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Autore: xbutterflyHaroldx    12/07/2015    1 recensioni
"L'amore è così sopravvalutato: ama insinuarsi nella mente delle persone, nutrirsi delle loro più grandi aspettative e delle peggiori insicurezze, rispetto alla persona amata e a sé stessi, per abbandonarle quasi sempre in un mare infinito di tristezza, disappunto e delusione. Perché lasciarsi coinvolgere in qualcosa di tanto devastante sotto infiniti punti di vista, se si è già consapevoli in partenza della sconfitta?
Lo guardai, e la risposta venne da sé. Lui era la risposta. Il modo in cui l'alba cominciava ad illuminare il suo volto ancora addormentato, i folti e lunghi capelli castani che gli incorniciavano il viso, la sua testa sul mio petto e il suo respiro in perfetta armonia con i battiti del mio cuore. Lui, era tutto ciò per cui avrei sempre rischiato: non il cantante famoso di una band altrettanto famosa; non il ragazzo proveniente dal Cheshire; non il rubacuori in prima pagina sulle riviste di gossip. Lui. Gli occhi che in quel momento riprendevano vita e trasformavano in pienezza e gioia, il sentore di una sconfitta inevitabile."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«Alzati.»

«Perché mai dovrei farlo?»

«Perché me l'hai promesso. Te lo sei già dimenticato? Tre giorni a settimana, a partire da oggi!»

 

La voce di Samantha mi risuonò nell'orecchio attraverso il cellulare, stridula e squillante, costringendomi a strizzare gli occhi e a rigirarmi tra le lenzuola, nel buio della mia stanza. La finestra aperta lasciava penetrare la luce della luna, ancora alta e vigorosa in cielo, permettendole di illuminare gli scatoloni e gli effetti personali sparsi su di ogni superficie disponibile, rimasti lì dopo il trasloco. Stavo sognando? A chi verrebbe mai in mente di chiamare una persona nel bel mezzo della notte? Ovviamente la risposta era soltanto una e portava il nome di mia cugina.

Mi strofinai gli occhi e, sporgendomi verso il comò, l'orologio mi suggerì l'orario: quattro e undici del mattino. Un'attiva e totalmente sveglia Sam continuava a blaterare cose senza senso e probabilmente di lì a pochi minuti le avrei chiuso il telefono in faccia, liquidandola con la prima scusa che il mio cervello, ancora addormentato, riuscisse a propinarmi; ma prima dovevo capire quale fosse il motivo della chiamata. Mi ci volle qualche secondo e un paio di sbadigli per accendere la luce e capire a cosa si stesse riferendo, tra parole troppo confuse e frettolose: la “terapia in attesa dell'alba”.

Stavo meglio prima di ricordarlo.

 

«Dimmi che non è vero» mugugnai, decisamente troppo assonnata per ricordarmi di non pronunciare tale pensiero ad alta voce.

«E' verissimo, e se non ti alzi in questo preciso istante, vengo lì e ti faccio pentire di non averlo fatto da sola. Devo ricordarti che ho una copia delle tue chiavi di casa?»

«No, grazie. Mi pento già abbastanza di avertele date.»

«L'hai fatto perché mi vuoi bene e non vuoi vivere nel terrore che un giorno, mentre sei in bagno, una crisi ti colpisca, facendoti cadere e battere la testa, e io non possa raggiungerti per aiutarti perché sono chiusa fuori.»

 

Le parole le sfuggirono dalle labbra prima ancora che potesse rendersene conto, e quando lo fece, fu troppo tardi; ero sveglia.

Fissai il soffitto, stesa sulla schiena, rimuginando in silenzio su ciò che mia cugina, la mia migliore amica, probabilmente la persona più importante della mia vita dopo mia madre, aveva appena detto; sulla verità delle sue parole. Ero malata; e a tre anni dal momento in cui avevo scoperto di esserlo, l'unica persona ad accettarlo e a riuscire a convivere con la certezza che non vi fosse ancora una cura per il Parkinson rimanevo soltanto io.

Tutto era iniziato all'improvviso, e in modo ugualmente improvviso si era trasformato in un incubo: un week-end di relax, da passare in una casa a soli pochi metri da una splendida spiaggia sabbiosa del sud, a prendere il sole, parlare, ascoltare musica e passeggiare tranquillamente in riva al mare, era terminato al pronto soccorso. Un attimo prima ero seduta di fronte a Sam, intenta a fissare le onde che si infrangevano sul bagnasciuga e sorseggiare thé freddo, nell'afa di agosto; un attimo dopo il mio corpo aveva smesso di rispondere agli impulsi del cervello. Le mani non riuscivano a smettere di tremare e il bicchiere di vetro scivolò via dalla mia presa, infrangendosi contro il pavimento e distruggendosi in mille pezzi. I tremori si diffusero: ogni singola fibra del mio corpo sembrava scossa da ritmiche ondate di dolore vibrante che si propagava dall'interno, come una macchia pulsante e bollente, che mi faceva venire i brividi.

