Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    14/07/2015    2 recensioni
"Lui amava Sherlock Holmes.
Con il suo cuore.
Con la sua anima.
Con tutto se stesso.
E non glielo aveva mai detto.
E adesso l’unico consulente investigativo al mondo, l’unico uomo che lo avesse mai amato con tutto se stesso, senza riserve e senza pregiudizi, stava morendo.
Questa volta per davvero.
Nessun trucco.
Nessuna fuga.
Solo la morte.
Vera.
Terribile.
Permanente."
[AU Serie 3]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Shattered

III
Fear
 
 Mycroft prese posto al fondo dell'ambulanza, dietro la barella, accanto al capo di Sherlock.
 Il fratello era sempre più pallido e i suoi occhi si stavano lentamente chiudendo, cedendo alla stanchezza e al dolore. Quando incontrò lo sguardo di suo fratello, però, sembrò rianimarsi. Si agitò sulla barella, portando una mano alla ferita, lamentandosi e tentando di mettersi seduto.
 «Shh… stai fermo.» disse Mycroft accarezzandogli i capelli con una mano e il collo con l’altra per tranquillizzarlo e tenerlo fermo. «Va tutto bene. Sono qui.»
 «Myc…» bofonchiò con il fiato corto.
 «È tutto ok.» affermò, ma subito il bip dell’elettrocardiogramma lo smentì.
 L’immagine sullo schermo divenne piatta e il bip si fece continuo e assordante. Il cuore del politico si fermò nello stesso istante, insieme a quello del fratello.
 «No, Sherlock.» mormorò.
 Non poteva perderlo.
 Non poteva morire davvero.
 Non così.
 Non a causa di Mary.
 «Lo stiamo perdendo.» disse uno dei paramedici.
 «Dobbiamo rianimarlo.» affermò l’altro e scostò Mycroft tirandolo per le spalle, in modo da poter utilizzare il defibrillatore senza danneggiare lui.
 Dopo due scariche, il cuore di Sherlock, lentamente, ripartì.
 «Ce l’abbiamo.» affermò l’infermiere accanto a Mycroft, lasciandolo andare.
 Il politico sospirò di sollievo e poggiò la fronte contro quella del fratello. «Oh, Sherlock…» una lacrima scivolò lungo la sua guancia. «Sherlock, sono qui con te.» ansimò «Non me ne vado. Ma tu non lasciarmi.» lo implorò «Non lasciarmi.»   
 
 Greg raggiunse Baker Street. Mycroft l’aveva chiamato raccontandogli quello che era successo e chiedendogli di tenere d’occhi John perché era sconvolto dopo ciò che aveva scoperto. Lestrade era andato a casa Watson, ma aveva trovato solo Mary che gli aveva fatto sapere che John era rimasto nel suo vecchio appartamento.
 Così l’aveva raggiunto ed era entrato senza neanche bussare.
 John era seduto accanto alla poltrona di Sherlock, di fronte al camino e nemmeno si accorse che qualcuno aveva varcato la soglia.
 «John.» lo chiamò Greg.
 Lui si voltò, gli occhi colmi di lacrime e il volto pallido come un cencio.
 «Ehi.» lo salutò «Amico, è tutto ok?»
 Il medico scosse il capo. «È tutta colpa mia.» mormorò «Sherlock sta morendo per colpa mia…» come poteva ancora volerlo come amico? John era la più grande disgrazia capitata a Sherlock Holmes. Da quando era arrivato, non aveva fatto altro che rovinare tutto. Aveva distrutto ogni cosa. «L’ho fatto soffrire, l’ho respinto, ho negato ciò che provavo per lui e gli ho anche chiesto di farmi da testimone. L’ho distrutto… Dio, come ho potuto?»
 «Sai che non è vero, John.» ribatté il poliziotto «Sei il suo migliore amico. Tutto ciò che ha fatto l’ha fatto per te. Perché tiene a te.» assicurò e si inginocchiò al suo fianco.
 John scosse il capo. «Come ho potuto permettere che Mary gli sparasse?»
 Greg sospirò. Avrebbe dovuto chiarire quella storia con Mycroft, per adesso aveva capito ben poco di ciò che stava succedendo.
