Capitolo 19
-Cosa
pensavi di fare? - mi domandò Fobos, quando fummo finalmente
soli. Ci trovavamo
nella sua cella, seduti l’uno di fronte all’altra.
-
Upokrates deve morire-, ammisi, convinta della mia affermazione. Ero
sicura che
sarebbe successo, perché per una volta sia io che il mio
mostro eravamo
d’accordo.
-Non
puoi dire sul serio-.
-Ti
sembra che io stia scherzando? -, borbottai, una luce sinistra e
inquietante
negli occhi.
L’Ibrido
sbattè un pugno sul tavolo, facendo tremare persino la
lampadina del soffitto.
-Smettila
di essere così egoista! -.
La
forza della sua collera mi travolse come una colata di lava e la sua
aura esplose
come i lapilli di un vulcano, appuntita come un istrice e deforme come
un
incubo.
-Ero
disposto a uccidere i miei compagni per salvarti il culo, e tu non hai
nemmeno
una scusa plausibile? Che cosa ti ha spinta a tanto?!-.
Rimasi
in silenzio, fissandomi i piedi. Accecata come ero dalla mia furia, non
mi ero
resa conto che Fobos si era messo in pericolo per me. Si era parato
davanti a
degli uomini armati, pronto a tentare l’ultima disperata
difesa prima che tutti
e due fossimo diventati degli scolapasta.
-Guardami, per gli
Dei Benedetti! -, urlò, afferrandomi un braccio e
inginocchiandosi di fronte a
me. – E spiegami perché sei così
idiota-.
Alzai
appena il volto e per un istante i suoi occhi mi parvero verde
smeraldo. Non
c’era più traccia del bambino della visione nel
viso di Fobos se non in quella
scintilla, quella miccia che lo rendeva vivo e pronto a lottare. Non si
era mai
arreso nonostante tutto e non aveva mai fatto la vittima. Semplicemente
non si
era fatto mettere i piedi in testa dal Destino, come invece avevo fatto
io.
Improvvisamente, quel ragazzo mi appariva sotto una luce completamente
diversa
e cominciai a provare un profondo senso di rispetto nei suoi confronti.
-Ti
ringrazio per avermi giustificata, anche se non credo che la
passerò liscia-,
mormorai.
-Hai
solo avuto un crollo di nervi. Non chiederanno altro e nel caso ci
penserò io-,
mi ammutolì lui, attendendo ancora una risposta per la
precedente domanda. Non
riuscivo a sfuggirgli in alcun modo.
-Non
ti dirò perché ho tentato di fare quello che ho
fatto. Ma sappi che non ho
cambiato idea-.
Fobos
mi fulminò con i suoi occhi indagatori e, con un gesto che
mai mi sarei aspettata
da lui, allungò le braccia per quanto potè e
accolse il mio viso fra le sue
mani. Poi
accarezzò con il pollice una
ciocca di capelli scuri che gli scivolò lungo il polso,
attorcigliandosi al
braccio.
-Abbasserò
la guardia per un secondo, solo uno. Tu mi dirai tutto, e io non mi
arrabbierò-.
La
sua voce era brusca e i suoi modi rudi, eppure dal modo in cui mi aveva
protetta e mi toccava capii che avrebbe mantenuto fede alle sue parole.
Imposi
al mio viso di rimanere impassibile e ai miei occhi di non indugiare
sui graffi
che gli avevo lasciato sotto all’occhio destro.
Poi,
con calma, snocciolai i fatti. Fobos mi ascoltò
attentamente, senza scomporsi.
Nemmeno quando gli raccontai della mia visione e lo costrinsi a
rivivere il suo
incubo più grande, mostrò cosa stesse realmente
provando sotto il cuoio della
sua pelle. Si limitò a starmi a sentire, come un confessore.
-Come
puoi accettare che quell’uomo viva? Dopo quello che ti ha
fatto, deve morire.
Se la giustizia Divina non esiste, mi rifarò a quella umana-.
Fobos
rise piano appoggiando la fronte sulle mie gambe congiunte. Sentivo la
sua
pelle bruciare attraverso la stoffa dei pantaloni. Non lo avevo mai
visto così
privo di difese, con nessuno. Forse conoscere il suo passato mi aveva
dato la
chiave per accedere a lui, per non essere scansata via come tutti gli
altri.
-E
queste ti sembrano le parole di una donna di Religione? -.
Tra
le lacrime di rabbia che premevano per uscire, mi sfuggì un
sorriso.
