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Autore: ValeryJackson    16/07/2015    11 recensioni
[Seguito de Il Morbo di Atlantide]
Non si trasforma la propria vita senza trasformare se stessi.
Questo, Skyler, l'ha imparato a sue spese.
Per lei è ancora difficile far coesistere la sua natura mortale con quella divina, e superare quella sottile barriera che le separa, dal suo punto di vista, è una missione impossibile.
L'unico modo per scoprire come fare è forse quello di passare l'intera estate al Campo Mezzosangue, insieme ai suoi amici, insieme alla sua famiglia. Ma se fosse proprio lì il problema?
Se lei non fosse mai venuta a conoscenza della sua vera natura, ora sarebbe tutto più facile, no?
E' cambiata, e di questo ne è consapevole. Ma in meglio o in peggio? E di chi è la colpa? Sua, o di tutto ciò che la circonda? E' possibile tornare ad essere quella di un tempo senza però rinunciare a ciò che ha adesso?
Attraverso amori, amicizie, liti, incomprensioni, gelosie, nuovi arrivi e promesse da mantenere, Skyler dovrà decidere quale lato della sua anima sia quello dominante. Ma soprattutto, di chi fidarsi nel momento in cui tutto sembra sul punto di sfaldarsi.
Ma sei proprio sicuro che siano tutti ciò che dicono di essere?
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Stoll, Leo Valdez, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti, Sorpresa, Travis & Connor Stoll
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Girl On Fire'
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Tre settimane.
Erano passate tre settimane da quando Skyler era entrata in coma.
Leo ricordava ancora nitidamente il giorno in cui quella tragedia aveva preso atto.
Lui si trovava al Campo Mezzosangue, ed era intento a farsi una doccia per grattarsi via lo sporco accumulato dopo ore passate nelle fucine. Ogni tanto si domandava dove fosse, sua sorella, e se stesse bene; ma nessuno aveva mai il coraggio di sollevare l’argomento, e tutti erano consapevoli che qualunque parola ottimista sarebbe stata vana.
Quei ragazzi si erano buttati tra le braccia della morte, si diceva. E per quanto fosse doloroso, la maggior parte dei semidei si era rassegnata all’inevitabile.
Il figlio di Efesto sembrava essere l’unico, insieme a pochi altri, a credere ancora che ce l’avrebbero fatta, e che sarebbero tornati a casa sani e salvi. Lui e Microft si davano man forte a vicenda, scambiandosi dei segni di incoraggiamento ogni qual volta se ne conversava.
C’era solo una cosa di cui Leo non si sentiva libero di parlare con nessuno, neanche con il fratello. E il solo pensare ad Emma lì fuori chissà dove e non poter esternare i propri sentimenti senza destare sospetti gravava come un peso sulle sue spalle.
Ormai erano passate due settimane dalla loro partenza, e nessuno aveva loro notizie. Si pensava già al peggio, per questo il ragazzo si sorprese quando un figlio di Ermes entrò trafelato nella loro Cabina, gli occhi sgranati dalla paura.
Nico di Angelo era apparso come un fantasma nel bel mezzo del campo di pallavolo; così, all’improvviso.
Sembrava stanco, e più pallido del solito; ma mentre alcuni erano sobbalzati, spaventati e confusi, altri avevano avuto la premura di chiamare aiuto.
Will Solace era stato il primo ad arrivare, sorreggendo il figlio di Ade prima che questo rischiasse di svenire.
«Sto bene» aveva borbottato il corvino, ansimante, mentre il figlio di Apollo si passava un suo braccio scheletrico intorno alle spalle.
Nico aveva infilato una mano nella tasca dei jeans dell’amico, già sapendo che il biondo vi teneva nascosti dei pezzetti di ambrosia – per le emergenze -; se n’era ficcato in bocca uno, masticandolo corrucciato sotto lo sguardo basito di tutti.
«Che sta succedendo?» aveva domandato Will, interdetto.
«L’hanno trovato» si era limitato a mormorare il moro, prima di raddrizzarsi, la fronte imperlata di sudore. «Jackson!» aveva sbraitato, col fiato grosso, per poi rivolgersi ai presenti. «Dov’è Percy? Andate a chiamarlo, svelti! Muovetevi!»
Quei semidei erano stati talmente impressionati dal suo tono urgente che erano schizzati via come gazzelle, alla ricerca del figlio di Poseidone.
«Di Angelo, ma che succede?» aveva reiterato il biondo, senza però ottenere risposta. In altre circostanze avrebbe rimproverato l’amico per aver rischiato la vita con un altro dei suoi viaggi nell’ombra, ma tutta quella situazione aveva un che di impellente per poter badare a certe cose.
«Nico!» la voce di Percy era giunta lì prima ancora della sua figura. Era seguito a ruota da Annabeth, ed entrambi avevano un’espressione spaesata in viso.
«Hanno trovato Michael» si era affrettato a spiegare il figlio di Ade, sbrigativo.
«Che cosa?»
«Dobbiamo muoverci, non abbiamo molto tempo! Si trovano a Stonehenge, nel Westshire. Hanno bisogno di aiuto, non ce la faranno mai da soli!»
Assimilare velocemente quelle informazioni pareva difficoltoso anche per la figlia di Atena. Ma l’imperioso bisogno di salvare quei ragazzi era tanto forte da azzerare in tutti qualsiasi esitazione.
«Andiamo» aveva assentito il figlio di Poseidone, e la sua ragazza si era unita a lui.
«Will, tu vieni con noi» aveva ordinato Nico, con l’aria di chi non ammette obiezioni. Solo dopo capì che in verità non ce ne sarebbero state comunque. Era così concentrato sull’ombra scura che aveva visto aleggiare sul capo di Skyler da dimenticare che in quella crociata era stato coinvolto anche il fratello dell'altro.
Stavano quasi per fare tutt’insieme un salto nel buio, incuranti dei semidei che preoccupati li fissavano, quando Leo si era precipitato al loro fianco.
«Dove andate?» aveva chiesto, non avendo assistito alla scena. Aveva il respiro pesante, segno evidente che aveva corso per poterli raggiungere. «Mi hanno detto che avete trovato i ragazzi, dove…»
«Valdez, tu resti qui» l’aveva interrotto bruscamente il figlio di Ade, autoritario.
«No! È di mia sorella che stai parlando, io devo…»
«Posso portare con me solo altre tre persone» aveva replicato il corvino, ma il ragazzo messicano non voleva sentire ragioni.
«Verrò al posto di Annabeth. Skyler ha bisogno di me, io posso…»
«Fidati, è meglio se rimani qui» aveva ripetuto Nico, a denti stretti, e posandogli una mano sul petto gli aveva impedito di continuare a parlare.
Il figlio di Efesto non era certo di cosa l’avesse fatto titubare – se il tocco gelido dell’altro o l’occhiata affranta che gli aveva rivolto-, ma seppe soltanto che nell’istante in cui li aveva visti svanire nell’oscurità, gli occhi di molti fissi su di loro, si era sentito del tutto inutile.
Nico non aveva mai dato troppo peso alle ombre che vedeva sospese una spanna sopra le persone finché queste non si facevano scure, più vicine e spaventose. Non appena Will era tornato da loro con una valigetta di pronto-soccorso e lui l’aveva preso per mano, aveva avuto la brutta sensazione che fosse ormai troppo tardi.
E ogni suo dubbio aveva trovato conferma quando erano atterrati in Inghilterra, e l’aura di morte che regnava tra quelle megaliti aveva colpito il figlio di Ade come uno schiaffo in faccia.
Skyler era morta, e Michael versava lacrime disperate sul suo corpo privo di vita. John ed Emma erano riversi su un fianco, poco lontano, e presentavano delle ferite davvero profonde, seppur non letali.
«Dà loro nettare e ambrosia!» aveva esclamato Solace, rivolto ad Annabeth, mentre Nico osservava quella scena, impotente. 
Il figlio di Apollo si era catapultato al fianco della mora, allontanando il figlio di Poseidone con un braccio. «Fa un passo indietro, non c’è tempo da perdere!» gli aveva urlato, un po’ perché voleva riscuoterlo dallo shock, un po’ perché aveva bisogno di molto spazio per poter agire in fretta.
Percy era accorso immediatamente dal fratello, stringendolo tra le braccia tanto da impedirgli di fare pazzie. Anche lui era sconvolto, e scombussolato; ma non per questo sarebbe venuto meno ai suoi doveri di fratello maggiore proprio quando Michael aveva più bisogno di lui. Quest’ultimo si era aggrappato alla sua schiena, singhiozzando; e per un attimo – solo un attimo- Percy era stato sollevato di poterlo avere di nuovo con sé.
Will aveva iniziato a premere con forza i palmi sul petto della ragazza, sperando che un massaggio cardiaco la aiutasse a tornare tra loro.
«Andiamo» mormorava tra sé e sé, digrignando i denti. «Coraggio.»
Ma il corpo inerme della figlia di Efesto non aveva avuto neanche un minimo spasmo, e quando anche Annabeth si era inginocchiata accanto a lei, Will le aveva passato la propria valigetta, imponendole di tirar fuori il defibrillatore.
«Che cosa hai intenzione di fare?» aveva domandato la figlia di Atena, che però, nel frattempo, aveva già acceso il dispositivo.
«Il possibile» aveva risposto lui, applicando le placche adesive sullo sterno della mora. «Sai usarlo?» si era poi informato, e quando la bionda aveva annuito, aveva preso un bel respiro.
«Libera» le aveva detto, procedendo nel suo intento di rianimazione.
E così una, due, cinque volte; senza arrendersi, continuava a fare pressione sul petto di Skyler, mentre Annabeth le lanciava delle scariche ad intervalli regolari.
«So che puoi farcela» le aveva sussurrato Will, dopo il settimo tentativo mancato. Aveva riprovato ancora una volta, conscio del fatto che sarebbe stata l’ultima, e non appena la figlia di Atena aveva lasciato andare ulteriore elettricità, il torace della figlia di Efesto aveva sussultato. Un movimento impercettibile, ma che non era sfuggito all’occhio attento del biondo.
Quest’ultimo le aveva afferrato il polso, trattenendo il fiato, in attesa. E subito dopo le sue iridi chiare erano state attraversate da un luccichio, prima che il suo viso si contorcesse di nuovo in un’espressione imperscrutabile.
«C’è di nuovo battito» aveva affermato, al ché Michael si era allontanato dal fratello, cercando qualche segno di vita sul volto della ragazza. Ma di quest’ultima non si udiva neanche il respiro.
«Skyler» aveva ciangottato, con voce spezzata, osservando il figlio di Apollo coricarsela in braccio.
«È debole» aveva annunciato quello. «Troppo. Non ce la farà, se non la portiamo subito al Campo.»
«Ce la faccio» si era quindi fatto avanti Nico, guadagnandosi un’occhiata dubbiosa.
«Ma…»
«Ce la faccio» aveva semplicemente ripetuto, stavolta con più convinzione.
Si erano avvicinati l’un l’altro, ed il figlio di Ade si era sforzato di eludere qualsiasi altro suono che potesse distrarlo da quell’impresa, che fossero i singhiozzi di Emma, le proteste di Michael o la voce di Will che dava ad Annabeth delle indicazioni.
