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Autore: Dusky Doll    13/07/2015    1 recensioni
Questa è la storia di Astreya, una giovane donna dal carattere forte e dal cipiglio severo, nata in un mondo corrotto, un mondo dove bisogna crescere in fretta. Il suo mistero si cela dietro i suoi capelli neri e i suoi occhi indagatori, un segreto talmente intrigante da aver attratto le mire della casta militare e di un soldato oltremodo speciale. Ma è tutto oro ciò che luccica? E cosa deciderà Astreya: si venderà all' Esercito o deciderà di combattere da sola la sua battaglia, come un lupo solitario?
NdA: Storia illustrata... da me:) Spero vi piaccia!
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 19

-Cosa pensavi di fare? - mi domandò Fobos, quando fummo finalmente soli. Ci trovavamo nella sua cella, seduti l’uno di fronte all’altra.
- Upokrates deve morire-, ammisi, convinta della mia affermazione. Ero sicura che sarebbe successo, perché per una volta sia io che il mio mostro eravamo d’accordo.
-Non puoi dire sul serio-.
-Ti sembra che io stia scherzando? -, borbottai, una luce sinistra e inquietante negli occhi.
L’Ibrido sbattè un pugno sul tavolo, facendo tremare persino la lampadina del soffitto.
-Smettila di essere così egoista! -.
La forza della sua collera mi travolse come una colata di lava e la sua aura esplose come i lapilli di un vulcano, appuntita come un istrice e deforme come un incubo.
-Ero disposto a uccidere i miei compagni per salvarti il culo, e tu non hai nemmeno una scusa plausibile? Che cosa ti ha spinta a tanto?!-.
Rimasi in silenzio, fissandomi i piedi. Accecata come ero dalla mia furia, non mi ero resa conto che Fobos si era messo in pericolo per me. Si era parato davanti a degli uomini armati, pronto a tentare l’ultima disperata difesa prima che tutti e due fossimo diventati degli scolapasta.
-Guardami, per gli Dei Benedetti! -, urlò, afferrandomi un braccio e inginocchiandosi di fronte a me. – E spiegami perché sei così idiota-.
Alzai appena il volto e per un istante i suoi occhi mi parvero verde smeraldo. Non c’era più traccia del bambino della visione nel viso di Fobos se non in quella scintilla, quella miccia che lo rendeva vivo e pronto a lottare. Non si era mai arreso nonostante tutto e non aveva mai fatto la vittima. Semplicemente non si era fatto mettere i piedi in testa dal Destino, come invece avevo fatto io. Improvvisamente, quel ragazzo mi appariva sotto una luce completamente diversa e cominciai a provare un profondo senso di rispetto nei suoi confronti.
-Ti ringrazio per avermi giustificata, anche se non credo che la passerò liscia-, mormorai.
-Hai solo avuto un crollo di nervi. Non chiederanno altro e nel caso ci penserò io-, mi ammutolì lui, attendendo ancora una risposta per la precedente domanda. Non riuscivo a sfuggirgli in alcun modo.
-Non ti dirò perché ho tentato di fare quello che ho fatto. Ma sappi che non ho cambiato idea-.
Fobos mi fulminò con i suoi occhi indagatori e, con un gesto che mai mi sarei aspettata da lui, allungò le braccia per quanto potè e accolse il mio viso fra le sue mani.  Poi accarezzò con il pollice una ciocca di capelli scuri che gli scivolò lungo il polso, attorcigliandosi al braccio.
-Abbasserò la guardia per un secondo, solo uno. Tu mi dirai tutto, e io non mi arrabbierò-.
La sua voce era brusca e i suoi modi rudi, eppure dal modo in cui mi aveva protetta e mi toccava capii che avrebbe mantenuto fede alle sue parole. Imposi al mio viso di rimanere impassibile e ai miei occhi di non indugiare sui graffi che gli avevo lasciato sotto all’occhio destro.
Poi, con calma, snocciolai i fatti. Fobos mi ascoltò attentamente, senza scomporsi. Nemmeno quando gli raccontai della mia visione e lo costrinsi a rivivere il suo incubo più grande, mostrò cosa stesse realmente provando sotto il cuoio della sua pelle. Si limitò a starmi a sentire, come un confessore.
-Come puoi accettare che quell’uomo viva? Dopo quello che ti ha fatto, deve morire. Se la giustizia Divina non esiste, mi rifarò a quella umana-.