Prima che potessi rendermene conto mi ritrovai stesa su di un letto di ospedale, sotto le leggere carezze di mia cugina, che occupava una sedia in prossimità del punto in cui ero raggomitolata. Non riuscivo a muovermi, a ricordare cosa fosse successo, ne, tanto meno, a trovare la forza di parlare e chiedere perché ci trovassimo lì. Non riuscivo a capire come mi sentissi; non riuscivo a fidarmi del mio corpo, e la frustrazione aumentava con l'aumentare del numero di medici che mi fece visita nei diciassette giorni successivi. Ognuno di loro aveva le proprie supposizioni, ma nessuno riusciva a farsi avanti proponendo una diagnosi certa; il che li costrinse a dimettermi, poiché trattenermi non avrebbe avuto senso in quanto apparentemente le mie condizioni di salute risultavano essere ottimali.

Mia madre, però, non prese bene il rilascio. In realtà non prese bene anche solo l'ipotesi che una malattia qualsiasi potesse scuotere la mia vita.

Se non l'avessi provato sulla mia pelle, probabilmente non sarei mai riuscita ad affermarlo, ma l'istinto di un genitore supera realmente ogni tipo di logica razionale.

Dopo il ricovero, mi convinse a stare da lei per un po', a prendermi una pausa dall'università e dalla vita frenetica che conducevo a Roma, e a distanza di quattro settimane dalla prima crisi, non se ne presentarono mai altre; lei, tuttavia, continuava a non darsi pace: si svegliava prima per assicurarsi che dormissi tranquilla, non smetteva di fare ricerche, andava a letto ad orari improbabili per guidarmi anche nei gesti più stupidi, nonostante non ne avessi alcun bisogno e riuscissi a muovermi perfettamente, proprio come avevo sempre fatto prima dell'incidente.

Nei sei mesi successivi fece in modo che fossi sottoposta ad esami di ogni genere, rimbalzando da un ospedale all'altro, fin quando non ci fu più nulla da esaminare: ci fu il periodo in cui il mondo era convinto che avessi la sifilide; un altro in cui pensavano che fossi semplicemente depressa; ma le settimane più brutte e spaventose della mia vita furono probabilmente quelle in cui mi venne diagnosticato il tumore al cervello. Mia madre, mio padre, Sam... Nessuno riusciva a guardarmi negli occhi per più di dieci secondi di fila senza scoppiare a piangere, e a me non restava altro da fare che consolarli, nonostante il mio unico desiderio fosse quello di tornare alla vita che conducevo prima che quell'inferno avesse inizio.

Fortunatamente, non dovetti aspettare poi così tanto perché ciò accadesse. Quando finalmente riuscii a convincere mia madre ad andare avanti, e a liberarmi dal peso delle lacrime di tutti, decisi di sottopormi all'unico test che fino ad allora non avevo provato e che era sfuggito ai medici. Tornai a Roma, ricoverandomi in un ospedale in città, e il primario del reparto di neurologia fu “lieto” di annunciarmi che il mio tumore al cervello, in realtà, non era altro che morbo di Parkinson.

A quel punto non seppi più come sentirmi: avrei dovuto urlare dalla felicità e gioire perchè la mia vita sarebbe continuata probabilmente per molto tempo ancora; ma a quale prezzo?

Il primario del reparto mi consigliò di parlare con altri malati affetti dalla stessa sindrome, seguire seminari ed entrare a contatto con persone che potessero fornirmi le informazioni che mi servivano per capire a cosa stessi andando incontro e soprattutto come gestire una cosa così grande, e allo stesso tempo così sconosciuta. Seguii il suo consiglio, ma l'impatto con la realtà fu tragicamente doloroso: ebbi la possibilità di incontrare persone all'ultimo stadio della malattia che non riuscivano ad attraversare da sole neanche azioni quotidiane come versare dell'acqua in un bicchiere o infilare la chiave nella serratura. Alcuni di loro erano estremamente coraggiosi, capaci di grandi cose, tranne che di lasciarsi abbattere da qualcosa con cui potevano soltanto convivere; altri, invece, non riuscivano a nascondere il dolore provocato dalla consapevolezza di avere costantemente bisogno di qualcuno che li aiutasse, che si rifletteva negli occhi dei loro cari, i cui racconti riuscivano ogni volta ad ammutolirmi.