Era da tanto, forse troppo tempo che non trasportava un simile carico; ma il rezzo che incombeva sulla mora era ancora troppo scuro perché potessero tirare un sospiro di sollievo. Solace era stato bravo, ma adesso toccava a lui fare la propria parte.
Una volta messo piede a Long Island, Will si era diretto verso l’infermeria senza indugiare, mentre Percy correva verso la Casa Grande per avvertire Chirone.
Il figlio di Apollo aveva posto la ragazza nelle mani del centauro, spiegandogli la situazione, ma non appena Michael aveva fatto per andare con loro, l'uomo gliel’aveva impedito.
«Lascia fare a noi, ragazzo» gli aveva intimato, e ci era voluta tutta la resistenza del fratello per far sì che il figlio di Poseidone facesse come gli era stato detto.
Aveva urlato più volte il nome della ragazza, pregando di farlo stare al suo fianco; ma era tutto vano, e dopo un po’ si era arresi all’idea di dover aspettare.
Nico era stato fatto sdraiare su un lettino, nella speranza che recuperasse le energie; nel frattempo, le porte di quel luogo erano state spalancate con un tonfo.
Melanie era sulla soglia, perlustrando il corridoio con agitazione. E solo quando le sue iridi caramellate si erano posate su una chioma color miele, la figlia di Demetra aveva perso un battito.
«John!» Qualcosa a metà tra uno strillo e un grido di gioia, proprio mentre lui si accorgeva di lei. «John!»
Erano corsi l’uno verso l’altra, e di colpo era come se al mondo non ci fosse nessuno tranne loro due, che si aprivano un varco nello spazio per raggiungersi. Si erano scontrati, si erano abbracciati; avevano rischiato di perdere l’equilibrio, e lei si era nascosta nell’incavo del suo collo, lasciandosi andare ad un pianto sollevato. Ed erano rimasti lì per un tempo interminabile, contro un muro, a baciarsi tra le lacrime. Stretti in un unico essere. Invisibili.
Chirone era uscito dalla sala operatoria esattamente dopo due ore, trentasette minuti e quarantacinque secondi.
Michael li aveva contati senza sosta, chiedendosi come mai ci mettessero tanto. Skyler era morta, dannazione. Poi, grazie a Will, il suo cuore aveva riacquistato il proprio ritmo, seppur temporaneo.
E allora perché, nonostante quello sprazzo di luce, il figlio di Poseidone sentiva che qualcosa non andava?
Lo aveva capito solo quando il centauro gli era andato incontro, il capo chino ed un’aria afflitta, scoraggiata.
«È in coma irreversibile» aveva comunicato ai ragazzi, e non c’era stato bisogno di aggiungere altro.
«Mi dispiace, ho fatto il possibile.»
Leo non era un asso, in quanto a medicina, ma non serviva un genio per capire che ormai era finita.
Ci avevano provato, avevano fatto appello a tutto il loro sapere; ma per sua sorella non c’era più nessuna possibilità. Si erano frantumate tutte, spazzate via dall’impeto di quell’uragano che era la morte.
Ciò che permetteva alla ragazza di respirare ancora erano unicamente le macchine alle quali era collegata. Non era più padrona delle proprie funzioni vitali; ogni giorno un figlio di Apollo si recava nella sua stanza per poter verificare se ci fosse qualche attività elettrica, nel suo cervello, ma nulla. Nemmeno le sue pupille reagivano più alla luce.
Eppure se tutti erano apparsi devastati da quella notizia, il figlio di Efesto non era riuscito a sfogare la propria sofferenza. Si era limitato a prendere a pugni il cuscino, fino a che le nocche non avevano iniziato a dolere.
Non una lacrima aveva rigato le sue guance, perché nonostante percepisse gli occhi bruciare, sapeva che non era quello che Skyler avrebbe voluto.
Lei odiava vedere le persone tristi; e ancor di più detestava essere l’artefice di quel malumore.
Ma era inevitabile, si rese conto il ragazzo poco dopo. Anche se inconsciamente, lei era una di quegli esseri umani che ti migliorano la giornata.
Tre settimane.   
Erano passate tre settimane da quando Leo Valdez aveva sorriso per l’ultima volta.
Non una battuta, non un verso di scherno. Il suo volto era rimasto impassibile; la mente divorata da tutti i pensieri che vi albergavano, tempestosi.
Si era buttato a capofitto nel lavoro come mai prima di allora, svolgendo le mansioni assegnate a quelli che tra i suoi fratelli sentivano di più la mancanza della mora. Tra loro, il primo era Microft, al quale lui dava spesso il cambio ogni qual volta il più piccolo si recava in infermeria. 
Avrebbe dovuto essere suo, infatti, il compito di controllare le tubature dei lavandini della Casa Dieci. Sembravano essere tutti a posto, eccetto quello nel secondo bagno, che continuava a dargli del filo da torcere.
Il figlio di Efesto vi lavorava intensamente da circa mezz’ora, incurante della polvere che si incollava ai suoi vestiti. In un certo senso, lo aiutava a distrarsi. E allo stesso tempo lo aiutava a non pensare ad 
Emma, e al senso di inutilità che aveva provato quando aveva scorto occhi arrossati.
La figlia di Ermes aveva pianto per la sua migliore amica forse anche più di tutti gli altri. Leo avrebbe voluto confortarla, stringersela al petto per far sì che si dessero forza a vicenda. Ma sapeva di non poterlo fare dopo tutto il malinteso che si era creato.
In alcuni momenti si domandava come avrebbe reagito Skyler, se avesse saputo cosa c’era stato tra loro – di qualsiasi cosa si trattasse-. Certo, all’inizio magari si sarebbe arrabbiata per averla tenuta all’oscuro, ma in seguito, probabilmente, avrebbe aiutato il fratello a capire che cosa provava davvero per quella ragazza.
Attrazione? O forse un sentimento più profondo?
E come avrebbe fatto a scoprirlo adesso che tra loro si era aperto un baratro che appariva insuperabile?
Non appena si pose quel quesito, la chiave inglese gli scivolò di mano, producendo un suono metallico una volta incontrato il pavimento di marmo.
«C’è nessuno?» si udì una voce proveniente dall’altra stanza, e il moro non fece in tempo a dar risposta che due gambe snelle si intromisero nel suo campo visivo.
«Ah, sei tu» bisbigliò Charlotte, quando lui si affacciò per poter vedere il proprio interlocutore.
Indossava un paio di shorts molto corti, la maglietta del Campo annodata sulla bocca dello stomaco, in modo da lasciare la pancia scoperta. Il suo trucco era impeccabile, così come l’adeguatezza degli accessori.
Al sentire le sue parole, Leo ghignò. «Delusa?» la provocò, sarcastico, per poi riportare la propria attenzione sulle tubature del lavandino.
«No, certo che no» si affrettò a scuotere la testa lei, ravviandosi i capelli già perfetti. «È solo che non mi aspettavo di trovarti qui.»
«Il sifone perde» borbottò il ragazzo, come se quello giustificasse la sua presenza lì. Avrebbe desiderato che il suo tono non suonasse così scortese come lo era stato in realtà, ma non poteva fare a meno di sentirsi a disagio ogni volta che si ritrovava nella stessa stanza con quella ragazza. Peggio ancora se erano soli
Sapeva di essere stato abbindolato da lei, quella sera. Ed era consapevole anche del fatto di doverla affrontare. Ma non sembrava mai il momento giusto per farlo, per questo aveva preferito evitarla fino ad allora.
«Ultimamente sei stato molto sfuggente» gli fece notare distrattamente la figlia di Afrodite, specchiandosi e tamponandosi le labbra con un dito, per rendere omogeneo il rossetto.
«Sì, già.»
«Mi dispiace per tua sorella» annunciò quindi lei. «Non credo di averci mai parlato, ma per quanto ne so era una brava ragazza.»
«Era la migliore» la corresse bruscamente lui, per poi corrucciare le sopracciglia. «È.»
«Sì, certo» ridacchiò Charlotte, quasi avesse detto la stupidaggine del secolo. Sapevano tutti che le possibilità che Skyler si riprendesse erano del tutto nulle; e chi sperava nel contrario, aveva solo la ragione offuscata dal dolore.
«Sai» cantilenò melliflua lei. «Dicono che in occasioni del genere il modo migliore per superare la perdita è un abbraccio» lo informò. «Ma se tu hai qualche idea migliore, non sarò certo io a tirarmi indietro.»
Al figlio di Efesto scivolò nuovamente la chiave inglese di mano, che sbatté contro la sua fronte, al ché lui imprecò. La ragazza rise, soddisfatta dall’idea di essere riuscita a metterlo in imbarazzo. 
Quando Leo si alzò in piedi, facendo per andarsene, la mora gli si parò davanti.
«Hai già finito?» domandò, ingenuamente.
«Ehm, i-io…» balbettò lui, arrossendo. «D-Devo prendere dei pezzi di ricambio per il tubo di scarico.» Diede un passo a destra, pronto ad uscire, ma la ragazza lo imitò, barrandogli ancora una volta la strada. Inclinò il capo di lato, studiandolo con i suoi grandi occhioni cangianti.
«Perché non ti dai una ripulita, invece?» lo invitò. «Così magari usciamo a fare due passi.»
Il ragazzo deglutì, con fatica. «N-Non mi sembra il caso» ciangottò, in un sussurro.
«Vuoi restare in casa, allora?»
«No, grazie.»
«E allora cosa vuoi fare?»
«Niente.»
Charlotte corrucciò le sopracciglia. «Ma come niente?» Sembrava confusa, e quando gli si avvicinò ulteriormente, sui suoi lineamenti aleggiava autorità. «Leo, tu vuoi passare il pomeriggio con me, vero?»  
Scandì lentamente quella frase, con cura; e per un attimo, la sua voce arrivò contorta ed attutita ai timpani del ragazzo. La mente di lui si intorpidì, come se fosse in procinto di entrare in uno stato catatonico. Ma quando la figlia di Afrodite parlò di nuovo, ponendogli la stessa domanda, tutte quelle sensazioni si volatilizzarono.
Piper una volta gli aveva spiegato il funzionamento della lingua ammaliatrice: se sei interessato ad una persona, o se anche inconsciamente la trovi attraente, quella, con il proprio potere, è libera di farti fare quello che vuole.
La sera in cui la mora che aveva di fronte l’aveva costretto a baciarla, Leo doveva ammettere di aver titubato dinanzi alla tentazione di accettare le sue improvvise avances. Aveva avuto una cotta per lei per molto tempo, e nonostante i suoi sentimenti già allora fossero cambiati, non aveva potuto resistere alla sua indiscutibile bellezza.
Ma ora tutti ciò che riusciva a scorgere era una ragazza come le altre, che non sarebbe mai riuscita a fargli battere il cuore. E quella consapevolezza lo fece sorridere, mentre si rendeva conto di ciò che quello poteva significare.
«No» rispose, secco, e sul viso di lei apparve un’espressione interdetta.
«Come?»
«No» ripeté lui, con maggiore convinzione. La guardò. «Non ho intenzione di passare tutto il pomeriggio con te. Non è questo ciò che voglio.»
«Che significa?»
