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Autore: Artemide12    16/07/2015    1 recensioni
Settembre.
Kadic.
20 anni dopo.

La preside Delmas dà il benvenuto a Franz Belpois, Emma della Robbia, Carlotta Dunbar e Chris Stern.
Sei amici si rincontrano per l'ennesima volta.
Nulla sembra veramente cambiato al Kadic. Tranne in fatto che XANA è stata sconfitta ovviamente.
Franz, Rebecca, Emma, Carlotta, Ludovic e Chris sembrano ragazzi normali, ma presto dovranno fare i conti con ciò che i loro genitori hanno fatto tanti anni prima.
Realtà e Mondo Virtuale si intrecciano e si confondono per chi ha immediato e incontrollato accesso ad entrambi. È la conseguenza di una metamorfosi che nessuno aveva considerato.
Ma quando questo potere diventerà un pericolo?
Presto il Kadic tornerà ad essere ciò che non ha mai smesso di essere: lo scenario di una guerra virtuale che non è ancora finita.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, X.A.N.A.
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metamorfosi Cap7;

begin

    write('Confondere, o sorprendere');

    readln;

end.


«Che diavolo...» Ulrich non credeva ai propri occhi.

Chris si portò di scatto la mano al petto premendo il polso sanguinante contro la maglietta. Il taglio non era molto profondo, ma gli faceva male da morire. «Papà!» gemette.

Ulrich si riscosse. Balzò in piedi.

Seguendo l'istinto fece il giro della scrivania della preside e cominciò ad aprire i cassetti uno dopo l'altro finché non ne trovò uno stracolmo di flaconi con etichette mediche, scatole di pastiglie e, grazie al cielo, bende e disinfettante.

Frugò in cerca dell'acqua ossigenata. Non era un medico, ma di certo era un genitore, conosceva le regole basi.

«Dammi il braccio.»

Chris lo allontanò leggermente dal petto tenendoselo premuto con l'altra mano.

«Brucerà» lo avvertì Ulrich mentre avvicinava alla ferita la garza imbevuta di acqua ossigenata.

Chris si tese al contatto, trattenendo il respiro, ma si rilassò quasi subito dopo. «Non brucia per niente» sospirò.

«Come no?» Ulrich lo fissò stupito. Sollevò la garza per poter controllare la ferita, appena in tempo per vederla rimarginarsi davanti ai suoi occhi.

Padre e figlio sgranarono gli occhi.

«È successo anche a me.»

Sobbalzarono allarmati e si voltarono. Ludovic era sulla soglia. E non era solo.

«Rebecca?» esclamò Chris. «No!» strillò poi balzando in piedi e indietreggiando fino a sbattere contro la scrivania. «Tu!»

«Chris, ma che stai dicendo?» più che allarmata, la voce di Ulrich era preoccupata.

Chris si rese conto che suo padre credeva davvero possibile che lui stesse impazzendo. Fu come ricevere una pugnalata alle spalle. «Tu... non vedi niente?» balbettò.

«No» rispose Ludovic per lui. «Non vede nulla. E lei non è Rebecca, è... Bea.»

«Chi?»

«Tranquillo Chris, non è pericolosa. È l'ologramma di Rebecca, te la ricordi? A quanto sembra non può parlare, così le ho dato io un nome.»

«Fermi un momento, di chi state parlando?» li interruppe Ulrich, il cui sguardo balzava da uno all'altro.

«A quanto pare non puoi vederla» rispose Ludovic. «Come non hai visto la cosa che ha ferito Chris, ma se la sua ferita è reale lo devono essere anche loro.» Indicò l'aria accanto a sé. «Qui c'è Bea, è un ologramma identico a Rebecca, creato da lei stessa come... esperimento. A quanto pare solo noi sei riusciamo a vederlo. Non può uscire dalla scuola e non può salire sul tetto,» aggiunse rivolto a Chris «proprio come quegli animali.»

«Animali?»

«Sono delle specie di ologrammi anche loro, proprio come Bea, girano per la scuola e ci attaccano quando ne hanno l'occasione, solo che non sappiamo chi li abbia creati.»

«Non siamo gli unici a vederli» ricordò Chris.

Ludovic alzò un sopracciglio.

«Anna Zuz. Anche lei vedeva Rebecca, ricordi?»

