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Autore: Lena_Railgun    14/07/2015    1 recensioni
"Io sono troppo io, un completo disastro, un errore che non doveva essere compiuto,
una semplice persona in più che usufruiva dell'ossigeno delle persone che meritano di vivere.
Io sono sempre l'ultima. "
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Invidiavo quelle persone capaci di guardarsi allo specchio ed abbozzare un sorriso davanti alla propria immagine riflessa. Come ci riescano, lo ignoro.
Lo specchio è il mio più grande nemico, vedermi in tutti i miei difetti fisici crea in me una sorta di nervosismo che mi porta a provare un'opprimente
sensazione allo stomaco, fastidiosa come poche. Quel giorno, però, quando passai davanti allo specchio, una vocina dentro di me mi disse “Specchiati”.
Il motivo mi era ignoto e sapevo che non avrei dovuto farlo. Eppure mi voltai e mi posizionai davanti a quell'arnese infernale. Viso troppo pallido e
malaticcio, troppo spigoloso, imperfetto. Collo troppo lungo, corpo non abbastanza magro, cosce grosse, due piedi enormi. I capelli lisci biondi ricadevano
sulle mie spalle e gli occhi grigi erano spenti nel mezzo del viso. Sorrisi ironicamente: perché lo avevo fatto? Probabilmente, anche la mia mente si divertiva
a prendersi gioco di me. Io sono troppo io, un completo disastro, un errore che non doveva essere compiuto, una semplice persona in più che usufruiva
dell'ossigeno delle persone che meritano di vivere. Io sono sempre l'ultima.

L'adolescenza è uno dei periodi più tragici della vita dell'essere umano, un periodo dove le vecchie credenze vengono distrutte, il guscio dei genitori
si rompe per farci affrontare quella che è la realtà, così crudele e falsa. Odio vivere da quando ho scoperto questa crudeltà, precisamente dall'età di
dodici anni, da quando mi sono resa conto di essere un fallimento. A volte mi chiedevo che senso avesse continuare a studiare, per quale motivo lo
stavo facendo. Non avevo sogni né obiettivi. Alla domanda “cosa vorresti fare dopo il liceo?” ho sempre dato risposte molto vaghe. Quei pensieri erano
diventati così fastidiosi che decisi di accantonarli per un po',anzi, di smettere totalmente di pensarci, lasciandoli dietro di me.

Dopo essermi osservata allo specchio con l'unico risultato di un volto rigato dalle lacrime di rabbia, mi immersi nel caldo abbraccio che solo una coperta
poteva darmi. Mi sarebbe piaciuto poter andare lontano, rifugiarmi in qualche posto sconosciuto, entrare in un mondo tutto mio, nascondermi in una parte
della mia anima, quella ancora sana, non ancora corrotta da questa  depressione. Mi chiesi se esistesse ancora, ma speravo di sì. Quella parte di me
dove custodivo i ricordi della mia infanzia dove ero “me”, quella vera, quella che, nonostante i modi goffi ed imbranati, sorrideva, rideva, ci riprovava
finché non ci riusciva. Cos'ero diventa? Strinsi al petto il cuscino, non trovando una risposta adatta a quella domanda. Quel pomeriggio non fu
particolarmente diverso da quelli che ero abituata a trascorrere. Aprii i libri con la consapevolezza che non sarei mai riuscita a fare abbastanza,
che non sarei mai stata abbastanza brava. Mi ritrovai a leggere distrattamente il capitolo di storia che dovevo studiare per il giorno successivo,
ma non provai neanche a cercare la concentrazione. Ero svogliata, annoiata, non avevo le forza e neanche un vero e proprio motivo per tentare.
Sospirai e continuai a fissare la pagina, e il pomeriggio passò, lasciando spazio alle luci del tramonto ed al buio del cielo notturno. Ad un tratto sentì
qualcuno bussare alla porta e mia madre fece capolino:

-Ambra, vieni a mangiare- mi disse.

