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Autore: Manu_Green8    16/07/2015    3 recensioni
Il college era la nuova esperienza di lei, da vivere e da gustare. Il pugilato professionistico quella di lui. Un anno era passato in fretta e i due ragazzi si sentivano più uniti che mai. Ma cosa accadrà quando si insinuerà la lontananza? O quando incontreranno persone nuove e ne riemergeranno dal passato?
L'avventura di Melanie e Chad continua, anche se non tutto sarà facile. Ce la faranno anche sta volta? Questo è tutto da scoprire...
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Salve, cari lettori! Vi ricordate di me? Forse sì, o forse no. Sono già passati diversi mesi dall'ultima volta che ho scritto una storia e finalmente sono ricomparsa proprio con il sequel di "Un battito d'ali... un battito del cuore". Con questo non vi obbligo di certo a leggere la storia precedente, ma vi invito comunque a farlo, considerando i riferimenti all'interno di tutta la fanfiction.
Non mi dilungo oltre! Fatemi sapere cosa ne pensate! Buona lettura :D
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[STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA: MI SCUSO PER IL DISAGIO]
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un battito d'ali.. un battito del cuore'
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Pov Chad
Uno, due, tre. Uno, due, tre. Uno, due… “O’Connor!”. La voce di Carl dietro di me, mi fece fermare di colpo.
Sentivo il mio respiro accelerato rimbombare nelle orecchie e le mani che pulsavano dentro ai guantoni.
Mi voltai verso il mio allenatore, che era lì in piedi con una cartellina tra le mani. Lo guardai con le sopracciglia sollevate, aspettando che tirasse fuori ciò che aveva da dirmi.
“Che diavolo ci fai qui a quest’ora?” mi chiese.
In effetti quell’orario era troppo presto per chiunque, tanto che avevo trovato la palestra chiusa e avevo utilizzato la copia delle mie chiavi per entrare. Ma quella mattina mi ero svegliato alle sei, dopo un paio di sogni strani e mi ero innervosito a tal punto da dover alzarmi dal letto e avevo sentito il forte desiderio di fare a botte con il sacco. E così, alle sette e mezza ero già in palestra, per potermi allenare almeno mezz’ora prima di recarmi all’officina.
Io sollevai le spalle in risposta e lui continuò: “Come stai?” mi chiese, guardandomi dalla testa ai piedi.
Le mie sopracciglia a quel punto si aggrottarono. “Bene” risposi, guardandolo con curiosità.
“Ottimo, i combattimenti si avvicinano e voglio che tu sia sempre nella tua forma migliore” disse, rassicurato dalla mia risposta.
“Io sono sempre nella mia forma migliore, Carl” dissi con un sorrisetto.
Lui sollevò gli occhi al cielo, divertito. “Sì, ovviamente. E spero che tu lo sia anche davanti alle telecamere”.
“Un’altra intervista?” chiesi stupito, mentre mi toglievo i guantoni. Quella settimana sarebbe stata già la seconda che mi ritrovavo a fare. Carl mi aveva spiegato che gli sponsor si stavano dando da fare, dato che molti tifosi e sportivi scommettevano sul fatto che la nostra società potesse uscire vincitrice dall’annata che si prospettava davanti a noi.
Carne fresca, ma decisamente succulente. Questi erano i commenti su di noi e il presidente della nostra società ne era entusiasta. E così i nostri visi stavano apparendo ovunque sui programmi televisivi che trattavano di sport.
“Già. Tu e Rage, alle cinque allo studio di Harold”. Stavo quasi per sogghignare, dopo che Carl aveva chiamato Harold Coffield, il nostro presidente, per nome. Era l’unico dei tre allenatori che la nostra società avesse a disposizione a chiamarlo per nome. Anche per gli altri dirigenti era sempre stato Coffield e proprio per quella ragione, si pensava che tra Carl e Harold ci fosse del tenero, nonostante non lo avessero mai esplicitato.
Ma poi realizzai ciò che effettivamente il mio allenatore avesse detto e sospirai. Io e Rage. Diavolo, era dalla sera precedente, dopo la mia fuga e la reazione decisamente eccessiva, che non parlavo con lui. Beh, a parte il messaggio d’assenso a cui avevo dovuto rispondere, quando mi aveva chiesto se fossi giunto a casa sano e salvo. Ebbene, mi ero anche dimenticato di scrivergli io stesso, ma lui non me lo aveva fatto notare. Doveva essere davvero preoccupato se non mi aveva fatto una delle sue solite ramanzine. Già, Ryan era quel tipo di ragazzo che amava divertirsi e passare da un locale all’altro, ma dietro alla sua facciata di ricco pugile e donnaiolo, si celava il suo vero animo. Quello che a volte mi trattava come se la mia vita fosse più importante della sua. E quella cosa mi faceva rabbrividire, ogni volta.
Comunque, passare il pomeriggio con lui significava soltanto una cosa: mi avrebbe, ovviamente, chiesto del giorno prima. Al diavolo.
“…casini, che poi noi dobbiamo sistemare”. Evidentemente Carl aveva continuato a parlare, ma io avevo sentito solo la parte finale del discorso.
“Va bene” dissi, non avendo la minima di intenzione di fargli ripetere ciò che avesse detto e sperando che non fosse qualcosa di indispensabile.
Lui annuì e se ne andò verso il suo studio. Io guardai i guantoni che tenevo ancora in mano e pensai che per quella mattina avessi fatto abbastanza.
Afferrai la maglia che avevo lasciato cadere per terra precedentemente e mi diressi alle docce, per evitare di puzzare già a quell’ora del mattino.
