Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: pierres    17/07/2015    2 recensioni
Le ombre, pur essendo nere, lasciano sempre intravedere qualcosa. Qui intorno c'è soltanto buio.
[Albus Silente/Gellert Grindelwald] [Ariana centric] [Unhappy!Ending]
Terza classificata al contest Scorci di vite sospese, indetto da Mary Black.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: sono sempre stata una grande fan della Albus/Gellert. Sull'hard disk del vecchio computer deve esserci ancora qualche obbrobrio che dovrebbe rappresentare un abbozzo di qualcosa su quesi due. Comunque, se alla fine questa cosa è stata partorita è grazie a questo contest sopracitato, indetto sul forum di efp, che mi ha tirato fuori l'ispirazione mentre ero impegnata a cercare tutt'altro - qualche prompt per cui poter svendere una Sirius/Hermione. Ma non preoccupatevi, non preoccupatevi, arriverà a breve anche quella! *applausi registrati*
Ora, qualche scaramuccia tecnica:
la storia si suddivide in varie parti. Quelle scritte in corsivo sono classificabili in periodi non precisati, non nel senso che non saprei dove collocarli, ma che si posizionano lungo quell'arco di un paio di giorni in cui Albus presenta il suo nuovo amico ai parenti. Le ho scritte in corsivo perché la mia intenzione era un po' quella di una voce fuoricampo, e dovevo assolutamente marcare la differenza tra il momento in cui Ariana muore, diviso in due parti (una iniziale ed una finale) e la vicenda centrale del trauma della suddetta Ariana. Un po' antiestetico? Ci ho pensato anch'io, ma il risultato finale non mi turba molto; dipende tanto dai gusti soggettivi, spero che non vi infastidisca.
La storia, come ho già detto, ruota intorno a quello spezzone centrale, l'unico - se vogliamo notare i particolari - a non essere diviso, in cui Ariana subisce il suo trauma che poi le cambierà tutta la vita e porterà a una serie di eventi catastrofici come, molto alla lontana, la sua stessa morte. 
Ho cercato di limitarmi con i dannatissimi trattini che non riesco a levarmi dai piedi, è più forte di me, e con i periodi confusi e molto alla Joyce - molto nel senso lontanissimo del termine. Lontano proprio lontano. Anche solo arrivare a paragonarmi a Joyce credo rappresenterebbe l'apice della mia carriera di scrittrice XD Per farla breve, resta soltanto la confusione e nemmeno un briciolo del suo stile.
Grazie per l'attenzione e buona lettura ;)

 







Come in bianco e nero
la differenza tra le ombre e il buio
 
 
 
 


 













«Albus, ti presento Gellert»
Qualche passo in avanti, un leggero ammiccamento. Gellert ha le mani piuttosto tozze, i polpastrelli palmati, i dorsi sproporzionati – quando Albus gliene stringe una, con un sorriso cordiale, le sue dita magre e lunghe quasi la incartano come una sgradevole caramella.
Ma la stretta è forte e sicura e la pelle liscia, di qualcuno che è abituato ad usare la bacchetta per fare più o meno tutto – Albus la adocchia, quella bacchetta: una stecca anonima, probabilmente legno di tasso, nella tasca destra della tunica dell’altro.
Gellert non porta vestiti babbani, nonostante siano in un quartiere dove ne vivono parecchi. Ad Albus pare, ma forse è solo immaginazione – uno scherzo della luce, deve esserlo, Gellert non sembra tanto male, poi è l’alunno più promettente della sua scuola, proprio quello più promettente, non può avere qualcosa di male, Albus non ha mai trovato qualcuno identificabile come il più promettente perché è sempre stato il suo ruolo – insomma, gli pare che quando si parla di non-maghi una strana smorfia deformi le labbra sottili dell’altro, qualcosa di classificabile tra irritazione e superiorità.
Ma – pochi minuti e già, prestando fede alla sua carriera da alunno diligente, Albus ha imparato ad indossare il paraocchi – magari non ha poi tutti i torti – forse un po’ sì, per carità, ma proprio tutti tutti tutti- è pur sempre l’alunno più promettente della sua scuola.
Per il Bene Superiore, specifica Gellert, ogni volta che vede lo sguardo un po’ perplesso di Albus.
L’altro si rassicura – per il Bene Superiore, si ripete, un po’ come un motto, un po’ come una mantra, e riesce ad ignorare il morso allo stomaco incredibilmente in fretta.
 