Mi alzai da quella scrivania infernale e scesi lentamente le scale, cercando di dire al mio stomaco che era ora di mangiare, ma sembrava rifiutarsi.
Ignorai i suoi lamenti e mangiai lentamente, un boccone alla volta, non tanto per saziarmi, quanto per evitare di sentirmi dire che non mangiavo
abbastanza e le solite cose che dice un genitore, le solite battute ripetute meccanicamente che sentivo quasi ad ogni pasto. Quel giorno volevo evitarle.

Mi chiesi se il mio nome nell'elenco ci fosse ancora perché spesso mi veniva il dubbio. Entrai in classe trascinando i piedi che cercavano di scappare,
di tornare a casa sotto le coperte, per dormire e scoprire che tutto ciò che stavo vivendo era un incubo che sarebbe finito non appena avessi aperto gli occhi.
Ma sapevo che era una bugia, un'illusione sulla quale continuavo a sperare. Nessuno mi salutò quando comparsi sulla soglia della porta, e io non sprecai
fiato per un saluto che sarebbe sparito nell'aria, non lasciando alcun ricordo. Mi sedetti nel mio posto in prima fila, nell'angolo della classe. Da sola.
La mia compagna di banco si era fatta spostare e nessuno voleva starmi accanto. É triste, ma ci si fa l'abitudine dopo un po'. Alla prima ora mi
consegnarono la verifica di matematica fatta la settimana prima. Osservai quel 6 scritto con la penna rossa ed ascoltai le voci  contente delle mie
compagne di classe parlando dei loro bellissimi voti. Il mio era stato il più basso, come al solito. Era per quello che smisi di studiare, di provarci.
Nonostante i miei sforzi, io sarei rimasta l'ultima in qualunque caso. Alla terza ora, la professoressa di italiano/storia ci diede da fare un tema di
riflessione personale: cosa pensavamo di noi stessi e del rapporto con il mondo. Ho finito per prima: ho consegnato in bianco e, dopo di che,
sono uscita ignorando le parole della mia insegnante che mi ordinava di tornare indietro. Chiusi la porta dietro di me con un nodo alla gola e mi
rifugiai in bagno. Appena ci arrivai, inspirai profondamente. Sentivo come se al posto dello stomaco avessi un felino che si stava agitando e contorcendo.
I respiri divennero più affannosi e,nonostante una voce dentro di me mi dicesse di stare tranquilla, la sentivo sempre più lontana da me e non riuscivo a darle retta.
Mi sembrò di vomitare l'anima. Rimasi accucciata davanti alla tazza del water per diversi minuti, tirando i capelli dietro alle orecchie.
Quando il mio stomaco si calmò, presi un respiro profondo ed uscì dal box avvicinandomi al lavandino di ceramica bianca. Mi lavai la faccia con
l'acqua fredda ed evitai accuratamente lo specchio di fronte a me. Sentii la porta aprirsi e vidi una mia compagna di classe sulla soglia.

-Ambra stai male?- mi chiese Elena con un tono preoccupato che mi dava sui nervi.

-Perché? Ti interessa?- sbottai con un tono acido che usavo raramente. Elena mi squadrò e si soffermò sul mio viso. Ignorò le mie parole e mi disse:

-Sei pallida. Vieni, ti porto in infermeria- cercò di prendermi il braccio ma io lo ritrassi.

-Non mi piace il contatto con le persone. -

Elena sbuffò -Ok come vuoi, ma seguimi-

A mala voglia, la seguii su per le scale verso una porta bianca dove si trovava l'infermeria della scuola, molto piccola ma confortevole.
Entrai e notai una donna dai capelli corti rossicci intenta a leggere un libro su una sedia di plastica accanto ad un letto dalle bianche lenzuola.
La donna alzò gli occhi e mi osservò:

-Ambra,tesoro, che succede?- mi chiese Antonella, la bidella addetta all'infermeria. Ero spesso lì perciò non si stupii troppo nel vedermi.

