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Autore: TheSun_is Shining    12/07/2015    1 recensioni
Molti ritengono l'adolescenza un periodo molto complicato per l'essere umano: egli è impegnato a scoprire se stesso, a costruire il proprio futuro, a pensare alla sua identità, ed è altamente modellabile dal mondo che lo circonda e, una ragazza come June Clark, di quindici anni, n'è l'esempio lampante: un'infanzia infelice, un'adolescenza distrutta da un blocco psicologico all'apparenza irreparabile, ma in tutto questo c'è anche l'alternarsi di momenti piacevoli, anche se molto pochi.
Nonostante ciò, June è una vera roccia, e troverà il coraggio di dare una svolta alla sua vita per sempre, con l'aiuto di persone molto speciali.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Un po' tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Dylan esce dalla mia camera e si chiude la porta dietro senza fare troppo rumore.

È notte fonda e io, pur essendo spossata, non riesco ad addormentarmi. Sto tremando e non riesco a calmarmi in nessun modo.

Sono stufa di tutto questo. Io non credo di aver fatto qualcosa di male per meritarmi certe violenze. Ora credo di essere abbastanza matura per cavarmela da sola, non ho più bisogno delle “cure” di un maniaco per sopravvivere. È arrivato il momento di dare una svolta a questa vita, sono ancora in tempo per migliorarla. Non sono mai stata più sicura di così, prima d’ora.

Mi alzo dal letto e, con un gesto fulmineo, sono già in piedi a cercare dei vestiti da indossare, rovistando nel mio cassetto. Tiro fuori una canotta a righe verticali, bianche e nere, e un pantaloncino in jeans. Mi allaccio le scarpe, un paio di Superga grigie, e inizio a ficcare più vestiti che posso in un borsone nero. Purtroppo, non potrò portare con me più dell’indispensabile.

Quando sono sicura di aver preso il necessario, apro la porta della mia stanza ed esco. Cammino cercando di fare meno rumore che posso ma, per mia fortuna, Dylan ha il sonno pesante.

Quando la mia mano si trova vicinissima alla maniglia della porta di casa, mi ricordo, a malincuore, di un particolare: Dylan, la sera, chiude la porta sempre a chiave. Butto la testa all’indietro dallo sconforto, riflettendo, cercando di ricordare il posto in cui nasconde le chiavi.

Sì, ora ricordo: nella sua stanza, nel cassetto del suo comodino.

La tensione e la paura di essere scoperta iniziano a salire e, respirando profondamente nel tentativo di calmarmi, mi avvicino alla sua stanza. Scorgo la sua immagine attraverso la porta socchiusa: i suoi capelli neri e unti sono completamente spalmati sulla sua fronte e sul cuscino, i suoi occhi azzurri ora sono pigramente chiusi. Apro il cassetto, tenendo molto delicatamente la piccola maniglia tra le dita e, lentamente, prendo le chiavi, ma mi fermo di scatto vedendo Dylan muoversi.

Spalanco gli occhi e divento immobile per qualche secondo. Sento il battito del mio cuore rimbombarmi in tutto il corpo, ed è talmente forte che temo di poterlo svegliare anche solo con esso.

Mentre prima era rivolto verso di me, si volta dall’altra parte, e mi sento subito molto più tranquilla.

Esco dalla sua stanza e infilo l’apposita chiave nella serratura. Questo semplice gesto mi permetterà di essere libera, e non mi sembra vero. Giro la chiave verso sinistra un paio di volte, prima di sorpassare l’ingresso e mettermi a correre.

Corro per un lungo tratto di strada, ma poi mi fermo e inizio semplicemente a camminare velocemente.

Mi rendo conto solo ora di non avere una meta precisa, e di non avere la più pallida idea di dove andare. Il panico inizia a prendere pian piano possesso di me.

Sono stata decisamente troppo impulsiva nello scappare via da casa. Ero talmente stufa ed arrabbiata che non ho tenuto in considerazione un posto dove andare.

Forse Andrew potrà darmi una mano: è arrivato il momento di vuotare il sacco, è il mio migliore amico e ha il diritto di sapere.