«Già, non ci avevo pensato.»

«Anna Zuz? Ma Elisabeth... cioè, la preside, ha appena detto che non esiste nessuna Anna Zuz in questa scuola.»

«Cosa?» esclamò Ludovic.


ʘ –


Carlotta si tenne con la schiena contro il muro. Tentò, in qualche modo, di fondersi con esso. Per qualche istante ebbe persino l'impressione che si deformasse intorno al suo corpo, ma non si soffermò a pensarci.

Continuò a seguire la preside per i corridoi, finché non si trovò all'esterno. Indugiò sulla soglia, nascosta nell'ombra mentre la guardava correre verso il bosco.

Elisabeth avanzava in modo strano. Barcollava. Come se stesse trascinando qualcuno. O se stessa. Come se qualcosa la trattenesse, strattonandola all'indietro o tentando di farla cadere in avanti. Riusciva a riacquistare l'equilibrio appena in tempo.

Carlotta attese che si fosse allontanata abbastanza da non poterla vedere, poi uscì fuori a propria volta e corse fino a primi alberi. Vi si arrampicò con un'agilità inumana di cui si rese conto appena. Si fermò solo quando fu abbastanza in alto da spiare la preside senza essere notata.

Corse da un ramo all'altro come avrebbe fatto su una qualsiasi strada piena di pozzanghere. I rami più sottili si spostavano, obbedienti alla sua inconscia volontà, si intrecciavano tra di loro, formando una rete solida e resistente sotto i suoi passi e sciogliendosi l'attimo dopo il suo passaggio.

Si fermò solo quando vide la preside interrompere il suo instabile percorso.

Carlotta si acquattò e aguzzò la vista.

Elisabeth teneva le braccia protese avanti, le mani sospese a mezz’aria, come se fossero appoggiate contro un muro invisibile.

Carlotta avanzò per poter vedere meglio e superò la preside di diversi metri, anche se si trovava più in alto. Non incontrò nessuna resistenza.

Elisabeth rimase immobile per qualche istante. Poi una leggera luce verde si propagò dalle sue mani e delineò per pochissimi istanti i contorni di un'enorme specie di scudo che ingabbiava la scuola. All'inizio sembrava una cupola, ma poi si notava anche la concavità ad imbuto proprio al centro che aveva il suo cuore all'interno della scuola stessa, poco sotto il tetto. Nel complesso assomigliava ad un ciambellone con il buco centrale che non arrivava fino al fondo.

La luce verde lampeggiò un paio di volte, alla terza invece si estendersi completamente, delineò solo un ovale abbastanza grande perché Elisabeth potesse passarci attraverso. Così fece. E quello, con un ultimo lampo verde, si richiuse.

Carlotta si portò oltre il limite che la luce aveva segnalato a poca distanza da lei, ma non incontrò nessun ostacolo. A parte il fatto che, andando avanti, i rami degli alberi non si intrecciavano più sotto i suoi passi come avevano fatto fino a quel momento. Tornando indietro, invece, tutto era “normale” come prima.

Quei minuti di distrazione purtroppo le fecero perdere di vista la preside. Sapeva che aveva proseguito, ma ora non la vedeva da nessuna parte. Provò a spostarsi mantenendosi sul confine della cupola-ciambellone, ma non vide nessuno.

Più o meno.

Si sporse in avanti e aguzzò la vista per poterne essere sicura. Saltò da un albero all'altro per avvicinarsi, ma non c'erano dubbi.

«Mamma! Papà!» chiamò ad alta voce correndo come un fulmine sui rami più spessi per avvicinarsi.

Yumi e William si guardarono intorno per qualche secondo. Alzarono lo sguardo appena in tempo per vedere la figlia compiere un salto di quattro metri verso il basso e atterrare senza il minimo sforzo.

«Carlotta!» esclamò William. «Che ci fai qui?»

«Che ci fate voi qui?» osservò lei.

«Siamo venuti a cercarvi» rispose Yumi. «Dopo che Rebecca ha chiamato Jeremy...»

«Rebecca ha chiamato Jeremy?» ripeté lei. «Quando?»

«Ieri sera. Quando è stata rapita a quanto sembra. Si può sapere cosa è successo?»