-Non
ho mai detto di credere-, confessai. Era la prima volta che lo dicevo
ad alta
voce ed ebbi la sensazione che dopo aver pronunciato quelle sei parole
le
labbra mi fossero diventate ardenti.
-
Senti, non so se te ne sei accorta, ma sono un mostro alto due
metri…-
-Me
ne sono accorta-, risi, ricordando con una punta di amarezza il mio
primo
giorno in Accademia.
-
Pensi che se avessi voluto, non avrei ucciso io stesso quel medico con
le mie
mani? Pensi che non vorrei farlo ancora oggi, dopo che ha tentato di
sfruttare
anche te, sotto i miei occhi? -.
Le
sue labbra si muovevano discrete, ma le frasi che pronunciavano mi
paralizzavano come una tossina, come un veleno dolce e amaro assieme.
-E’
per questo che mi odi? Perché ti ricordo come eri? -,
sussurrai, incredula.
Fobos
si alzò, affondando le mani in tasca dopo essersi acceso
l’ennesima sigaretta.
-Ti
odio per molte ragioni-. Fece una pausa soffiando fuori il fumo dal
naso con un
gesto di stizza. – Ma di certo non ti odio per quello-.
Sospirai.
La macchina del caffè suonò facendoci sobbalzare
e Fobos accorse al cucinino
per versare quella bevanda dall’aroma intenso in due tazze.
Delle due mi porse
quella più bella, con un motivo geometrico accalappiante.
-Astreya,
quando ho accettato il Debito, l’ho fatto non solo per
liberarmi dalla tua
insistenza e da quella faccia da schiaffi che ti ritrovi, ma anche per
evitare
che cose come queste accadessero. Sei stata catapultata in un mondo che
decisamente non fa per te: qui siamo tutti corrotti, chi più
chi meno. Abbiamo
le mani macchiate di sangue e il cervello impalato da dottrine senza
senso. I
soldati sono carne morta alla fin della fiera. E io come loro. Per cui
Upokrates
non è peggiore né di me né di Cronyos,
Deimos o Eracleo. Non ho ragione di
credere che capirai il mio ragionamento, ma ti prego comunque di
riflettere. Se
tu avessi ucciso Upokrates, cosa avresti ottenuto se non rovinare solo
te
stessa? Vuoi davvero finire in una cella come questa e pentirti di quel
gesto
per la tua restante vita? -.
Ingurgitai
il caffè, senza pensarci. Era la prima volta che lo provavo
e pensai che fosse
amaro, amaro come l’odore che la magia di Fobos emanava.
-Non
pensi che sia una sofferenza maggiore vivere piuttosto che morire? -.
-
Fobos, tu pensi di conoscermi, ma non è così.
Capisco perfettamente la tua
posizione, ma non cambio idea. In un modo o nell’altro io
quell’uomo lo
ucciderò. Non sarà oggi, non sarà
domani, ma arriverà il giorno in cui mi farò
giustizia da sola. Non mi importa cosa penseranno gli Dei di me,
né che cosa
penserai tu. Solo quando avrò strappato il respiro a tutte
quelle bestie come
Upokrates avrò pace-.
Fobos
sollevò la tazza fumante, ma quando il suo sguardo
incontrò il suo riflesso nel
liquido scuro, decise di non bere e la riappoggiò sul suo
piattino. Riacciuffò
la sigaretta e la strinse fra i denti.
-Lo
faresti davvero, per me? -, mormorò lui, socchiudendo gli
occhi e nascondendo
le sue iridi cangianti fra le ciglia.
-Sì-,
ammisi.
-Perché?
Cosa te ne importa di me? In fondo non ci conosciamo nemmeno-.
Le
sue parole mi colsero alla sprovvista. Era vero: non sapevo nulla di
Fobos e
lui di me. Eravamo due estranei che lottavano ingenuamente
l’uno contro l’altro
mentre il mondo crollava davanti ai loro occhi. Che stupidi eravamo.
-Pensaci,
Astreya. Io sono l’uomo che ti ha spaventata a morte,
torturata e minacciata.
Sono il mostro che ti ha baciato con la forza e che ti ha rubato
l’innocenza.
Davvero vuoi arrivare ad uccidere per un uomo del genere? -.
Fece
una pausa, prima di mostrarmi il suo volto da lupo,
quell’espressione di
ferocia e dolore che ormai conoscevo bene. Il suo sorriso era
graffiante e
beffardo, pieno di sentimenti contrastanti e di un intenso desiderio di
spaventarmi a morte. Questa volta, però, non avrebbe
funzionato.