Domani mattina andrò da lui, di sicuro vorrà aiutarmi ma, il resto della nottata, mi tocca passarlo per strada. Devo solo allontanarmi il più possibile da casa.

Andrò in spiaggia: è abbastanza distante, e anche sicura.

Per distrarmi un po’ da quest’ansia costante che mi tormenta, mi infilo le cuffiette nelle orecchie e continuo a camminare verso la prima spiaggia dove potrò trascorrere la notte.

“I’m Eighteen”, con la voce graffiante di Alice Cooper, mi fa compagnia mentre mi slaccio le scarpe e affondo i miei piedi nudi nella sabbia fredda. Respiro a pieni polmoni la fresca brezza estiva che proviene dal mare, e finalmente posso godermi la sensazione di libertà che aspettavo di sentire da tre fottutissimi anni di violenze infinite. Tiro fuori dal borsone una coperta rossa e la stendo sulla sabbia, per poi caderci letteralmente sopra. Volgo il mio sguardo stanco al cielo stellato e sorrido, addormentandomi dopo pochi minuti.

. . .

. . .

. . .

. . .

. . .

< < Pensavi davvero che saresti riuscita a sfuggirmi? > > dice Dylan, tirandomi una sberla < < Sei una stupida > > e me ne tira un’altra, molto più forte.

Questo dolore l’ho provato talmente tante volte che quasi non lo sento più.

< < Io … > > provo a giustificarmi, sperando di riuscire a risparmiarmi altre sberle o cose simili, ma Dylan mi zittisce prendendomi per la gola.

< < Ti avevo detto cosa sarebbe successo se avessi tentato di scappare, e ora la pagherai cara > > un ghigno malefico domina sul suo viso, mettendomi una paura indescrivibile addosso.

Bisognerebbe viverla per capire cosa significa davvero.

Dylan afferra con rudezza la mia maglietta, strappandola come un semplice foglio di carta. Inizio a dimenarmi, ad urlare, come se davvero servisse a qualcosa. Ed è quando Dylan inizia a sfilarmi anche i jeans che mi sveglio di soprassalto, emettendo un piccolo grido.

Cazzo, solo un incubo, eppure sembrava così maledettamente reale …

Mi passo la mano sulla fronte e sospiro. Poteva benissimo essere una sorta di ricordo.

Do uno sguardo al cielo, ma lo sposto subito per via del forte sole californiano che mi fa bruciare gli occhi. Oggi devo andare a casa di Andrew, meglio che mi sbrighi, invece di perdere altro tempo qui, magari rischiando un’insolazione. Ieri notte ho preso duecento dollari dal portafogli di Dylan: di sicuro mi basteranno per un po’.

Dopo aver messo la coperta in borsa ed essermi infilata le scarpe, inizio ad avviarmi verso il palazzo dove abita il mio amico.

Dopo aver percorso un bel po’ di strada con lo sguardo rivolto verso il basso, mi decido a guardare avanti, e non riesco a credere ai miei stessi occhi.

Dylan.

La sua visione si fa sobbalzare, e inizio automaticamente a correre nella direzione opposta a lui. In un primo momento, credo che lui non mi abbia visto, ma poi sento i suoi passi furiosi dietro di me, e sento anche la sua voce che mi urla qualcosa.

Riesco a seminarlo per un po’, ma un dislivello tra due mattoni che formano il marciapiede ferma la mia corsa e mi ritrovo stesa per terra con il ginocchio destro tra le mani, da cui fuoriesce una grande quantità di sangue. No, non ci credo, non può essere vero.

Cerco di alzarmi e riprendere la corsa, ma non ce la faccio, e continuo ad accasciarmi al suolo più e più volte, fino allo sfinimento totale.

Mi sento quasi svenire, quando vedo qualcuno correre verso di me, ma non riesco a capire chi sia, tanto la mia vista è annebbiata. Di certo non è Dylan.

< < Ehi! > > esclama questo “qualcuno”.

Non riesco a vedere nulla, e i raggi di sole non fanno altro che peggiorare la situazione. Forse è un ragazzo, forse è un uomo adulto, non lo so, so solo che mi sta scuotendo per le spalle nel tentativo di farmi riprendere.