˜
 
Se Gellert fosse una fotografia in bianco e nero, sarebbe come quelle babbane: un istante catturato sulla carta, immobile, con l’inchiostro a scolorirgli le guance e i capelli biondi, intrappolato nell’attimo in cui si volta e prima guarda Ariana, distesa a terra – pallida, bianca, fredda, morta – e poi alza gli occhi su Albus.
Se Gellert fosse una fotografia in bianco e nero, le sue iridi, pur essendo chiare, sarebbero rappresentate come due lucenti cerchietti scuri sotto alle ciglia lunghe ma invisibili; per come adesso lo vede Albus, il mondo intero è in bianco e nero e tinto sui toni del grigio – il pallido ardesia della camicia da notte di Ariana, immacolato, il suo volto fatto di gesso, le guance di Gellert che così pallide sembrano anch’esse quelle di un morto, i capelli di Aberforth, neri più neri del nulla, come quelli della loro madre, e infine i suoi occhi. Che sono sempre stati azzurri, Albus non sa perché adesso non- sono sempre stati così azzurri, così azzurri – l’atmosfera è congelata.
Albus capisce, in quel secondo che dura anni e anni, mentre Gellert lo guarda negli occhi e lui non riesce – cieco, scioccato – a riconoscerne l’azzurro, capisce che tra qualche istante qualcuno trarrà un respiro e quell’impossibile equilibrio si spezzerà.
Chi è il primo ad avere il coraggio di farlo?
 
˜
 
«Aberforth, ti presento Gellert»
Suo fratello non è mai stato quello che si può classificare come qualcuno da presentare al tuo nuovo migliore amico – quando era piccolo e un po’ più sciocco, Albus chiedeva ripetutamente alla madre di rivelargli la verità. Era grande ormai, poteva sopportare il fatto di avere un fratello adottato – mica c’è nulla di male, borbottava il piccolo Albus, strizzando gli occhi in attesa.
Ma la madre rideva, abbandonando per un po’ il cipiglio severo; è tuo fratello, sciocchino, lo rimbottava, tuo fratello di sangue.
Ed era vero, Aberforth aveva gli stessi, identici occhi azzurri di Albus – provava uno strano moto di irritazione, quasi gli avesse rubato i propri per compiere tutti quegli atti sgradevoli e alquanto inappropriati, come soffermarsi pensoso sulla capra che teneva nascosta nell’armadio al terzo piano, o sui jeans strappati di quella babbana della casa di fronte, o – uno strano brivido freddo – sui capelli biondi di Gellert.
Ma Aberforth non sembrava poi così interessato – anche se non puoi saperlo, borbottava qualcosa nella testa di Albus, forse un po’ paranoicamente, ovviamente non che Aberfoth… non è decisamente…
Aberforth grugnisce qualcosa. Stare troppo a contatto con quegli animali puzzolenti non deve fargli bene, pensa distrattamente il fratello. Gellert gli rivolge uno sguardo un po’ glaciale e qualcosa dentro al petto di Albus si rigira sulla pancia, soddisfatto.
Ma – apposizioni sempre presenti – è pur sempre suo fratello, non è certamente contento, ovviamente non lo è, forse dopo dirà qualcosa a Gellert sulle sue solite occhiate glaciali decisamente inopportune – forse dopo, si sussurra flebilmente mentre l’altro gli rivolge uno sguardo tra il divertito e lo sconsolato, forse dopo.
 
