sono due foto e una copia degli adesivi del baule.” ribatto con un tono che mi suona esausto. “In un primo momento ho cercato di concentrarmi sulle foto: una ritraeva mia madre, ancora ragazza, sulle scalinate dell'università, la seconda era una riproduzione di un ritratto del matrimonio.”
“E cosa ha pensato?”
“Che avevo fatto bene a non assecondarlo quando voleva che mi lasciassi crescere i capelli. Mia madre era semplicemente orrenda con quella chioma indomabile.”
Mary mi sorride oltre il bordo della sua tazzina di caffè.
“Ha ancora quella busta?” chiede, piegandosi in avanti quasi le dovessi sussurrare un segreto perverso.
“No... cioè, l'ho gettata nel cassetto e sono andata a cena, festeggiavamo la promozione di papà.” rispondo. Mary si ritira, sembra quasi stizzita da questa mia scelta. “Ma il giorno dopo ho svuotato tutto il cassetto nel cestino e la signora delle pulizie è passata poco dopo...”
Questo deve averla soddisfatta perché sorride si protende di nuovo verso di me. Una presunta psicopatica con una curiosità che rasentava l'infantile, Giorgio è un genio nel compilare i fascicoli.
“E dove crede che sia ora?” sussurra prendendomi una mano ed esaminando l'unghia dell'anulare. Non è così singolare che una donna con i suoi trascorsi abbia una piccola fissazione per l'anulare della mano sinistra.
“In qualche discarica...”
Il suo sguardo è di nuovo sul mio volto. “Io parlavo di suo padre.” precisa con un tono di finta sorpresa, il suo sorriso è simile a quello che Silvestro sfoggia davanti a Titti nei vecchi cartoni.
“Be', mio padre è a casa, probabilmente sta preparando le sue tagliatelle al cinghiale.”
È la verità, Giovanni aveva promesso quel piatto ai gemelli per il loro compleanno.
“E non ha mai pensato di vedere in Robert il suo papà. Non un padre, ma un papà?”
“Devo aver fatto questo errore le prime volte, ma poi mi è passata.” Dio, sembrava parlassi di una brutta influenza. “Credo fosse la seconda volta che entravo nel suo appartamento, o la terza... be', qualcosa di simile. Comunque, si era steso a letto e io dovevo tornare a casa, ma era tardi e il quartiere non era ben illuminato, così gli chiesi di accompagnarmi.”
“E lui cosa fece?”
“Non si voltò nemmeno a guardarmi. Aveva la voce impastata, forse per le birre che aveva bevuto, forse perché si stava addormentando, ma mi disse di arrangiarmi.”
“Un bel tipetto.”
“Mi arrabbiai molto quella volta. Non lo volli vedere per due settimane. Alla fine mi venne a cercare all'uscita della scuola... ci pensa, voleva farmi leggere la sua ultima poesia.” borbotto grattando una macchia rossa sul pantalone. E dire che questo è il completo buono.
“Le chiese mai scusa?”
“No. Queste erano sciocchezze che non lo toccavano. Indifferenza, troppa solitudine, non so cosa fosse, ma lui si stancava in fretta degli altri, e quando lui si stancava la faccenda era chiusa.” rispondo guardando fuori dalla finestra. Passando per il giardino ho visto un'aiuola piena di quelle che sembrano camelie, un tripudio di rosa e bianco degna del più lezioso abito da sposa. “Comunque non tutti i mali vengono per nuocere. Quei ritardi furono una scusa perfetta per farmi regalare il motorino”
La sua risata argentina riempie la stanza. Ora capisco perché gli uomini perdano la testa per lei anche quando sanno dei suoi precedenti mariti.
“Lei mi piace,” afferma, prendendo il pacchetto di sigarette accanto al vaso di viole, “ha preso il bene dalla stabilità con uno sconosciuto e dall'instabilità con suo padre.” tira fuori una sigaretta dal pacchetto e l'accende. Un tiro e una voluta di fumo di frappone fra noi. “Furba e approfittatrice, mi piace”
Avrei voluto ribattere, ma se lavori da tempo con persone che amano così tanto il controllo non puoi fare nulla se non concedere piccole vittorie. Dai al leone le bistecche piuttosto che il tuo braccio, o qualcosa di simile.
“Sbrighiamoci con l'intervista e torniamo alla nostra chiacchierata.” dice con tono autoritario prima di spegnere la sigaretta appena iniziata. Da come incrocia le lunghe gambe e appoggia le mani sulle ginocchia si vede che vuole dare un'impressione d'innocenza. “Cosa vogliono sapere i suoi lettori della morte di mio marito?”

   
 
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