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Autore: Letsforgethim    13/07/2015    1 recensioni
C'erano migliaia di stelle lassù.
Migliaia di stelle che stavano illuminando Londra come stavano illuminando chissà quante altre città in giro per tutto il mondo.
Era strano che ce ne fossero così tante, ma le piaceva un sacco il cielo così, sembrava quel dipinto di Van Gogh del quale in quel momento non riusciva a ricordare il nome.
E mentre lei era intenta a guardare le stelle, Zayn non le aveva tolto gli occhi di dosso.
Le poggiò una mano sulla guancia e l'altra su un fianco, tirandola a sé in un bacio, perché in quel momento l'unica cosa che voleva era sentire le labbra della ragazza sulle sue, sotto la luce di un migliaio di stelle.
Non importava null'altro in quel momento, non esisteva nient'altro in quell'istante se non loro due.
Si staccarono solo per riprendere fiato.
«Fallo ancora» gli disse Shelley dolcemente, con un sorriso a dipingerle le labbra.
«Cosa?»
«Questo» rispose prima di prendergli il viso tra le mani e appoggiare le labbra sulle sue.
Zayn/Shelley | ~ 6k
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.B: I personaggi di questa storia non mi appartengono, ma guai a chi mi tocca Zayn/Shelley.

Un enorme grazie a scusasetiamo per quest'opera d'arte di banner che ha fatto.
Non so come questa roba sia uscita dalla mia testa, ma spero che non faccia così tanto schifo.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.
Grazie a tutti, anche solamente per aver aperto la storia.




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So honey now
Kiss me under the light of a thousand stars

Place your head on my beating heart
I’m thinking out loud
Maybe we found love right where we are