Fobos rise piano appoggiando la fronte sulle mie gambe congiunte. Sentivo la sua pelle bruciare attraverso la stoffa dei pantaloni. Non lo avevo mai visto così privo di difese, con nessuno. Forse conoscere il suo passato mi aveva dato la chiave per accedere a lui, per non essere scansata via come tutti gli altri.
-E queste ti sembrano le parole di una donna di Religione? -.
Tra le lacrime di rabbia che premevano per uscire, mi sfuggì un sorriso.
-Non ho mai detto di credere-, confessai. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce ed ebbi la sensazione che dopo aver pronunciato quelle sei parole le labbra mi fossero diventate ardenti.
- Senti, non so se te ne sei accorta, ma sono un mostro alto due metri…-
-Me ne sono accorta-, risi, ricordando con una punta di amarezza il mio primo giorno in Accademia.
- Pensi che se avessi voluto, non avrei ucciso io stesso quel medico con le mie mani? Pensi che non vorrei farlo ancora oggi, dopo che ha tentato di sfruttare anche te, sotto i miei occhi? -.
Le sue labbra si muovevano discrete, ma le frasi che pronunciavano mi paralizzavano come una tossina, come un veleno dolce e amaro assieme.
-E’ per questo che mi odi? Perché ti ricordo come eri? -, sussurrai, incredula.
Fobos si alzò, affondando le mani in tasca dopo essersi acceso l’ennesima sigaretta.
-Ti odio per molte ragioni-. Fece una pausa soffiando fuori il fumo dal naso con un gesto di stizza. – Ma di certo non ti odio per quello-.
Sospirai. La macchina del caffè suonò facendoci sobbalzare e Fobos accorse al cucinino per versare quella bevanda dall’aroma intenso in due tazze. Delle due mi porse quella più bella, con un motivo geometrico accalappiante.
-Astreya, quando ho accettato il Debito, l’ho fatto non solo per liberarmi dalla tua insistenza e da quella faccia da schiaffi che ti ritrovi, ma anche per evitare che cose come queste accadessero. Sei stata catapultata in un mondo che decisamente non fa per te: qui siamo tutti corrotti, chi più chi meno. Abbiamo le mani macchiate di sangue e il cervello impalato da dottrine senza senso. I soldati sono carne morta alla fin della fiera. E io come loro. Per cui Upokrates non è peggiore né di me né di Cronyos, Deimos o Eracleo. Non ho ragione di credere che capirai il mio ragionamento, ma ti prego comunque di riflettere. Se tu avessi ucciso Upokrates, cosa avresti ottenuto se non rovinare solo te stessa? Vuoi davvero finire in una cella come questa e pentirti di quel gesto per la tua restante vita? -.
Ingurgitai il caffè, senza pensarci. Era la prima volta che lo provavo e pensai che fosse amaro, amaro come l’odore che la magia di Fobos emanava.
-Non pensi che sia una sofferenza maggiore vivere piuttosto che morire? -.
- Fobos, tu pensi di conoscermi, ma non è così. Capisco perfettamente la tua posizione, ma non cambio idea. In un modo o nell’altro io quell’uomo lo ucciderò. Non sarà oggi, non sarà domani, ma arriverà il giorno in cui mi farò giustizia da sola. Non mi importa cosa penseranno gli Dei di me, né che cosa penserai tu. Solo quando avrò strappato il respiro a tutte quelle bestie come Upokrates avrò pace-.
Fobos sollevò la tazza fumante, ma quando il suo sguardo incontrò il suo riflesso nel liquido scuro, decise di non bere e la riappoggiò sul suo piattino. Riacciuffò la sigaretta e la strinse fra i denti.
-Lo faresti davvero, per me? -, mormorò lui, socchiudendo gli occhi e nascondendo le sue iridi cangianti fra le ciglia.
-Sì-, ammisi.
-Perché? Cosa te ne importa di me? In fondo non ci conosciamo nemmeno-.
Le sue parole mi colsero alla sprovvista. Era vero: non sapevo nulla di Fobos e lui di me. Eravamo due estranei che lottavano ingenuamente l’uno contro l’altro mentre il mondo crollava davanti ai loro occhi. Che stupidi eravamo.
-Pensaci, Astreya. Io sono l’uomo che ti ha spaventata a morte, torturata e minacciata. Sono il mostro che ti ha baciato con la forza e che ti ha rubato l’innocenza. Davvero vuoi arrivare ad uccidere per un uomo del genere? -.
Fece una pausa, prima di mostrarmi il suo volto da lupo, quell’espressione di ferocia e dolore che ormai conoscevo bene. Il suo sorriso era graffiante e beffardo, pieno di sentimenti contrastanti e di un intenso desiderio di spaventarmi a morte. Questa volta, però, non avrebbe funzionato.