«Tu sei bellissima, Charlotte, davvero. Ma non sei ciò di cui ho bisogno in questo momento. Io…» Ci ragionò su, una fluente chioma bionda che si formava nei suoi ricordi. «Io voglio stare accanto ad un’altra persona» assentì. «E forse prima ero troppo stupido per capirlo, ma adesso lo so.»
«Tu…» La figlia di Afrodite gli puntò un dito contro il petto, indignata. «Tu mi stai scaricando, per caso? Non è così che funziona, chiaro? Sono io che lascio te!»
Il ragazzo sbatté le palpebre, per poi fare spallucce. «Se questo ti fa sentire meglio, pensala come vuoi» convenne, incapace di trattenere il proprio entusiasmo. «A me non interessa. Non più. Ho capito che stare con te è come attendere la pioggia durante la siccità: inutile e deludente. E ora scusami, ma devo scappare.»
La superò, dirigendosi spedito verso la porta; la ragazza lo seguì con lo sguardo, furiosa e basita.
«Valdez!» strepitò, stringendo i pungi e pestando un piede a terra. «Torna qui, non ho ancora finito con te!»
«Ne riparliamo, okay?» propose lui.
«Un giorno te ne pentirai!»
Non appena varcò la soglia della porta, Leo si imbatté in Piper, che vedendolo correre via così adrenalinico e felice, parve stupita.
«Ehi, ma dove stai andando?» gli urlò dietro, al ché lui si voltò verso l’amica, con un sorriso.
«A rimediare all’errore più grande che io abbia mai fatto!» si limitò a specificare, contento, prima di buttare un occhio ai propri vestiti, sgualciti e lerci. «E magari a farmi una doccia» aggiunse, per poi affrettarsi alla volta della Casa Nove.
 
Ω Ω Ω
 
Coma irreversibile.
Michael non avrebbe mai immaginato che due semplici, ignobili parole fossero state capaci di trafiggergli il petto come una lama affilata.
Coma irreversibile.
Come si era arrivati fino a quel punto?
Per tutto il tempo in cui era stato prigioniero, quell’eventualità non aveva neanche sfiorato l’anticamera della sua mente. Si era preparato al peggio –qualsiasi cosa esso comportasse-. Ma mai, neanche per un secondo, aveva preso in considerazione la probabilità che Skyler perdesse la vita.
Dopo essere stato convalescente per tre giorni ed essersi risvegliato in catene, dentro una cella, la prima persona che aveva fatto il suo ingresso nel suo campo visivo era stato il Generale.
Non appena l’aveva visto, il figlio di Poseidone aveva sentito montare il panico, chiedendosi che cosa ci facesse lì, dove si trovasse e come ci fosse arrivato.
Quando aveva scorto Matthew, poi, tutti i tasselli avevano trovato il proprio posto nel puzzle. Gli ci era voluto un po’ per capire che fosse il ragazzo il superiore dell’uomo, e non il contrario; e la cosa lo aveva lasciato senza parole fino a che il presunto figlio di Eris gli aveva rivolto un sorriso sprezzante, e gli insulti erano sgorgati via dalle sue labbra come un fiume in piena.
Era convinto che quello l’avesse rapito unicamente per potersi vendicare, magari sperando che se l’avesse tolto di mezzo, avrebbe avuto un’opportunità in più di impossessarsi della sua vita.
Ma poi gli era stato esposto il suo piano, e quasi le catene dalle quali era imprigionato fossero improvvisamente diventate troppo pesanti, Michael si era accasciato a terra, ogni sua energia che si prosciugava man mano che la voce tagliente di Matthew si avvicinava ad una sola, terribile conclusione.
Non avrebbe mai permesso a quello schifoso tizio di fare alla propria ragazza del male, e aveva confidato nel fatto che nessuno sapesse la verità finché non era venuto a conoscenza dell’impresa che i suoi amici stavano per intraprendere.
Era stato il Generale ad annunciarglielo, e lui non aveva inteso la pericolosità del luogo nel quale si erano addentrati fin quando durante il suo sesto giorno di prigionia, Matthew non si era presentato di nuovo in quell’enorme e vuota sala, un ghigno trionfante sul viso. Aveva poi mosso il polso in un movimento circolare, e l’aria davanti a lui si era increspata, poco prima che vi apparisse il volto di Skyler.
Al vederlo, il figlio di Poseidone aveva fatto per andarvi incontro, gli occhi sgranati, ma era stato costretto a fermarsi un volta raggiunte le sbarre, i guinzagli che producevano un fruscio metallico.
L’immagine mostrava la figlia di Efesto avanzare verso il cuore della foresta, seguita a ruota dagli altri due. Si faceva strada a suon di fendenti, la fronte imperlata di un leggero strato di sudore.
Michael avrebbe dato qualunque cosa, pur di poterla abbracciare; avrebbe voluto dirle che stava bene, e che avrebbe fatto meglio a tornare indietro, a mettersi al sicuro. Ma tutto ciò che gli era concesso era un passivo osservare nel momento in cui quel ragazzo decideva di mostrargli la tragicità di quella spedizione.
Lui aveva visto ogni cosa, sentendosi impotente come mai prima di allora.
Aveva imprecato quando i suoi amici avevano perso le loro provviste.
Aveva stretto i pugni quando John aveva ceduto alle ragazze la propria razione. 
Aveva tirato un sospiro di sollievo quando quell’Alex aveva ucciso un Catoblepa, salvando la vita di Skyler.
Aveva urlato quando quest’ultima aveva rischiato di perdere l’incontro con il Simurgh, e aveva preso a pugni le mura di quella cella ogni volta che lei sembrava stare male.
Aveva pianto per la morte di Emma, e gioito per il suo ritorno.
Si era preoccupato per John quando aveva provato ad acciuffare la Pietra e aveva sentito il proprio cuore perdere un battito quando li aveva visti dirigersi verso il luogo della propria prigione.
In più occasioni aveva tentato di opporsi, con il solo risultato di essere sottoposto ad innumerevoli torture. Era stato picchiato a sangue dagli uomini del Generale, tanto che a volte il dolore gli faceva perdere i sensi. Era stato messo a digiuno per giornate intere, e aveva dovuto subire ogni inflizione del coltello del Capitano quando quest’ultimo vi trovava piacere nella sua sofferenza.
Aveva poi scoperto a proprie spese che le catene dalle quali era ancorato erano radioattive, e che bastava una rapida occhiata di Matthew, perché queste facessero fluire in lui tremila volt di scarica elettrica per tutto il corpo, provocandogli delle gravi ustioni nel migliore dei casi.
Ma tutte le pene che aveva provato in quel lasso di tempo non sarebbero mai state paragonabili al pugno di ferro che gli aveva stretto il cuore in una morsa gelida nel momento in cui Skyler era spirata tra le sue braccia. 
Come se essere in vita non avesse più senso; come se il mondo avesse perso la parte più bella di sé.
Ciò che era accaduto in seguito era solo un ricordo confuso che aleggiava tra le pareti della sua scatola cranica. Appariva tutto futile, di scarsa importanza, fino all’attimo in cui aveva udito quelle due, distruttive parole.
Coma irreversibile.
Coma. Irreversibile.
Era stato come se gli avessero mozzato di netto le gambe, e il figlio di Poseidone si era lasciato cadere su una delle sedie di plastica di quel corridoio, gli occhi vacui, persi nel vuoto.
Qualcuno dei presenti era scoppiato in lacrime; qualcun altro aveva cercato di estorcere qualche informazione in più dal centauro. Ma alla fine, la diagnosi restava sempre quella.
«Coma irreversibile.»
«Stato vegetativo.»
«Morte cerebrale.»
«Non c’è più nulla da fare, ragazzi, mi dispiace.»
E se la prima volta vederla morire sotto le proprie iridi era stato orribile, essere consapevole che questo sarebbe accaduto una di nuovo era addirittura peggio.
Erano passate tre settimane da quel giorno, e Michael le aveva passate tutte seduto su quella scranna blu, in quell’androne infelice; senza muoversi, quasi senza mangiare. Aveva fissato la porta dietro la quale si celava il corpo morente di Skyler senza che le sue corde vocali emettessero più alcun suono.
Anche quando sua sorella Rose era corsa da lui, piangente, non era riuscito a riscuotersi da quello stato di shock. Lei gli aveva buttato le braccia al collo, ringraziando gli dei per averlo fatto tornare a casa sano e salvo, ma il ragazzo si era limitato a ricambiare la sua stretta, non avendo idea neanche di cosa fosse giusto dire, in quelle circostanze.
Per un po’, John ed Emma erano rimasti con lui, su quelle seggiole; con la figlia di Ermes che di tanto in tanto tirava su col naso, la testa posata sulla spalla del biondo, e quest’ultimo con ogni tendine contratto per la tensione.
Erano stati lì per due, tre, dodici ore. Ma senza che se ne rendessero conto la stanchezza aveva preso il sopravvento.
«Michael, noi andiamo a riposarci» aveva annunciato la ragazza, in un sussurro tanto lieve da sembrare impercettibile. «Vieni con noi?»
Il moro non si era neanche voltato a guardarla, gli occhi che bruciavano di rovente tristezza, al ché lei aveva compreso le sue intenzioni.
«Hai bisogno di chiudere gli occhi anche tu» gli aveva quindi intimato, stringendogli teneramente una mano. «Se resti qui, non cambierai le cose.»
Ma il figlio di Apollo conosceva fin troppo bene il suo migliore amico per capire che qualsiasi supplica sarebbe stata vana. Lui si sarebbe trattenuto lì, per Skyler, e loro non avrebbero potuto fare nulla per impedirglielo.
Per questo aveva afferrato dolcemente l’amica per le spalle, mormorandole di andare con via, così da lasciare il figlio di Poseidone in pace.
A meno che non fosse a causa di un impellente bisogno fisico, Michael si rifiutava di ingurgitare qualsiasi alimento. Lui non aveva bisogno di nessun cibo; lui aveva bisogno della sua ragazza. E di averla accanto, viva, che gli sorrideva come solo lei avrebbe saputo fare.
Lui aveva bisogno di sapere di non dover essere costretto ad immaginare un futuro senza di lei.
Lui aveva bisogno di vedere quelle iridi screziate d’oro brillare.
Quando John, quella mattina, si presentò da lui con un cartone di pizza in mano, l’amico a malapena sollevò lo sguardo per osservarlo.
Il biondo prese un gran respiro, porgendogli quel modesto pasto con un’alzata di spalle. «Ho pensato che magari avessi fame» si giustificò, e mentre si lasciava andare di peso sulla sedia accanto alla sua, il moro osservò quei tranci fumanti, e provò una nauseante sensazione di disgusto.
Il figlio di Apollo forse sapeva che non vi avrebbe dato neanche un piccolo morso, ma chissà perché Michael aveva il presentimento che non fosse lì solo per quello.
Tra i due ragazzi aleggiò a lungo il silenzio, pungente, ed entrambi osservarono la porta che li separava da una persona decisamente importante per l’uno e l’altro, seppur in modo diverso.
Poi John sospirò, corrucciando leggermente le sopracciglia. «Ho sentito Will e Theresa parlare, stamattina» esordì, con tono mesto e cupo. «Chirone ha deciso di staccare le macchine tra tre giorni, lo sapevi?»
Il figlio di Poseidone chinò il capo, soffocando un urlo di disperazione.