Shelley aveva finito il suo turno di lavoro al bar per quel giorno.
Dal lunedì al venerdì lavorava fino alle quattro del pomeriggio, il sabato la sua giornata di lavoro cominciava alle sette di pomeriggio e non finiva mai prima di mezzanotte, mentre la domenica era il suo giorno libero.
Aveva deciso di tornare a casa a piedi, non sopportava dover prendere l'autobus quando era pieno di gente - e di solito il pomeriggio era sempre pieno di gente - preferiva farsi quel chilometro e mezzo di camminata dal centro di Londra fino a casa sua.
Si era infilata la cuffia in un orecchio - dopo una giornata di lavoro aveva proprio bisogno di ascoltare un po' di musica - e stava camminando spensieratamente con due libri in una mano e la borsa sulla spalla opposta.
Era al suo primo anno di università - studiava sociologia alla London University - e quando doveva studiare si portava i libri al lavoro e studiava durante la pausa pranzo.
Infatti uno dei due libri era quello di psicologia, l'altro invece era "The Guardian", di Nicholas Sparks, il suo libro preferito, che aveva deciso di rileggere per la centesima volta.
Stava passando davanti al parco della scuola elementare dove, come ogni pomeriggio, i bambini appena usciti da scuola stavano correndo e schiamazzando su tutto il prato, sotto lo sguardo vigile di genitori e nonni.
Quando passava da lì davanti non riusciva a non pensare a quando lei e sua sorella erano piccole e i genitori le accompagnavano sempre a giocare al parco, non smettendo per un attimo di ricordarle di stare attente a non farsi male.
Erano bei tempi quelli, pensava sempre.
Lei e la sua famiglia abitavano in un quartiere sperduto di Londra, così era sempre solita descriverlo, anche se i suoi genitori preferivano l'aggettivo tranquillo.
Infatti, oltre alla loro casa ce n'erano solamente altre quattro, una era quella di Marianne, la sua migliore amica, l'altra era dei signori Beaufort, una coppia di anziani che abitavano in quella casa da quando lei era nata ed erano praticamente diventati quasi come dei nonni per lei e per sua sorella e altre due abitate da coppie di quarantenni che non si degnavano nemmeno di salutare i vicini.
Mentre mancavano ancora un paio di minuti fino a casa sentì un tuono in lontananza e sperò con tutta se stessa che non si mettesse a piovere proprio in quel momento.
Quando sentì la prima goccia caderla su una mano pensò che si trattasse di un'illusione, ma quando cominciò a sentirne altre caderle addosso si maledisse per aver scelto di camminare fino a casa e cominciò ad accelerare il passo.
Possibile che tutte le volte che prendeva una decisione fosse quella sbagliata?
Non che la pioggia non le piacesse, ma la preferiva quando lei era in casa, sotto le coperte e con una cioccolata calda tra le mani e magari anche un buon libro da leggere.
Era così strano il clima in Inghilterra, pensò, un momento prima c'era il sole alto in cielo che splendeva e un secondo dopo ti ritrovavi ad aver bisogno di un ombrello.
E poi non era possibile che piovesse sempre, anche a metà aprile.
Aveva alcune amiche che abitavano in Spagna e là, per quello che le raccontavano loro, le stagioni non erano esattamente come in Inghilterra.
Di solito pioveva quasi tutto l'inverno, mentre le piogge cominciavano ad essere eventi rari nella stagione primaverile e durante l'estate non si vedeva nemmeno una goccia.
Era normale, lo sapeva Shelley, che in Inghilterra ci fosse un clima più freddo e piovesse più spesso, essendo un'isola a nord dell'Europa, solo che, nonostante fossero diciannove anni che viveva lì, non ci si era ancora abituata.
Forse doveva cambiare Paese, pensò, magari poteva trasferirsi in Spagna, in Grecia o, perché no, in Argentina.
Senza che se ne accorgesse la canzone che stava ascoltando era finita e ne era cominciata un'altra.
Non riusciva, però, a ricordarsi il titolo.
Era una tra quelle dieci canzoni che ascoltava giorno e notte e di cui non si stancava mai, ma in quel momento non riusciva proprio a ricordarsene il titolo, ce l'aveva sulla punta della lingua.
Camminava a testa china, talmente impegnata a pensarci, che non si accorse che stava andando a sbattere contro qualcuno fino a quando i suoi due libri non si ritrovarono aperti per terra assieme a tutti i fogli di appunti di psicologia che erano tra le pagine.
Ci mancava solo questa, pensò abbassandosi per raccoglierli, sperando che non si fossero sporcati, mentre intanto le si era tolta anche la cuffietta dall'orecchio.
«Mi dispiace» si scusò il ragazzo davanti a sé, che l'aveva imitata chinandosi per terra ad aiutarla a raccogliere i libri e i fogli.
«Perdonami» gli disse Shelley sorridendo imbarazzata.
Che sbadata, pensò.
Una volta raccolti i libri e i vari foglietti che ne erano scivolati fuori, il ragazzo glieli porse.
«Mi dispiace» si scusò ancora alzando lo sguardo verso di lei, «non guardavo dove stavo mettendo i piedi.»
Non appena Shelley incrociò il suo sguardo ebbe la sensazione di aver visto quegli occhi già da qualche parte, non sapeva con esattezza dove e quando, ma era certa di averli già visti.
Forse stava semplicemente fantasticando, eppure le sembravano così familiari.
E anche la sua voce, pensò, era sicura di averla già sentita da qualche parte, ma dove?
Si alzarono entrambi in piedi.
«Spero di non averti rovinato i libri» Sorrise.
«No, no, tranquillo.»
Ma chi era quel ragazzo?
Doveva essere più alto di lei di pochi centimetri, aveva il cappuccio della felpa tirato su e non riusciva a capire se avesse i capelli lunghi o corti, poteva solo vedere che erano neri.
Smise di pensare a dove potesse averlo mai visto e smise anche di cercare di indovinare a che cosa quel ragazzo se stesse pensando mentre la guardava in quello strano modo.
Certo, pensò Shelley, non gli era difficile conquistare una ragazza, gli bastavano quegli occhi che si ritrovava e quell'aria da gangster misterioso.
Notò, però, che ci doveva essere qualcosa che non andava.
Era vero, le aveva sorriso, l'aveva aiutata educatamente a raccogliere i libri, si era scusato più volte, ma il suo sguardo sembrava... vuoto.
Forse stava semplicemente fantasticando con la sua testa, ma era curiosa di sapere cosa gli fosse successo – se gli era successo qualcosa - d'altronde era sempre stata una ragazza curiosa.
Dall'altro lato, però, sentiva che in un qualche modo le dispiaceva per lui.
Scacciò quei strani e stupidi pensieri che le stavano attraversando uno dietro l'altro la testa e decise che era arrivato il momento di congedarsi.
«Allora, ciao.» Come le era uscita una cosa tanto patetica?
Lui le sorrise e «Ciao» la salutò passandole di fianco.



 