 «Morirà per colpa mia.»
 Lestrade scosse il capo. «Sta bene, John.» affermò «Mycroft ha detto che sta bene.»
 L’ex-militare sollevò lo sguardo. «Come?»
 «Sta bene.» ripeté accennando un sorriso. «È vivo.»
 «Si è svegliato?» chiese scattando in piedi.
 «Non ancora.» rispose «Ma sembra che si riprenderà.»
 John scosse il capo, come se stesse tentando di scacciare le lacrime e tutti i pensieri che gli avevano affollato la mente per concentrarsi su una cosa sola: Sherlock.
 «Devo andare da lui.» affermò scattando in piedi «Devo vederlo.»
 «Ok.» concesse Greg «Ma ti accompagno. Non puoi guidare in queste condizioni.»
 Watson annuì e insieme uscirono dall’appartamento.
 
 Mycroft era seduto sulla seggiola accanto al letto di Sherlock. Da quando l’aveva portato lì – dopo aver arginato l’emorragia interna – non l’aveva lasciato neanche un secondo. Gli aveva preso la mano, stringendola tra le sue, e aveva poggiato la fronte contro la sua tempia, attento a non staccare nessuno dei tubi – delle flebo e dell’ossigeno -  e degli elettrodi collegati al corpo esile e consumato, dopo mesi di missioni logoranti, del fratello.
 «Sono qui, fratellino.» sussurrò accarezzandogli i capelli.
 Gli aveva promesso che ci sarebbe sempre stato, che qualsiasi cosa fosse successa sarebbe sempre stato lì per lui, pronto a dargli una mano, a tirarlo fuori dai guai, a proteggerlo. «Ti prego, svegliati, Sherlock.» implorò con voce rotta e tremante «Ti prego.»
 Quante volte aveva già rischiato di perderlo?
 Quante volte l’aveva già visto soffrire?
 E soprattutto quante volte avrebbe potuto evitare che ciò accadesse?
 Quante volte avrebbe potuto essere lì per lui, ma non c’era stato, troppo preso dal lavoro per badare a lui?
 Adesso stava bene, certo, ma se non fosse stato così?
 Se Mary l’avesse ucciso?
 La loro ultima conversazione sarebbe stata un litigio.
 Per non parlare di quelle precedenti.
 Ti avevo detto di non farti coinvolgere.
 Ah, Sherlock, ricordi Barbarossa?
 Perché aveva detto una cosa del genere?
 Come aveva potuto, sapendo quanto dolore stesse causando a suo fratello?
 Come se il fatto che John stesse sposando Mary e gli avesse chiesto di fargli da testimone non fosse già abbastanza.
 E aveva anche l’ardire di credersi un buon fratello.
 Come no, Mycroft.
 Non gli aveva neanche mai fatto sapere che teneva a lui.
 Aveva taciuto sui suoi sentimento per troppo tempo per poter continuare a farlo.
 Prese un bel respiro e sentì una lacrima rigargli una guancia. «Ti voglio bene, Sherlock.» mormorò «So di essere un fratello inaccettabile e insopportabile. Ma ti assicuro che tenterò di cambiare. Non lascerò che ti accada nulla di male, la smetterò di infastidirti e di intromettermi nella tua vita. Ma ti prego, torna da me.» concluse chiudendo gli occhi e aumentando la presa sulla mano del minore. «Torna da me.» lo supplicò.
 
 Le parole di Mycroft risuonarono nella mente del consulente investigativo, rimbombando tra le pareti del suo palazzo mentale.
 Mycroft.
 Ci sarò sempre.
 Preoccuparsi non è un vantaggio.
 Barbarossa.
 Non farti coinvolgere.
 Non sono coinvolto.
 Torna.
 Ti voglio bene.
 Tu e John.
 Un vagone carico di esplosivo.
 Certo che ti perdono.
 Tu, John, Mary.
 Matrimonio.
 Discorso.
 Ho sbagliato qualcosa?
 No. Vieni qui.
 Le braccia di John attorno alle tue spalle.
 Il suo volto a pochi centimetri dal tuo.
 I suoi occhi nei tuoi.
 I suoi occhi sulle tue labbra.
 I segni dei tre.