 
Pov Melanie
La prima lezione dedicata al progetto era stata un disastro. Ero soltanto riuscita a scegliere la dimensione del foglio e continuavo a spostare lo sguardo da esso alle matite e ai pennarelli che avevo davanti. Erano due colori contrastanti, caldo e freddo, e mi facevano pensare soltanto a stupide banalità che non mi avrebbero portata da nessuna parte o ad altri quadri che mi avrebbero soltanto fatta incriminare di plagio. Non ero neanche riuscita a parlarne con Chad, dato che avevamo avuto solo una breve conversazione dopo la mia lezione. Poi lui aveva blaterato qualcosa su una sfilata a cui doveva partecipare con Ryan e avevamo chiuso la conversazione. Da allora non ci eravamo più sentiti. Quella mattina, inoltre, avevo avuto un battibecco con Cher sull’uso del bagno che condividevamo e mi aveva fatta innervosire talmente tanto che ero dannatamente in ritardo per la mia prima lezione della giornata. Avevo solo mandato un messaggio a Chad, rimandando la nostra chiamata a quella sera.
Ero completamente caduta nello sconforto e proprio per quello, Becka e Chris durante il pranzo si erano ritrovati a rassicurarmi, dicendo che qualcosa in mente mi sarebbe venuta sicuramente. Beh, più precisamente Becka continuava a ripetermi che ce l’avrei fatta sicuramente, mentre il ragazzo continuava a ripetermi che se non mi fossi fatta venire un’idea non avrei mai vinto.
“Lascialo perdere. È soltanto il suo modo di incitarti” mi aveva detto lei, lanciando un’occhiataccia al nostro amico.
“Direi che lo sta facendo nel modo sbagliato” dissi, ridacchiando nervosamente.
Becka scoppiò a ridere, mentre Chris roteava gli occhi. Poi, dopo diversi secondi di silenzio il ragazzo mi guardò sorridendo. “Secondo me, ti serve soltanto una fonte di ispirazione. Che so, magari un ragazzo” e poi scrollò le spalle guardandosi intorno.
Becka sbuffò. “Sempre il solito” borbottò, mentre io riflettevo.
Beh, Chris non aveva tutti i torti. Non sulla prima parte della sua affermazione: insomma, le fonti di ispirazione erano indispensabili per ogni artista, ma forse la seconda parte poteva funzionare. Un ragazzo. Chad. Tutto ruotava sempre intorno al mio ragazzo, che era stato la mia fonte per moltissimi disegni, alcuni dei quali mi avevano dato la possibilità di trovarmi in quell’istituto. Forse anche quella volta avrebbe potuto funzionare. Dovevo solo trovare qualcosa che mi ricollegasse a lui.
“Forse hai ragione” dissi improvvisamente, guardando i due ragazzi che stavano mangiando i loro pranzi.
Becka spalancò gli occhi, mentre l’altro ghignava. “Non dirmi che gli stai dando ragione!” protestò la ragazza dai capelli colorati.
“Ma io ho sempre ragione” si vantò il ragazzo, guardandosi le unghia.
“Come no” borbottò l’altra, per poi iniziare a fare esempi in cui il ragazzo aveva avuto torto in modo ovvio. Io li ascoltavo con il sorriso, che mi era tornato sulle labbra. Erano come due bambini che bisticciavano per cose banali, ma che tornavano subito amici, abbracciandosi e scherzando dopo essersi insultati.
E poi guardai l’orologio e sobbalzai. “Cavolo, è già tardissimo!” dissi, balzando in piedi e afferrando la mia roba.
“Hai lezione così presto?” mi chiese Chris, interrompendo la sua conversazione con Becka.
Io annuii. “Mi dispiace, ci vediamo stasera” dissi, salutandoli e scappando via.
Iniziai a camminare verso la mia aula, mentre pensavo al disegno che avrei potuto mettere in atto tra qualche ora. Ero così sovrappensiero, che non mi accorsi nemmeno di aver superato la stanza giusta.
Quando me ne resi conto borbottai tra me e me e mi voltai, per fare marcia indietro. E a quel punto mi bloccai, saltando completamente in aria. Adrian era dietro di me ed era stato un miracolo se non gli ero finita addosso.
“Ciao” mi disse, sorridendo, mentre mi ero portata una mano al petto, spaventata.
Eravamo così vicini che un pensiero mi si formulò subito nella testa. E la mia bocca, giustamente, lo esplicitò subito.
“Mi stavi seguendo?” chiesi e poi mi diedi della stupida. “Cioè, scusa. Certo che no, perché mi dovresti seguire?” affermai velocemente.
“Sì” fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca.
La mia bocca si spalancò: “Cosa?” chiesi, basita.
“Sì, ti stavo seguendo. Io volevo guardarti da più vicino”.
No, non riuscivo a credere che lo avesse detto ad alta voce. Ero senza parole.
“O meglio. Volevo guardare i tuoi capelli. Ti hanno mai detto che hanno un colore fantastico? Come il sangue” mi spiegò.
E poi un immagine apparve davanti ai miei occhi. Guardai la mano che ancora avevo sul petto. Sangue, cuore. Ma… ovviamente! Perché non ci avevo pensato prima? Con quei colori a disposizione, il disegno che avrei dovuto fare sarebbe dovuto essere decisamente ovvio, già dal giorno precedente.
Adrian mi guardava come se aspettasse una risposta. “Tu sei un genio” dissi soltanto, sorridendogli e puntandogli un dito verso il petto.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ok, non ero la reazione che mi aspettavo” disse. “Una reazione decisamente positiva”.
“Ok, non ho capito se devo prenderlo come un complimento o come un tuo hobby sull’analisi delle reazioni altrui” dissi, guardandolo confusa.
Lui scrollò le spalle. “Forse un po’ entrambi” affermò.
“Sei strano”.
Lui ridacchiò: “Forse”, disse mentre sollevava una mano per aggiustarsi i capelli.