«Sono a casa» annunciò Shelley entrando.
Fortunatamente non aveva cominciato ancora a piovere forte e non si era bagnata, a parte qualche goccia qua e là sulle spalle.
Si tolse le scarpe, appoggiò i libri e la borsa sul comodino lì accanto e solo in quel momento si accorse di essersi dimenticata il grembiulino a righe rosse e bianche che portava al lavoro addosso.
Alzò gli occhi al cielo, stupendosi di che livelli potesse raggiungere la sua sbadataggine.
In quel momento sua sorella Genette scese le scale.
«Ciao Shelley» la salutò sedendosi sul penultimo gradino.
«Dov'è la mamma?» le domandò lei dirigendosi verso la cucina per cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
Nonostante lavorasse in un posto in cui era a costante contatto con cibo, non era solita mangiare sul posto di lavoro - a parte quelle rare volte in cui non c'era nessun cliente e si permetteva di sedersi dietro il bancone per mangiare velocemente qualcosa - e quel giorno non mangiava da quando aveva fatto colazione a casa prima di uscire.
Genette la seguì e si sedette sul bancone, mentre lei aveva aperto il frigo e aveva tirato fuori la bottiglia di latte, poi aveva preso i cereali, una tazza e un cucchiaio e si era messa a tavola.
«Allora?»
«Mamma è uscita» si decise a rispondere sua sorella, «significa che dovrò farti da baby-sitter.»
Guardò sua sorella ridere con un sopracciglio alzato.
«Ho diciannove anni, Genette» sbuffò da sopra la tazza.
Sua sorella aveva solo un anno in più di lei e decisamente non aveva nessun diritto di comportarsi così.
Forse lo faceva solamente in modo ironico, ma Shelley in quel momento non lo trovava affatto divertente e di certo non poteva essere considerato come uno scherzo.
«Dov'è?» le chiese cercando di non badare a quell'aria da superiore che Genette acquistava ogni qualvolta loro madre non fosse in casa.
«E' uscita con papà.»
Shelley rimase con il cucchiaio a mezz'aria a fissare la sorella.
I loro genitori si erano separati quando lei aveva quattordici anni perché suo padre aveva tradito la moglie con una ragazza di vent'anni, quasi la metà degli anni che aveva allora lui.
Da quando la mamma lo aveva scoperto in casa non si riusciva più a vivere: i suoi genitori non dormivano più nella stessa stanza, a tavola nessuno spiaccicava parola e i loro non facevano altro che litigare, litigare e litigare tutto il giorno.
Dopo qualche mese avevano deciso di divorziare e lui era andato a vivere con Julia, la ragazza con cui aveva tradito la moglie.
Da allora né Shelley né Genette – una delle poche cose sulle quali si erano trovate d'accordo - gli avevano più rivolto parola, nonostante lui le chiamasse sempre, inviasse loro messaggi, venisse addirittura fino a casa pur di vederle, loro lo ignoravano.
E fino a quel momento anche la madre non lo aveva considerato, se non per quelle poche volte che gli rivolgeva parola per insultarlo.
Shelley si era sempre chiesta se lei lo amasse ancora, ma non aveva osato domandarglielo.
«E dove sono andati?»
Genette alzò le spalle. «Papà ha chiamato verso mezzogiorno e hanno parlato al telefono pochissimo, poi la mamma mi ha detto solo che sarebbero usciti insieme.»
Shelley non seppe più cosa dire, non aveva più nemmeno fame.
Odiava suo padre, lo odiava tantissimo per aver rovinato la loro famiglia, e nonostante sapesse che non era mai stato un uomo violento aveva paura che potesse succedere qualcosa a sua madre.
Improvvisamente, senza alcuna ragione, la sua mente la portò al ragazzo che aveva visto poco prima.
Forse anche i suoi genitori si erano separati, o si stavano separando, e per questo motivo aveva quello sguardo triste e vuoto.
Si alzò dal tavolo.
Non voleva più sentir parlare nessuno, non voleva mangiare, voleva poter starsene da sola in camera sua.
Mentre stava salendo le scale, con il telefono e le cuffiette in mano, sentì sua sorella gridare: «Sta sera vengono Paul e Will a cena», ma non riuscì a trovare la forza di volontà per rispondere qualcosa.



 