Sì, ne era a conoscenza. Ma quell’informazione non era sembrata tanto vera fino a che non aveva lasciato le labbra di una delle persone a cui lui teneva di più.
«Dovremo avvisare i parenti» aveva udito affermare al centauro. «E spiegar loro la situazione per bene. Ormai è inutile continuare a farla persistere in quello stato. Noi abbiamo fatto il possibile, certo, ma è giusto che lei raggiunga il posto che al momento potrebbe essere la sua unica dimora: i Campi Elisi.»
No, lui non poteva accettarlo. Come avevano anche solo potuto pensare di fare una cosa del genere?
Skyler era lì, e respirava ancora. Certo, il filo che l’ancorava alla terra diventava ogni giorno più sottile; ma questo non dava loro il diritto di prendere decisioni sulla sua vita.
Eppure, non c’era nulla che lui potesse fare.
Ormai era finita. Doveva solo rassegnarsi all’idea di star per perdere una parte di sé. 
«Dovresti provare a parlarle, qualche volta» gli suggerì ad un tratto il figlio di Apollo, distogliendolo bruscamente dal flusso dei suoi macabri pensieri. «Sono sicuro che lei può sentirci.»
Il moro non aveva mai preso in considerazione quella possibilità.
Sentirli?
Il suo cervello era completamente andato, incapace di rispondere a tutti gli impulsi che arrivavano dal mondo esterno. La figlia di Efesto non era capace neanche di respirare da sola. Come avrebbe potuto ascoltarli?
«Skyler non è ancora morta, Michael» gli rammentò allora John, cogliendolo un po’ alla sprovvista. «Lo sai quanto me. C’è ancora speranza.»
«Non ci credi neanche tu» borbottò lui, le prime parole che sillabava dopo parecchio tempo. Quell’affermazione era rivolta più a sé stesso che all’amico, ma quest’ultimo si girò comunque a guardarlo, un’espressione seria in viso.
«Ti sbagli, invece» lo accusò. «Ne abbiamo passate di cotte e di crude, in questi ultimi due anni, ma in un modo o nell’altro ce l’abbiamo sempre fatta. Abbiamo trovato sempre una soluzione, e sai come? Insieme. Io, te, Skyler ed Emma. Noi siamo una squadra. E resteremo uniti anche quando il mondo parrà remare dal lato opposto al nostro. Noi ci siamo confortati ogni volta, nel momento del bisogno, no? Beh, ora Skyler ha bisogno di noi. Ha bisogno di sentirci compatti, a combattere per lei. Non sei d’accordo?»
Quelle frasi scossero il figlio di Poseidone molto più di quanto avrebbe voluto dare a vedere. Un nodo gli strinse maligno la bocca dello stomaco, e calde lacrime presero a bagnargli le guance prima che lui potesse impedirlo.
Il biondo se ne accorse, e posandogli una mano dietro la nuca lo attirò a sé, stringendolo in un fraterno abbraccio. Fu solo in quell’istante che Michael si sfogò. Decise di liberarsi di tutta la malinconia, tutto il dolore, tutte le ingiustizie subite, tutti i rimpianti. Scivolarono via sul suo corpo sotto forma di un pianto sommesso, sconfortato, liberatorio.
«Noi siamo con lei» gli disse l’amico, prendendo a sua volta un sospiro tremante. «Ricordi?»
E lui se lo ricordava eccome.
Era stata proprio Skyler la prima a pronunciare quella frase, all’inizio un po’ ingenuamente. Ma a lungo andare era diventato il loro motto, un patto sancito al fine di serbar memoria della certezza che ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altra.
John aveva ragione: loro erano un team, una squadra.
Una famiglia, a dir la verità. La famiglia più stramba, sfortunata, solida, disagiata ed indivisibile che si fosse mai vista da millenni a quella parte.
 
Ω Ω Ω
 
Subito dopo essersi dato una rinfrescata ed aver indossato una maglietta pulita, Leo aveva avuto bisogno di racimolare tutto il proprio coraggio per non rischiare di avere un ripensamento all’ultimo secondo.
Doveva parlare con Emma. Aveva bisogno di guardarla in quei suoi magnifici occhi da cerbiatto e dirle come erano andate veramente le cose.
Era sicuro ci fosse stato un fraintendimento, e si diede mentalmente nello stupido per aver deciso solo allora che fosse arrivato il momento di aggiustare tutto.
Gli mancava stare con lei. Gli mancavano i suoi capelli, il suo sorriso, il suo profumo.
Gli mancava udire il melodioso suono della sua risata ed incontrare le sue iridi argentate durante i pasti.
Gli mancavano le sue labbra, le sue frecciatine, e il poter svegliarsi la mattina con la consapevolezza che se avesse voluto vederla, gli sarebbe bastato cercarla. 
Aveva nostalgia dell’elettricità statica che pareva sfrigolare ad ogni loro contatto, e si chiese se anche per lei fosse lo stesso.
Certo, lui aveva sbagliato; ma ciò che avevano provato l’uno per l’altra non era un sentimento da poter trascurare, vero?
C’era qualcosa, tra loro, di semplicemente giusto, come se per tutto questo tempo non avessero fatto altro che rincorrersi, per poi finalmente trovarsi e non lasciarsi andare più. 
Non era mai riuscito a dare un nome a questo genere di sensazioni.
Ma in fondo dovevano pur valere, no?
Non appena riuscì a scorgerla in lontananza, percepì gli ingranaggi del proprio cuore intopparsi, minacciando di scoppiare. Camminava al fianco di John, diretta verso la mensa per la cena.
Aveva quasi dimenticato quanto fosse bella, e come riuscisse a mozzargli il fiato ogni qualvolta che i suoi riccioli biondi erano illuminati dal sole.
Per certi versi, sembrava cambiata: aveva una leggera cicatrice sul braccio - che i figli di Apollo le avevano diligentemente curato- ed un’altra quasi impercettibile sulla fronte, accanto all’attaccatura dei capelli. I suoi occhi erano cupi, inespressivi, ed il portamento molto più fiero di quanto il figlio di Efesto ricordasse.
Ma nonostante ciò, era sempre la stessa; e Leo avrebbe dato qualunque cosa pur di avere la certezza che lei non perdesse mai quella luce di cui lui la vedeva brillare.
«Emma!» chiamò, andandole incontro, e quando la ragazza lo scorse, per un attimo si irrigidì. Sostenne il suo sguardo, quasi lui fosse il nemico e lei fosse in procinto di studiarlo.
Ma prima che il ragazzo potesse proferire parola, John gli si parò davanti, sfidandolo con lo sguardo a fare un altro passo.
Il corvino fece vagare le proprie iridi da lei a lui, per poi soffermarsi definitivamente sulla figlia di Ermes e spostare il peso da un piede all’altro.
«Devo parlarti» le spiegò, osservandola da sopra la spalla del biondo (che era qualche centimetro più alto di lui). «È importante.»
«Va via, Valdez» gli ordinò il figlio di Apollo, con tono intimidatorio. «Qui non troverai nessuno con cui parlare.»
«Ci metterò solo un minuto» assicurò quindi lui, senza distogliere gli occhi da lei. «Lo prometto.»
«Forse non mi hai sentito bene» reiterò allora John. «Vedi di andartene prima che io…»
«No, John, aspetta» lo interruppe inaspettatamente Emma, posandogli una mano sul braccio. Squadrò Leo, un’espressione indecifrabile. «Voglio sentire cos’ha da dire.»
Poi sembrò valutare la presenza del proprio amico, rendendosi conto che quello –magari- era un argomento che avrebbero dovuto affrontare da soli, in assenza di spettatori.
Si voltò, allontanandosi di qualche metro, e Leo, dopo qualche secondo di esitazione, la seguì.
Si ritrovarono per la prima volta dopo giorni faccia a faccia, occhi negli occhi, l’uno di fronte all’altra; e, per qualche imbarazzante istante, si limitarono a fissarsi, nessuno dei due che pareva voler cominciare.
«Come stai?» esordì dopo un po’ lui, al ché la bionda, inarcando le sopracciglia, sbuffò.
«Ti interessa davvero?»
«Sì. Insomma, io…» Il figlio di Efesto titubò, boccheggiando in cerca delle giuste parole. «C’è stato un grandissimo malinteso.»
La figlia di Ermes parve divertita da quell’informazione, ed incrociò le braccia al petto, sospirando. «Un malinteso, certo» borbottò, sarcastica.
«No, sul serio!» esclamò il moro. «Mi dispiace.»
«Risparmiami le tue stupide scuse, per favore.»
«Ma lasciami almeno spiegare» la pregò lui. «Se tu sapessi come sono andate realmente le cose potresti capire che…»
Qualsiasi cosa Leo aveva avuto intenzione di affermare si relegò in un angolo segreto della sua mente, rimpiazzata dall’interdizione che lo investì appena il palmo di Emma si posò con forza sulla sua guancia, lasciandovici un segno rossastro e costringendolo a voltare il capo.
Il ragazzo la guardò, confuso.
«Te la dico io, una cosa, invece» sibilò pungente lei, puntandogli con rabbia un dito al petto. «Mi fai schifo, okay? E odio anche solo pensare di aver creduto che condividendo parte del mio tempo con te sarei stata felice.» Abbozzò un sorriso, amareggiata. «Cosa credevi? Che venendo qui ed uscendotene con un misero ‘mi dispiace’ avresti aggiustato tutto, ottenendo il tuo "happy-ending"? Non siamo in un film Disney! Ed io non sono una stupida principessa! Ne hai una pronta ad accoglierti nella Casa Dieci, no? E allora corri! Che ci fai ancora qui?»
Incatenò le proprie iridi argentee a quelle scure di lui, ma tutto ciò che il moro vi lesse fu distacco, disprezzo, furore ed una spossante freddezza.
«L’unico motivo per cui ho accettato di parlarti è per poterti finalmente guardare negli occhi mentre continuavi a dirmi bugie. Eri convinto che ‘scusa’ avrebbe fatto la differenza, ma è soltanto una parola in confronto ad altre mille azioni. Quindi te lo dirò una sola volta, Valdez» proseguì, a denti stretti. «Sta lontano da me. Lasciami in pace. Ho già troppi problemi per potermi prendere la briga di farmi rovinare la vita da te. Magari un tempo avrai 
anche avuto la tua occasione» aggiunse, deglutendo a fatica. «Ma ormai è troppo tardi.»
Leo avrebbe voluto replicare. Avrebbe voluto urlarle che «No! Lei si sbagliava.»; desiderava farle capire che non era orribile come lei se l’era figurato, e che tutto ciò che chiedeva era un’altra possibilità, l’occasione di migliorare le cose.
Ma al contrario si ammutolì, fissandola senza che le sue corde vocali fossero capaci di emettere alcun suono.
Probabilmente la ragazza rimase delusa dal suo silenzio –aspettandosi quanto meno una risposta-, perché prese un respiro tremante, superandolo con l’intenzione di andarsene.
«Aspetta…» fece lui, afferrandola per un braccio. Ma questa si divincolò bruscamente dalla sua presa, fulminandolo con lo sguardo.
«Non mi toccare» mormorò, sprezzante. Poi strinse i pugni, talmente forte da conficcarsi le unghie nei palmi. «Per quanto mi riguarda, puoi anche andare al Tartaro.»