-Mi sembra molto pallida- esclamò Elena dalla soglia della porta.

-Grazie per averla portata qui. Avvisa la professoressa che è qui con me-

Elena annuì e sparì per il corridoio. Mi sedetti sul morbido letto e affondai il volto tra le mani mentre Antonella si avvicinò silenziosamente,
come per darmi tempo, tempo per per pensare. Dopo qualche minuto di silenzio puro, mi decisi ad aprire la bocca.
La mia voce suonava debole, stanca e roca, come se non volesse uscire dalla mia gola.

-Ci hanno detto di scrivere un tema su di noi, sul rapporto che abbiamo con il mondo- cominciai, mentre le dita rugose di Antonella toccavano con dolcezza i miei capelli.
-Ho consegnato in bianco. Poi sono scappata in bagno e...ho rimesso- dissi, mordendomi un'unghia, come fosse un antistress.
In principio, Antonella non disse nulla e continuò a passarmi le dita tra i capelli, come per cacciare via i miei cattivi pensieri.
Quando smise, mi prese le mani e guardò dritto verso i miei occhi:

-Ambra, tu devi risolvere questa situazione. Tu non sei così, io ne sono sicura- mi disse con determinazione.
È facile dare consigli quando non si sta vivendo una situazione precisa. Ma ascoltarli e lottare è difficile e ,per me, lo è ancora di più.
Per una persona che odia vivere da quando ha dodici anni, che ha perso le speranze ormai da tempo, è quasi impossibile.
Eppure, ero decisa ad ascoltare le parole che mi stava dicendo. Una parte di me, si chiedeva il perché. Perché credere quando bisogna solo soccombere?
Ma, c'era ancora quella me bambina, quella Ambra forte e gioiosa che cercava di emergere dall'oblio. “Provaci” mi diceva e io volevo ascoltarla.
Almeno per una volta. L'unica cosa che poteva accadere, era la delusione ma la provavo così spesso che sarei riuscita a sopportarla ancora una volta.
E se non fosse stato così, avrei solo vissuto un'altra crisi. Al solo pensiero delle mie crisi, scossi la testa, cacciandolo via.
Antonella si alzò e si avvicinò ad un piccolo tavolino pieghevole nell'angolo della stanza. Prese un thermos, ne versò il contenuto in una
piccola tazzina di plastica e me la porse. Ringraziai ed osservai la tazza piena di thé. Alzai lo sguardo e chiesi:

-Non hai mai avuto momenti dove...volevi mollare tutto?- chiesi con un nodo alla gola.

-Ambra, li abbiamo tutti. Vivere non è una passeggiata. Ti si presenteranno mille difficoltà davanti e, o le affronti o
continuerai a scappare per il resto della vita, nascondendoti sotto le coperte a piangerti addosso. È questo ciò che vuoi?- mi chiese.
Sembrava uno di quei rimproveri che mi fa mia madre nei periodi peggiori. Ho sempre ignorato quelle parole,
ho sempre continuato ad urlare parole senza senso, lasciandola in preda alla rabbia e facendola uscire dalla mia stanza sbattendo rumorosamente la porta.

-Io odio vivere. Io odio me stessa, non potrò mai amarmi o essere una ragazza normale.-sospirai sorseggiando il liquido caldo.

-Combatti!- esclamò Antonella con una tenacia che non avevo mai visto -La vita è costellata da delusioni, paure ed incertezze.
Si possono superare, non è impossibile! Sei tu che sei convinta che non ce la farai mai, che sei destinata a fallire in ogni cosa che fai.
Fino a quando non cambierai prospettiva non ne verrai fuori- mi disse mentre i suoi occhi brillavano per le emozioni che stava cercando di trasmettermi.
Ma io non riuscivo a captarle. Rimasi lì a fissare la tazza di liquido bollente che mi scaldava le mani fredde come il ghiaccio, fredde come il mio sguardo.
Non avevo né la forza, né la voglia per ribattere...o forse ero consapevole di non poterlo fare? Aveva davvero ragione lei?
All'improvviso, la porta dell'infermeria si aprì e sulla soglia comparve la mia docente di italiano/storia, con uno sguardo che non riuscì a decifrare.