Fu un periodo strano; un periodo in cui continuavo ancora, inconsciamente, a tagliare fuori tutto ciò che vedevo o che sentivo. Non riuscivo a credere che un giorno sarei potuta diventare come una delle donne di mezza età scosse da vigorosi tremori che animavano i numerosi congressi a cui avevo partecipato, ma lentamente la paura cominciò a mangiarmi viva. Iniziai ad essere ossessionata dal desiderio di tenere a freno i leggeri tremolii che, ad intermittenza, colpivano le dita delle mani o dei piedi; quando succedeva, mi ritrovavo a stringere i pugni per periodi di tempo che mi sembravano infiniti o a scappare via da locali, università e supermercati. In altre parole, avevo cominciato ad annullarmi: la mia personalità, le mie passioni, il mio modo di interagire con gli altri; ogni singolo aspetto che fino ad allora mi aveva caratterizzato, era scomparso con il comparire della malattia.

In altre parole, non avevo più una vita.

Respiravo, ma non vivevo.

Non riuscivo a pensare a qualcosa o a concedermi un'uscita con qualcuno, senza pensare:”Ce la farò a superare la serata tranquillamente?” “Che succede se non ce la faccio?” “Non posso rischiare di crollare da un momento all'altro, davanti a tutti”. Così non uscivo. Mi chiudevo nel mio mondo, sentendomi ogni giorno più sola, oltre che stanca, ed inevitabilmente più malata di quanto non fossi; finchè Samantha, l'altra metà di me che in quel momento sembrava essersi ammutolita dall'altra parte del telefono, non mi tirò fuori dal baratro della solitudine e dal guscio di paure, dolore e angoscia che mi ero costruita. Mi prese per mano e giurammo solennemente che niente si sarebbe mai messo fra noi; che ci saremmo sempre state l'una per l'altra e che ci saremmo sempre spronate a vicenda, affinché neanche per un secondo la sensazione di smarrimento potesse raggiungerci.

 

«Sei ancora lì?» domandò timidamente, riportandomi alla realtà; senza aspettare che rispondessi continuò. «Non volevo dirlo, lo sai. Ti prego, non cambiare idea, me l'hai promesso. Possiamo rallentarlo, ne abbiamo già parlato; in più ho scoperto che...»

«Okay, va bene, mi hai convinta. Ti prego, mi hai già fatto venire mal di testa...» dissi, sbuffando e stropicciandomi gli occhi. La sua risatina euforica non si fece aspettare, così continuai. «Mi aspetto almeno che tu mi faccia trovare un frullato ai frutti di bosco ghiacciato al mio arrivo!»

«Con mirtilli in abbondanza!» ridacchiò, e senza neanche salutarmi, riagganciò.

 

Chiusi la chiamata, cercando in me la forza di alzarmi dal letto.

Qualche giorno prima Sam aveva scoperto che i principali sintomi che contraddistinguono il Parkinson, ovvero rallentamento motorio, scarsa coordinazione ed equilibrio, e rigidità, potevano essere contrastati attraverso un processo chiamato fisiochinesiterapia: essenzialmente, mentre il mio corpo si abituava a movimenti sregolati e non naturali, il nostro intento sarebbe stato quello di riallenarlo, per prevenire patologie potenzialmente dolorose che avrebbero potuto gravare sulla spina dorsale, e in generale sull'apparato osseo, in un futuro prossimo. L'aspetto che più mi piaceva, riguardava il modo in cui, attraverso questo programma, avrei potuto mantenere la mia autonomia ancora per un po', mantenendo il corpo allenato e ritardando il momento in cui avrei iniziato a necessitare costantemente sostegno.

Il piano era camminare a passo svelto fino al parco di Villa Pamphili, dove, al solito posto, avrei incontrato mia cugina e insieme avremmo corso per i sei chilometri che delineano il parco. Dopo la corsa, ci saremmo concesse una pausa, condiviso un gelato, prima di tornare indietro.

 

Non appena arrivai, il sorriso di mia cugina mi accolse calorosamente, tanto da farmi quasi dimenticare il sonno interrotto e tutto il mix di emozioni che avevano caratterizzato il mio risveglio: la stavo rendendo felice, ed inevitabilmente la cosa faceva felice anche me.

 

«Non vedo l'ora d'iniziare!» disse, allargando le braccia. Mi tuffai nel suo abbraccio e la “terapia in attesa dell'alba” ebbe ufficialmente inizio alle 5:27 di una fredda mattina d'aprile.

   
 
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