E detto questo gli diede le spalle, tornandosene da John e lasciandolo solo con i suoi sensi di colpa.
Il figlio di Efesto si era preparato ad una reazione furiosa da parte di lei, ma le sue congetture non avevano nulla a che fare con quello. Non aveva intuito quanto lei avesse sofferto finché non l’aveva guardata negli occhi; e avrebbe preferito non farlo, considerato il pugno invisibile che gli aveva colpito lo stomaco alla consapevolezza di essere lui l’artefice di gran parte della tristezza che vi aleggiava.
Sapeva di averla ferita, ma addirittura chiedergli di lasciarla stare?
Voleva dire uscire definitivamente dalla sua vita. Ma come erano arrivati fin lì?
Leo si accarezzò la guancia, che ancora scottava al ricordo dello schiaffo ricevuto.
Lei voleva che lui le stesse lontano? Bene, nessun problema.
Avrebbe obbedito, e dopo un po’ se ne sarebbe fatto una ragione.
Emma era andata, e le sue parole non sarebbero mai servite a niente, quindi perché sprecarle? Si sarebbe limitato a rispettare le distanze tra loro, e magari nel frattempo avrebbe anche trovato una ragazza che faceva al caso suo.
La storia con lei era finita, e stavolta definitivamente, a quanto pareva.
Bel ‘lieto fine’, pensò lui, tra sé e sé. E poi, come se fosse appena stato messo giù da un camion, si lasciò cadere di peso.
E sdraiato supino a terra volse le proprie iridi al cielo, sperando che così facendo assorbire il colpo avrebbe fatto meno male.
 
Ω Ω Ω
 
Lei può sentirci.
Quelle tre parole, da quando erano state pronunciate, avevano vorticato insistentemente nella mente di Michael, facendolo ragionare più di quanto avesse fatto negli ultimi giorni.
Dopo che ebbe finito di sfogarsi con John ed una volta ritrovata la giusta calma, il suo biondo amico era andato via, dirigendosi verso l’ennesima cena a cui lui non aveva voluto partecipare.
Il figlio di Poseidone aveva assistito passivamente al via vai di persone per il corridoio dell’infermeria, concentrandosi unicamente sulla porta di ebano bianco che aveva di fronte, e della quale ormai conosceva ogni venatura.
Skyler era lì dentro, a pochi metri di distanza da lui. Eppure, da quando era caduta in quello stato vegetativo nel quale si trovava, lui si rese cono di non averle fatto visita neanche una volta.
Aveva semplicemente vegliato sulla stanza da fuori, la soglia costantemente chiusa. Non aveva avuto il coraggio di far cigolare quel cardine e stringere la mano della ragazza amava.
Perché sì, solo nel momento in cui aveva rischiato di perderla davanti ai propri occhi aveva capito quanto fossero profondi i propri sentimenti per lei. Avrebbe tanto voluto correrle accanto per dirglielo, ma non ne era mai stato capace.
Che cosa avrebbe trovato, una volta attraversata quella porta?  E se la visione di lei morente in un letto d’ospedale avrebbe reso ancora più difficile il rassegnarsi alla sua morte?
Tre giorni, e poi Chirone le avrebbe staccato la spina.
E a quel punto? Che ne sarebbe stato di lei?
Che ne sarebbe stato di lui?
John aveva detto che in un modo o nell’altro lei poteva sentirli, e anche se anatomicamente parlando era del tutto impossibile, Michael aveva bisogno di credere che fosse così.
Magari se le avesse detto qualcosa, lei avrebbe intuito che non era ancora arrivato il momento di andare, e sarebbe tornata da lui. E se così non fosse stato, doveva riuscire a racimolare le forze almeno per poterle sussurrare un ultimo addio.
Addio. Quella parola non gli piaceva per niente.
Quante persone importanti l’avevano abbandonato per poi non fare più ritorno?
Troppe, tanto che ad un certo punto si era convinto di essere lui il motivo per cui gli altri continuavano ad andarsene.
Inconsciamente, ripensò a sua madre, e al giorno in cui il mare l’aveva inghiottita, portandosela via.
Non voleva che succedesse lo stesso con Skyler; non voleva che la morte la attirasse a sé. Odiava l’idea di dover ripercorrere daccapo tutto il periodo successivo alla perdita. Era sempre il più doloroso, il più logorante; e nonostante dopo un po’ te ne facessi una ragione, ci sarebbe sempre stato questo enorme vuoto dentro di te che nessun’altro sarebbe riuscito a colmare.
Lui ancora lo sentiva; l’enorme voragine lasciata dalla mamma, dopo tutti quegli anni, ancora non si rimarginava. Nell’ultimo periodo sembrava essersi rimpicciolita, ma ora eccola di nuovo lì, pronta a spalancarsi ulteriormente e a diventare più grande di quanto non fosse mai stata.
Non poteva perdere Skyler. Non era ancora pronto a continuare senza di lei.
Ma era solo questione di giorni, prima che la vita l’abbandonasse. E lui non avrebbe potuto impedirlo, perché non era in grado di rallentare il tempo affinché questo durasse in eterno.
Era calata già da un po’ la sera, sul Campo Mezzosangue, per cui i figli di Apollo rimasti erano davvero pochi - quei coraggiosi ragazzi che accettavano di fare il turno di notte-.
In quell’istante, Michael era solo nell’androne eburneo, e d’un tratto la sedia sulla quale era seduto da settimane sembrava essere diventata scomoda, troppo stretta.
Fissò la porta di fronte a sé per qualche secondo, asciugandosi i palmi sudati sulla stoffa sbiadita dei jeans. Prese un respiro tremante; una forza invisibile che premeva contro il suo petto, minacciando di soffocarlo. Si alzò lentamente, domandandosi se le sue gambe intorpidite sarebbero riuscite a sorreggerlo, nonostante sembravano essersi addormentate.
E prima che potesse anche solo pentirsi della propria decisione stringeva già il freddo pomello in una mano, il cardine che cigolava con un sommesso stridio.
C’era così tanta quiete, in quel luogo, che ogni suono sembrava produrre una propria eco personale.
Buttando un’occhiata all’interno, il figlio di Poseidone ebbe l’impulso di tornare indietro, di impedirsi di farsi del male. Ma poi le sue iridi ora blu notte si posarono sull’unico letto della stanza, e il suo cuore si fermò per così tanto tempo che il ragazzo rischiò di svenire.
La figlia di Efesto giaceva tra le bianche lenzuola, immobile, circondata da una serie di complessi macchinari. I suoi capelli scuri erano sparsi sul candido cuscino; la pelle pallida, quasi incolore.
Aveva un ago infilato nel braccio sinistro, collegato ad una flebo che faceva fluire una limpida sostanza direttamente nelle sue vene; l’indice della mano destra, invece, era schiacciato dentro una sorta di pinza che permetteva di segnalare i battiti del suo cuore su un piccolo schermo nero, sotto forma di linea verde.
Si alternavano in dei leggeri ping, ping, ping, intervallati da una pausa che per i gusti del ragazzo durava davvero troppo tempo.
Aveva una maschera respiratoria, a coprirle gran parte del viso; e per quanto potesse esserle di aiuto ad immettere la giusta aria nei polmoni, il moro si sentiva mancare il fiato per lei, convinto che quell’ossigeno non fosse abbastanza, per tenerla in vita.
La ragazza non si mosse, non rivelando il minimo movimento neanche quando lui prese una seggiola di legno dalla parete e la portò accanto al suo letto, sedendovisi sopra e facendo scorrere il proprio sguardo sul suo corpo inerme.
Chirone aveva ragione, per lei non c’erano davvero più molte speranze. Il solo guardarla donava un senso di fragilità, quasi si stesse osservando già un fantasma.
A Michael bruciarono gli occhi al solo pensiero, ma si impose di trattenere l’urlo che dal principio albergava sul fondo della sua gola. Si soffermò ad osservare intensamente il suo viso, studiandone i lineamenti perfetti, rilassati; e si disse che se mai lei avesse dovuto morire, tutto ciò che lui poteva sperare era che lo facesse in pace, così che non provasse alcuna sofferenza.
Fissò le sue palpebre, pregando che si aprissero, ma queste rimasero chiuse, celando le sue bellissime iridi scure. Il figlio di Poseidone si lasciò sfuggire un sorriso triste al ricordo delle piccole striature dorate che li facevano brillare, e chinando il capo di lato, sospirò.
«Ehi» la salutò, maledicendosi per il tremitio della propria voce. Suonava strana, forse proprio perché non l’aveva utilizzata per moltissimo tempo.
Non ce la faceva a vederla così, era troppo. Indifesa, debole, piccola, delicata. Era come guardare una bambola di porcellana e sapere che di lì a poco si sarebbe frantumata.
«Sei bellissima lo stesso, lo sai?» confessò, deglutendo a fatica. «Non so come tu faccia, ma anche in circostanze del genere riesci ad illuminare tutta la stanza. Sarei venuto qui prima, se non avessi avuto paura. Ma Emma e John vogliono che tu sappia che loro resteranno comunque al tuo fianco, sempre. E anch’io. Non ti abbandoneremo proprio ora, e non ci interessa di quello che dicono gli altri» annunciò. «Siamo con te, ricordi?»
Skyler non rispose, ovviamente, né fece cenno di aver capito, ma Michael sapeva che se il suo amico aveva ragione -e lei era davvero in grado di sentirli al di là di ciò che suggerivano le sue attività cerebrali- allora avrebbe sicuramente colto l’importanza e il valore di quel messaggio.
Il ragazzo posò i gomiti sulle ginocchia, prendendosi afflitto la testa tra le mani.
Si sentiva sconfitto, inutile ed amareggiato, a stare lì. Come potevano pretendere che mentre la sua ragazza moriva, lui sarebbe stato a guardare?
Come potevano pensare che non ne sarebbe uscito devastato da tutta quella storia?
«Papà?» chiamò, in un impeto di assoluta disperazione. «Apollo? Ade? Efesto? A chi devo chiedere?» Attese qualche istante, in attesa di un riscontro che però non arrivò. «Argh, non importa!» sbottò, frustrato. «Chiunque di voi sia in ascolto, adesso, vi prego, salvatela. Non portatemela via proprio ora, vi scongiuro. Prendete me al suo posto» dichiarò. «Sono disposto a venire negli Inferi personalmente, se questo significa salvarla. Farò tutto quello che volete, lo giuro. Ma per favore, vi prego, aiutatela.»
Sollevò lo sguardo, e scrutando attentamente il volto della mora ebbe la sensazione di essere appena stato pugnalato al cuore, e che questo di stesse sfaldando in tanti, minuscoli pezzettini.
«Skyler?» continuò, rivolto a lei. «Ti prego, non andartene. Non lasciarmi qui da solo. Non mollare. So che se vivi o…» Esitò, faticando a pronunciare per la prima volta quelle parole ad alta voce. «O muori, dipende solo da te. Per favore, resta» aggiunse poi. «Se resti, farò tutto quello che vuoi. Ti starò accanto per sempre, esaudirò ogni tuo desiderio. Sono anche disposto a rinunciare a te. Se non mi vorrai intorno, io me ne andrò. Accetterò qualunque cosa, se non te ne andrai. Quindi resta. Devi restare. Ti prego, io ho fiducia in te.»