E il mio occhio si posò sul suo orologio da polso. Oh, merda.
“Scusami, sono in ritardo. Devo andare” dissi, superandolo e lasciandolo lì, senza aggiungere altro o dargli il tempo di farlo. Maledizione, ero decisamente in ritardo. Entrai in aula quasi con il fiatone e mi sedetti in uno dei banchi vuoti. Tirai fuori un quaderno per prendere appunti, ma presto mi resi conto che il foglio davanti a me era destinato a rimanere bianco. Il disegno che avrei iniziato dopo quella lezione mi si era materializzato davanti agli occhi e non vedevo l’ora di mettermi all’opera.
Anche se dentro di me c’era qualcosa che mi faceva sentire strana. Quasi a disagio.
Chris aveva avuto ragione: la mia ispirazione era stata un ragazzo.
Ma non il ragazzo che mi aspettavo: il mio splendido ragazzo, Chad. Ma Adrian, un artista strambo appena conosciuto.
No, Melanie! Non dire stronzate. Quell’idea ti sarebbe venuta anche senza Adrian. Si trattava di un soggetto a cui Chad era collegato. Insomma, era stato un periodo della mia vita, in cui il mio pugile era stato fondamentale. Il mio appiglio e il mio recupero, insieme alla mia famiglia. Periodo in cui il ragazzo era proprio entrato a far parte della mia famiglia.
E così, cercai di scacciare tutti quei pensieri che mi frullavano per la testa e di concentrarmi sulla lezione. Presi la penna ormai abbandonata sulla pagina del quaderno e mi decisi a scrivere. Al disegno ci avrei pensato tra qualche ora.
 
Pov Dave
La mattina dopo l’iniziazione ero decisamente teso. Il giorno prima avevo fatto la figura dell’idiota lasciando i ragazzi sul terrazzo e andando via in quel modo. Nonostante Rachel mi avesse aiutato a rilassarmi una volta tornato all’appartamento, adesso appena sveglio, continuavo a guardare la parte del letto accanto a me, completamente vuota. Come al solito la mia ragazza si era alzata per prima, ma non era ancora tornata a chiamarmi. Quella mattina non c’era alcun bisogno di farmi aprire gli occhi. Quel giorno lo avevo fatto da solo e una volta realizzato che qualche ora dopo sarei dovuto tornare in palestra, tentare di prendere di nuovo sonno era praticamente impossibile.
Sospirai, cercando di scacciare dalla testa tutte le possibili reazioni che i ragazzi avrebbero potuto avere nei miei confronti, dato che il mio cervello aveva analizzato tutti gli scenari peggiori. Non mi ero neanche preso la briga di pensare al fatto che fossi riuscito a segnare da quel maledettissimo palazzo.
Scacciai le coperte e decisi di alzarmi dal letto, visto che, reazioni o meno, avrei dovuto affrontare quella giornata. Al come, ci avrei pensato dopo. Sicuramente non prima di aver fatto colazione.
 
Camminavo per i cortili dell’istituto per raggiungere la mia prima lezione della giornata. Molti ragazzi chiacchieravano tra loro, seduti sulle panchine o sui muretti, mentre si godevano il sole che splendeva in cielo quella mattina e che baciava la nostra pelle. E quel tempo sembrava essere proprio in contrasto con il mio umore, tanto che prima di scendere avevo indossato gli occhiali da sole e uno dei miei cappelli della Jordan, sperando che in quel modo il mio viso sarebbe stato abbastanza coperto. E io guardavo soltanto davanti a me, evitando di soffermarmi sulla gente intorno a me e provando a non essere notato.
“Dave!”. Evidentemente non ci ero riuscito. Chiusi gli occhi per un secondo, poi mi voltai verso la voce femminile che mi aveva chiamato. Mi fermai, guardando Lilian che si faceva largo tra la gente per raggiungermi. Era decisamente l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento. Quella a cui il giorno prima avevo rivelato la mia paura.
“Ehi” le dissi, quando si fermò davanti a me.
“Sei sordo per caso? È da un po’ che ti chiamo” mi disse, mantenendo un sorriso sul volto.
“Davvero? Scusa, ero sovrappensiero” spiegai. “Bisogno di qualcosa?” le chiesi.
Lei mi scrutò con lo sguardo. “Come stai?” mi chiese.
Ecco, proprio la domanda che non avrei voluto sentire. Sospirai interiormente, ma sorrisi. “Sto bene”.
Lei continuò a guardarmi e capii che la mia risposta non le era stata soddisfacente. Poi però il suo sguardo cambiò e sorrise.
“D’accordo. Ci vediamo dopo allora” disse. E poi allungò il braccio verso di me e prese il mio cappello, mettendoselo in testa e facendo per andarsene.
“Ehi, quello è mio!” le urlai dietro e lei, che adesso mi dava le spalle, si voltò a guardarmi soltanto per un attimo.
“Lo so. Ma mi piace” disse, prendendolo dalla visiera e ruotandolo di 180 gradi. Poi mi fece l’occhiolino e tornò di nuovo a camminare tra la folla.
Io la guardai allibito, poi scossi la testa e decisi di raggiungere la mia meta iniziale.
 
Quando entrai in palestra, i miei occhiali da sole erano rimasti al loro posto, ma come sostitute del cappello che Lilian mi aveva rubato, erano comparse le mie grandi cuffie e i Green Day mi riempivano le orecchie e la testa. Lanciai uno sguardo al campo da basket, che era ancora vuoto, dato che amavo arrivare in anticipo agli allenamenti e mi diressi nello spogliatoio. Anche lì non c’era ancora nessuno e io continuai ad ascoltare la mia musica, ad un volume abbastanza alto, mentre mi cambiavo.