 

Nel pomeriggio tornò il Reggimento che era stato inviato al Vallum. Io e Aracne avevamo sentito le sirene suonare appena dopo l’ora di pranzo e ci eravamo precipitate di fronte all’ingresso principale, dove le guardie stavano attendendo il ritorno dei loro uomini.
-Sono certa che Eracleo stia bene-, affermò Aracne, annuendo più a se stessa che a me.
La presi per mano e superammo alcuni gruppetti di soldati che si erano formati accanto a noi, e ci posizionammo lateralmente il più vicino possibile alle guardiole. Da lì avevamo un’ampia panoramica del capo e potevo scorgere la scia nera del Reggimento degli Ulivi che marciava per le vie di Carthagyos. Sembravano spossati e i carri che li seguivano erano claudicanti, come se persino le ruote fossero stanche di camminare.
Un senso di disagio mi attorcigliò lo stomaco e gettai una rapida occhiata alle espressioni dei miei commilitoni. Tra di essi individuai Ares, che mi sorrise debolmente. Alzai una mano per salutarlo e lui rispose con un cenno del capo, avvicinandosi lentamente.
-Buongiorno, Custode-, disse semplicemente, porgendomi un orecchino da cui pendeva un piccolo pendente a forma di libellula. Era lucente e liscio, ed era il mio nuovo distintivo.
-Ti è caduto-, aggiunse, quando notò lo sguardo confuso della donna al mio fianco.
Aracne, in effetti, lo stava fissando curiosa studiando la forma del monile che mi era stato appena donato. Era evidentemente perplessa di fronte a quel gesto apparentemente senza senso, eppure non disse nulla, sapendo che per me sarebbe stato più semplice se non avesse ficcato il naso in quel genere di affari.
Abbassò il capo in segno reverenziale e, quando Ares si congedò, lo salutò con rispetto e reverenza.
-Grazie-, le dissi, distrattamente, mentre scartavo uno degli orecchini d’oro del Tempio e appendevo al lobo il nuovo gioiello. Era inquietantemente pesante, come se accettando quel simbolo, avessi abbracciato qualcosa di molto più grosso e pesante, qualcosa che mi avrebbe trascinata a fondo.
- Guarda, stanno arrivando-, annunciò Aracne, la quale non aveva smesso nemmeno un secondo di gettare occhiate apprensive al Reggimento in arrivo. La sirena suonò di nuovo, per tre volte, poi Cronyos fece la sua comparsa, accompagnato fedelmente da Deimos e Fobos. Camminavano lenti e portavano con loro degli strani vasi dai manici ad S.
Si fermarono poco prima della guardiole, a qualche passo di distanza da me. Erano tutti vestiti con la divisa, ma erano disarmati e indossavano un nastro nero attorno al bicipite. Era il segno del lutto per noi Elladiani: non era per nulla di buon auspicio. Cominciai a chiedermi cosa fosse successo in quella settimana di assenza, cosa stesse accadendo nel mondo in cui vivevamo, ma di cui conoscevamo ben poco. Poi li vidi arrivare. Erano molti meno di quando erano partiti e sui carri erano avvoltolati dei corpi. Le lenzuola sporche di sangue spiccavano contro il nero luttuoso delle divise dei compagni, reduci e sopravvissuti da qualcosa che nemmeno immaginavo. Con un groppo in gola mi sporsi più avanti, invadendo lo spazio di un Generale barbuto. Cercavo segni di Eracleo, ma lui non si vedeva da nessuna parte. Lo intravidi solo minuti dopo, quando l’ansia ormai si era impadronita del mio corpo. Stava trasportando un cadavere al cospetto di Cronyos, aiutato da un compagno a me sconosciuto.
-Ha servito con onore la causa-, recitò lo Stratega con voce solenne, e appose sul petto dell’uomo una medaglia. Ecco a cosa servivano quei vasi: erano i contenitori dei riconoscimenti post mortem, quelli che venivano conferiti ai caduti per dare conforto alle loro famiglie, oltre che a loro stessi. Infatti era credenza comune che una volta morti, i guerrieri, al fine di dimostrare di avere ucciso ed essere morti nel nome del bene vero, mostrassero le medaglie conquistate in vita agli Dei e che questi, sazi di una tale sorta di obolo, accettassero di fare accedere l’anima nell’Aldilà.