E detto questo la prese per mano, sorprendendosi di quanto fosse gelida e bluastra, quasi non vi fluisse più sangue da un po’. Le accarezzò il palmo con il pollice, disegnandovici dei piccoli cerchi.
Dopo di ché le baciò il dorso, lasciando lì le sue labbra più del dovuto. E quando vi posò contro la fronte chiuse gli occhi, liberando un ultimo, tenue sussurro.
«Resta con me, amore mio.»
Successe tutto in un attimo, tanto che Michael non se ne rese neanche conto.
Il tintinnio che regolare segnava i battiti del cuore di lei cessò, sostituito da un unico fischio continuo ed assordante.
Quattro figli di Apollo si catapultarono nella stanza, allontanandolo sgarbatamente dal lettino, mentre il figlio di Poseidone cercava di capire che cosa stesse accadendo.
Poi lo notò: il diagramma verde associato alle sue pulsazioni era cambiato, tramutandosi in una piatta linea orizzontale.
Riconobbe Theresa, tra i ragazzi appena entrati, ma non fece in tempo a chiederle spiegazioni che questa applicò delle placche adesive sullo sterno di Skyler, proprio come aveva fatto Will quella volta a Stonehenge.
«Libera!» ordinò la ragazza, ed una delle sue sorelle eseguì, liberando nelle vene della mora una serie di volt di scarica.
«Skyler!» berciò il figlio di Poseidone, incapace di correre da lei perché trattenuto da due robusti figli del dio del sole. «Skyler, no!»
Non di nuovo, pensò, osservando il corpo esile della mora in preda a delle convulsioni ogni volta che nuova corrente veniva rilasciata.
Theresa tentò un rapido massaggio cardiaco, per poi comandare un'altra liberazione di energia.
Michael gridò, supplicando la figlia di Efesto di tornare indietro, di non smettere di lottare. Ma sembrava tutto inutile, e quando dopo la decima scarica la figlia di Apollo chinò il capo, con un’espressione afflitta in viso, il ragazzo sentì le proprie ginocchia cedere, la vista offuscarsi a causa delle vertigini.
I due semidei gli impedirono di cadere, aiutandolo a sorreggersi; uno dei due gli disse qualcosa, ma tutto ciò che il moro riusciva ad udire era il frastuono del proprio cuore che si distruggeva.
L’elettrocardiogramma non produceva più alcun suono da qualche minuto, ormai.
Era finita. Lo era davvero. 
Ma lui non era in grado di accettarlo.
Non lì. Non ancora. 
Skyler, rifletté, aspre lacrime che maligne gli rigavano il viso.
Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler…
«Skyler!» L’ultimo lo urlò, tirandolo fuori con tutto il fiato che aveva nel polmoni, così forte che il soffitto minacciò di tremare.
Sferzò la notte, espandendosi finché le sue corde vocali non presero a bruciare.
Era pregno di rabbia, dolore, afflizione, disperazione, furore, strazio e tormento. Vi era la pena per un amore perduto; il cordoglio per un destino ingiusto e spietato. Vi era talmente tanta collera e sofferenza da far venire i brividi non solo ai presenti, ma anche a tutti coloro che l’avevano udito.
Era un urlo di crepacuore.
Un urlo; il suo nome.
Fu allora che avvenne, tanto velocemente che quasi nessuno se ne accorse.
Il corpo della ragazza cominciò a luccicare, come se fosse stato puntato da una serie di raggi infrarossi. Per una frazione di secondo, la camera di tinse di rosso, e tutto fu investito da una luce così accecante che i semidei furono costretti a volgere lo sguardo da un’altra parte.
Quando questa scemò, regnò l’assoluto silenzio, durante il quale tutti trattenevano il respiro, non sapendo esattamente cosa fare.
Poi Skyler spalancò gli occhi, all’improvviso, e l’attività elettrica del suo cuore segnò un battito adrenalinico, che correva all’impazzata.
«Oh, miei dei!» esclamò Theresa, sobbalzando spaventata. Corse al suo fianco, per constatare che ciò che vedeva non fosse solo frutto della sua immaginazione; ma quando la mora spostò le proprie iridi scure su di lei, non ebbe più alcun dubbio.
«Impossibile» mormorò, basita, per poi rivolgersi a sua sorella, che fissava la scena imbambolata. «Va a chiamare Chirone, presto!» le impose, prendendo, nel frattempo, la mano della ragazza.
La figlia di Efesto faceva fatica a respirare, ma i suoi occhi scrutavano comunque la stanza, curiosi, quasi si stessero chiedendo che cosa ci facesse lì. Dopo di ché si posarono su Michael, e parvero sorridere, meravigliati.
Il figlio di Poseidone avrebbe voluto dire qualcosa, domandare ai figli di Apollo come questo fosse possibile. Ma gli bastò scorgere quelle striature dorate per capire che non gli interessava affatto ciò che era successo, o di come fosse accaduto.
Skyler era viva, e seppur ancora debole, aveva ascoltato le sue preghiere e aveva deciso di tornare indietro; di tornare da lui.
Skyler era viva, e vederla voltare il capo con movimenti tardigradi e affaticati minacciò di far implodere il petto del ragazzo di gioia.
Skyler era viva, a dispetto di tutto.
Skyler era viva.
 
Ω Ω Ω
 
ᵜ ᵜ 
 
Cinque giorni.
Era passati già cinque giorni da quando Michael aveva assistito ad un miracolo con i suoi stessi occhi.
Cinque giorni da quando una comune figlia di Efesto aveva eluso la morte, stabilendo che i Campi Elisi non erano ancora pronti ad accoglierla.
Cinque giorni da quando Skyler era di nuovo tra loro.
Le emozioni che attanagliavano la bocca dello stomaco del figlio di Poseidone erano tanto spossanti quanto confuse.
Alcuni tra i più esperti di medicina del Campo avevano passato ore a discutere su come quell’episodio fosse stato possibile, ma per quanto fossero tutti indiscutibilmente bravi, nessuno pareva avere la risposta a quel quesito.
Chirone sembrava aver elaborato una propria, dettagliata teoria, ma si rifiutava di condividerla con gli altri, e questo non faceva altro che accrescere lo sbigottimento generale.
Quella ragazza, ormai, era diventata una leggenda. Certo, alcuni dubitavano ancora della veridicità di quella convinzione; ma in fondo, a chi importava?
Skyler era viva, e a Michael non interessavano le contorte congetture di quei ragazzi. Lui voleva solo poterle stare accanto, ed inspirare appieno il suo profumo di lavanda.
Voleva solo stare con lei, ma questo il centauro gliel’aveva impedito.
«Dobbiamo prima assicurarci che non ci siano dei gravi danni cerebrali» aveva detto. «E che quella che si è risvegliata sia la stessa ragazza, e non uno spirito che si è reincarnato nel suo corpo. Potrete visitarla durante le sue ore di riposo.»
E così avevano fatto tutti quanti. John, Emma, Leo, Microft e persino Rose, Melanie e Percy erano accorsi da lei, curiosi di sapere come stava.
La mora sembrava essere in forma, e nonostante non fosse ancora nelle condizioni giuste per poter abbandonare l’infermeria si stava riprendendo in fretta. In breve tempo aveva assunto di nuovo quel suo bel colorito caramello.
Dopo attenti esami, i figli di Apollo avevano affermato che le sue funzioni cerebrali erano intatte, e che era come se per tutto quel tempo, la ragazza si fosse soltanto concessa un riposino.
Nessuno aveva il coraggio di chiederle che cosa le fosse successo, nell’Aldilà, e a chi si fosse rivolta per avere un’altra possibilità.
Lei era viva, quindi che importanza aveva? Tutto ciò che contava era che fosse ancora in grado di immettere aria nei propri polmoni.
Quando Michael entrò nella sua stanza, con una rosa in mano, la trovò che dormiva, proprio come tutte le altre volte.
Aveva i lineamenti rilassati, ed era adagiata sopra ben sei cuscini, di modo che potesse stare seduta pur non affaticandosi.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso al vederla, intenerito dalla sua purezza, simile a quella di una bambina. Si avvicinò alla sua branda, ed infilò delicatamente il fiore in un vaso posato sul comodino, dove ne giacevano altri tredici.
Ogni volta che andava da lei, ne raccoglieva uno e glielo portava. Era il suo modo per dirle che lui c’era, nonostante lei non se ne accorgesse. Voleva farle sapere che non vedeva l’ora di poterla abbracciare.
«Una per ogni volta in cui sei stato qui, vero?» domandò una voce, e il figlio di Poseidone, colto alla sprovvista, sussultò. Non si era reso conto che la ragazza si era svegliata, e che ora lo osservava, un sorrisetto malandrino dipinto sulle labbra.
Chirone gli aveva spiegato che man mano che i giorni passavano la figlia di Efesto era sempre più in grado di racimolare le giuste energie, e che presto o tardi sarebbe stata capace di gestirsi anche da sola.
Ma lui tendeva sempre a sottovalutare la tenacia della propria ragazza.
Con un ghigno divertito, il moro abbassò lo sguardo, imbarazzato. «Dovrei chiederti come fai a saperlo, ma credo di conoscere già la risposta.»
Skyler ridacchiò, stropicciandosi gli occhi assonnata. «Ti conosco molto bene, sai?» lo canzonò. «Troppo, forse.»
«Già» assentì lui, per poi sedersi sul bordo del letto. Per un attimo si limitarono a guardarsi, come se non ci fosse bisogno di parole, in quel momento. Poi lui inclinò il capo.
«Da quant’è che sei sveglia?» le chiese.
«Abbastanza da farti credere che stessi dormendo.»
Il ragazzo soffocò una risata, facendo il gesto di un ‘touché’.
«Come stai?» volle sapere quindi lei, e a quel punto lui parve stupito.
«Dovrei essere io a farti questa domanda, non trovi?»
«Io sto bene» assentì la ragazza, sicura. «E tu?»
«Non c’è male» mormorò, perdendosi in quei pozzi scuri che erano le sue iridi. Si disse che sarebbe stato perso, se avesse rischiato di perderla; e il solo pensare che ciò che era successo era stato in parte per causa sua lo logorava di sensi di colpa.
«Mi dispiace» pensò, e prima che potesse accorgersene, lo stava dicendo ad alta voce.
Lei fece per scrollare la testa. «Michael…»
«No, davvero. Sono stato un idiota, e mi dispiace.»
«Dispiace anche a me» convenne allora la mora. «Avrei dovuto darti ascolto, quando mi dicevi che Matthew era malvagio. Tu l’avevi capito prima di tutti, ed io non ho fatto altro che biasimarti.»
«Se vuoi sapere la verità, l’unico motivo per cui lo dicevo è perché temevo che ti avrebbe portata via da me. Non volevo perderti, Skyler. Ma non mi rendevo conto che con la mia gelosia in realtà era io ad allontanarti, e non il contrario.»
La ragazza soppesò le sue parole, mentre gli angoli della sua bocca si incurvarono. «Siamo stati due stupidi, insomma.»
Michael annuì. «Decisamente.»
Risero sommessamente insieme, rendendosi conto che era da tanto che non chiacchieravano in tale tranquillità. Come se tra loro non fosse successo niente; come se il mondo, in quel momento, avesse deciso di annullarsi.