 Il sorriso di John.
 La mano di John sul tuo collo.
 La sua fronte contro la tua.
 Perché ti amo, completo idiota.
 Lo amo.
 Io amo Sherlock Holmes.
 John…
 Ti amo, Sherlock.
 Resisti per me.
 John…
 «Myc…» sussurrò Sherlock con voce roca, catapultato fuori dal suo palazzo mentale.
 Il maggiore allontanò il suo volto da quello del minore. «Sher…» mormorò, il viso pallido e segnato dalla stanchezza, le lacrime che gli rigavano le guance, perdendosi nella barba rossiccia.
 «Sei qui.» continuò il consulente investigativo.
 «Sì.» Mycroft espirò buttando fuori l’aria che sembrava aver trattenuto per ore e si sedette accanto a lui sul materasso, continuando a tenergli la mano. «Sì, certo che sono qui.» poggiò nuovamente la fronte contro quella di lui e chiuse gli occhi. «Non farmi mai più una cosa del genere.» sussurrò con voce tremante. «Mai più.»
 «Scusa.» replicò.
 «Perché non ti sei fatto aiutare da John?» domandò allontanandosi da lui per guardarlo negli occhi.
 Il minore scosse il capo. «Non voglio che veda-» si bloccò muovendo una mano per indicare il petto, riferendosi alle ferite regalategli dai suoi carcerieri in Serbia. Si schiarì la voce e si lasciò sfuggire un sospiro tremante «E quando qualcuno mi tocca-» si bloccò chiudendo gli occhi, permettendo alle lacrime di rigargli le guance.
 Mycroft intuì cosa volesse dire. «Dopo quello che hai vissuto è normale.» affermò «Ma con il tempo tutto tornerà come prima.»
 Il minore scosse il capo.
 «Supererai tutto questo, Sherlock.» riprese «Andrà tutto bene. Lo supereremo insieme.»
 Il consulente investigativo annuì.
 «Per cominciare manderò qualcuno a prendere Mary e-»
 «No.» lo bloccò Sherlock, aprendo gli occhi di scatto e circondandogli il polso con la mano per impedirgli di muoversi. «Non farlo.»
 «Sherlock, ti ha sparato.» disse quasi sillabando. Come poteva volerla vedere libera? Aveva paura di lei, era evidente, eppure non avrebbe voluto che lui la arrestasse. «Sei quasi morto a causa sua. Non posso permettere che-»
 L’altro scosse il capo. «Mary mi ha salvato la vita e ha salvato John.» spiegò «Quella sera quando l’ho trovata con Magnussen avrebbe potuto ucciderlo e uccidere me. Ma avrebbero accusato suo marito perché era l’unico presente nell’ufficio a parte noi e Janine che era priva di sensi. Allora ha fatto l’unica cosa che avrebbe potuto salvare sia me che lui.»
 «Spararti?» chiese Mycroft come conferma.
 «Sì.» confermò.
 Il politico scosse il capo. «È un’assassina. Perché vuoi che la lasci libera?»
 «Perché voglio che John sia felice.» replicò con amarezza, sentendo un groppo in gola. Era così difficile ammettere una cosa del genere ad alta voce. Ma era la verità: lui, prima di tutto, voleva la felicità del suo migliore amico.
 Gli occhi di Mycroft si riempirono di tristezza. «E tu non te lo meriti?» chiese.
 «Non so di cosa parli.» ribatté il minore, fingendo di non aver capito cosa intendesse dire. «Io sono felice. Sono a Londra, mi occupo dei casi e-»
 «E John non è tuo.» mormorò interrompendolo e incontrando il suo sguardo.
 Sherlock sospirò. «Non è mai stato mio.» gemette.
 «Ma lui è innamorato di te.» fece notare «Lo ha ammesso davanti a sua moglie. E ti ha baciato.»
 «Era preoccupato per me.» spiegò «E voleva farmi capire che tiene a me e che non sono solo. Lui non è-»
 Mycroft scosse il capo. «Oh, Sherlock, davvero non riesci a vedere?» chiese «Lui ti ama.»
 «No.» insistette «Lui ama Mary. È così che deve essere. Io sono il suo migliore amico.»