Non riesco ancora a distinguere il suo volto.

< < Aiutami, mi stanno inseguendo > > lo supplico con un filo di voce.

Lui non fa altre domande, su chi mi stia inseguendo e che cosa voglia farmi, e mi solleva da terra prendendomi per le braccia.

Sento il calore del suo braccio intorno ai miei fianchi, che mi sorregge mentre cammina in modo incredibilmente veloce. Sembra quasi che da un momento all’altro debba mettersi a correre.

Cerco di camminare con il suo stesso ritmo, ma la mia gamba sembra avere intenzioni ben diverse dalle mie.

Dopo un po’, arriviamo alla sua auto, che apre con un piccolo telecomando attaccato ad un mazzo di chiavi. Mi fa sedere sul sedile anteriore e lui si siede immediatamente accanto a me, infilando la chiave dell’auto nella serratura accanto al volante.

Siamo in strada. Non so dove siamo diretti, e sinceramente non mi importa affatto.

Sono in macchina con un perfetto sconosciuto che mi sta portando non so dove, e la cosa non mi preoccupa, mentre in realtà dovrebbe. Mi chiedo solo chi sia davvero e quale sia la sua storia, il suo passato. Che cosa lo ha spinto ad aiutarmi a rialzarmi dalla brutta caduta che ho preso poco fa? Quale sentimento è scaturito in lui fino a spingerlo a compiere questa azione?

Finalmente ho l’opportunità di guardarlo bene: sì, è un ragazzo, di sicuro non ha più di venticinque anni e, Dio mio, è dannatamente bello. Ha i capelli di una castano molto scuro, un po’ lunghi e molto voluminosi; i suoi occhi color nocciola sono contornati da un filo di matita nera, sia sulle palpebre che nella congiuntiva; il suo naso è piccolo e un po’ all’insù, e ha un piercing alla narice sinistra; le sue labbra sono molto sottili e il suo viso è quasi completamente coperto da tante, tantissime lentiggini, e si distingue anche un po’ di barba sulle guance e sul mento. Che sia la perfezione scesa in terra?

< < Come stai? > > mi chiede, evidentemente allarmato quando vede il mio ginocchio sinistro insanguinato.

< < Potrebbe andare peggio > > dico, asciugandomi due lacrime che escono dai miei occhi cerulei < < Grazie > >.

< < Ma che cosa è successo? Chi ti stava inseguendo? > > domanda, seguendo una curva a destra, e ignorando completamente la mia gratitudine.

< < È una storia lunga > > taglio corto.

 

Dopo circa dieci minuti di strada, il ragazzo parcheggia e scende dall’auto. Dopo di che, apre lo sportello e mi aiuta a scendere mettendo le sue braccia completamente tatuate intorno alle mie spalle. Rimane in questa posizione fin quando non entriamo nel  portone di un palazzo, nel pieno centro di Huntington Beach.

< < Come ti chiami? > > mi domanda lui, spingendo il tasto dell’ascensore.

Un rumore assordante mi fa accorgere dei movimenti di quest’ultimo, che pian piano scende verso il piano terra, dove siamo adesso.

< < June > > rispondo debolmente.

< < Io sono Brian > > m risponde, porgendomi la mano, che io stringo con la stessa forza con cui lui stringe la mia.

L’ascensore arriva e le sue porte si aprono in due direzioni opposte. Sono arrugginite, e fanno un rumore parecchio fastidioso quando si muovono.

< < Non so come sarebbe finita se tu non mi avessi aiutato > > dico, entrando nell’ascensore con Brian che mi segue e preme il pulsante del quinto piano.

< < Non preoccuparti > > si inumidisce le labbra con la lingua.

Arriviamo al quinto piano, dove ci sono tre ingressi a tre appartamenti diversi. Brian prende le chiavi dalla tasca e apre la terza porta verso destra.

Il suo appartamento è molto più piccolo di quel che credevo, ma è tenuto in buone condizioni.

Brian mi fa accomodare sul divano, nel salotto.

