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Autore: Sea    13/07/2015    4 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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III




Aveva 23 anni e tutti i giorni desiderava che quella vita terminasse. Non avrebbe mai avuto il coraggio di suicidarsi o roba simile, per questo magari la morte avrebbe potuto coglierlo per caso. Magari qualcuno lo avrebbe investito, il fatto che girasse in bici anche di notte era a suo favore, ma non succedeva mai.
Lui non era così. Non era mai stato taciturno, tantomeno depresso. Ricordava tempi in cui usciva con gli amici e studiava per il college, tempi in cui qualcuno lo amava e gli dava baci sotto il portico. Ricordava sapori di labbra e pelli morbide, brindisi a capodanno e cene di Natale. In qualche modo era riuscito a non trasformare quelle immagini in rimpianti, non aveva fantasmi che lo perseguitavano, solo demoni che lo accompagnavano ogni giorno.
Anche quella mattina, si alzò dal letto e si guardò allo specchio: il naso cominciava a sgonfiarsi, ma il livido era ancora visibile. Il dolore allo sterno era costante.
Si passò una mano sul petto, quasi ad incoraggiarsi e il buio che c’era ancora fuori non lo invogliava a restare a casa, come sarebbe successo a chiunque altro.
Mancavano 20 giorni a Natale e lui non vedeva l’ora che passasse.
Il gelo del mattino sembrò la medicina migliore per il suo viso. Non era potuto andare a trovare sua nonna per quell’aspetto e insieme alla sua mancanza, sentiva anche il coraggio di presentarsi all’Hawking svanire di giorno in giorno. Sfrecciando sulla bicicletta, ci passò proprio davanti e l’annuncio per le band era ancora lì. Tirò via dritto, impaurito persino dal pensiero di essere sbattuto fuori dal locale.
Quella mattina era il suo turno di andare al rifugio per animali a riempire le ciotole. Arrivò davanti a quel triste e sporco edificio che il sole stava appena spuntando. Le scritte fatte dai ragazzini infestavano tutto il muro in mattoni rossi, ma almeno davano un tocco di allegria a quel luogo, già abbastanza lugubre così com’era. Erano rimasti in pochi a curarsi ancora degli animali, nonostante si trattasse per lo più di cani e gatti. Tirò la sua copia delle chiavi fuori dalla tasca e fece scattare la vecchia serratura. Di solito quando entrava faceva un fischio, come per dire “sono tornato” ed effettivamente quando metteva piede lì, un po’ si sentiva a casa. Immediatamente, i cani presero ad abbaiare e a scodinzolare dietro i loro steccati. Accarezzò qualcuno di sfuggita, rivedendo in quelle creature qualcosa che sentiva di condividere: l’essere spaesati. Confusi dall’assenza di entità amorevole, dall’abbandono, dal maltrattamento. Prese il sacchetto del cibo per cani e cominciò il suo giro, riempiendo le ciotole fino all’orlo. Qualcuno ancora si affannava a leccargli il viso e a tentare un abbraccio e non potè che ridere per quell’irrequieto affetto, autentico e gratuito. Carezzò le orecchie di un vecchio beagle, troppo assonnato per alzarsi. Quando fu il turno dei gatti, lo scenario non fu certo lo stesso, ma per qualche motivo amava quelle creature. Come prima, prese il sacchetto e cominciò il giro. Qualcuno di loro, i nuovi e i piccoli, si precipitò a fargli le fusa, quasi impedendogli di avanzare nelle sue Vans scure. Tenne per ultimo il suo amico, un giovane gatto arancione che sembrava il suo riflesso. Era un tipo pigro, indifferente e freddo, ma avevano un legame particolare, riusciva a percepirlo dagli sguardi che si scambiavano. Era come se lui e il gatto fossero la stessa persona. Lo aveva chiamato Paw, sì, molto originale per un gatto, ma era stato il primo nome che gli era venuto in mente. Se ne stette lì a guardarlo mangiare, piegato sulle gambe come quando era bambino. Guardava il gatto e poi guardava il suo riflesso nel vetro della finestra: quando lo aveva trovato, sua madre era appena morta e Paw era stato seduto sul suo grembo per 5 ore, dietro un vicolo; era solo un cucciolo, ma in quel momento fu come se fosse suo fratello, anche lui aveva perso ogni cosa e – come si dice – mal comune, mezzo gaudio. Non se ne liberò per giorni e poi lo portò lì. Ogni settimana degli ultimi 5 anni, che ci fosse il sole, la pioggia o la neve, lui andava lì e si prendeva cura dei suoi “fratelli”.
Paw si allontanò dalla ciotola vuota e andò a sedersi sulla stoffa tesa del suo jeans, tra le sue gambe. In un certo senso, si erano salvati la vita a vicenda.
Rimase lì per un po’, a farsi coccolare dai gattini dell’ultima cucciolata che giravano liberi per la stanza ancora buia, ma alle 8:00 dovette alzarsi e andare via, non prima di aver dato una pulita alle lettiere e al disordine. Fece un grattino a Paw e richiuse la porta.
Quella mattina non nevicava, ma la neve era rimasta intatta ai bordi delle strade.
Il vapore gli usciva anche dal naso, ma nulla lo disturbava di più delle mani congelate. Lungo le strade senza buche, lasciava spesso andare il manubrio per infilare le dita in tasca: Jef si era preso il suo ultimo paio di guanti il giorno prima e non li aveva più avuti indietro.
La sua testa rossa sfrecciò per le strade popolate e girò sulla strada curata della biblioteca, percorrendo l’ultimo tratto di asfalto sotto gli alberi alti e spogli. Lasciò la bici nel retro ed andò ad aprire la porta principale: sperò che quella mattina passasse in fretta, perché aveva intenzione di presentarsi all’Hawking. Qualcosa gli diceva che sarebbe rimasto sorpreso.
 