Erano le sette e mezza di venerdì mattina e il bar era già pieno di gente.
La maggior parte dei tavolini era occupata da gruppi di studenti che mentre bevevano un caffè o un cappuccino si prendevano gli ultimi minuti per ripassare prima delle lezioni.
L'altra parte era occupata da uomini e donne d'affari, tutti vestiti per bene con giacche nere e camicie sotto, che prima di cominciare la giornata avevano bisogno di fare una buona colazione per essere pronti per lavorare.
La notte prima Shelley aveva dormito pochissimo.
Aveva lavorato fino alle quattro, poi aveva fatto due ore di lezione all'università e aveva studiato a casa fino alle dieci.
Aveva promesso a Marianne che dopo lo studio sarebbero uscite insieme ed erano rimaste fuori con un gruppo di amici fino all'una.
Quand'era tornata a casa era stanca morta, dopo aver passato tutte quelle ore sui tacchi - e si maledisse per non aver scelto delle scarpe più comode come un paio di zeppe, invece che un tacco dodici a spillo - ma nonostante questo non era riuscita a prendere sonno perché la pioggia batteva talmente forte sul vetro di camera sua che invece di addormentarsi le era venuto solamente un gran mal di testa.
«Fantastico!» aveva mormorato ironicamente e aveva passato tutta la notte sul divano con una tazza di latte caldo e una coperta addosso.
Quando finalmente - dopo aver preso tre pastiglie di aspirina insieme - il mal di testa le era passato, erano quasi le cinque e in pratica dormì poco più di un'ora e mezza.
Era intenta a preparare il cappuccino per una ragazza appena entrata al bar quando Brenda, una delle sue colleghe più giovani, le si avvicinò: «Al tavolo quattro chiedono di te.»
«Eh?»
«Sì, c'è un ragazzo che mi ha chiesto di te. Vai, finisco io qui.»
Shelley prese il suo taccuino e la penna dal bancone e si diresse al tavolo indicatole da Brenda, chiedendosi chi mai potesse chiedere di lei alle otto di mattina.
Il tavolo quattro era quello che si trovava in fondo al locale, vicino al giardino, e solitamente era uno dei più desiderati dalle persone che desideravano un po di intimità o di calma.
«Aveva chiesto di me?» domandò Shelley al ragazzo che se ne stava tranquillamente seduto ad usare il suo cellulare.
Quando sentì la sua voce si girò verso di lei, sorridendole.
«Ciao, Shelley.»
La ragazza rimase perplessa e al tempo stesso stupita.
Che ci faceva lui lì?
Come sapeva il suo nome?
E, proprio come l'altro giorno, ebbe la sensazione di conoscerlo, ma ancora non riusciva a capire dove l'avesse mai visto.
Decise di chiederglielo: «Come fai a sapere come mi chiamo?»
Lui sorrise, quasi come se si aspettasse quella domanda e le indicò la collanina d'oro giallo che portava sempre al collo.
«Giusto» ammise più che a lui, a se stessa e quando stava per chiedergli come sapesse che lavorava proprio lì, lui sembrò anticiparla ancora una volta.
«So che lavori qui perché l'altro giorno sei uscita dal lavoro con il grembiule addosso.»
«Vero anche questo» ammise con un pò di imbarazzo.
Certo che era stato davvero attento, pensò, ma d'altronde anche lei lo era stata.
E, guardandolo ora, senza cappuccio, poté constatare con certezza che i suoi capelli erano di un nero corvino, messi assieme in una specie di cresta grazie al gel.
Era davvero bellissimo, si stupì a pensare e solo in quel momento capì chi fosse e perché le sembravano un viso e una voce familiare.
«Io sono...» cercò di presentarsi, ma lei lo interruppe.
«Zayn Malik» Lui le sorrise e le porse la mano, che lei strinse volentieri.
«Sai», gli disse, «la prima volta che ci siamo visti non ti avevo riconosciuto, sapevo di averti visto da qualche parte, ma non riuscivo a capire dove.»
Zayn la guardò.
Era bellissima, più di quanto si ricordasse, e se fino a quel momento non riusciva ancora bene a capire per quale motivo si trovasse lì, in quel momento sapeva perfettamente perché era venuto.
«Allora, Zayn, cosa ordini?»
«Cosa mi consiglieresti?» le chiese senza smettere di guardarla.
«Un caffè e una brioche?» gli chiese in modo ironico come per dire: "Non c'è ampia scelta in un bar".
Lui sorrise, colpito soprattutto dal fatto che, non si era messa a urlare quando l'aveva riconosciuto e che, nonostante avendolo riconosciuto, era rimasta la stessa, non sembrava gliene importasse gran ché.
Era bello, pensava, potersi sentire anche solo per un momento, un ragazzo normale, semplicemente Zayn e non “Zayn Malik degli One Direction”.
«Come ti piacciono le brioche?» le domandò.
«Con la nutella» rispose lei senza capire per quale motivo gli potesse interessare.
«Allora portami due cappuccini e due brioche, una alla nutella e una alla crema.»
Dopo aver scritto velocemente l'ordinazione sul suo blocchetto, Shelley si diresse a preparare i due cappuccini che poi mise insieme alle brioche su uno dei vassoi blu appoggiati uno sopra l'altro in un angolo del bancone.
Era curiosa di sapere se Zayn aveva ordinato tutto per sé o se stava aspettando qualcuno, forse la sua ragazza o magari uno degli altri quattro ragazzi che facevano parte della band.
«Ecco a te» gli disse con un sorriso posando tutto sul tavolino.
Quando stava quasi per andarsene, le chiese: «Non mi fai compagnia?»
Rimase a guardarlo, incredula.
Quindi era per lei che aveva ordinato?
«Devo lavorare.»
Zayn si guardò attorno. «Hanno tutti le proprie ordinazioni.»
«Mi spiace, Zayn...»
«Dai, solo dieci minuti» la interruppe lui.
Alla fine cedette, ripetendosi mentalmente che era veramente un'irresponsabile a prendersi una pausa durante il suo turno di lavoro e sperando che Wendy, la proprietaria, arrivasse il più tardi possibile.
«Grazie.»
«Spero che non mi licenzino» sussurrò lei prima di prendere in mano la brioche e addentarla.
Zayn la stava guardando, pensando a come fosse possibile che prima di incontrarla la sua testa era affollata solo da preoccupazioni e pensieri negativi e da quando aveva incontrato lei quel giorno, invece, tutto era cambiato in meglio.
Era come una boccata d'aria fresca, per lui, pensò.
«Hai intenzione di continuare a guardarmi o di iniziare a mangiare?» gli domandò alzando un sopracciglio.
In quel momento ebbe la certezza di volerla rivedere ancora e, finito di mangiare, glielo chiese.
«Cosa fai questa sera?»
«Niente di eclatante.»
«Allora... che ne dici se andiamo a mangiare qualcosa fuori?»
«Cos'è, un appuntamento?»
«Non lo so... ma ho pensato che siccome nessuno dei due ha niente di importante da fare, magari potremmo uscire insieme.»
Shelley scoppiò a ridere. «Ok.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Che cosa le stava succedendo, non lo conosceva nemmeno e aveva deciso di uscirci insieme?