 Il maggiore sospirò e annuì. «D’accordo.» concesse «Se non vuoi che Mary venga arrestata non informerò nessuno dell’accaduto.»
 «Grazie.» ribatté Sherlock.
 «Ma se farà un altro passo falso, non la farò arrestare. La farò tornare da dov’è venuta in una bara.» minacciò, la rabbia fino a quel momento repressa ben visibile negli occhi blu.
 Sherlock annuì e poi volse lo sguardo, lasciando che un sospiro tremante lasciasse le sue labbra.
 «John ha ragione.» affermò dopo qualche secondo di completo silenzio, ricordando le parole pronunciate dal minore poco prima. «Tu lo sai che non sei solo, vero?» disse «Lo sai che sono sempre qui, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno?»
 «Lo so.» affermò «Lo so, Myc.» Sherlock chiuse gli occhi inspirando il profumo di suo fratello. «Grazie.» sussurrò.
 «Per cosa?»
 «Per essere qui.» rispose. Gli aveva chiesto di non lasciarlo e lui era lì al suo fianco, come gli aveva promesso. «Per essere mio fratello.» aggiunse in un sussurro.
 «Non ti lascerei mai.» assicurò il politico «Sarò sempre qui per te.»
 Sherlock portò una mano dietro il collo del maggiore e chiuse gli occhi a sua volta lasciandosi andare a quel contatto così intimo e rassicurante, che valeva più di mille parole pronunciate ad alta voce.
 
 Quando John entrò nella stanza di Sherlock, Mycroft si separò dal fratello e gli accarezzò un’altra volta i capelli. Poi gli scoccò un bacio sulla fonte, scostandogli i capelli con due dita e uscì dalla stanza rivolgendo un sorriso appena accennato a John.
 Finalmente i due rimasero soli: John in piedi accanto alla porta, Sherlock sdraiato sul materasso.
 Per un momento regnò il più completo silenzio.
 Poi Watson si avvicino a Sherlock e si sedette accanto a lui. Gli poggiò una mano sulla guancia quasi per assicurarsi che fosse reale, che stesse realmente bene. Sorrise. «Sei vivo.» mormorò sentendo le lacrime pizzicargli gli occhi.
 Sherlock gli rivolse il suo migliore sorriso. Avrebbe tanto voluto dirgli che era tornato per lui, che era vivo perché lui glielo aveva chiesto e gli aveva detto di amarlo, ma non fece nulla di tutto ciò. John aveva Mary, perciò allontanò quei pensieri dalla mente e mormorò: «Sono tornato per controllare che avessi mantenuto la promessa.» quando ebbe concluso la frase sentì un terribile dolore al cuore e alle viscere.
 John in un primo momento sembrò deluso, ma alla fine annuì, ricomponendosi.
 «Hai ascoltato quello che aveva da dire?» domandò il moro.
 Watson annuì ancora. «Sì.»
 «E?»
 A quel punto il biondo scosse il capo e abbassò lo sguardo. «Mi ha dato questa.» affermò tirando fuori dalla tasca dei pantaloni una piccola chiavetta USB. Sul lato erano state scritte quattro lettere con un pennarello indelebile nero: A.G.R.A. «Ha detto che qui è contenuta la sua vita, che non avrei dovuto leggerla di fronte a lei perché avrei smesso di amarla una volta arrivato alla fine e lei non voleva essere presente.»
 «La leggerai?» indagò Sherlock. Non l’aveva ancora letta, era ovvio dal suo sguardo e dalla sua esitazione nel pronunciare quelle parole.
 Il biondo sospirò. «Non lo so.»
 «Forse non dovresti farlo.» consigliò Holmes.
 John scosse il capo, confuso. «Perché no?» chiese «È la sua vita, l’unico modo che ho per conoscere la donna che ho sposato.»
 «No, John.» replicò Sherlock «Quello è il suo passato. Tu Mary la conosci già. È la donna che ami e che hai sposato. È ancora lì.»
 L’ex-militare scosse vigorosamente il capo.
 «Sì, invece.» insistette l’altro.
 «No.» ribatté perentorio «Io non la conosco. Potrebbe aver ucciso centinaia di persone. Ha detto che lavorava per i servizi segreti come killer. Voleva uccidere Magnussen e ha quasi ucciso te.» aggiunse.