< < Ora è meglio che dia un’occhiata a quella ferita > > dice, allontanandosi.

Apre una porta nel corridoio, il bagno, e si mette a cercare qualcosa in tutti gli scaffali e i mobili. A volte bestemmia, perché non riesce a trovare quello che cerca, e io ridacchio a bassa voce.

Scruto con attenzione il ginocchio: il bruciore diventa fastidiosissimo solo quando muovo la gamba, per il resto è più che sopportabile.

Mentre Brian continua a rovistare ovunque nel bagno, io approfitto per guardarmi un po’ intorno. È una stanza abbastanza grande, con un tavolo di legno al centro, una scrivania disordinata appoggiata al muro, quattro chitarre elettriche appese alla parete adiacente a me e una classica appesa alla parete di fronte a me, dietro di me c’è la porta della cucina e accanto c’è un balcone. Sono proprio curiosa di vedere le altre stanza della casa, ma non credo che sarebbe giusto alzarmi e iniziare a girovagare per la casa guardandomi intorno, anche perché sono nelle condizioni adatte per farlo.

Brian torna nel salotto, dove sono seduta, e posa sul divano una scatola di metallo bianca, con una croce rossa disegnata. La apre, e ne tira fuori qualche pezzo di ovatta e una bottiglietta di liquido disinfettante verde e limpido

Inumidisce un batuffolo di cotone con qualche goccia verde e me lo passa sul ginocchio. Sussulto, sentendo del bruciore, ma a Brian non sembra importare più di tanto; mi volge solo un breve sguardo, senza un’espressione in particolare, come per dirmi “o sopporti il bruciore, o ti becchi un’infezione”.

Alzo gli occhi al cielo, mentre Brian continua a disinfettarmi il taglio e rimuovere il sangue ormai asciutto dal mio ginocchio. Ma, ad un tratto, Brian fa una faccia strana, preoccupata, allarmata, non capisco bene che cosa voglia esprimere.

< < Jane … > > continua a fissare il taglio.

< < Il mio nome è June > > lo correggo < < Cosa c’è? > > inizio ad allarmarmi anch’io, e inizio a riguardarmi il ginocchio.

< < È molto più profonda del previsto, credo che tu abbia bisogno dei punti > > annuncia, sconfortato, e finalmente mi guarda < < e quindi dobbiamo andare in ospedale > >.

Lo immaginavo, ma non sono preoccupata per questo: se mi chiedono spiegazioni, dovrò raccontare cosa è successo, e riavrò la mia vendetta su Dylan.

< < Bene, allora andiamo > > mi alzo lentamente dal divano e mi avvicino alla porta d’ingresso dell’appartamento.

Brian mi guarda in modo strano, poiché ha di sicuro notato una nota di felicità nella mia voce. Di sicuro  non si sarebbe mai aspettato che sarei stata contenta di andare in ospedale per farmi mettere i punti al ginocchio, ma non può capire.

 

Brian mi aiuta a sedermi in macchina e sussulto quando il mio braccio destro sfiora il pezzo di metallo bollente della cintura di sicurezza, riscaldato dal sole. Il ragazzo entra in macchina e siamo già in strada in meno di due minuti.

< < Ti fa male? > > mi chiede dando un fuggevole sguardo al taglio sul ginocchio sinistro.

Scuoto la testa in segno di negazione, e lui torna a guardare attentamente la strada.

Quando eravamo a casa sua, ho fatto caso ai suoi occhi che spesso ricadevano sulle mie braccia, e anche il mio viso: i miei arti superiori sono quasi completamente ricoperti di lividi, cicatrici e tagli in via di guarigione, e ho una cicatrice evidente sulla guancia destra, causatami da Dylan mentre mi minacciava con un coltello. Mi viene la pelle d’oca ogni volta che ci ripenso.

Mi stupisco che non abbia fatto domande. Evidentemente non è il tipo che mette il naso negli affari altrui. Oppure ha capito tutto. L’idea che un ragazzo qualunque conosca la mia storia dopo avermi solo guardata mi fa un effetto molto strano, mi sento profondamente a disagio. Insomma, è umiliante.