-Ambra ce la fai a tornare in classe?- mi chiese. Io annuii e mi alzai, lasciando la tazza sul tavolo all'angolo della stanza.
Salutai Antonella, la quale mi rivolse un sorriso complice ed uscii. L'idea di tornare in classe non mi entusiasmava, per il semplice fatto che le mie compagne,
pettegole come poche, avrebbero cominciato a lanciarmi occhiatacce, discutendo sulla consegna del compito in bianco.
Nonostante siano affari miei, noto con dispiacere che le persone non riescono a tacere quando dovrebbero.
Mentre pensavo a ciò, la mia professoressa mi fermò:
-Ambra, ti piacerebbe partecipare ad un corso di autostima?- mi chiese. Io la scrutai,quasi offesa:
-Perché me lo propone?- chiesi sostenendo lo sguardo verso i suoi occhi.
-Perché tu ne hai davvero bisogno- rispose, come se mi stesse obbligando a prendervi parte.
-Beh io non voglio- sbottai -A cosa mi servirebbe?-
-A stare meglio. A farti capire che nella vita esistono alti e bassi. Vuoi che ciò che stai vivendo passi?
Allora fai tu il primo passo. Non aspettare che un giorno,d'un tratto, starai meglio. Pensaci- mi spiegò, con un tono e un atteggiamento
diverso che ero abituata a vedere in quelle sei ore di lezioni frontali.
Sembrava che mi stesse parlando più come una madre che come una professoressa.
Questo sciolse un po' quell'acidità che governava il mio cuore perciò annuii e dissi:

-Ci penserò.-

Lei sembrò soddisfatta dalla mia risposta, quasi come fosse stato un “sì”.Mi consegnò il volantino che piegai e misi in tasca.
Entrai in classe senza dire una parola e feci per sedermi al solito posto ma,con grande sorpresa,
notai che Elena si era seduta nel posto accanto al mio. Le lanciai un'occhiata interrogativa che lei ignorò ;
mi sedetti e presi lentamente il libro di storia dallo zaino. Poi guardai Elena e chiesi:

-Perché sei seduta qui? Questo posto non piace a nessuno- chiesi guardandola di traverso.

-Io trovo che si stia bene.- disse vagamente. Sospirai: io quella ragazza non riuscivo a capirla.
Cosa ci faceva una persona allegra come lei, vicino ad una come me?

Quando tornai a casa quel giorno, mi sedetti a tavola con lo stomaco più chiuso degli altri giorni.
Mangiai il minimo indispensabile e, ai lamenti di mia madre,
dissi che non mi sentivo bene. Lei sospirò e mi diede un bacio sulla testa.

-Ti preparo una tazza di latte caldo?- chiese ma io rifiutai. Mi alzai lentamente e mi diressi in bagno.
Quando i miei occhi incrociarono lo specchio, sentì le gambe cedere. Mi vidi incredibilmente grassa, i capelli appiccicati alla fronte, il volto troppo paffuto.
Indietreggiai di qualche passo in preda al panico. Sentivo nuovamente quel felino muoversi nel mio stomaco e,nuovamente, non potevo farcela.
Non provai nemmeno a dirmi di calmarmi, di non farmi assalire dalla paura perché ormai era troppo tardi.
Dato che non avevo mangiato praticamente nulla, mi chiesi cosa stessi vomitando, considerando che lo avevo fatto anche qualche ora prima.
La mia mente era confusa, non ragionava, era annebbiata, stanca, devastata. Mi accasciai a terra, sbattendo le ginocchia contro le piastrelle
nel momento in cui mia madre fece il suo ingresso in bagno.