«Io, noi… insomma» Carlotta si stava ancora guardando intorno in cerca della preside. «Non lo so. Cioè, non lo sappiamo. Io non c'ero, ero in camera mia con Emma, dovete chiedere a Chris e Franz.»

«Dov'è Ludovic adesso?»

Carlotta alzò istintivamente lo sguardo verso il tetto della scuola, ma non vide nessuno. «Di sicuro non a lezione.»

«Già, e non dovreste essere entrambi in classe?» le fece notare William.

Lei si limitò a scrollare le spalle. «Stavo seguendo la preside.»

«Elisabeth?»

«Se preferite chiamarla così.»

«Ma da qui può andare solo....» Yumi e William si guardarono. «Alla fabbrica» esclamarono entrambi.

«Chiamo Jeremy» Yumi aveva già il telefono in mano.

«Carlotta tu torna dentro.»

«No!» protestò la ragazza.


ʘ –


Emma si fiondò in giardino appena suonò la campanella della ricreazione. Aveva visto suo padre fuori dall'edificio, ne era sicura, ma non poteva certo mettersi ad urlarlo nel bel mezzo di una lezione. Tanto meno mentre era seduta accanto ad una chiacchierona, invisibile Anna Zuz.

Non voleva neanche pensare alla ragazza dai capelli rossi in quel momento. Tutto ciò che importava era che suo padre si trovava lì, da qualche parte, e lei avrebbe potuto andarsene.

Corse fin dove l'aveva visto passare e poi proseguì nella sua stessa direzione.

«Papà!» chiamò quando lo vide in lontananza. Stava correndo anche lui, non sarebbe riuscita mai a raggiungerlo «Odd!» provò inutilmente a chiamarlo per nome.

Si fermò e si acquattò come aveva fatto sulla pista di atletica. Si diede un momento per riprendere la concentrazione, poi scattò. Le falcate si susseguirono con un'automaticità strabiliante. Prima di quanto fosse umanamente possibile, andò a sbattere contro suo padre e caddero entrambi a terra.

«Emma!» esclamò Odd.

«Papà» rispose lei. Mentre riprendeva fiato, si mise in ginocchio e lo sguardo le cadde sulle proprie mani. La pelle era sbiadita, ricoprendosi di nuovo di quel reticolo colorato che era comparso la sera prima. Cacciò un urlo quasi senza accorgersene. Si portò le mani alla faccia. Era liscia come vetro al contatto con le dita. Ansimò.

«Emma? Ma che ti è preso?»

«Papà, dimmi che non è vero! Dimmi che mi sto immaginando tutto» piagnucolò sbilanciandosi di lato e abbracciandolo forte.

Odd le fissò i capelli – l'unica parte della sua testa che riusciva a vedere – e rimase immobile e confuso per qualche istante. «Cos’è che dovrei dire?» fu tutto ciò che riuscì a rispondere.


ʘ –


Rebecca teneva lo sguardo fisso sul soffitto. O almeno su quello che era il soffitto dall'angolazione in cui si trovava.

Era stesa su una lastra levitante liscia e dal colore metallico – l'equivalente di un letto su Lyoko. Il suo corpo non sembrava desiderare un cuscino o un materasso.

C’erano così tante cose da assimilare in una volta sola. Persino la sua mente faceva un po' di fatica a stare al passo.

A dire il vero, aveva capito tutto. Ecco cosa la preoccupava: vedeva perfettamente una logica in qualcosa che non poteva averne. Lei non poteva essere davvero lì, in un mondo digitale, abitato da programmi; non poteva essere lì con il corpo, non poteva esserci arrivata tramite un banale cellulare. Eppure non ci vedeva niente di strano.

Era la sensazione più assurda che avesse mai provato.

E poi quel nome.

XANA.

Dido l'aveva definita un virus. Eppure lei era sicura di conoscere qualcosa di più. Era come un campanellino minuscolo che suonava da lontano, in qualche remoto angolo della sua mente.

XANA era sempre esistita su Lyoko, c'era anche prima che questo fosse abitato dai Programmi.

Anche i suoi genitori rientravano nella storia di Lyoko precedente ai Programmi.

Le due cose erano collegate? Voleva dire che aveva sentito parlare di XANA a casa, magari per caso? Le sembrava assurdo e ovvio allo stesso tempo.