 




«Dov'eri finito questa mattina?» Liam era steso sul divano con il telecomando in mano a passare da un canale all'altro senza dare troppa importanza alle immagini e alle voci dell'enorme rettangolo nero che gli stava a poco più di due metri di distanza.
Zayn spostò le gambe all'amico e si buttò di peso a sedersi accanto a lui.
«Sono andato al bar» rispose, sorridendo.
«Da solo? Potevi svegliarmi così andavamo insieme.»
Zayn alzò le spalle. «Non ti preoccupare.»
Aveva bisogno di andare a correre, non sapeva bene il perché, ma in quel momento sentiva il bisogno di fare una bella corsetta.
Si alzò e mentre si stava dirigendo verso la sua camera si sfilò di dosso la maglia, rimanendo a torso nudo, e la lasciò cadere per terra.
Intanto Liam continuava a guadarlo, incuriosito.
C'era qualcosa che gli stava sfuggendo, pensò, così decise di raggiungere Zayn in camera sua.
«Cosa stai facendo?» gli domandò.
«Vado a correre. Vuoi venire con me?»
«Zayn...»
«Che c'è?»
Liam non riusciva a trovare le parole.
Era strano vedere Zayn così... felice.
Erano settimane che tutti loro stavano affrontando un brutto periodo, dopo che i manager avevano preso quella decisione che a loro cinque era sembrata un'idiozia, per non parlare di come l'avrebbero presa tutte le loro fan quando ne sarebbero venute a conoscenza, ma improvvisamente Zayn sembrava essere tornato quello di una volta.
E la cosa di certo non poteva che fargli piacere.
«E' successo qualcosa di cui non mi è giunta notizia?»
«Cosa intendi?»
«Guardati!» rispose indicandolo col braccio dall'alto al basso, «Sei allegro, vai a correre...»
Zayn sorrise, pensando che al suo migliore amico non sfuggiva proprio niente e che lo conosceva davvero bene.
«Niente» rispose sorridendogli e alzando le spalle.
«Oh, andiamo.»
Avrebbe voluto continuare ad incuriosire Liam ancora per molto – gli era sempre piaciuto tenerlo sulle spine - ma siccome anche lui moriva dalla voglia di parlargli di Shelley, la finì lì.
«Una ragazza» disse prima di passare accanto all'amico per andare a guardarsi allo specchio in bagno.
Liam lo seguì, curioso come un bambino. «Pensi di lanciare una notizia bomba così e andartene come se nulla fosse?»
Zayn scoppiò a ridere. «E va bene, se viene a correre con me ti racconto tutto.»