Ovviamente, si era solo illuso. Quando era entrato nel locale, durante le prime ore di apertura, si era limitato a dire che era lì per l’annuncio ed il cameriere, dopo averlo guardato dalla testa ai piedi, andò a chiamare il proprietario. L’uomo di cui conosceva già l’aspetto non sembrò riconoscerlo, ma sembrò elaborare lo stesso pregiudizio che aveva formulato la prima volta che si era presentato lì. Lo vide squadrarlo fino alla punta dei capelli, senza escludere un’attenta analisi dei suoi lividi. Era, in un certo senso, ovvio che il tizio si facesse due domande sul suo conto, vedendolo conciato il quel modo. Se il locale fosse stato suo, non ci avrebbe pensato troppo ad eliminare il possibile rischio di sfasciare le panche in legno intarsiato, il bancone lucido in stile tradizionale e le lampade fioche originali. Tuttavia, avrebbe gradito che la gente fosse meno diffidente nei suoi confronti.
  • Come mai ti sei presentato? – la sua voce era grossa e piena.
  • Per-Perché ho visto l’annuncio, signore. – rispose, tentando di sembrare normale.
  • Tutto qui? – fece quello, come se si aspettasse una risposta diversa.
  • Mi hanno detto che farei al caso suo. – e si strinse nelle spalle.
  • Davvero? Oh, beh… - e si guardò intorno, come se cercasse qualcuno, ma poi tornò a prestargli attenzione. – Cosa suoni?
  • La chitarra, signore. – e andò a prenderla dall’altro lato della stanza, dove l’aveva lasciata.
Tirò lo strumento fuori dalla custodia, e cominciò a suonare qualcosa. Si sentì quasi in imbarazzo ad essere studiato da quell’uomo e dalla metà del personale, soprattutto perché stava cantando qualcosa di suo. Si passò una mano tra i capelli, nervoso per tutta quell’attenzione e pregò che le sue dita non facessero cilecca proprio ora che il proprietario dell’Hawking lo stava ascoltando.
  • Basta così, ragazzo. – lo interruppe di colpo. – Francamente non so se sei adatto a questo posto, ma se vuoi posso tenerti in considerazione nel caso in cui un altro gruppo dovesse darmi buca.
  • Oh. Va bene.
Doveva aspettarselo. Era stato uno stupido a cantare quella sua canzone, doveva fargli sentire la cover di qualche pezzo forte e conquistarselo, ma chi sa per quale motivo insisteva tanto a far sentire i suoi pezzi personali. Si alzò dal suo posto e scrisse il suo numero di cellulare sul pezzo di carta che gli porgeva il proprietario. Dopo avergli stretto la mano, rimise il fodero in spalla e uscì dalla porta. Non era rimasto deluso, poiché in realtà non aveva riposto alcuna speranza in quel colloquio, ma non potè fare a meno di chiedersi chi fosse stato a lasciargli quel biglietto, chi mai avesse creduto che lo avrebbero assunto.
Sapeva che non avrebbe mai svelato quel mistero, così decise di mettersi l’anima in pace e ignorare quella storia. Col viso rivolto al cielo, scese gli scalini di ingresso e si diresse a casa.
Quella città in qualche modo lo soffocava. Era sempre più piccola e lui si sentiva sempre più giudicato, additato dai perfetti sconosciuti come quello “strano”. Lo vedeva sui volti della gente in biblioteca o alla caffetteria o nei locali in cui ogni tanto suonava. I suoi vecchi amici gli avevano voltato le spalle quando Jef era entrato nella sua vita e quando lo vedevano per strada lo evitavano, ma non riusciva ad odiarli. Era troppo rassegnato alla sua situazione, per riuscirci.
Così, ancora una volta, non ebbe una scusa per restare fuori e oltrepassò il cancello di casa sua, sperando che Ben non avesse già aperto la bottiglia.
 