Sospirando, allungò tutte e due le braccia verso il soffitto, come per stiracchiarsi. Mise indice e pollice di entrambe le mani in modo da formare un rettangolo che incorniciava un pezzo di parete liscia e uniforme.

Senza sapere bene perché, si concentrò su quel ritaglio blu con estrema intensità. Dopo pochi istinti, sul muro si formarono delle specie di crepe, come se certe parti non si fossero mai formate. Separò le mani e mise giù le braccia di scatto. Le crepe erano ancora lì. E mentre continuava a fissarle simboli bianchi ne sgorgarono fuori spandendosi sulla parte.

Erano diversi da quelli a cui era abituata. Questi non vagavano in modo disordinato nell'aria come se fossero esplosi, ma si allineavano con scrupolosità davanti a lei.

Poteva leggere ciò che esprimevano. Riusciva ad interpretarli come se fossero stati la sua lingua madre.

Si sparsero velocemente in tutta la stanza e oltre, fin dove poteva spingersi il suo sguardo.

Chilometri di programmazione si srotolarono davanti a lei.

Era questo Lyoko? Un complicatissimo e sofisticatissimo programma?

Poteva essere modificato? O il più piccolo e insignificante cambiamento lo avrebbe fatto crollare?

L'anno precedente aveva imparato a cambiare ciò che vedeva, ad invertire i comandi che seguivano gli esseri digitali che giravano per la scuola. Poteva fare la stessa cosa?

Sollevò di nuovo una mano e mosse le dita davanti a sé, come su uno schermo touch screen, solo senza toccare altro che aria.

I simboli risposero ai suoi comandi, cambiando ordine e forma e poi riassestandosi fino a sparire.

La stanza si riformò, solo che la forma era cambiata. Ora era perfettamente cubica e il lettino di Rebecca si trovava in un punto diverso. Persino il colore, per quanto insignificante, era cambiato: invece dell'uniforme blu di Cartagine, ora erano viola.

Chiuse gli occhi. Non le faceva male la testa né si sentiva stordita.

Inspirò lentamente, impegnandosi a gonfiare i polmoni quanto più possibile. E sentì qualcosa di denso scivolarle in gola dalla bocca semiaperta.

Scattò a sedere, con la sensazione di soffocare. Tossì, ma non servì a nulla. Le mancava l'aria.

Spalancò gli occhi e si ritrovò circondata da una densa nube nera. Non aveva mai visto nulla del genere e non aveva tempo di soffermarcisi. Si afferrò le gola con le mani, come se potesse aprirsela a forza. Provò un dolore al petto lancinante poi uno alla testa.

Tentò di urlare, ma le uscì solo un gemito straziato.

Rotolò giù dal letto, provò a trascinarsi via avanzando carponi, ma la nebbia si spostava con lei. Voleva essere respirata. E lei non aveva scelta, perché aveva un bisogno disperato di aria.

Inspirò con forza. I polmoni si aprirono ed ebbe un istante di sollievo, ma aveva solo respirato altro fumo. Lo sentiva ancorarsi alle proprie cellule, introdursi nel suo sistema circolatorio e spandersi in tutto il corpo.

Si accasciò completamente a terra. Nessuno dei muscoli rispondeva più ai comandi, era come se all'improvviso fossero fatti di acido. Quando credette che fosse impossibile sopportare oltre ed ebbe inalato tutto il fumo nero una scarica elettrica le attraversò tutti i nervi contemporaneamente per poi risalirle la colonna vertebrale e sfociare nella sua testa.

Fu come se mille agi le penetrassero nello stesso istante direttamente nel cervello.

Per alcuni interminabili minuti si ritrovò incapace di muoversi e incapace di pensare.

Una frazione di una parete si aprì e ne entrò un programma, forse Dido, ma non riusciva a vederla bene. Da quella angolazione Rebecca sembrava essere in piedi.

«Si è aperto un varco» annunciò il Programma. «Potete tornare nel vostro mondo.»

Furono le ultime parole che riuscì a sentire prima che tutti i suoi sensi si spegnessero, ma la sua testa stava annuendo.


ʘ –


Quando erano entrati nella vecchia fabbrica si erano aspettati di trovare qualsiasi tipo di scenario. Tranne quello che trovarono effettivamente.