˜
 
Ariana è piccola, ha sei anni, ma sa come catalogare le ombre – ha gli occhi azzurri, come tutti in famiglia, ma con dentro una nota di fragilità che prima o poi porterà alla rottura e crack – Ariana ha sei anni e le ombre non la spaventano.
Non la spaventano perché non sono mai totalmente nere – a discapito di ciò che può pensare la gente, lasciano sempre intravedere quello che c’è sotto, e se non lo fanno allora non sono ombre, allora è buio e basta.
Così quel pomeriggio Ariana è distesa in giardino, fa levitare dei sassolini – loro la guardano, ottusi, con delle occhiate un po’ tonte, ma lei non li biasima – sono sassi, solo sassi, e anche le ombre che proiettano sul terreno, sotto il caldo sole di mezzogiorno, coprono a malapena qualche dinoccolato filo d’erba verde. La sua ombra Ariana non riesce a vederla, perché è mezzogiorno e lei non levita come i sassolini – è mezzogiorno e le ombre non si vedono, e forse non è poi un bene – quanto a messaggere, funzionerebbero meglio dei gufi.
Così quando le arrivano dal dietro, armati di bastone e un oggetto di ferro che Ariana non sa a cosa serva, papà non lo utilizza mai, lei non li sente arrivare perché le ombre non li annunciano e i loro passi si confondono nella quiete circostante e nel frusciare delle ali delle farfalle – ha un orecchio acutissimo, Ariana, sente tutto, sente lo sbatacchiare delle foglie dell’acero rosso del giardino, i colpi tremuli della persiana sotto il venticello di maggio, sente gli ansimi terrorizzati dei ragazzi, il bastone che risuona contro le sue ossa fragili e sottili, il tonfo leggero dei sassolini che cadono a terra.
Sente le proprie urla, amplificate ancora e ancora come se si trovasse nella cassa armonica di una chitarra, l’odore dell’erba nelle narici – distesa sul terriccio, dal suo punto di vista orizzontale quei tanti fili verdi sembrano quasi gli alberi di un’immensa foresta, e ci si perde. Mentre la picchiano, col ferro, con la punta del bastone, mentre urlano cose incomprensibili, la chiamano strega, la chiamano mostro, Ariana cammina con gli occhi in una foresta di elastici, gommosi fili verdi – ogni passo, ogni sospiro è una tortura.
Non vede niente oltre la siepe troppo lontana perfino per strisciare, oltre quegli alberi che sembrano così alti, ad un palmo dal suo naso, e invece sono insignificanti – i sassolini, sparsi confusamente sul terreno, non proiettano più nessuna ombra, ma Ariana quel nero lo vede ovunque.
Intorno a lei è soltanto la copia scolorita di quel che c’era prima, qualunque cosa ci fosse – ma più che il bianco, più che i colori chiari, che scivolano via, attaccato alle iridi le rimane il corvino, e non se ne va, vorrebbe che le lasciasse gli occhi, vorrebbe tornare a vedere le farfalle e i sassolini e le ombre non sono malvagie, Ariana sa classificarle, le ombre non sono-
Queste non sono ombre, si sussurra, mentre anche la sua pelle pallida comincia a diventare insensibile alle botte, mentre si sente andar via e ogni traccia di luce scompare, mentre quella cosa fragile in fondo ai suoi occhi alla fine si spezza e crack – Ariana urla, urla così volte che si strapperebbe le corde vocali, così forte che il suo grido è materiale e per uscire le raschia la gola, le fa sanguinare il palato. Urla e continua ad urlare, perché non sa più come fermarsi – la diga si è rotta e tutto quanto si riversa fuori, la magia, il controllo, le possibilità, i sassi, le farfalle – le ombre, invece, rimangono.
Queste non sono ombre, ripete una voce immateriale nella sua testa. Non sa come faccia ad essere così calma mentre nelle orecchie ancora le risuona il grido perpetuo che non sembra più nemmeno suo, non sa minimamente come fare a fermarlo.
Le ombre lasciano sempre intravedere qualcosa. Qui intorno c’è soltanto buio.
 