Dopo quel fallimento all’Hawking, quella mattina in biblioteca sembrò particolarmente interessante. Studiò i volti di tutte le ragazze sedute ai tavoli, ma non sorprese mai nessuno a guardarlo o roba simile. Moriva dalla voglia di sapere chi tra quelle persone si era preso il disturbo di scrivergli un biglietto, ma non aveva ancora molto tempo, poiché quel giorno aveva la mezza giornata e a breve avrebbe dovuto chiudere. Quando suonò la campana che annunciava la chiusura, guardò bene tutte le ragazze che tornavano a restituire i libri prima di andar via e nessuna di loro sembrò volergli comunicare qualcosa. Quando anche l’ultima fu fuori, si sentì ridicolo. Stava per andare via, ma qualcuno entrò di nuovo dalla porta.
Era quella ragazza, quella che si era arrampicata sugli scaffali.
La vide entrare un po’ spaesata dall’assenza di persone, avvolta nel suo parka troppo grande.
Aveva un cappello morbido in testa, coperto di neve. Puntò gli occhi su di lui.
  • Scusa, forse stavi chiudendo.
  • Ehm. Sì, oggi è mezza giornata. – spiegò, più serenamente possibile. Non era abituato a conversare.
  • Quindi, per restituire il libro devo tornare domani? – chiese, senza smettere di guardarlo in faccia.
  • Oh, se vuoi puoi lasciarlo a me.
La vide sorridere e poi avvicinarsi al bancone, infilando le mani in una grossa borsa e tirandone fuori il libro di fiabe che le aveva preso dallo scaffale.
La guardò mentre lo poggiava direttamente tra le sue mani e non seppe decifrare la luce che aveva negli occhi. D’un tratto gli sembrò che il riscaldamento fosse troppo forte.
Procedette ad inserire la restituzione del libro nel database e le diede una ricevuta, segnata con la data di quel giorno.
  • Grazie. - gli disse.
  • Figurati.
Per qualche motivo, era convinto che quella ragazza lo fissasse in un modo inappropriato: ok che non si radeva da giorni, ma non stava poi così male. Si passò una mano sulla barba senza neanche accorgersene e sentendo dolore, si ricordò dei lividi.
Sapeva di aver cambiato espressione, perché lei sembrò rendersi conto di quello che stava facendo, infatti prese a battere velocemente le ciglia, distogliendo lo sguardo.
  • Uhm… - era imbarazzata. – Scusa. Ciao.
  • Ciao.
Riuscì a dire solo quello e poi la vide uscire dal portone antico. Lei in quel momento non lo aveva giudicato. Lo sapeva. Guardò di nuovo il libro di fiabe e si chiese se magari non fosse proprio lei la fata madrina che lo aveva fatto andare all’Hawking. Peccato che il suo orologio fosse fermo sulla mezzanotte da così tanto tempo.
 