Quel genere di musica era sempre riuscito ad isolarmi dal resto del mondo, mentre la mia mente analizzava ogni singola parola o suono. Quel gruppo riusciva a darmi la giusta carica e concentrazione prima di ogni cosa, soprattutto prima delle partite.
Ero seduto sulla panchina per allacciarmi le scarpe, quando con la coda dell’occhio distinsi alcuni dei ragazzi che entravano nello spogliatoio. Lasciai cadere le cuffie e riuscii finalmente a sentire le loro voci. Alzai lo sguardo nello stesso momento in cui loro si erano accorti di me.
“Dave, amico!” disse Gordon, lanciando lo zaino per terra e venendo a sedersi accanto a me, mentre Jack, Tyler e Peter stavano in piedi di fronte a me e mi salutavano con un sorriso sulle labbra.
“Ehi” riuscii soltanto a dire, guardando i loro visi contenti e decisamente non delusi o almeno straniti, come mi aspettavo.
“Dove sei scappato ieri?” chiese Peter a quel punto, davvero incuriosito.
“Sei stato davvero un cattivo ragazzo. Battere il nostro record e non offrirci nemmeno da bere” aggiunse Gordon, gettandomi un braccio intorno alle spalle e facendomi abbassare sotto al suo peso.
“Sì, mi dispiace” dissi, senza rispondere alla domanda di Peter.
“Beh, vorrà dire che festeggeremo oggi, dopo l’allenamento del pomeriggio” disse Peter, facendo un gesto sbrigativo e tornando al suo borsone.
“Sì, certo” dissi, passandomi una mano tra i capelli, mentre gli altri ragazzi facevano versi soddisfatto e imitavano il capitano, iniziando a cambiarsi.
Non capii se Peter avesse fatto finta di non accorgersi che non avevo risposto alla sua domanda, data la mia risposta, o se gli fosse bastata. In entrambi i casi mi andava bene e fui felice del fatto che i ragazzi l’avessero presa bene. Insomma, si erano soffermati tutti sulla performance, a quanto dicevano incredibile, della mia iniziazione e tutti erano così eccitati che non si erano minimamente curati del mio strano comportamento che ne era seguito.
Ottenni degli apprezzamenti che non mi aspettavo e la stessa Johan, una volta arrivati in campo, mi aveva rivolto un sorriso soddisfatto e orgoglioso. Mi chiesi se avesse saputo anche lei del giorno precedente, ma prima di poter fare qualsiasi cosa, avevo ottenuto un pallone tra le mani e il nostro allenamento era iniziato.
Non riuscii neanche a parlare con Lilian, che era arrivata leggermente in ritardo, anche se nessuno aveva fatto alcun commento. Inoltre, né io né lei eravamo quel tipo di giocatori eravamo il tipo di fermarci a chiacchierare di qualcosa che non fosse basket, durante quelle poche ore di pace interiore. E poi, a parte quei pochi minuti di quella mattina, non conoscevo quella ragazza e avrei avuto alcune difficoltà a intraprendere una conversazione. Preferivo osservare, come al solito, tutto quello che accadeva intorno a me. Proprio in quel modo mi accorsi degli sguardi sprezzanti che mi lanciava Marshall, ad ogni mia azione vincente durante il gioco. Dopotutto eravamo entrambi quelli nuovi e lui non era neanche riuscito a fare canestro da quei palazzi. Comunque non me ne curai più di tanto e lo ignorai. I soggetti come lui erano da evitare in qualsiasi circostanza.
 
Alla fine dell’allenamento del pomeriggio i ragazzi decisero di portarmi con loro in uno dei locali della città, nella zona in cui gli universitari amavano divertirsi. A pranzo, quella mattina, mentre divoravamo il nostro cibo – o almeno io, divoravo, mentre Rachel masticava lentamente osservandomi con attenzione, come al solito – l’avevo avvisata della mia uscita con i ragazzi, abbandonandola per una sera. Quindi l’orario di rientro non era un problema. E poi viviamo in un mondo in cui i cellulari permettono di sentirsi istantaneamente, quindi quello era il mio ultimo problema.
Così uscimmo dagli spogliatoi tutti insieme, pronti per andare, quando Lilian, per la seconda volta in una giornata mi chiamò, facendo automaticamente fermare tutto il gruppo. Mi voltai verso di lei e vidi che indossava il mio cappello sulla testa.
“Lilian! Non vuoi venire con noi neanche questa volta? È solo un drink” disse Gordon, non appena lei si fermò davanti a noi.
Lei scosse la testa. “Niente da fare. Mi dispiace ragazzi, ma non posso” disse e nessuno aggiunse altro.
Poi la ragazza mi guardò e sorrise. “Ho qualcosa che ti appartiene” disse e automaticamente puntai lo sguardo sul cappello.
“In effetti…” dissi e lei si tolse il cappello.
“L’ho già avuto in ostaggio abbastanza. E poi sta meglio a te” fece lei, mettendolo sulla mia testa.
“Grazie” dissi, prendendo la visiera. Ruotai il cappello, mettendolo all’indietro.
“Grazie a te per avermi concesso il furto” disse lei, sorridendomi. “A domani ragazzi” aggiunse poi salutando tutti e andando via.
A quel punto mi voltai verso il resto dei ragazzi, che mi fissavano incuriositi. “Andiamo?” chiesi, cercando di distogliere la loro attenzione da me. Tutti annuirono, tranne uno: Peter, che mi stava praticamente fulminando con lo sguardo.
Ma poi tutti ripresero a camminare, compreso il capitano e io non ebbi il tempo di fare nulla, se non chiedermi che diavolo fosse preso a quel ragazzo, che minuti prima sembrava non avere nulla contro di me.
Ricordai lo sguardo di Lilian nei confronti del ragazzo sulla terrazza e a come adesso Peter fosse cambiato non appena mi aveva visto interagire con la ragazza in questione.