 

Dopo circa un quarto d’ora di silenzio imbarazzante, Brian svolta a sinistra all’improvviso, parcheggia con fare fin troppo esperto e spegne il motore girando la chiave.

< < Attenta > > mi avverte, tenendomi stretta per le braccia, ma facendo comunque attenzione a non toccare i lividi per evitare di farmi male.

Quando entriamo nel pronto soccorso, la situazione cambia radicalmente: donne e uomini seduti nella sala d’attesa che mi fissano insistentemente e commentano a bassa voce, bambini di neanche sette anni che mi fissano il taglio sulla gamba e quelle che loro chiamano “macchie viola” sulle braccia. È la stessa situazione di prima, ma adesso è quasi angosciante: ho come la sensazione che tutta gente qui conosca per filo e per segno la mia storia, il mio passato, e l’umiliazione che sto provando adesso sale fino alle stelle.

< < Buongiorno > > dice Brian con tono serio, facendo distrarre l’infermiere seduto alla scrivania.

< < Salve > > risponde quest’ultimo.

Brian inizia a spiegare la situazione.

< < La ragazza è caduta e si è fatta un taglio al ginocchio; l’ho disinfettato, ma poi mi sono accorto della profondità, e ho capito che ci volevano dei punti > >.

< < Come si chiama? > > chiede l’infermiere dal camice verde acceso, cliccando un’icona sullo schermo del computer.

< < June … June Clark > > dico, evidentemente troppo a bassa voce per farmi comprendere da lui.

< < Tesoro, se parli così a bassa voce non ti sente nemmeno tuo padre > > dice lui, indicando Brian con un cenno della testa.

< < Non sono suo padre, ho ventuno anni, diamine! > > dice Brian, irritato.

< < Non mi interessa chi è lei o quanti anni ha, voglio sapere il nome della ragazzina! > > alza la voce, e il suo atteggiamento diventa sempre più odioso.

< < June Clark! Hai capito adesso? > > questa volta urlo, e nel pronto soccorso cala il silenzio.

L’infermiere mi guarda stupito.

< < E non sono una ragazzina, ho quindici anni > > aggiungo, andandomi a sedere su una sedia della sala d’aspetto, fulminando con lo sguardo chiunque osi guardarmi.

Brian da le ultime informazioni utili, e poi mi raggiunge, sedendosi accanto a me, mentre mi guarda in cagnesco.

< < Dovevi necessariamente urlargli contro? > > mi rimprovera.

< < Certo > > rispondo.

Neanche io mi facevo così sfacciata, e ora che me ne sto rendendo conto, inizio ad amare questo lato di me.

< < Invece no, potevi risparmiartelo > >.

< < Potevo, ma ho deciso di non farlo, qualcosa in contrario? > >.

< < Vuoi dire oltre alla figura di merda che mi hai fatto fare davanti a tutto il pronto soccorso? > >.

< < Semmai la figura di merda l’ho fatta io, e sinceramente non me ne può fregar di meno! > >.

Brian sembra volermi rispondere, ma ci rinuncia, sospirando e guardando in un’altra direzione.

Sbuffo e mi guardo la gamba, che intanto ha ripreso a sanguinare. Non credevo che una caduta come quella potesse provocare una ferita così profonda, anche se lo spigolo che ho urtato era parecchio tagliente.

< < Quanto tempo dovremo aspettare? > > chiedo sbuffando a Brian.

Lui gira lo sguardo verso di me. I suoi occhi da vicino sembrano molto più stanchi.

< < Non ne ho idea, ma spero al più presto > >.

< < Già > >.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Ecco qua il primo capitolo della mi prima ff sugli Avenged! Perdonatemi per la sua lunghezza spropositata, ma avevo molte idee e soprattutto parecchie cose da scrivere! Spero vivamente che vi piaccia e che non la troviate troppo pensante, tenendo conto delle tematiche parecchio delicate che vengono affrontate.

Detto questo, non voglio rompervi eccessivamente le scatole, e concludo dicendo che aggiornerò il prima possibile! Un bacio.

-Jimbo

 

  
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