Nel
pomeriggio tornò il Reggimento che era stato inviato al
Vallum. Io e Aracne
avevamo sentito le sirene suonare appena dopo l’ora di pranzo
e ci eravamo
precipitate di fronte all’ingresso principale, dove le
guardie stavano
attendendo il ritorno dei loro uomini.
-Sono
certa che Eracleo stia bene-, affermò Aracne, annuendo
più a se stessa che a
me.
La
presi per mano e superammo alcuni gruppetti di soldati che si erano
formati
accanto a noi, e ci posizionammo lateralmente il più vicino
possibile alle
guardiole. Da lì avevamo un’ampia panoramica del
capo e potevo scorgere la scia
nera del Reggimento degli Ulivi che marciava per le vie di Carthagyos.
Sembravano spossati e i carri che li seguivano erano claudicanti, come
se
persino le ruote fossero stanche di camminare.
Un
senso di disagio mi attorcigliò lo stomaco e gettai una
rapida occhiata alle
espressioni dei miei commilitoni. Tra di essi individuai Ares, che mi
sorrise
debolmente. Alzai una mano per salutarlo e lui rispose con un cenno del
capo,
avvicinandosi lentamente.
-Buongiorno,
Custode-, disse semplicemente, porgendomi un orecchino da cui pendeva
un
piccolo pendente a forma di libellula. Era lucente e liscio, ed era il
mio
nuovo distintivo.
-Ti
è caduto-, aggiunse, quando notò lo sguardo
confuso della donna al mio fianco.
Aracne,
in effetti, lo stava fissando curiosa studiando la forma del monile che
mi era
stato appena donato. Era evidentemente perplessa di fronte a quel gesto
apparentemente senza senso, eppure non disse nulla, sapendo che per me
sarebbe
stato più semplice se non avesse ficcato il naso in quel
genere di affari.
Abbassò
il capo in segno reverenziale e, quando Ares si congedò, lo
salutò con rispetto
e reverenza.
-Grazie-,
le dissi, distrattamente, mentre scartavo uno degli orecchini
d’oro del Tempio
e appendevo al lobo il nuovo gioiello. Era inquietantemente pesante,
come se
accettando quel simbolo, avessi abbracciato qualcosa di molto
più grosso e
pesante, qualcosa che mi avrebbe trascinata a fondo.
-
Guarda, stanno arrivando-, annunciò Aracne, la quale non
aveva smesso nemmeno
un secondo di gettare occhiate apprensive al Reggimento in arrivo. La
sirena
suonò di nuovo, per tre volte, poi Cronyos fece la sua
comparsa, accompagnato
fedelmente da Deimos e Fobos. Camminavano lenti e portavano con loro
degli
strani vasi dai manici ad S.
Si
fermarono poco prima della guardiole, a qualche passo di distanza da
me. Erano
tutti vestiti con la divisa, ma erano disarmati e indossavano un nastro
nero
attorno al bicipite. Era il segno del lutto per noi Elladiani: non era
per
nulla di buon auspicio. Cominciai a chiedermi cosa fosse successo in
quella
settimana di assenza, cosa stesse accadendo nel mondo in cui vivevamo,
ma di
cui conoscevamo ben poco. Poi li vidi arrivare. Erano molti meno di
quando
erano partiti e sui carri erano avvoltolati dei corpi. Le lenzuola
sporche di
sangue spiccavano contro il nero luttuoso delle divise dei compagni,
reduci e
sopravvissuti da qualcosa che nemmeno immaginavo. Con un groppo in gola
mi
sporsi più avanti, invadendo lo spazio di un Generale
barbuto. Cercavo segni di
Eracleo, ma lui non si vedeva da nessuna parte. Lo intravidi solo
minuti dopo,
quando l’ansia ormai si era impadronita del mio corpo. Stava
trasportando un
cadavere al cospetto di Cronyos, aiutato da un compagno a me
sconosciuto.
-Ha
servito con onore la causa-, recitò lo Stratega con voce
solenne, e appose sul
petto dell’uomo una medaglia. Ecco a cosa servivano quei
vasi: erano i
contenitori dei riconoscimenti post mortem, quelli che venivano
conferiti ai
caduti per dare conforto alle loro famiglie, oltre che a loro stessi.