Ero sempre più convinto che qualcosa tra i due fosse successo ed ero sempre più curioso di sapere cosa. Uno dei ragazzi a quel punto mi strappò di miei pensieri e mi introdusse nella loro discussione sulle migliori scarpe da basket.
E così rimandando tutto il resto a un’altra volta, decisi di godermi la serata, insieme ai miei nuovi compagni di squadra.
 
Pov Chad
Parcheggiai la moto davanti allo studio di Coffield. Vidi il furgoncino di qualche programma televisivo posteggiato proprio all’entrata e roteai gli occhi per il fastidio. Coffield aveva chiamato il carro attrezzi centinaia di volte, a causa di tutte le macchine che si appostavano lì ogni giorno. Ma non quella volta. Probabilmente era stato lui stesso a dirgli di lasciarlo lì. Il portone era aperto e una volta entrato, salutai il custode e mi diressi agli ascensori.
E proprio mentre aspettavo che arrivasse a pianterreno, sentii la voce di Ryan che si avvicinava e in più stava proprio chiamando me.
Mi voltai e incrociai lo sguardo con il mio amico, che indossava dei jeans e una camicia, proprio come me.
“Ehi” lo salutai, prima di voltarmi verso le ante dell’ascensore che si aprivano rumorosamente. Entrai e mi appoggiai al muro metallico, mentre Ryan mi raggiungeva e premeva il tasto 6.
“Che diavolo ti è preso ieri?” disse di punto in bianco, scrutandomi con lo sguardo.
Diretto come sempre, pensai mentre alzavo gli occhi per guardarlo.
“Non guardarmi in quel modo e sputa il rospo” mi liquidò, senza darmi il tempo di dire qualcosa.
“Dovevo andare al bagno” dissi, facendo un sorrisino beffardo.
Ryan mi fulminò con lo sguardo. “Idiota!” mi insultò. “Chad lo sparacazzate” borbottò poi alzando gli occhi al cielo.
Io scoppiai a ridere, mentre l’ascensore si fermava.
Uscii da lì con Ryan al seguito. “Ti conviene pensare ad una scusa accettabile, perché una volta usciti di qui, me la dovrai dire. Non hai scampo” mi disse seriamente.
Mi voltai verso di lui e gli sorrisi. “E’ una minaccia?”.
Lui annuì. “Già” confermò, prima di sorpassarmi e continuare a camminare.
“Che permaloso” dissi, divertito.
“Muovi quel culo, idiota”. Scossi la testa e lo seguii a ruota, cercando di prepararmi mentalmente e fisicamente per la nostra apparizione televisiva.
 
Quasi due ore dopo Coffield ci liquidò e io e Ryan scappammo praticamente dal suo ufficio, esausti di rispondere alle solite domande, utilizzando sempre le stesse parole, programmate dai nostri superiori.
“Un’altra domanda e avrei finto di svenire” dissi, mentre camminavo indietro verso l’ascensore.
Ryan non mi rispose e una volta che entrammo nella scatola metallica, mi voltai a guardarlo.
Aveva lo sguardo fisso sul telefono e non mi prestava la minima attenzione. Durante l’intervista aveva sempre messo su il solito nostro teatrino, ma da quando ce ne eravamo andati non mi aveva rivolto la parola. Evidentemente era offeso o arrabbiato e aveva attuato la tattica del mutismo contro di me. Ghignai tra me e pensai che da un lato, quella sua scelta sarebbe potuta giocare a mio favore.
Rimasi in silenzio e una volta all’esterno mi frugai le tasche per prendere le chiavi della moto.
Ryan continuò a mantenere il silenzio, ma mi seguì fino a dove avevo parcheggiato. Prevedibile, pensai sorridendo tra me.
“Allora?” mi chiese di punto in bianco, mentre armeggiavo con il cavalletto, dandogli le spalle.
“Cosa?” dissi, facendo il finto tonto.
“Lo sai cosa, Chad. Non farmi perdere tempo” disse. Poi borbottò: “Dio, perché sopporto ancora un amico così di coccio?”.
Rimisi il cavalletto, sospirando e mi voltai verso di lui, appoggiandomi sul sellino.
“Me lo chiedo anche io” dissi, guardando per terra.
Lui sbuffò e incrociò le braccia al petto. “Sto per colpirti”.
“Va bene, va bene” dissi alzando le mani in segno di resa. “Ieri… ho… ho visto qualcuno” terminai, parlando velocemente.
“Qualcuno?” mi chiese, accigliandosi.
Sospirai. “Ascoltami. Io… conosco Sarah, ok?” dissi, osservando la sua espressione.
Confusione. Ecco quale sentimento stava provando in quell’istante.
“Sarah? Chi è Sarah?” mi chiese. Ed ecco che la confusione si impossessò anche di me.
Che diavolo significava? Ero davvero riuscito a scambiare una persona per un’altra? Ma ero quasi sicuro che fosse lei. Ma Ryan non conosceva il suo nome. E se…? La mia testa si riempì di domande.
“Aspetta. Senti, Ry. Io… Cristo santo” borbottai. “E’… lascia perdere, ok? Devo… ti spiegherò, va bene? Lasciami soltanto analizzare la situazione e poi ti spiegherò tutto. Fidati di me”.
Lui mi guardò e sospirò. “Sei un fottuto manipolatore. Sapevo che non mi avresti detto niente. E adesso mi hai confuso ancora di più” si lamentò.
Io ridacchiai. “Grazie” gli dissi.
“Fottiti” mi disse, ma il suo sorriso sulle labbra mi rassicurò. Poi mi diede le spalle e iniziò ad allontanarsi.
“Ehi. Vieni da me?” gli urlai dietro.
Lui mi alzò soltanto il pollice da dietro. “Ti seguo” disse poi, dirigendosi verso la sua macchina.