-Eracleo! -, chiamai quando il giovane Caporale fu libero dalle sue mansioni. Era pallido ed emaciato e una grossa fasciatura nera gli avvolgeva la testa. Non appena udì la mia voce, si guardò attorno, a destra e sinistra, cercando di individuarmi fra i soldati radunati attorno a lui. Sollevai un braccio e lo sventolai per richiamarlo.
-Astreya…-, chiamò quando mi vide, e con passo malfermo cominciò a dirigersi verso di noi.
Gli corsi incontro preoccupata. Che diavolo era successo? Perché i carri erano pieni di morti? Cominciai a sentire un pizzicore terribile agli occhi e capii che avevo paura, paura di un mondo in cui ero entrata per caso e di cui non sapevo nulla. Non avevo mai considerato il fatto che i soldati votavano la propria vita alla guerra, che ad ogni missione che intraprendevano c’erano dei caduti. Io non avevo pensato a queste cose e Fobos aveva ragione. La realtà dell’Esercito era molto più oscura e miserabile di quanto pensassi.
Io ed Eracleo ci incontrammo a metà strada, in un piccolo spazio libero ad un soffio dal cancello aperto. Vidi Cronyos gettare uno sguardo nella mia direzione e sussurrare qualcosa all’orecchio di Deimos, forse ripensando alla scenata di fronte all’Ospedale. Fobos, invece, voltò appena lo sguardo, mentre recitava la formula di commiato per l’ennesimo cadavere.
-Caporale! Meno male che sta bene! -, esclamai, prodigandomi nel consueto saluto militare. Eracleo mi fissò per qualche secondo, le mani strette attorno al corpo. Poi, fregandosene dell’etichetta, mi gettò le braccia al collo, stringendomi con energia. Sentii il lezzo del sangue e del sudore, oltre che della polvere da sparo e della morte.
-C’è mancato poco che non tornassi-, mormorò affondando il viso nel mio collo e inspirando profondamente. – Non hai idea di cosa abbiamo dovuto affrontare al Vallum-.
Lo afferrai per le spalle, certa che avessimo un milione di cose da raccontarci: volevo sapere tutto di quello che Eracleo aveva visto, nei minimi dettagli. Ma quello non era il momento adatto.
-Questo è un giorno triste per la nostra Accademia, ma è anche un nuovo inizio-, tuonò Cronyos, inerpicatosi su un palchetto improvvisato. Parlava a voce alta, con il petto gonfio e un’espressione severa sul viso. – Oggi abbiamo perso una battaglia, e molti dei nostri amici sono caduti sul campo. Non ci aspettavamo nulla del genere, ma ora sappiamo come agire! Ci è servito da lezione-.
Deimos salì sulle casse di legno assieme allo Stratega e, con lo sguardo di una pantera, abbracciò tutto l’uditorio con gli occhi. – Compagni, i funerali avranno luogo tra due giorni, dopo che le salme saranno state riconosciute e portate al Tempio per la beatificazione. Le pire verranno accese la sera stessa e dopo il compianto funebre, come è tradizione nell’Esercito di Elladia, ci concederemo una serata di svago per inneggiare alla nuova e meravigliosa vita che attende i nostri uomini nell’Aldilà-
L’ultimo salire sul piedistallo, dopo che Deimos ne fu sceso, fu Fobos che squadrò il circondario con aria assente. Spettava a lui la formula di rito finale.
-Fortuna fortes metuit, ignavos premit*-, recitò, con la mano sul petto e lo sguardo diretto ai corpi fasciati che erano stesi, senza vita, sulle barelle.
Gli astanti ripeterono la frase per tre volte e per tre volte si colpirono il petto. Poi Cronyos scivolò giù dal palco e guardò nella mia direzione. Il suo sguardo era una commistione di preoccupazione e apprensione, ma c’era anche qualcosa d’altro che si celava dietro le sue iridi misteriose. Sbirciai la sua aura senza che se ne accorgesse e mi stupii di ciò che vidi: Cronyos non si fidava affatto di me.

 

*La Fortuna teme i forti, mentre schiaccia i paurosi.

   
 
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