 Il moro scosse il capo. «No, John. Lei mi ha salvato la vita.»
 A John sfuggì una risata sarcastica. «Scusami?»
 «Ha chiamato l’ambulanza.» spiegò in modo sbrigativo, vedendolo perplesso di fronte a quell’affermazione.
 «Io l’ho chiamata.»
 «Lei lo ha fatto per prima.» ribatté «Se avessi aspettato te sarei morto.» scusa, John, pensò. Non poteva permettere all’amico di rovinarsi la vita a causa sua.
 Watson arricciò le labbra e annuì volgendo lo sguardo. Perché gli stava dicendo quelle cose? A cosa sarebbe servito? «Ciò non toglie che mi abbia mentito per tutto questo tempo.» affermò «Ha mentito riguardo al suo passato, riguardo la sua vita e riguardo alle sue intenzioni. Probabilmente per lei non ero nient’altro che una stupida missione. Forse ha finto di amarmi fin dall’inizio. Mi chiedevo come fosse possibile che una donna meravigliosa come lei potesse amare qualcuno come me. Ed ecco la risposta.»
 «Sai che non è vero, John.» replicò «Sei speciale e lei ti ama per questo. Non ha mai finto.»
 Il dottore tornò ad osservarlo, lusingato da quel complimento. Era Mary a credere che fosse speciale o Sherlock?
 «Perché la difendi?» chiese tornando alla realtà. «Perché fai di tutto perché torni da lei?» aveva forse paura dei suoi sentimenti? O forse non li ricambiava? Quando l’aveva baciato, effettivamente l’aveva respinto. Forse Sherlock Holmes non avrebbe mai potuto amare un uomo come lui.
 Sherlock sospirò. «Perché sono tuo amico.» spiegò «E perché Mary aspetta un bambino da te. E quel bambino ha bisogno di un-»
 Watson lo interruppe prima che potesse continuare. «Era una bugia.»
 Sherlock si stupì. «Come?» bugia? pensò. C’erano tutti i segni.
 «Era una bugia.» ripeté «Non c’è nessun bambino. Era solo una stupida storia inventata nel caso in cui avessi cominciato a sospettare qualcosa.»
 «Oh… mi… mi dispiace, John.» sussurrò.
 «Già.» confermò l’ex militare.
 Un’infermiera entrò nella stanza interrompendo la loro conversazione. «Mi scusi, signore.» disse rivolta a Watson «Deve uscire, il signor Holmes deve riposare.»
 Il biondo annuì e si mise in piedi. «Vado subito.» si volse verso l’amico, si sporse e gli poggiò le labbra sulla fronte per salutarlo. Inspirò profondamente per trovare la forza di porre fine a quel contatto e poggiò la fronte contro quella dell’altro. «Torno presto.» sussurrò e poi uscì, senza nemmeno essersi accorto che il suo migliore amico aveva trasalito al suo tocco.
 
Sherlock venne dimesso il giorno seguente.
 Greg e Mycroft andarono a prenderlo in ospedale e con una delle auto del politico lo scortarono fino a Baker Street.
 Il maggiore lo aiutò a scendere dall’auto, circondandogli i fianchi con un braccio e lo aiutò a salire le scale e raggiungere il salotto per riposare ed evitare altri danni alla ferita.
 Quando i tre varcarono la soglia, però, si bloccarono.
 Accanto al tavolino da caffè, c’era un borsone e seduto sul divano c’era John, che quando li vide entrare scattò in piedi.
 Per un momento tutti rimasero in silenzio ad osservarsi e alla fine a parlare fu Mycroft.
 «Molto bene.» esordì rivolgendosi al compagno, fermo accanto a lui «Credo che la nostra presenza sia superflua, Gregory. Mio fratello è in buone mani. Non è così, dottor Watson?» domandò rivolgendosi a John.
 Il medico annuì, senza staccare gli occhi da Sherlock.
 «A presto, fratellino.» lo salutò il politico e poi scese le scale – seguito da Lestrade -  senza attendere una risposta e chiudendosi la porta alle spalle.
 Il silenziò piombò nuovamente sulla stanza.