 
 ღ




Shelley era appena uscita dalla doccia, aveva ancora i capelli e il corpo avvolti in due asciugamani di color panna.
Aprì le due ante del suo armadio e rimase imbambolata a fissare i suoi vestiti, non sapendo che cosa potesse mettersi quella sera, proprio come succedeva tutte le volte che doveva uscire.
E poi, si richiese per la centesima volta dopo aver fatto colazione con Zayn, perché diavolo aveva deciso di accettare, cosa le era saltato in mente?
Non sapeva nemmeno dove sarebbero andati.
Dopo che si erano scambiati i numeri di telefono quella mattina, lei gli aveva mandato un messaggio con la via in cui abitava e lui le aveva risposto che sarebbe passato per le otto.
E "Non vedo l'ora!" aveva aggiunto.
Si era sentita avvampare dopo aver letto quella frase, ma non gli aveva risposto, non c'era niente da dire, aveva pensato.
Alla fine tirò fuori un reggiseno e un paio di mutande bianche e decise di mettersi quel vestito giallo che aveva comprato la settimana prima insieme a sua madre.
Le piaceva un sacco e stranamente, come invece di solito accadeva con il colore giallo, non la faceva assomigliare ad un canarino.
Aveva le bretelle sottili, si stringeva in vita e le arrivava fin sopra il ginocchio.
Avrebbe preferito mettersi il tubino nero che indossava solitamente quando andava a ballare con le sue amiche, ma non voleva essere troppo scoperta, e con quello addosso lo era decisamente: le arrivava a malapena a coprire il fondo schiena.
Si asciugò velocemente i capelli con l'asciugacapelli e passò al trucco.
Mentre era seduta davanti allo specchio intenta a passare la matita sotto gli occhi, non si era accorta di sua madre che si era appoggiata al muro e la stava guardando, con quello sguardo fiero che hanno le madri quando ammirano i loro figli come se fosse la prima volta.
«Che c'è?» le chiese Shelley quando si accorse della sua presenza, senza però girarsi a guardarla, limitandosi a fissarne l'immagine sullo specchio.
«Sei davvero bellissima, Shel.» Andò a sedersi sul letto, in modo da poter stare più vicina alla figlia.
Le accarezzò i capelli con la mano.
Era fiera di sua figlia, era diventata una donna fantastica e l'uomo che avrebbe mai ricevuto il suo amore incondizionato - o che lo stava già ricevendo - sarebbe stato un uomo veramente fortunato.
«Esci con Marianne e gli altri?»
Shelley scosse la testa, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli scuri, prima di aprire il rossetto e cominciare a passarselo sulle labbra.
Odiava le sue labbra, erano la parte più brutta del suo viso.
Le sue amiche le avevano sempre detto che non era vero, che aveva delle labbra bellissime e che era una stupida a pensare il contrario, ma lei era fermamente convinta di avere ragione.
Non ci poteva fare niente, lo pensava da sempre e probabilmente non avrebbe smesso di pensarlo presto.
Sua madre la stava ancora guardando e lei odiava quello sguardo.
Sapeva che voleva chiederle con chi sarebbe uscita - non che si sarebbe opposta se avesse saputo che usciva con un ragazzo - ma allo stesso tempo non riusciva a trovare il coraggio per domandarglielo.
Forse, pensò Shelley, era perché avevano litigato qualche giorno prima e immaginava che non le avrebbe risposto.
Alla fine, però, sua madre glielo chiese, facendole pensare che non la conosceva poi così tanto bene come invece aveva creduto fino a quel momento.
«Con chi esci?»
Shelley non aveva voglia di litigare ancora, non quella sera. «Con un ragazzo.»
Guardò l'ora: erano quasi le otto, era arrivato il momento di scendere.
Si guardò un'ultima volta allo specchio, contenta del risultato raggiunto.
Si spruzzò un po' di profumò.
«Vado» disse a sua madre, mentre sentiva il cuore che stava accelerando i battiti.
«Divertiti.»
Non riusciva a non pensare a cosa avrebbe pensato Zayn quando l'avrebbe vista, sperava di piacergli.
Anche se, ora che ci rifletteva, doveva piacergli già visto che era venuto al bar a fare colazione con lei e l'aveva invitata fuori la sera stessa.
Senza che se ne accorgesse un sorriso le si dipinse in viso.
Quando aprì la porta si ritrovò faccia a faccia proprio con colui al quale stava pensando.
«Zayn» sussurrò, mentre tutte le altre parole le morirono in gola, come cavolo era riuscita una come lei a farsi invitare ad uscire da uno come lui?
Con quella camicia bianca dalle maniche arrotolate, i jeans neri e i capelli tirati su era seriamente bellissimo.
«Ciao, Shelley.» Le sorrise.
La prima cosa alla quale aveva pensato mentre l'aveva vista aprire la porta era che era stato davvero fortunato quel giorno ad imbattersi in lei per strada.