-Ambra, che succede?- chiese preoccupata.

-Mamma guardami! Sono grassa, faccio paura!- urlai in preda al panico, indicando lo specchio. Mia madre mi guardò perplessa e rimase in silenzio,
ad ascoltare i miei singhiozzi. Poi tese la mano perché io la afferrassi.

-Vieni- fece. Io non capivo, ma ubbidii. Mi guidò davanti allo specchio, nemico che tanto odiavo e disse:

-Guardati per favore-

Le guance paffute non c'erano più, il corpo grasso scomparve lasciando spazio ad un volto spigoloso e pallido,
ad un corpo magro anche troppo ma, tutto sommato, grazioso.

-Ciò che tu vedevi, era frutto della tua testa. Non sei grassa né brutta. Non hai niente che non vada esteriormente.
Ciò che non va, sono i tuoi pensieri- mi disse con sicurezza.

Fissai la mia immagine riflessa, i miei grandi occhi grigi e i capelli biondi. Toccai il viso, come per assicurarmi che fosse
davvero ciò che vedevo  e non frutto di un'altra illusione. Mi morsi l'unghia del pollice e mi buttai tra le braccia di mia madre.

-Voglio guarire mamma. Non ne posso più- urlai spaventata. Era davvero ora di ascoltare quei consigli fastidiosi, quelle parole che avevo sempre ignorato.
Io non stavo male: io volevo soffrire. Ed era tempo di apprezzarsi di più.

 

Non fu facile liberarsi dalla depressione, quando ti ha sempre circondata per così tanto tempo.Il mio psichiatra, inizialmente,
mi disse che dovevo prendere gli antidepressivi e che senza di essi non sarei riuscita a guarire, ma mi rifiutai, decisa di contare solo sulle mie forze.
Frequentai il corso sull'autostima che mi suggerì la mia professoressa e mi fu davvero molto utile.
Capii quanto è importante riuscire a gestire le emozioni, a sfruttarle nel modo adeguato, a vincere su di loro.
Frequentai quel corso fino alla fine del maggio di quell'anno e molte cose cambiarono.
Elena mi aiutò e mi assistette nella mia ricerca del benessere psicologico e nel mio rapporto con il cibo.
Senza volerlo, ero andata incontro anche ad una forma di anoressia.
Mi scrisse una dieta  per punti che dovevo seguire non tanto perché lei mi obbligasse,
ma perché che ero io a desiderarlo, ero io che volevo stare meglio.
Uscii dalla terza liceo con una buona media e circondata da nuovi amici, che avevo conosciuto grazie ad Elena
e persone frequentanti il mio corso, persone come me che potevano capirmi ed aiutarmi.
Passai diversi periodi difficili nel corso dei due anni scolastici rimanenti ma,nonostante a volte il pensiero di arrendermi era forte, non lo feci mai,
non mi lasciai sconfiggere ed uscì dal liceo con molta soddisfazione, portandomi a casa quel 94 come fosse un piccolo trofeo.
Ora ho 37 anni e sono diventata psicologa e madre di un'adorabile bimba di dieci anni di nome Michela.
Lei ha preso tutto da suo padre: l'allegria, la spigliatezza, l'empatia e la generosità.
Mi capitano molte pazienti che ricordano la me di sedici anni, circondate da paure e da ansie.
Una delle cose più belle del mio lavoro è riuscire a far tornare il sorriso in quei visi pallidi e spenti oscurati dall'odio verso sé stessi.

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NOTE DELL'AUTRICE
salve a tutti, questa è la prima storia che pubblico quì, ho deciso di usare questa perché è carica di significato e molto importante per me.
Penso si vede che ho avuto influenza da lievi studi di psicologia, mi piace molto, si è impossessata di me ahaha
Ad ogni modo, se l'avete letta vi ringrazio di cuore, e spero vi sia piaciuta! A presto
   
 
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