Io scossi la testa, mandando a quel paese tutti i pensieri che mi frullavano per la mente. In quel momento avevo solo bisogno di andare a casa.
 
Arrivammo davanti casa mia in dieci minuti e mentre aprivo la porta d’ingresso, Ryan continuava a parlarmi dell’intervista che avevamo appena fatto.
“Ehi! Sono a casa” dissi, una volta all’interno. La casa era davvero silenziosa e per un attimo pensai che non ci fosse nessuno.
Poi mio fratello apparve dalla porta del salotto. “Ciao, marmocchio” dissi, sorridendo.
Evan, però non ci guardava neanche. Fissava un punto per terra con uno sguardo abbattuto, mentre camminava verso di me.
E poi avvolse le braccia intorno ai miei fianchi e mi abbracciò, cogliendomi di sorpresa.
“Ehi. Cosa c’è che non va?” gli chiesi, passandogli una mano tra i capelli biondi.
Lui non mi rispose e affondò il viso nel mio stomaco.
Guardai per un attimo Ryan, che era stranito quanto me.
“Evan” dissi, continuando a muovere la mia mano sui suoi capelli. “Dov’è la zia?” gli chiesi.
Sentii la sua presa che si stringeva intorno a me.
“Mi prendi in braccio?” furono le prime parole sussurrate di mio fratello.
E le mie sopracciglia si sollevarono. “Non sei un po’ grandicello?” gli chiesi. Nonostante Evan avesse già dieci anni, non era particolarmente alto, ma era comunque strano sentirgli fare una richiesta del genere, dato che non la faceva da qualche anno.
Evan scosse soltanto la testa e io lo accontentai. Lo afferrai e facilmente me lo sistemai sul fianco, mentre lui avvolgeva le braccia intorno al mio collo e ci affondava il viso.
Incrociai lo sguardo di Ryan, che sollevò le spalle, sorpreso.
“Piccolo, mi dici che è successo?” gli chiesi, ma lui continuò a non rispondermi.
Sospirai e andai verso la cucina con Ryan al seguito. Quasi mi scontrai con mia zia, che aveva un cipiglio sul viso.
“Ciao” ci salutò, poi guardò Evan, ancora in braccio a me.
“Ehi. Mi potresti dire cosa è successo?” le chiesi.
Lei fece un gesto sbrigativo con le mani. “Tuo fratello ha colpito un suo compagno senza alcuna ragione. Perché non glielo racconti tu, Evan?” spiegò lei, arrabbiata.
Non ebbi neanche il tempo di metabolizzare ciò che lei mi avesse detto, che Evan aveva alzato il viso dal mio collo e con le lacrime che scendevano sulle guance e aveva urlato: “Non l’ho fatto senza una ragione!”. Si era sbilanciato in avanti improvvisamente e dovetti tenerlo più saldamente per non farlo cadere.
E poi iniziò a singhiozzare e affondò di nuovo il viso nel mio collo.
Guardai prima Ryan, che era sconvolto e confuso quanto me, poi mia zia. “Ha colpito uno suo compagno?” riuscii soltanto a chiedere.
Mia zia annuì. “Sì. E mi hanno chiamato a scuola. Non mi bastavi soltanto tu, vero? Ora anche il mio bambino inizia a picchiare gli altri” mi accusò.
E mio fratello singhiozzò particolarmente forte. Lo strinsi di più a me. “Ssh. Non piangere, piccolo” dissi. Poi uscii dalla cucina e mi diressi verso il salotto, mentre Ryan restava lì a parlare con mia zia.
Mi sedetti sul divano, sistemandomelo in grembo. “Ehi, babe, calmati” cercai di rassicurarlo, facendogli cerchi sulla schiena con la mano.
“Chad. Non… non è vero” disse tra le lacrime, che sentivo scendere e bagnare la mia camicia.
“Calmati, piccolo. E mi puoi spiegare tutto”.
Qualche altra carezza e riuscì a calmarsi un po’. Allontanò il viso da me e si asciugò gli occhi rossi.
“Matt continuava a dirmi cose cattive” iniziò a dire. “E ha rotto la mia moto”. Sospirai. Sapevo quanto fosse legato a quel modellino così simile alla mia moto, che gli avevo regalato il natale precedente.
“Oh, amore. Possiamo ripararla” gli dissi, passandogli una mano sul viso, dove le lacrime erano tornate a scorrere.
“No. Non possiamo. È tutta rotta”.
“La guarderò io. O te ne comprerò un’altra. Ora mi dici cosa ti ha detto?” gli chiesi.
Lui scosse la testa e si gettò di nuovo su di me.
“Evan. Mi puoi dire tutto, lo sai” cercai di farlo parlare.
“La zia è arrabbiata con me” mi disse, invece.
“No, piccolo” . Ce l’aveva più con me per dargli questo tipo di esempi, che con mio fratello.
“Sì, invece. Dice che non era una giusta motivazione. E invece sì. Mi ha detto che sono diverso. Che sono brutto e faccio schifo perché non ho una mamma e un papà. E continuava a dire… a dire…” si interruppe a causa dei singhiozzi.
Io mi sentii male solo a sentire quelle parole. Come poteva essere così cattivo un semplice bambino e fare del male ad un suo compagno in quel modo? Come se non avere due genitori che ti tengono al sicuro fosse una decisione di mio fratello.
“Ssh, va bene. Va bene” dissi, accarezzandogli i capelli.
“Ha detto brutte parole su di te, Chad. Diceva che è un disonore avere un pugile come te nella squadra della città. E che dovevo vergognarmi di averti come fratello” terminò, con le parole attutite dalla pelle del mio collo.