Era bellissima quel giorno mentre sembrava andar di fretta, era bellissima quella mattina al bar, con i capelli legati e il grembiule addosso e ora che si era truccata e aveva quel vestito addosso, Zayn non riusciva a trovare un aggettivo adatto per descriverla.
Rimasero a guardarsi per qualche istante.
«Andiamo?» le chiese poi lui riscuotendosi dallo stato di trance in cui sembrava essere finito.
Non riusciva a non pensare che somigliava ad un'adolescente alla sua prima uscita con la ragazza alla quale andava dietro da sempre.
«Andiamo.» Shelley gli sorrise, chiudendosi la porta alle spalle e seguendolo alla macchina.
Zayn le aprì e lei, dopo averlo ringraziato con un sorriso, si accomodò sul sedile in pelle accanto al guidatore.
«Dove mi porti?» gli domandò una volta che anche lui si fu seduto.
«Dovunque tu desideri, Shelley.»
Lei scoppiò a ridere per il tono che Zayn aveva usato per risponderle, le piacevano i ragazzi che sapevano farla divertire e Zayn non rappresentava assolutamente l'eccezione.
E le piaceva anche sentire il suo nome pronunciato da lui.
«Andiamo a mangiare qualcosa prima, che ne dici?»
Annuì, così Zayn mise in moto l'automobile e si diressero verso “Becky's”, un piccolo ristorante in cui andava sempre con Liam e gli altri, ma molto spesso anche da solo.
Ci era sempre andato anche prima di diventare famoso, ogni qualvolta aveva avuto l'occasione di andare a Londra.
Era un bel posto e sperava che sarebbe piaciuto anche a Shelley, ma quando scesero dalla macchina e lei gli disse: «Spiegami, io mi sono messa questo vestito per venire in un posto del genere?», le sue speranze crollarono.
«Andiamo da qualche altra parte, se non ti piace» propose.
Shelley lo spinse leggermente con il braccio. «Scherzavo», gli disse sorridendogli, «va benissimo.»
Quando entrarono, Becky, la proprietaria, andò incontro a Zayn con un enorme sorriso dipinto sul viso.
Era una donna sulla cinquantina, quella sera indossava un vestito blu a pois e sopra una giacca blu che richiamava i pois dell'abito.
«Zayn» lo salutò abbracciandolo, quasi fosse sua madre, «che bello rivederti!»
«E' un piacere anche per me, Becky.»
La donna volse lo sguardo verso Shelley e quando tornò a guardare Zayn i suoi occhi si erano illuminati.
«Questa meravigliosa ragazza è con te?»
«Sì» rispose lui, leggermente imbarazzato, «Becky, lei è Shelley.»
«Ciao, cara» la salutò Becky con lo stesso trasporto col quale aveva salutato Zayn quando era entrato nel ristorante.
«Ciao.»
«Vuoi lo stesso tavolo di sempre, Zayn?» gli domandò poi.
Quando lui annuì, lei gli sorrise. «Seguitemi.»
Zayn prese Shelley per mano.
Non seppe perché, fu quasi un gesto istintivo e quando la ragazza gliela strinse provò un tuffo al cuore.
Il tavolo si trovava in fondo al locale, isolato dagli altri.
Qualsiasi altra ragazza avrebbe potuto pensare che Zayn si vergognasse a farsi vedere con lei, ma questo pensiero non sfiorò nemmeno per un attimo la mente di Shelley.
Sapeva in quel momento, come aveva saputo quella mattina, che Zayn voleva avere la sua privacy e stare lontano soprattutto dai paparazzi.
«Accomodatevi pure, ragazzi» disse Becky prima di lasciarli da soli.
«Vieni qua spesso?» gli chiese Shelley una volta seduta.
«Non mi piace mangiare fuori, ma tutte le volte che esco vengo qua. Becky è un'amica di mia madre, mi conosce praticamente da quando sono nato.»
Shelley lo ascoltava senza riuscire a smettere di guardarlo.
Arrivò una cameriera. «Buonasera» li salutò porgendo loro i menù.
«Ora tocca a te consigliarmi, Zayn» gli disse Shelley una volta che quello stecchino di cameriera se ne fu andato.
Lui le sorrise, ripensando a quella mattina al bar. «Pesce e patatine fritte?» le domandò con lo stesso tono che aveva usato lei consigliandogli un caffè e una brioche.
Shelley rise. «Non essere permaloso. In un bar non c'è ampia scelta, ma in locale così raffinato non so cosa scegliere.»
«Sai» rispose lui chiudendo il menu e appoggiandolo ad un lato del tavolo, sporgendosi leggermente verso di lei, «non sapevo che tu fossi una ragazza dai gusti difficili, quando ti ho invitata.»
Lei non poté fare a meno di pensare a quanto fossero belli i suoi occhi da così vicino.
Distolse lo sguardo, tornando a guardare il menù e concentrandosi sui nomi dei piatti che le passavano sotto gli occhi.
Forse Zayn aveva ragione, probabilmente era vero che era di gusti difficili: non la ispirava niente.
«Fanno per caso anche hamburger?» gli domandò alzando lo sguardo dal menù.
Zayn rise. «Mi piacciono le ragazze che preferiscono gli hamburger al solito piatto di pesce.»