 «L’hai letta?» chiese alla fine il consulente investigativo, indicando il borsone poggiato a terra, poco lontano da lui, e andandosi a sedere sulla sua poltrona, avendo sentito le gambe farsi instabili e la stanchezza coglierlo nuovamente.
 John, in risposta, scosse il capo. «No.» si schiarì la voce «Avevi ragione. Quella chiavetta è il suo passato.»
 «Se non l’hai letta perché te ne sei andato?» chiese il moro, sollevando lo sguardo sull’amico che intanto si era spostato di fronte a lui.
 «Perché non è la donna che ho sposato.» replicò «La donna a cui avevo chiesto di passare la vita con me non avrebbe mai sparato al mio migliore amico. Neanche sapendo che non l’avrebbe ucciso e soprattutto sapendo ciò che avevo passato nei due anni in cui non era stato con me.»
 Sherlock abbassò lo sguardo.
 «Cosa c’è?» domandò John notando la sua esitazione «Non… non mi vuoi qui con te? Perché sarà solo temporaneo, troverò un’altra-»
 «Certo che ti voglio.» lo bloccò, poi, resosi conto di ciò che aveva detto, si corresse «Voglio dire: puoi rimanere qui quanto vuoi, John. È sempre casa tua e la camera al piano di sopra è ancora libera.»
 John annuì. «Grazie.»
 «Sei proprio deciso a non tornerai da lei?»
 «Sì.» rispose «Il matrimonio non è valido. Mary Morstan è un nome falso. Come tutto il resto, d’altronde.» sopirò «E il mio posto non è accanto a lei.» detto questo si avvicinò a Sherlock e poggiò una mano su quella di lui, stretta attorno al bracciolo della poltrona. «Sherlock-»
 «Non fare o dire qualcosa di cui ti pentirai, John.» lo bloccò sollevando lo sguardo sul suo volto per incrociare i suoi occhi. «Adesso sei sconvolto da quello che è successo e non riesci a pensare con lucidità, ma ti pentirai di non averla perdonata. Lei ti ama e tu ami lei.»
 «Io non la amo. Non amo Mary Morstan, o chiunque lei sia. Non l’ho mai amata.» Watson rise amaramente. «E credi davvero che tutto ciò che ti ho detto dopo che ti hanno sparato sia stato frutto dello shock?» domandò «Sherlock, quello che ti ho detto è vero.»
 «Sai bene che non è così.»
 «Invece sì.» insistette.
 «Tu non sei gay.»
 «E tu sei sposato con il tuo lavoro.» fece notare «Ma quello che vedo mi dice il contrario.» si inginocchiò di fronte a lui e portò il volto a pochi centimetri dal suo per avere gli occhi allo stesso piano. «Guardami negli occhi e dimmi che non provi nulla per me, Sherlock.» lo sfidò in un sussurro.
 Il consulente investigativo rimase immobile, carpendo ogni minimo particolare del volto di Watson, ogni dettaglio, ogni ombra, ogni imperfezione. «John-» sussurrò.
 «Dimmi che non provi nulla per me e io me ne andrò.» mormorò il medico avvicinandosi ancora fino ad avere il volto così vicino a quello di Sherlock, da poter sentire il suo respiro sulla pelle.
 «Io… io-» balbettò il moro, messo a disagio da quella vicinanza. «John, non… non voglio che tu te ne vada.» riuscì a biascicare alla fine. Deglutì a vuoto, poi riprese. L’esitazione di poco prima era scomparsa dalla sua voce così rapidamente da stupirlo. «Resta.»
 Watson intrecciò le dita a quelle del consulente investigativo. «Sicuro che è quello che vuoi?» chiese conferma. Non voleva che gli dicesse di sì e poi lo gettasse via come un giocattolo rotto. Voleva essere certo che non l’avrebbe cacciato. «Perché posso-»
 «Sì.» replicò il moro parlando a bassa voce «Sì, voglio che tu rimanga.»
 Dopo un momento di silenzio passato a guardare negli occhi il consulente investigativo, il medico parlò ancora, avvicinandosi ulteriormente. «Posso baciarti, Sherlock?» soffiò contro le sue labbra, sperando che lui gli desse il permesso di continuare.