“Tesoro, non devi ascoltare questi bambini, hai capito? Sono solo stupidi. Loro non capiscono e si divertono a fare del male agli altri. Devi solo ignorarli, ok? Non possiamo andare in giro a colpire la gente. O daranno la colpa sempre a noi, anche se non abbiamo tanto torto. Può essere soddisfacente” ridacchiai “ma non si fa” terminai.
Evan si era tirato indietro e mi aveva guardato, mentre parlavo. I suoi singhiozzi si erano calmati, diventando più dolci e deboli. “Ma tu lo fai” mi disse.
Io sorrisi. “Sì, ma io lo faccio per sport e per lavoro, piccolo. Non picchio la gente per strada. Ricorda che l’indifferenza a volte è peggio di qualsiasi reazione”.
“Potrò farlo anche io per sport?”. Questa domanda mi fece irrigidire.
“Mmh, di questo ne riparleremo” risposi, cercando di liquidare la questione. Quell’argomento era prematuro per entrambi.
Lui annuì. “Sei arrabbiato con me?” mi chiese.
Gli accarezzai i capelli. “No, piccolo. Non potrei mai. E parlerò con la zia, ma devi promettermi che non capiterà più”.
Evan annuì di nuovo e si accoccolò a me. “Ti voglio bene, Chad” mi disse, sospirando stancamente e chiudendo gli occhi.
“Anche io, piccolo” risposi, baciandogli i capelli.
Ci vollero soltanto pochi minuti, prima che Evan si addormentasse sopra di me. Mi alzai e tenendolo sempre tra le braccia salii al piano di sopra. Andai in camera sua e lo adagiai sul letto, lasciandolo dormire un po’ prima di cena.
Tornai al piano di sotto e raggiunsi la cucina, appoggiandomi allo stipite della porta e guardando mia zia seduta al tavolo, che beveva una tazza di tè.
“Ryan è andato via. Mi ha chiesto di avvisarti. Ti contatterà dopo” mi disse, sollevando gli occhi verso di me.
Io annuii. “Non c’era bisogno di farlo piangere” dissi soltanto.
“Chad, ha colpito un bambino” ribatté lei esasperata.
“Sì, che ha insultato la sua famiglia e che lo ha chiamato anormale perché non possiede due genitori” continuai passandomi una mano tra i capelli.
“Che cosa?”. Vidi l’espressione di mia zia cambiare improvvisamente.
“Non ti aveva detto il motivo?”.
Lei scosse la testa. “Non ha voluto. Continuava a chiedermi di te” sospirò. “Ok, d’accordo. Ma Chad, tuo fratello ha dieci anni. E ha già picchiato qualcuno. Ti ho sempre detto che quello del pugile non è un grandioso esempio per lui” continuò.
“E cosa posso farci? È l’unica cosa in cui riesco bene” dissi esasperato.
“Potresti aprire un’officina” mi propose.
Le diedi le spalle e mi diressi verso il frigorifero. “Non è la stessa cosa e lo sai anche tu” affermai mentre tiravo fuori una bottiglia d’acqua.
“Chad, io vi amo entrambi come se foste i miei figli. E sto cercando di educare tuo fratello al meglio. Ma ci sarà sempre una mancanza paterna. Per quanto si stia legando a Mason non è lo stesso”.
“Lo so. Ma lui ha me. Posso farcela. Posso aiutarti a crescerlo come si deve. Non sarò papà, ma Evan mi ascolta” dissi, cercando di essere convincente.
Lei sospirò. “E’ un bene che tu non sia tuo padre, Chad. Ma sappi che quando si romperà i denti perché vuole imitare suo fratello e mi farà venire un attacco di cuore, dovrai essere tu a prenderti cura di lui” disse, puntandomi un dito contro.
Io ridacchiai. “Va bene. Posso farlo. E posso fare in modo che non ti faccia venire nessun infarto”.
“Sarà meglio” disse lei, sorridendomi dolcemente.
“Ah, zia. Potresti dire ad Evan che non sei più arrabbiata con lui? Sarebbe grande” le chiesi.
Lei annuì. “Ci parlerò io”.
Le sorrisi e uscii dalla stanza. Nonostante non avessimo più né una madre né un padre, ero davvero grato di avere una zia così incredibile, che dopotutto continuava a farci vivere sotto quel tetto davvero accogliente.
 
Quella sera l’unica luce accesa nella mia stanza era quella delle scrivania a cui ero seduto. Avevo davanti il piccolo modellino frantumato di mio fratello. Quel bambino aveva fatto davvero un lavoro con i fiocchi: una delle due ruote era andata, parte della carrozzeria era graffiata o spezzata e il sellino era saltato. Come mio fratello avesse fatto a ritrovare tutti i pezzi, me lo chiedevo ormai da un’ora. Da quando mi ero seduto lì, armato di colla e attrezzi, per provare a ripararla. Stavo per incollare una parte della carrozzeria, quando il mio telfono squillò e io saltai in aria. La moto mi volò dalle mani e imprecai sottovoce, raggiungendo il telefono.
Sorrisi, guardando il viso di Melanie che era comparso sul mio schermo. Era praticamente dalla sera prima che non avevamo una conversazione reale e adesso che mi stava chiamando mi resi conto ancora di più che non vedevo l’ora di parlarle.
“Piccola” risposi, tornando a sedermi.
“Chad”. Solo sentire la sua voce mi fece crescere il sorriso che avevo sulle labbra. “Mi dispiace per oggi, tesoro. Che stai facendo?” mi chiese, mentre attivavo l’auricolare e me lo ficcavo nell’orecchio per continuare a lavorare.
“Cerco di riparare il modellino di Evan. Tu?” risposi, riprendendo la colla tra le mani.
“Faccio le fusa nel mio letto. Dio, sono davvero stanca” ridacchiò.
“Ehi. Fusa senza di me?” mi finsi offeso.