Infatti era
credenza comune che una volta morti, i guerrieri, al fine di dimostrare
di
avere ucciso ed essere morti nel nome del bene vero, mostrassero le
medaglie
conquistate in vita agli Dei e che questi, sazi di una tale sorta di
obolo,
accettassero di fare accedere l’anima
nell’Aldilà.
-Eracleo!
-, chiamai quando il giovane Caporale fu libero dalle sue mansioni. Era
pallido
ed emaciato e una grossa fasciatura nera gli avvolgeva la testa. Non
appena udì
la mia voce, si guardò attorno, a destra e sinistra,
cercando di individuarmi
fra i soldati radunati attorno a lui. Sollevai un braccio e lo
sventolai per
richiamarlo.
-Astreya…-,
chiamò quando mi vide, e con passo malfermo
cominciò a dirigersi verso di noi.
Gli
corsi incontro preoccupata. Che diavolo era successo? Perché
i carri erano
pieni di morti? Cominciai a sentire un pizzicore terribile agli occhi e
capii
che avevo paura, paura di un mondo in cui ero entrata per caso e di cui
non
sapevo nulla. Non avevo mai considerato il fatto che i soldati votavano
la
propria vita alla guerra, che ad ogni missione che intraprendevano
c’erano dei
caduti. Io non avevo pensato a queste cose e Fobos aveva ragione. La
realtà
dell’Esercito era molto più oscura e miserabile di
quanto pensassi.
Io
ed Eracleo ci incontrammo a metà strada, in un piccolo
spazio libero ad un
soffio dal cancello aperto. Vidi Cronyos gettare uno sguardo nella mia
direzione e sussurrare qualcosa all’orecchio di Deimos, forse
ripensando alla
scenata di fronte all’Ospedale. Fobos, invece,
voltò appena lo sguardo, mentre
recitava la formula di commiato per l’ennesimo cadavere.
-Caporale!
Meno male che sta bene! -, esclamai, prodigandomi nel consueto saluto
militare.
Eracleo mi fissò per qualche secondo, le mani strette
attorno al corpo. Poi,
fregandosene dell’etichetta, mi gettò le braccia
al collo, stringendomi con
energia. Sentii il lezzo del sangue e del sudore, oltre che della
polvere da
sparo e della morte.
-C’è
mancato poco che non tornassi-, mormorò affondando il viso
nel mio collo e
inspirando profondamente. – Non hai idea di cosa abbiamo
dovuto affrontare al
Vallum-.
Lo
afferrai per le spalle, certa che avessimo un milione di cose da
raccontarci:
volevo sapere tutto di quello che Eracleo aveva visto, nei minimi
dettagli. Ma
quello non era il momento adatto.
-Questo
è un giorno triste per la nostra Accademia, ma è
anche un nuovo inizio-, tuonò
Cronyos, inerpicatosi su un palchetto improvvisato. Parlava a voce
alta, con il
petto gonfio e un’espressione severa sul viso. –
Oggi abbiamo perso una
battaglia, e molti dei nostri amici sono caduti sul campo. Non ci
aspettavamo
nulla del genere, ma ora sappiamo come agire! Ci è servito
da lezione-.
Deimos
salì sulle casse di legno assieme allo Stratega e, con lo
sguardo di una
pantera, abbracciò tutto l’uditorio con gli occhi.
– Compagni, i funerali
avranno luogo tra due giorni, dopo che le salme saranno state
riconosciute e
portate al Tempio per la beatificazione. Le pire verranno accese la
sera stessa
e dopo il compianto funebre, come è tradizione
nell’Esercito di Elladia, ci
concederemo una serata di svago per inneggiare alla nuova e
meravigliosa vita
che attende i nostri uomini nell’Aldilà-
L’ultimo
salire sul piedistallo, dopo che Deimos ne fu sceso, fu Fobos che
squadrò il
circondario con aria assente. Spettava a lui la formula di rito finale.
-Fortuna
fortes metuit, ignavos premit*-, recitò, con la mano sul
petto e lo sguardo
diretto ai corpi fasciati che erano stesi, senza vita, sulle barelle.
Gli
astanti ripeterono la frase per tre volte e per tre volte si colpirono
il
petto. Poi Cronyos scivolò giù dal palco e
guardò nella mia direzione. Il suo
sguardo era una commistione di preoccupazione e apprensione, ma
c’era anche
qualcosa d’altro che si celava dietro le sue iridi
misteriose. Sbirciai la sua
aura senza che se ne accorgesse e mi stupii di ciò che vidi:
Cronyos non si
fidava affatto di me.
*La
Fortuna teme i forti, mentre schiaccia i paurosi.