˜
 
«Ariana, ti presento Gellert»
Lei lo guarda con uno sguardo un po’ fragile, decisamente incerto. Continua a spostare gli occhi su Albus, come a chiedergli se è sicuro – Gellert non le piace.
Ariana vede le ombre – ovunque – e sa classificarle – sempre – ma quelle dentro agli occhi di Gellert, quelle no. Sono azzurri; come quelli di Albus, verrebbe da pensare, ma non è così – non è così perché Ariana sa che sono diversi, Albus non se ne rende conto, Aberforth non se ne rende conto, nessuno ci riesce.
Ma lei sì, perché chiusa in quella sua cameretta che sembra più uno scantinato, a pettinarsi i capelli e poi arruffarli di nuovo, a canticchiare sovrappensiero, aspetta con ansia ogni visita e ogni nuovo urlo che la porterà un po’ più lontana, la renderà un po’ più assente – e in quei momenti, quando ha i suoi attacchi, tutto ciò che riesce a vedere sono le ombre che diventano buio, e gli occhi come fari di quei ragazzi che le hanno rovinato la vita.
E lo stesso sguardo di sprezzante superiorità, forse anche un po’ di paura verso chi è diverso, inferiore, di cieca convinzione e ottusa determinazione lo ritrova negli occhi del nuovo amico di Albus – suo fratello non lo vede, ma l’ombra che proietta Gellert sul pavimento di legno chiaro è la più scura di tutte nella stanza.
Così scura, borbotta, che non traspare niente.
 
˜
 
Se Gellert fosse una fotografia in bianco e nero, Albus starebbe bene attento a conservarla nel cassetto più basso della scrivania, sotto strati di involucri impermeabili per non farla rovinare da niente – nemmeno dal proprio amore.
Perché una fotografia deve essere imparziale, deve essere incosciente, altrimenti potrebbe fargli un ritratto – se Gellert fosse un ritratto, se Albus facesse un ritratto a Gellert, i suoi capelli rilucerebbero dell’oro più acceso di sempre, più diafani di una montagna di galeoni, più leggeri del miglior mantello di suo padre, e i suoi occhi azzurri catturerebbero, come uno specchio, il blu più blu del cielo del mattino. Se fosse un ritratto, Albus lo dipingerebbe mentre Gellert, in posa a leggere uno dei suoi tanti fogli di pergamena, a malapena si accorge dei raggi del sole che gli passano tra i riccioli in una carezza così ardita da risultare quasi maleducata.
Ma – perché un ma c’è sempre, quando si parla di Gellert, quando si parla di Albus e Gellert - se fosse una fotografia in bianco e nero – perché è qui che poi torna tutto, all’imparzialità di una macchina che non ha occhi per filtrare la realtà, ad un istante catturato su uno stupidissimo rullino che non può ritoccare niente, non può distorcere nulla, e Albus non farebbe mai una foto a Gellert perché sa cosa potrebbe venir fuori ma-
Ma se Gellert dovesse essere una fotografia in bianco e nero, la scatterebbe esattamente in quell’istante: non mentre l’amico corre via, non mentre inciampa e si sbuccia i palmi e sanguinante si rialza e continua a correre, non mentre Aberfoth grida, grida così forte da scuotere i muri, e con la gola raschiante, la bocca aperta, terribile rappresentazione di un ragazzo che crolla, gli lancia dietro tutto il suo dolore mentre lo guarda smaterializzarsi fuori dalla finestra. Esattamente in quell’istante, mentre per l’ultima volta da lì a un sacco di tempo Gellert pianta i suoi occhi incolori in quelli di Albus, stravolto, scioccato.
Quando tutto è immobile e non è ancora crollato – non ancora, sospira incredulo, aspettando la fine – non ancora.
 
 





















 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: pierres