Per il primo anno dopo la morte di sua madre, aveva sfruttato quella mezza giornata per riposare, ora invece era costretto a tornare a casa, preparare il pranzo, fare le pulizie che altrimenti non avrebbe fatto nessuno e poi correre al bar a fare il cameriere per poche sterline l’ora. Indossò la divisa nel minuscolo bagno degli uomini, notando che la camicia gli andava sempre più stretta, di anno in anno. Non era più un fuscello, le sue spalle si erano allargate abbastanza da far risultare stretto anche il gilet. Si diede una sistemata ai capelli e attaccò a lavorare. Il capo lo guardò storto quando vide i suoi lividi, ma non poteva farci niente.
Era un bar del centro, frequentato per lo più da signore d’ufficio che venivano a prendere il the con le colleghe dopo il lavoro. Quel tipo di clientela lo obbligava a mostrare costantemente un sorriso e a rivolgersi alle persone con un certo tono e un certo garbo, non sempre ricambiati. Perlomeno non era a casa a farsi dare altre botte.
Aveva appena sollevato il vassoio con la teiera stracolma di acqua bollente, quando si voltò e la vide: la ragazza di quella mattina lo fissava dalla vetrata che dava sulla strada: i suoi occhi lo colpirono come un fulmine. Ovviamente, quella piccola distrazione ebbe le sue conseguenze: in quella frazione di secondo, si scontrò con l’altro cameriere, facendo cadere l’acqua bollente e bruciandosi un dito. Immediatamente, distolse lo sguardo da lei e si preoccupò che nessuno si fosse fatto male, per fortuna le tazze erano intere o avrebbe dovuto pagarle. Incurante delle parole del suo collega in divisa, il pensiero di quegl’occhi lo portò a guardare fuori, con la speranza che lei fosse ancora lì, ma non c’era nessuno.
Era lei, certo che era lei. Aveva riconosciuto immediatamente quel verde smeraldo che aveva negli occhi, ma non si spiegava ancora quella frenesia che aveva provato nel vederla. Era stato come se volesse fermarla, per parlarle ancora. Lui non era interessato alle ragazze, non aveva tempo per una relazione, quindi quella sua reazione doveva essere dovuta soltanto alla necessità di rapporti sociali, il minimo indispensabile a sopravvivere.
Sì, doveva essere così, pensò mentre si portava istintivamente il dito bruciato alle labbra. Tornò a pensare al vassoio prima che il capo lo vedesse, altrimenti avrebbe perso il posto.
 La vecchia signora che aveva ordinato il the lo guardava come se fosse il peggior incompetente che avesse mai visto, ma non si curò di lei mentre puliva il pavimento dall’acqua caduta. Il pantalone classico nero che aveva come divisa era altrettanto bagnato, così come la camicia e il cravattino rosso e tutto per quell’assurda reazione. Cavolo, Ed, sei proprio disperato. Dopo 5 ore di servitù, il capo lo lasciò andare, lasciandogli la spazzatura da buttare.
Ancora in divisa, uscì dalla porta del retro e cominciò a camminare in direzione dei cassonetti, ma qualcosa lo fermò: un luccichio lo colpì direttamente agli occhi.
Lasciò andare i grossi sacchi accanto al cassonetto e nel silenzio si diresse verso il fascio di luce del vecchio lampione sulla strada. Si accovacciò e prese quell’oggetto da terra: una catenina dorata con un’iniziale. La osservò, lasciando che il vapore gli uscisse dalle narici, unica figura nel deserto di quella strada.
Quando il freddo cominciò a farlo intirizzire, si alzò e tornò dentro. Chiese alle poche donne che lavoravano con lui se la catenina appartenesse a loro, ma nessuna gli disse di sì, quindi la infilò nella tasca dei jeans che aveva nuovamente indossato e andò via.
Come avrebbe fatto a restituirla, non lo sapeva, ma quella che era stata la sua vita negli ultimi giorni, lo intrigava.
Quando il giorno dopo andò in biblioteca, notò di essere molto distratto. C’era qualcosa che ronzava nella sua testa e che non riusciva a spiegarsi, portandolo a inserire i dati sbagliati nei moduli, a scambiare i libri da dare in prestito, a non rispondere alle domande che gli venivano poste. Si ritrovava spesso a guardarsi intorno, quando invece avrebbe dovuto essere tra gli scaffali a pulire la polvere, come tutti i sabati.
Ed aveva la sfortuna di essere nato sognatore e quell’aspetto di sé lo rendeva così vulnerabile alla speranza, che persino gli occhi di una sconosciuta lo facevano andare in tilt. Non era la prima volta che gli capitava di incontrare gli occhi di qualcuno, ma quando era successo era riuscito a scrivere e musicare i testi per un intero album. Era consapevole che al 99,99% quel momento era passeggero, che la sua mente aveva soltanto bisogno di fantasticare per un po’, poi sarebbe tornato tutto alla normalità. I vecchi libri lo guardavano dagli scaffali, come ad invitarlo a sognare ancora, mentre giocherellava con la catenina misteriosa.
Per un momento il suo pensiero andò a quella sera, quando sarebbe tornato a casa senza un lavoro part-time: l’immagine di Ben all’uscio lo faceva rabbrividire, ma poi i suoi occhi chiari tornarono a perdersi tra le figure sedute ai tavoli stracolmi di libri.
Quando verso sera rimase solo, si diede dello sciocco e chiuse nuovamente la porta che dava sui suoi sogni.
Stava per montare in sella, costretto a tornare a casa, dato il freddo che faceva, ma frenò i suoi movimenti quando sentì il suo cellulare squillare. Credette che fossero Ben o Jef, ma quando vide il display, un numero che non conosceva gli saltò agli occhi. Titubante, rispose alla chiamata e quando portò il dispositivo all’orecchio, un chiasso assordante glielo fece subito allontanare.
  • Pronto? – disse, confuso.
  • Ragazzo! Per fortuna hai risposto.
Non poteva credere alle sue orecchie, ma la voce di quell’uomo era così particolare che l’avrebbe riconosciuta anche tra mille.
  • Ho bisogno di te, quindi prendi quel tuo aggeggio e vieni qui!
  • D-dice sul serio?!
  • Certo che dico sul serio, ragazzo. Muoviti o chiamo qualcun altro!
  • Sì, signore! Arrivo subito, non chiami nessuno!
Il tizio chiuse la chiamata senza rispondere ancora.
Aveva ancora il fiato sospeso mentre riponeva il cellulare in tasca, facendo attenzione a non perdere l’equilibrio mentre saltava sulla bici e volava verso casa a recuperare la sua chitarra.
Stringeva le mani sul manubrio fino a bloccare la circolazione, si sporgeva in avanti per cercare di andare più veloce di quanto riuscisse a fare, non si curava del fatto che il tenere gli occhi così aperti lo facesse lacrimare. Quella era un’occasione d’oro, come non gliene erano mai capitate e non stava nella pelle al pensiero di sfruttarla al meglio.
Quella sera avrebbe suonato all’Hawking Pub, il migliore della città e si sarebbe fatto valere.
 