Non era cambiato niente, se non che la vecchia costruzione era ancora più vecchia dell'ultima volta. Difficile dire se quel poco che si notava di diverso fosse dovuto solo ai venti anni passati o all'opera di qualcuno in particolare.

Il super-computer era esattamente come lo avevano lasciato: spento. E polveroso.

Le uniche anomalie erano i due corpi stesi a terra, accanto a dei cavi scoperti.

Jeremy, Yumi e William si scambiarono intense occhiate. Erano venuti solo loro, tutti gli altri a quel punto dovevano essersi già riuniti in infermeria.

«Rebecca!» esclamò Carlotta correndo a inginocchiarsi accanto all'amica. Era stesa a pancia in su, le mani sulla pancia, la testa tenuta perfettamente dritta dagli chignons. Respirava lentamente e con regolarità e la sua postura era rilassata più che abbandonata. Se avesse avuto gli occhi aperti, avrebbe potuto benissimo trovarsi stesa sul suo letto a meditare.

Lo stesso non poteva dirsi di Elisabeth, proprio accanto a lei. Stringeva con una mano il cellulare di Rebecca – che sfiorava la resta della sua proprietaria –, ma per il resto sembrava essere stata buttata sul pavimento o esserci caduta di peso. La sua posizione era scomposta, al limite dell'umano, la pelle così pallida e fredda e gli arti così abbandonati che sembrava morta. Il suo cuore, però, batteva ancora.

«Non toccarla!» William fermò la figlia prima che potesse appoggiare una mano sulla spalla di Rebecca. Si vedeva lontano anni luce che qualcosa non andava. Nessuno sarebbe stato così rilassato se era stato portato lì dopo essere stato rapito.

«Dobbiamo portarle via di qui» decretò Jeremy, per quanto banale fosse. Non riusciva a staccare gli occhi dalla figlia, ma qualcosa frenava il suo impulso di toccarla. Si diede dello stupido e si affrettò a prenderla in braccio. Era molto più leggera di quanto ricordasse, e effettivamente più magra, come se fosse stata svuotata. Le braccia e le gambe dalle ginocchia in giù penzolarono a peso morto verso il basso, il collo si reclinò all'indietro.

Mentre invece William, aiutato da Yumi, sollevò Elisabeth, la donna ebbe la reazione contraria. Tutti i suoi muscoli si contrassero automaticamente al primo contatto.

William guardò Jeremy, che ancora non aveva sollevato la figlia da terra. Lui non seppe cosa dirgli. Fece leva sulle gambe per tirare su Rebecca.

Una scarica elettrica attraversò i capelli rosa della ragazza quando si separarono dallo schermo del telefono, ancora stretto tra le mani della preside. Era così forte che si videro le scintille violacee.

Elisabeth sussultò e i suoi occhi si spalancarono automaticamente per un attimo. Persino William la sentì. Jeremy no. Si irrigidì di riflesso, ma non sentì nulla.

Il corpo di Rebecca assorbì tutta l'elettricità senza avere la minima reazione.

«Andiamo» li spronò Yumi dopo un momento di silenzio mentre toglieva il telefono di Rebecca dalle mani di Elisabeth e lo staccava dal super-computer.

Carlotta li precedette fuori e poi lungo il sentiero che li avrebbe riportati a scuola. Ebbero la fortuna di arrivare durante il pranzo, per cui nessuno fece caso a loro.

«Cosa diremo all'infermiera?» chiese Carlotta.

«Che le abbiamo trovate sul sentiero.»

«Jeremy, guarda» li interruppe Yumi.

Il biondo si voltò.

Yumi sollevò i capelli di Elisabeth fino a scoprirle il collo. Alla base del cranio c'era una specie di reticolato, come se qualcuno avesse cercato di disegnarle tanti piccoli quadrati sulla nuca. La pelle in quel punto era più scura e più lucida.

«Portatela direttamente nella presidenza» decise Jeremy dopo averla fissata a lungo. «Non credo sia qualcosa che può risolvere un'infermiera.»

«E Rebecca allora?» osservò Carlotta.

Jeremy abbassò lo sguardo sulla figlia. Sperava con tutto se stesso che stesse bene, che fosse davvero solo svenuta. Sapeva di illudersi, ma non poteva farne a meno.

«Che una ragazza si sia sentita male è abbastanza normale, se portiamo la preside svenuta è un'altra storia.»



  
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