«Ho una cosa per te» esordì lui, e non appena lei corrucciò le sopracciglia, il figlio di Poseidone estrasse qualcosa dalla tasca.
La prese dolcemente per mano, con accortezza, e Skyler non capì cos’avesse intenzione di fare fino a ché lui non le infilò al polso un bracciale.
Il suo bracciale, la figlia di Efesto lo riconobbe all’istante. Quello che lui le aveva regalato, e sul quale aveva giurato che le cose, tra loro, non sarebbero mai cambiate. Quello che lei aveva scaraventato dall’altra parte della stanza, la sera in cui avevano litigato.
Il ragazzo doveva averlo raccolto, e ora, per una qualche ragione, glielo stava ridando.
«È ancora valida quella promessa, sai?» le spiegò, un po’ disagio. «Anche se tutto andrà per il verso sbagliato, i miei sentimenti per te resteranno immutati. E finché lo avrai indosso, questo resterà esattamente così com’è.»
La mora sentì gli occhi bruciare, ma si impose di non piangere di fronte a quella ammissione. Accarezzò l’intreccio di cuoio, studiando attentamente le conchiglie che vi si nascondevano. Si era sempre odiata per esserselo sfilato con rabbia, quella volta. Nonostante fosse davvero furiosa con lui, non avrebbe mai desiderato che quel giuramento si sciogliesse. Era importante, per lei, sapere di averlo accanto.
Michael continuava ad essere una delle sue poche certezze, al di là di tutto quello che era successo, tra e intorno a loro.
«Devo dirti una cosa» annunciò lui, attirando repentinamente la curiosità della ragazza. «Sento che se non lo faccio la mia mente potrebbe scoppiare, e so che avrei dovuto dirtelo già tempo fa. Ti giuro, ci ho provato mille volte. Ma poi avevo sempre paura.»
Parlava velocemente, quasi cercasse di far fluire le parole via dalle sue labbra contemporaneamente ai pensieri. Sperava che così facendo non avrebbe avuto ripensamenti. Ma sembrava agitato e nervoso, tanto che la figlia di Efesto aggrottò la fronte, preoccupata.
«Michael, è tutto okay?»
«No» rispose lui, come se quella fosse una domanda scontata. «Non è tutto okay. Non è per niente okay. Sei morta tra le mie braccia, Skyler. Ed io non ho potuto fare nulla per impedirlo. Non ho idea di chi abbia fatto cosa per far sì che tu tornassi indietro, ma gli dei solo sanno quanto io abbia pregato affinché tu ti salvassi.»
«Lo so» sorrise lei.
«No, non puoi saperlo. E sento che se non te lo dico ora, lo rimpiangerò per tutta la vita.»
«Michael…» cominciò la ragazza, ma il moro la interruppe, sollevando una mano.
«No, fammi parlare» le intimò, prima di prendere un lungo, profondo respiro. «Ho sempre avuto paura dell’amore» iniziò. «Dopo la morte di mia madre, ho giurato che non mi sarei mai più affezionato tanto ad una persona. Temevo di poter soffrire, capisci? E lo faccio tutt’ora. Ed è sempre stata questa paura a farmi prendere le peggiori decisioni. La paura di non essere adatto, di non essere abbastanza. Non ho mai voluto amare qualcuno, perché non avevo neanche idea di che cosa fosse, l’amore. Per me era un concetto estraneo, irraggiungibile. Ma poi sei arrivata tu» continuò. «E le mani hanno cominciato a tremarmi, e le parole a mancare. E il mio cuore a battere così forte che, giuro, a volte ero convinto che stesse per balzarmi fuori dal petto. E cavolo, se ho avuto paura!» esclamò, scuotendo il capo. «Me la sono fatta sotto, e non sto scherzando. Ma purtroppo è stato inevitabile. Sonno stato pazzo di te dal primo istante, quando i nostri occhi si sono incontrati in quel vuoto corridoio. Ma non ho permesso a me stesso di sentirlo veramente, perché credevo fosse una cosa da niente. “Non è importante”, mi dicevo. “Vedrai che domani passerà”. Tu non immagini neanche, Skyler, quanto avrei voluto che fosse così. Non so cosa ci sia in te di tanto speciale» confessò. «Tu sei come… come il raggio di sole che filtra tra gli alberi. Sei come la risata che spezza la tristezza. Sei come la brezza in una giornata troppo calda. Tu sei come la lucidità in mezzo alla confusione. Non sei il mondo, ma sei tutto ciò che lo rende perfetto. Ho sempre pensato che per consolidare il nostro rapporto uno di noi due avrebbe dovuto buttarsi. Credo di aver capito quale sia il canyon da superare» le spiegò. «Spero solo di trovarti ad aspettarmi dall’altra parte.»
Dopo di ché, la guardò negli occhi, e le sue iridi ora azzurre non poterono fare a meno di ammirare la bellezza di quelle splendide striature dorate. Funsero per lui da calamita, e facendo appello a tutto il proprio coraggio, Michael parlò.
«Ti amo, Skyler» ammise, prima che fosse troppo tardi. «E credimi se ti dico che non ho mai pronunciato queste due parole prima di adesso. Ti amo, ed ora ne sono convinto. Amo quando hai freddo e fuori ci sono trenta gradi. Amo quando hai caldo mentre io indosso il berretto di lana. Amo la nostra diversità. Amo quando ti leghi i capelli così meticolosamente, perché ti aiuta a pensare. Amo la ruga che ti si crea al centro della fronte. Proprio qui
Le accarezzò con il pollice lo spazio tra le sopracciglia, al ché lei arrossì, con un sorriso.
«Mi piace che dopo una giornata passata con te, sento ancora il suo profumo sulle mie felpe» proseguì lui. «E sono felice che tu sia l’ultima persona con cui chiacchiero prima di addormentarmi la sera. Amo quando mi dai il bacio della buonanotte, e adoro svegliarmi la mattina dopo con il sapore delle tue labbra ancora sulle mie. Amo i tuoi capelli. E amo i tuoi anfibi. Amo la dolcezza con cui mi parli, e amo il modo in cui mi guardi. Amo quando ti arrabbi e la tua voce si alza fino a sovrastare la mia. Amo il tuo coraggio. È che amo tutto di te, senza eccezioni.» Sospirò.  «E so che avrei dovuto dirtelo prima. Forse, se lo avessi fatto, avremmo evitato tanti errori stupidi. Ma d’altro canto, a volte penso che siano stati proprio quelli a farmi innamorare di te così profondamente. Ti amo, Skyler» ripeté. «E sono stanco di negare a me stesso la pura e semplice verità. Tu mi completi. E non mi importa se per te non è lo stesso, e se un giorno mi lascerai. Non mi interessa se scapperai con un altro o mi farai soffrire. Spezzami il cuore. Spezzamelo mille volte. È sempre stato tuo perché ne facessi ciò che volevi. Ti amo» mormorò ancora una volta, prima di abbozzare un sorriso sghembo, divertito. «Cavolo, quante volte lo sto dicendo?»
«Non saranno mai troppe» gli assicurò lei, e solo allora il ragazzo si rese conto di come i suoi occhi fossero lucidi per via di lacrime di gioia. «E mi dispiace di aver fatto tanti sbagli, in passato. Ma ti amo anch’io. Dei, sei ti amo. L’ho sempre fatto, in realtà, ma forse non me ne sono mai resa veramente conto. E non è vero che vorrei non averti mai conosciuto» si scusò. «Perché tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.»
Michael le strinse teneramente una mano, incrociando le dita alle sue come non facevano da un sacco di tempo. Poi allungò l’altra per spostarle una ciocca di capelli che le copriva la fronte, avvolgendosela attorno al dito, con cura, in un gesto tanto spontaneo quanto significativo.
I due si sorrisero, felici, e in quell’istante, tutto passò in secondo piano.
Il figlio di Poseidone le prese il volto fra le mani, e chinandosi su di lei la baciò. All’inizio fu un contatto casto, quasi di attesa; ma poi le labbra di lei si schiusero, ed entrambi si sentirono invadere da un rassicurante calore.
La lingua di lui esitò un attimo, prima di raggiungere quella di Skyler con dirompente passione; cercandola, spingendola, bramandola, abbracciandola. Si esplorarono l’un l’altro, con la consapevolezza che quel bacio sanciva un nuovo inizio per entrambi. Era pieno di cose non dette, di desiderio, di amore e di leggerezza. Era pieno di scuse e, allo stesso tempo, di perdono.
Dal suo canto, il ‘ti amo’ che il ragazzo le sussurrava tra le labbra era colmo di paura, ma anche di certezza.
Per lei, invece, quella fu solo la conferma ad un sentimento che non sarebbe stato scalfito neanche dalle peggiori intemperie, perché troppo solido, troppo vero.
Quando si allontanarono con un leggero schiocco, i loro nasi continuarono a sfiorarsi, e Michael posò la fronte contro la sua, incatenandosi alle sue iridi scure.
Rimasero così per quello che parve un tempo infinito; i respiri che si mischiavano nel poco spazio che li separava, l’odore delle loro pelli che si mescolava a formare un’unica, inimitabile fragranza.
Dopo di ché, qualcuno bussò.
Il figlio di Poseidone si allontanò di scatto da lei, appena in tempo, prima che il cardine cigolasse. Drizzò la schiena, mentre lei si mordeva il labbro inferiore, al fine di mascherare un sorriso.
La testa di Chirone fece capolino nella stanza, e una volta studiata attentamente la situazione sembrò sorpreso, ma anche compiaciuto.
«Ero venuto a vedere come stavi» chiarì, rivolto a Skyler. Lanciò una rapida occhiata al ragazzo. «Ma se volete, ripasso più tardi.»
«Ma no, si figuri» lo tranquillizzò lei, invitandolo con un cenno ad entrare. «Non disturba affatto.»
«Io no» convenne il centauro. «Ma purtroppo li ho incontrati strada facendo, e non sono riuscito ad impedirgli di…»
Prima che potesse anche solo terminare quel pensiero, la porta si spalancò ancora di più, e due teste bionde fecero il loro ingresso nella camera, stanche di aspettare.
Non appena si accorsero che la figlia di Efesto era sveglia, i loro occhi si illuminarono.
Emma fu la prima a lanciarsi sul letto, inginocchiandosi accanto a lei sul materasso e stringendole le braccia attorno al collo tanto che rischiò di soffocarla. Si lasciò sfuggire un singhiozzo, e la mora le accarezzò la schiena, affondando il viso nell’incavo della sua spalla.
«Tu e i tuoi stupidi scherzi» la rimproverò la figlia di Ermes, con voce tremante. «Non fare mai più una cosa del genere, capito? O ti odierò per il resto dei miei giorni.»
La ragazza ridacchiò, divertita, rendendosi conto solo in quel momento delle lacrime che le stavano rigando le guance. «Mi sei mancata, Emma» mormorò, con voce smorzata.
«Anche tu.»
Le due amiche rimasero ancora un po’ lì, ad abbracciarsi quasi non volessero lasciarsi andare più. Solo quando anche John si avvicinò alla branda la bionda si staccò per permettere all’amica di tirare a sé il ragazzo.
«Che cosa avrei fatto senza di te?» le sussurrò il figlio di Apollo, al ché lei tirò su col naso, felice.