La sua buona stella sembrava essere risorta da un lungo periodo di tenebra.
Quando entrò nel locale, affannato dalla corsa, l’intera clientela esordì con un applauso, probabilmente a conoscenza del fatto che la band aveva dato buca al proprietario, ma soprattutto a loro. Sorrise spontaneamente nel sentire quel baccano e la sua preoccupazione riguardante il suo aspetto livido, svanì quasi del tutto.
Si sentiva osservato, studiato da quella folla di persone che si ammassava nella stanza, credendo che qualcuno lo avesse riconosciuto, dati i sussurri. Una ragazza con un grembiule nero e i capelli raccolti, lo guidò su una pedana posta di fronte al bancone delle birre. Quella volta non sarebbe stato in un angolo. Quando mise piede sul piccolo rialzo, cominciò a sentire l’ansia salire, persino le maniche troppo lunghe del suo maglione divennero un problema: ansia da prestazione. Qualche uomo l’aveva per il sesso, lui l’aveva per la musica, ma non faceva differenza. Cercò di farsi scivolare di dosso tutta quell’attenzione, concentrandosi. Non sapeva nemmeno con cosa avrebbe cominciato.
Quando si sedette sullo sgabello a sua disposizione e abbassò gli occhi, capì che qualcuno gli voleva bene, perché una loop station nuova di zecca lo salutava dal basso.
Chiuse la bocca che aveva spalancato per la sorpresa e rimodellò l’espressione da idiota che doveva avere in viso, dandosi un contegno. Scese da lì e controllò che fosse attiva e sì, era pronta per lui. Era un secolo che non ne usava una, ma non ebbe difficoltà ad entrare nel meccanismo.
La gente lanciò qualche gridolino sentendo della musica, incoraggiandolo a continuare.
Cominciò a registrare la base per una delle sue cover e quando rialzò gli occhi per cantare, la vide. Per un attimo credette che la voce non sarebbe uscita dalla sua gola, perché lei era proprio lì, con la divisa del locale, che portava birre da un tavolo all’altro, ballando sul beat che aveva creato. Per qualche motivo, l’unica sensazione che riuscì a provare, guardandola, fu paura.






Angolo autrice:

Eeeeeh già, eccoci qua. Seriamente, non so nemmeno io cosa stia succedendo, quindi abbiate pietà.
Fatemi sapere cosa pensate di questa storia, quali sono le vostre aspettative e le vostre opinione e se vedete qualche errore segnalatemelo pure!
Ringrazio tantissimo GinevraMollyArkanian e Nature_ che hanno recensito - grazie ragazze - e tutti i lettori silenziosi che fanno alzare il numero di visite. :D
A prrrresto!


 
  
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