 Holmes inspirò profondamente e annuì. «Sì.»
 John si avvicinò ancora e le loro labbra si incontrarono.
 Non somigliava per niente al loro primo bacio: non c’era tutta l’urgenza e la fretta di qualche pomeriggio prima. Questa volta era lento, passionale, delicato. Le labbra di Sherlock e John si cercavano gentilmente, accarezzandosi e muovendosi adagio le une sulle altre.
 Watson accarezzò i fianchi dell’amico e si mise a cavalcioni su di lui sulla poltrona, prestando attenzione a non fargli del male o danneggiare la ferita. Sfiorò le labbra del moro con la lingua in una tacita richiesta di permettergli l’accesso alla sua bocca.
 Sherlock ansimò e dischiuse le labbra. Tirò John per i fianchi per avvicinarlo di più a sé e inarcò la schiena.
 Le loro lingue si incontrarono sfiorandosi dapprima dolcemente, poi con più foga. I due ansimarono di nuovo. John mordicchiò il labbro inferiore di Sherlock e il consulente investigativo gli accarezzò i fianchi risalendo poi lungo la schiena e aggrappandosi alle sue spalle. John sorrise e lasciò una scia di baci leggeri sulle guance, sulla mandibola e infine nell’incavo del suo collo. Le sue mani scesero alla camicia di Sherlock e presero a sfilare i bottoni dalle asole lentamente e con delicatezza, scoprendo pezzo per pezzo la pelle diafana, ma martoriata da cicatrici di ogni genere, dell’altro.
 Watson tentò di non pensare a ciò che doveva aver passato in Serbia.
 In quel momento esistevano solo loro due e le loro labbra.
 Per le spiegazioni ci sarebbe stato tempo.
 Sherlock sentì il cuore accelerare e il respiro farsi pesante.
 E poi lo vide.
 Il carceriere dai capelli corvini lunghi fino alle spalle e le braccia coperte da tatuaggi e simboli di sette di ogni genere. Quello che lo aveva tenuto sotto controllo. Che l’aveva frustato e torturato in modi che Sherlock nemmeno credeva possibili.
 Incombeva sopra di lui, lo stava tirando verso di sé tentando di rimuovere i suoi vestiti.
 E in un momento si ritrovò catapultato in quella maledetta cella del bunker in Serbia.
 Holmes avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, ma sapeva che da lì nessuno l’avrebbe sentito e soprattutto che se l’avesse fatto sarebbe stato punito con una decina di frustate.
 Un gemito di dolore gli sfuggì dalle labbra. «Basta…» mormorò tentando di liberarsi dalla presa dell’altro, tremando come una foglia. Puntò le mani contro il suo petto e chiuse gli occhi. «Per favore, no…» ansimò «Non voglio-»
 «Sherlock…» disse John allontanandosi da lui e mettendosi in piedi, spaventato all’idea di avergli fatto del male. Quando sollevò lo sguardo sul suo volto, notò che era pallido – molto più del solito – e che gli occhi, prima calmi e rilassati, adesso erano carichi di paura.
 «Non farlo, ti prego. Fa male…» implorò portando le braccia di fronte al volto per impedire all’uomo di fargli del male «Non… io-»
 «Sherlock, calmati.» disse John inginocchiandosi di fronte a lui «Sono John, stai tranquillo. Non ti farò del male.» probabilmente stava avendo un flashback riguardo alla Serbia.
 Ma come avrebbe potuto farlo tornare alla realtà?
 Non poteva toccarlo o avrebbe peggiorato le cose.
 Perciò sarebbe dovuto limitarsi a parlargli.
 «Sherlock.» ripeté parlando con calma e alzando la voce per sovrastare i singhiozzi dell’amico «Non sei più in Serbia. Sei a Londra, a casa. Al 221B di Baker Street. E io sono John Watson. Il tuo migliore amico. Mi riconosci?»
 «Lasciami andare!» gemette l’altro «Ti dirò quello che vuoi, ma, ti prego, non farmi questo di nuovo…»
 Il medico ebbe un tuffo al cuore.
 Di nuovo?