«Ti devo almeno tre vite, John» gli ricordò. 
Chirone aspettò pazientemente che il momento degli abbracci fosse finito per potersi fare avanti ed eseguire ciò per cui era lì.
«Come ti senti?» domandò a Skyler, con premura. Quella fece scorrere lo sguardo sui propri amici.
«Alla grande» affermò, e lui parve intenerito da quelle parole.
«Sono contento» disse, per poi sgranchirsi la voce. «Quindi deduco che non ti dispiacerà rispondere ad alcune domande.»
La figlia di Efesto sapeva a che genere di quesiti si riferiva, e per un attimo sbiancò, presa in contropiede. Da quando si era ripresa, non aveva pensato affatto alla ragione per la quale si trovava in quel letto d’ospedale.
Il centauro sembrò comprendere il suo disagio, perché aggiunse: «Sempre se te la senti.»
La mora, dopo un attimo di esitazione, annuì. Era arrivato il momento di guardare in faccia la realtà: la guerra non era affatto finita, era appena iniziata.
«Ricordi qualcosa?» le chiese quindi Chirone, con tono calmo e rassicurante. «Qualcosa in particolare?»
«Tutto» confessò lei, sentendo immediatamente gli occhi dei presenti puntati addosso. «Non potrei mai dimenticarlo. Ma ci sono alcuni punti ai quali non so dare una spiegazione neanch’io.»
«Di questo non devi preoccuparti» la tranquillizzò il direttore delle attività del Campo. «Siamo qui per questo. Ma dimmi, cos’è che ti turba?»
Skyler prese un profondo respiro, aggrottando la fronte. «Matthew…» Fece fatica a pronunciare di nuovo quel nome. «Lui ha detto di non essere un semidio, ma poi non ha aggiunto altro. Ha parlato di questo… fuoco, che io avevo, e che lui doveva rubarmi, ma non ho idea di cosa questo significhi. Quando mi ha baciato, lui…» Titubò, rabbrividendo alla sola memoria. «Ho avuto la sensazione che qualcosa mi fosse stato strappato via con la forza. Qualcosa di vitale importanza.»
«Il tuo fuoco, sì» assentì il centauro, sovrappensiero. «Era l’unico modo in cui potesse ottenerlo.»
«Ha parlato di una Profezia» continuò la ragazza. «E di una condanna alla quale l’aveva sottoposto mio padre per obbedire agli ordini di Zeus.»
«Questo coincide con le informazioni che ci ha dato Michael, bene.»
La figlia di Efesto si voltò a guardare il moro, che aveva gli occhi coperti da un velo di rancore. «Che significa?» si informò.
Il figlio di Poseidone si incupì. «C’erano dei momenti in cui li sentivo parlare, quando loro pensavano che io fossi privo di sensi. Il Generale… lui non è che una pedina, un soldato. Non ha alcun potere, e ancor meno ne hanno gli altri, come ad esempio il Capitano.»
«Aspettate un secondo» lo bloccò lei, sentendo la testa girare. «Tu li ha sentiti parlare? E che dicevano?» Spostò le iridi da lui a Chirone, impaziente. «Che cosa voleva Matthew da me?»
«Lui ha un piano» spiegò il centauro, grattandosi la barba con aria pensosa. «Ma bisogna capire fin dove è disposto a spingersi pur di ottenere ciò che vuole.»
«Ma sapete qualcosa sul suo conto?» reiterò ancora Skyler, ansiosa di saperne di più. «Sapete che cos’è?»
«Chi è» la corresse Michael, e lei lo fissò, interdetta.
«Eh?»
«Chi è» ripeté lui, e fu a quel punto che si fece avanti Chirone, con voce decisa e profonda.
«Prometeo» dichiarò, e le sue parole riecheggiarono nel silenzio della stanza. «Figlio di Giapeto e Climene. Titano della mente e della preveggenza.»

 
Fine.
 
Angolo Scrittrice. 
Okay, datemi qualche secondo. Sto tentando di riprendermi dallo shock per aver scritto quella parola. 
Buonsalve, semidei. Sono qui per voi per -stavolta posso ufficializzarlo- l'ultima volta.
Allora: prima che qualcuno decida di uccidermi per questo finale un po' in sospeto e che io scriva un A.S. più lungo dell'epilogo stesso (wah, odio questa parola), voglio fare una premessa. Questa storia si è sempre presentata nell mia mente sotto forma di 'trilogia', e anche se sono consapevole che forse un terzo capitolo non ci sarà non me la sono sentita di cambiare il finale, rendendolo magari inverosimile agli occhi di tutti.  
Ma andiamo per gradi, che è meglio. 
Beh, che dire? Succedono più cose in questo capitolo che nella storia in sé, tra un po'. 
Partiamo da
Leo ed Emma, vi va?
Dopo tutto quello che è successo -tutte le incomprensioni e i litigi-, il figlio di Efesto ha finalmente capito che cosa fare con Charlotte. Non è più succube della sua linguaa ammaliatrice, dato che non prova più alcun genere di attrazione nei suoi confronti. Ma quando pensa che tutto stia andando per il verso giusto, ecco che Emma lo respinge. 
Come darle torto, d'altronde? Ha sofferto così tanto per lui, che di certo non sarebbe bastato un 'mi dispiace'. Per chi sperava che si riappacificassero, mi scuso, ma non sarà così. 
Lei gli ha ordinato di starle lontana, e lui sembra intenzionato ad obbedire. Quindi, ciao ciao LeoxEmma! Questa coppia sembra destinana a restare così com'è: frantumata.  
Ma non  possiamo dire lo stesso per
Melanie e John. Anche se non si parla di loro direttamente, ho cercato di trasmettere tutto l'amore che provano l'uno per l'altro in quelle poche righe che descrivono il loro incontro. Quei ragazzi sono una certezza, e sfido chiunque a metterlo in dubbio. 
Che altro abbiamo? Un
Will Solace che sala la situazione (se non fosse stato per lui, Skyler sarebbe morta a Stonehenge). Alcuni momenti pucciosi tra fratelli (perchè diciamocelo, quelli non potevo mancarli). 
Un'intera parte del capitolo dedicata all'amicizia tra
Michael e John. Mi sono resa conto di non aver parlato molto di loro due come amici, come confidenti e fratelli. Ma spero comunque che il loro rapporto sia apparso ben chiaro. Loro ci saranno sempre l'uno per l'altro. 
Ma passiamo al fulcro di questo capitolo, che sono principalmente
Michael e Skyler. Non mi soffermo tanto sul parlare del modo in cui lui si è comportato, tanto più sulle parole che le ha rivolto. 
Siamo partiti con un «Io ho fiducia in te». Non so se qualcuno di voi ricorda il momento della loro litigata. Skyler gli chiedeva se lui si fidasse di lei, ma Michael non rispondeva, e a quel punto il loro rapporto si sfaldava. Ecco, quelle cinque parole sono un po' in risposta a quell'affermazione mancata. Lui ha fiducia in lei. L'ha sempre avuta e sempre ne avrà. 
Poi c'è il momento in cui il cuore di lei si ferma, e lui urla disperato il suo nome. Ho fatto il possibile per rendere quel grido il più vero e tragico possibile, e spero vivamente di esserci riuscita, e di non aver combinato un disastro. 
Lei è apparentemente morta (o almeno così credono tutti). Ma poi, per una qualche strana ragione, torna in vita. 
Ripeto ancora che non esistono domande senza risposta, ma non aggiungo altro. 
Passiamo invece al loro incontro. Lui le ridà quel famoso braccialetto che lei si era sfilata in un eccesso d'ira. E poi eccolo lì, il fatidico «Ti amo» da parte di entrambi. Era ora, no? Ora che hanno superato l'ultimo ostacolo, non c'è più alcuna barriera a dividerli. 
Subito dopo c'è stato il ricongiungimento di Skyler con Emma e John, e ancora, finalmente, la scoperta della verità. 
Matthew è in realtà Prometeo, titano della mente e della preveggenza. 
Qualcuno di voi l'aveva immaginato, o aveva avuto qualche sospetto? Onestamente, spero di essere riuscita a cogliervi alla sprovvista. Ma se così non fosse, sono pronta ad accogliere ogni critica. 
Ma è arrivato il momento di discutere della cosa più importante: Vi è piaciuto? Vi ha deluso? Che ve ne pare, come epilogo? 
Chiamatemi pazza, chiamatemi stupida, insultatemi come volete... ma vorrei fare un annuncio. 
Mentre scrivevo, mi sono resa conto di non essere ancora disposta ad abbandonare questi ragazzi. Loro sono i miei piccoli, sono la mia famiglia. E potrà sembrare insensato, ma non voglio che tutto finisca già, e per di più così.  
Il mio desiderio sarebbe quello di continuare la storia, concludendo con il famoso terzo capitolo che in principio era in programma. Ci sono ancora molti quesiti lasciati irrisolti, e vorrei darvi risposta. 
Ma ovviamente, ho bisogno di un significativo numero di consensi, per poterlo fare. 
Sono consapevole che è una follia, perchè nell'ultimo periodo la storia ha avuto un calo, ed io sono stata tentata più volte di lasciarla in sospeso. Ma come avrei potuto? Non sarebbe stato giusto nei vostri confronti, nei confronti di questi piccoli semidei, e (forse) neanche nei miei.
Quello che sto cercando di dire è che anche se sembro fuori di testa, vorrei lanciarmi in un ultima, grande sfida. Quella finale. Quella decisiva. 
Ma se vi dà noia pensare ad un seguito, per me non c'è alcun problema. Continuerò comunque a scrivere di loro -anche solo per il gusto di farlo-. D'altronde, in un certo senso c'è stato un lieve happy ending. Skyler è viva, Matthew/Prometeo è stato temporaneamente allontanato, Michael e Skyler si sono detti ti amo e tutti sono tornati al Campo sani e salvi. 
Un finale rispettabile, no? Quindi capirò se ne avete abbastanza di me. 
Ripeto, prenderò in considerazione l'idea di un Sequel soltanto se avrò la certezza che ci sarà un elevato numero di persone a seguirlo. 
La notizia ufficile della decisione presa verrà annunciata tra una settimana, ergo giovedì prossimo, insieme ai ringraziamenti ufficiali per tutti coloro che hanno reso possibile la pubblicazione di questo epilogo.
Per adesso, mi limito soltato a ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno regalato delle stupende recensioni: Iladn, Francesca lol, diabolika14, Sarah Lorence, unika, Kamala_Jackson, Lux_Klara, SHIELD per sempre, TamaraStoll, Percabeth7897 e carrots_98.  
Siete i miei angeli custodi, sul serio. 
Beh, non mi resta che dire a giovedì prossimo, allora, per i ringraziamenti ufficiali!
Un bacione enorme, e spero di aver mantenuto la parola data quando vi aveva promesso che vi avrei scritto un'epilogo degno di questo nome. 
Io ce l'ho messa tutta, ma sta a voi giudicarmi, nel bene e nel male. 
Grazie per essere arrivati fin qui, perchè vuol dire che avete resistito e accompagnato i miei ragazzi fino a quella piccola ma grande parola in grassetto: Fine. 
Sarei persa senza di voi, semidei. 
Per l'ultima volta vostra, 

ValeryJackson
 
 
  
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