 




Alla fine entrambi avevano preso hamburger, patatine fritte e una bottiglia di coca cola ciascuno.
Stando seduto a cena con Shelley, Zayn si era reso conto che più trascorreva del tempo con quella ragazza e più lei gli piaceva.
All'inizio, quando era andato quella mattina a fare colazione al bar dove lavorava lei, aveva quasi paura di rimanere deluso.
Insomma, l'aveva già vista una volta e sapeva che era bellissima, ma non sapeva come era il suo carattere ed era stanco di uscire con belle ragazze che non avevano personalità.
E lei non era così, fortunatamente.
Quando erano usciti dal ristorante fuori si era già fatto buio e il cielo era pieno di stelle, stranamente.
«Ti va di camminare un po'?» le chiese Zayn.
Shelley annuì, così i due cominciarono a passeggiare uno accanto all'altra sotto la luce delle stelle.
Il posto in cui avevano appena mangiato si trovava vicino al Tamigi e Zayn aveva deciso di portare Shelley a camminare in riva al fiume.
«Porti qua tutte le tue conquiste, Zayn?» gli domandò Shelley scherzosamente.
Zayn si strinse nelle spalle. «Solo quelle più belle.»
«Così mi fai arrossire, però!» Zayn scoppiò a ridere.
Shelley aveva letto quasi tutti i libri di Nicholas Sparks e spesso lui scriveva che a uno dei protagonisti piaceva ascoltare la risata dell'altro.
Non era mai riuscita a capire cosa ci potesse essere di bello in una risata, almeno finché non aveva sentito quella di Zayn.
Gli prese la mano tra la sua e lui sorrise, intrecciando le dita a quelle di Shelley.
«Raccontami qualcosa di te.»
«Che dire? Mi chiamo Shelley, ho diciannove anni, studio all'università...»
«E non bevi da due ore» la interruppe Zayn facendola scoppiare a ridere. «Dimmi qualcosa che non so… per esempio, cosa studi all'università?»
«Sociologia.»
«Cioè?»
«Non saprei spiegartelo in poche parole.»
Zayn la guardò alzando un sopracciglio. «Non riesco a credere che tu non sappia cosa studi» la prese in giro.
«Non è che non lo so, è che non so spiegarlo.»
Dopo un po' di silenzio Zayn le strinse più forte la mano. «Ti sei offesa?»
Shelley lo guardò intensamente negli occhi. «Ma va là!» rispose sorridendogli, «Ma forse hai ragione.»
«Vivi con i tuoi?» le chiese cambiando argomento.
«Con mia mamma e mia sorella. Mio padre vive con la sua amante da cinque anni.» Le era venuto spontaneo raccontarglielo.
Poteva mentirgli, poteva dirgli qualcos'altro, ma lei gli aveva raccontato la verità.
«Mi dispiace.»
«Anche a me» guardò il riflesso della luna sulle acque del Tamigi, mentre le tornavano in mente tutti i ricordi riguardanti suo padre. «Per me il valore più importante è sempre stata la famiglia, Zayn, e lui ha fatto crollare tutto solo per una che potrebbe essere mia sorella.»
Zayn la ascoltava in silenzio, senza lasciarle mai la mano.
Dopo qualche istante di silenzio, Shelley si scusò: «Mi dispiace, non avrei dovuto...»
Zayn la interruppe. «Non devi scusarti.»
«Parlami di te, invece.»
Zayn alzò lo sguardo al cielo, dando una veloce occhiata al cielo. «Non saprei da dove cominciare...»
«Oh, giusto, la tua vita da pop star è complicata e intrigante.»
«Sì, sono i due aggettivi che userei io.»
Risero.
«Sai», riprese Zayn, «essere famosi non è sempre rosa e fiori.»
Shelley lo guardò e rivide quello stesso sguardo che aveva il primo giorno in cui si erano incontrati.
«Posso chiederti una cosa, Zayn?»
«Tutto quello che vuoi.»
«A cosa stavi pensando quel giorno che ci siamo visti per strada?»
La guardò perplesso.
«Avevi lo stesso sguardo che hai ora» gli spiegò.
Zayn inspirò, sorpreso. «E' che ultimamente, oltre ad aver incontrato te, non stanno succedendo molto belle a me e ai ragazzi. Nessuno di noi cinque si immaginava che seguire il proprio sogno avrebbe comportato ubbidire sempre e comunque, senza avere la libertà di esprimere le proprie opinioni, a qualcuno che sfrutta la tua immagine per soldi.»
«Sembra una cosa… orribile.»
«E lo è. Noi dobbiamo sempre fare quello che ci dice il Management. Spesso ci ritroviamo a dover uscire con ragazze di cui non sappiamo il nome, solo per pubblicità. Ma sai qual è stata l'ultima trovata?»
Shelley lo guardò, era la prima volta che sentiva quelle cose ed era rimasta stupita, non riuscendo nemmeno ad immaginare cos'altro quelle persone fossero state in grado di organizzare.
«Devo lasciare il gruppo per un po' di tempo.»
«Cosa? Per quale motivo?»
«Non ne ho idea», ammise, «pubblicità, sicuramente.»
Si fermarono accanto ad un lampione, lasciandosi per la prima volta le mani e appoggiandosi con gomiti sulla ringhiera.
«Non avrei mai immaginato che avvenissero tutte queste cose» ammise.
«Nemmeno noi, ma ormai ci siamo dentro.»
«Ora capisco perché avevi quello sguardo, Zayn. Mi dispiace.»
«Devo ringraziarti» le disse lui distogliendo lo sguardo dal fiume e poggiandolo su di lei, «sei la cosa più bella che mi potesse capitare, Shelley.»
Lei lo guardò, mentre il suo cuore stava aumentando il numero di battiti per secondo.
Non riuscendo più a sostenere quello sguardo, alzò la testa verso il cielo.
C'erano migliaia di stelle lassù.
Migliaia di stelle che stavano illuminando Londra come stavano illuminando chissà quante altre città in giro per tutto il mondo.
Era strano che ce ne fossero così tante, ma le piaceva un sacco il cielo così, sembrava quel dipinto di Van Gogh del quale in quel momento non riusciva a ricordare il nome.
E mentre lei era intenta a guardare le stelle, Zayn non le aveva tolto gli occhi di dosso.
Le poggiò una mano sulla guancia e l'altra su un fianco, tirandola a sé in un bacio, perché in quel momento l'unica cosa che voleva era sentire le labbra della ragazza sulle sue, sotto la luce di un migliaio di stelle.
Non importava null'altro in quel momento, non esisteva nient'altro in quell'istante se non loro due.
Si staccarono solo per riprendere fiato.
«Fallo ancora» gli disse Shelley dolcemente, con un sorriso a dipingerle le labbra.
«Cosa?»
«Questo» rispose prima di prendergli il viso tra le mani e appoggiare le labbra sulle sue.

 

   
 
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