“Magari, amore mio. Ma cosa è successo alla moto del mio bambino preferito?” mi chiese.
Sospirai e iniziai a raccontarle ciò che era successo qualche ora prima, mentre lei faceva commenti che andavano dal dispiacere alla rabbia.
“Penso che abbia fatto bene a colpirlo” disse Melanie facendomi ridere.
“Sì, lo penso anche io” dissi, mentre gioivo per essere riuscito ad incollare quella parte della moto.
E poi fu il suo turno di raccontarmi la sua giornata, parlandomi dei suoi nuovi amici e del progetto che stavano intraprendendo con la sua classe di pittura e disegno.
Ero così assorto dalla sua voce e dal mio lavoro a mano, che riuscii a saltare in aria per la seconda volta, quando qualcuno bussò alla mia porta.
“Maledizione” dissi mentre il sellino cadeva giù dalla scrivania.
“Cosa?” mi chiese Melanie, ridendo di me.
“Hanno appena bussato. Un secondo” le dissi. “Avanti” dissi, poi rivolto alla persona dietro la mia soglia.
Vidi la porta che si apriva ed Evan che entrava dentro. “Chad” mi disse, venendo verso di me.
“Dimmi tutto, campione” gli dissi, mentre osservava come procedeva la sua moto.
“Dai un bacio ad Evan da parte mia” mi disse Melanie dal telefono.
“Melanie ti manda un bacio” lo informai e lui squittì.
“Anche io” disse lui, mentre si infilava sotto al mio braccio per guardare meglio la moto.
“Mi mancate, ragazzi” mi disse Melanie.
“Anche tu, piccola” risposi, sospirando.
“Chad” Evan attirò la mia attenzione.
Lo guardai, aspettando che continuasse. “Posso dormire con te?” mi chiese, con gli occhi imploranti.
“Cos’ha che non va la tua stanza?” gli chiesi.
“Ci sono i mostri nell’armadio” mi rispose.
“Che cosa?” risi. “Te l’ho già detto, Evan. I mostri non esistono. E se vuoi vengo a controllare” dissi, esasperato. Era da un po’ che mio fratello non tirava fuori la storia dei mostri e sospettai che la storia di oggi c’entrasse qualcosa.
“E invece sì. Sono tornati, perché sono stato cattivo” mi disse. Appunto. Proprio come pensavo.
“Non sono tornati, perché non ci sono mai stati”.
Lui mi fece gli occhi da cucciolo: “Ti prego” mi supplicò. “Solo per sta notte”.
Io sospirai. “Accontentalo” mi disse intanto Melanie da dietro l’auricolare. Mi venne quasi da ridere: Melanie sembrava la mia coscienza o qualcosa del genere.
“Accomodati, nano malefico” dissi, indicando il mio letto.
Evan gioì e corse sul mio letto, sollevando le coperte e seppellendosi all’interno.
“Che fratello d’oro” mi prese in giro Melanie.
“Ha ha. Lo sono davvero”.
Lei ridacchiò. “Sì, tesoro. Lo so”.
“Chiudi quella bocca e va a dormire” sentii improvvisamente una voce che non apparteneva alla mia ragazza.
“Mettiti le cuffie” ribatté Melanie, mentre l’altra ragazza continuava a lamentarsi.
Melanie sospirò. “Chad. È meglio che vada. Cher continuerà a rompere se non la smettiamo” mi disse.
Io sospirai e annuii, anche se lei non poteva vedermi. “Va bene. Ma ci sentiamo domani mattina” contrattai.
“Certo. Buonanotte”.
“Notte. Ti amo” le dissi, ma lei aveva già riattaccato prima di rispondere. Feci una smorfia e sentii un senso di insoddisfazione, mentre mi toglievo l’auricolare.
Guardai mio fratello, che stava già dormendo e poi di nuovo la moto sulla scrivania. Mi abbassai per recuperare la sella che mi era cascata prima, ma nel modo di alzarmi nuovamente sbattei la testa sul legno della scrivania.
Mi lamentai mentre sentivo qualcosa che cadeva dall’altra parte del tavolo.
Mi massaggiai la testa con una mano, mentre guardavo per terra, dove la moto era per terra, con le parti appena incollate di nuovo autonome, che si facevano beffa di me. E la ruota che fino a qualche secondo prima era buona, adesso andata.
Lasciai cadere la mia testa sulla scrivania, lamentandomi esasperato. Maledizione. Perché tutti gli dei si erano messi contro di me quella sera? Sbuffai e mi alzai da lì. L’unica cosa giusta da fare era quella di andarsene a dormire.
Guardai un’ultima volta la moto, che giaceva sul pavimento. Io ci avevo provato. Invano, ma ci avevo provato. Aggiustavo tutti i giorni moto all’officina, ma non ero riuscito a riparare un maledetto modellino. Sospirai per il mio destino così crudele.
Sapevo qual era l’unica soluzione: il giorno dopo sarei andato al negozio e ne avrei comprata un’altra. E magari ne avrei cercata anche una più bella.
Spensi la luce e mi infilai a letto, cercando di non svegliare mio fratello. E dopotutto avere un corpo accanto che emanava calore, non era poi così male. Anzi, abbracciare quel piccolo fagottino era decisamente piacevole.



Angolo dell'autrice: Buonsalvee! E buona estate a tutti, dato che la mia è appena iniziata.
Prima di tutto devo delle scuse colossali per essere sparita per un paio di mesi, ma questo periodo per me è stato infernale e con i miei esami di maturità ho dovuto tralasciare con immenso dispiacere la mia storia.
Ma adesso sono tornata e spero che mi perdonerete!
Grazie per chiunque sia arrivato fin qui e ricordo che dei commenti mi fanno sempre piacere ;)
A presto!!
Manu.

 
  
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