 «Ehi, ehi.» a quel punto John gli poggiò delicatamente una mano sul braccio. «Guardami. Nessuno ti farà del male.» disse dolcemente «Sono John, vedi?»
 Sherlock sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi del medico.
 Per un momento sembrò confuso: era davvero John.
 Eppure un attimo prima…
 «C-cosa…?» balbettò aggrottando le sopracciglia.
 «Calmati. È solo un flashback, non è reale.» tentò di tranquillizzarlo.
 Holmes scosse il capo. «No.» ansimò.
 Poi volse lo sguardo e lo vide nuovamente.
 Era fermo sulla porta e lo stava osservando con quel ghigno tremendo sul volto.
 «No…» Sherlock volse lo sguardo, coprendosi gli occhi con una mano e sentì le lacrime inumidirgli le mani e le guance.
 Watson notò che l’amico aveva sollevato lo sguardo e che sembrava aver individuato qualcosa alle sue spalle, probabilmente stava avendo delle allucinazioni, il che avrebbe spiegato l’attacco di panico di qualche giorno prima, quando per calmarlo era servito Mycroft Holmes in persona.
 «Sherlock, chiunque tu veda e qualsiasi cosa tu veda non è reale. Ok?» aumento la pressione sulle sue spalle per fargli sentire che era lì accanto a lui. «Non è reale.» sillabò
 Sherlock ansimò e sentì la voce dell’uomo nella sua testa.
 «John Watson è reale?» chiese con voce roca e con un marcato accento sovietico «Oppure sta mentendo?»
 «Basta…»
 «La tua mente sta giocando con te. Non c’è nessun John Watson. È tutta una proiezione. Il tuo amato dottore è in Inghilterra, con tuo fratello e i tuoi amici. Si è dimenticato di te.» continuò «Io sono reale. Io posso farti del male. Tu sei mio.» ringhiò.
 «No, non toccarmi…» supplicò Sherlock scuotendo il capo.
 «Sherlock.» lo chiamò nuovamente il medico per riportare la sua attenzione su di sé «Adesso devi guardarmi.» ordinò sollevandogli il volto con due mani. «Guardami negli occhi.» e quando finalmente incontrò gli occhi di ghiaccio del moro, riprese «Io sono reale.» sillabò «Sono qui, davanti a te. Senti?» gli poggiò una mano sul viso e lo accarezzò delicatamente. «Sono reale.»
 Holmes, gli occhi colmi di lacrime e spaventati, singhiozzò. «Lui dice lo stesso di te.»
 «È un’allucinazione.»
 Sherlock scosse il capo. «No… è qui-»
 «No. Ci siamo solo io e te in questa stanza. Nessun altro.» lo rassicurò «E anche se ci fosse qualcuno, non gli permetterei di farti del male, Sherlock.»
 Il consulente investigativo ansimò. «Vattene.» sputò fuori, quasi con violenza. «Vattene, John.»
 «Sherlock, ti prego, ascoltami-» tentò di protestare l’altro, vedendo che lo aveva riconosciuto, ma venne interrotto da Holmes, che scattò in piedi e si allontanò da lui.
 «Vai via!» ripeté portandosi le mani alle orecchie e chiudendo gli occhi «Fuori di qui!»
 John, intuendo che avrebbe solo peggiorato le cose, sollevò le mani in segno di resa e annuì. «Ok, Sherlock.» concesse «Me ne sto andando. Ma tu devi calmarti.»
 «Vattene!» gridò ancora il consulente investigativo.
 A quel punto Watson prese la giacca dall’appendiabiti e uscì.
 
ANGOLO DEL MOSTRICIATTOLO CHE SCRIVE
Ok, lo so, lo so. È il terzo capitolo nell’arco di tre giorni, ma cosa posso fare? Sono così affezionata a questa storia che dopo aver atteso così tanto a pubblicarla, non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate! :)
Ovviamente questo capitolo è angst quanto gli altri, se non di più. Non so perché sono così propensa a far soffrire i personaggi… ^.^”
In ogni caso, spero che vi piaccia!
Ripeto ancora una volta che questi personaggi non mi appartengono.
Mi appartiene solo la storia e la responsabilità per tutta la sofferenza causata ai lettori!
A presto con il prossimo,
Eli :)
 
   
 
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