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Autore: Dusky Doll    20/07/2015    1 recensioni
Questa è la storia di Astreya, una giovane donna dal carattere forte e dal cipiglio severo, nata in un mondo corrotto, un mondo dove bisogna crescere in fretta. Il suo mistero si cela dietro i suoi capelli neri e i suoi occhi indagatori, un segreto talmente intrigante da aver attratto le mire della casta militare e di un soldato oltremodo speciale. Ma è tutto oro ciò che luccica? E cosa deciderà Astreya: si venderà all' Esercito o deciderà di combattere da sola la sua battaglia, come un lupo solitario?
NdA: Storia illustrata... da me:) Spero vi piaccia!
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 22

Arrivammo in vista del Vallum la sera tardi. Il sole stava declinando dietro il profilo della città facendo rilucere gli edifici di un color grigio spento. C’erano case ovunque, arroccate sulle montagne brune e direttamente a ridosso della cinta muraria. Erano fatte di pietra e ricoperte da un sottile strato di sabbia rossa. Non sembravano edifici moderni, ma le antiche vestigia di una civiltà anteriore. Ci spostammo rapidi per le viuzze, mentre gli abitanti del posto ci scrutavano curiosi, ma timidi da finestre e crocicchi.
-Non sono abituati a vedere così tanti soldati-, mormorò Deimos, giungendo a piedi accanto alla mia moto. Tolsi il casco e sciolsi i capelli, assaporando la sensazione del fresco della notte sulla pelle bollente. Era pieno inverno, eppure, lassù a Nord, di fronte al Vallum, faceva un caldo incredibile.
- Meglio che capiscano chi comanda-, rispose un uomo sulla quarantina con dei corti capelli ricci e due occhiaie blu livide. – Io sono il Generale Achileos, piacere di conoscerla, Astreya-, disse poi, allungando una mano e posandosela sul petto. Annuii distrattamente mentre i miei occhi si spostavano sull’enorme breccia di fronte a noi. Era una sorta di gigantesca crepa in cui il vento ululava e dove le correnti di aria creavano mulinelli e risucchi. C’erano delle guardiole di fortuna posizionate ai lati della feritoia e alcuni uomini in divisa che le presidiavano. Dovevano essere membri del Reggimento del Sole a giudicare dal colorito nauseato dei loro volti e dalle occhiate impaurite che ci lanciavano.
-Sarà uno spasso-.
Fobos mi passò accanto con la katana appoggiata alla spalla destra. Sorrideva divertito e, in fretta, si stava dirigendo verso i militari. Parcheggiai la moto a lato della strada, accanto a quella di Galeno. Poi a passo svelto raggiunsi l’Ibrido.
- Sentite, sgomberate in fretta. Da adesso prendiamo noi il comando-, lo sentii dire serio. Mai avrei pensato che quei soldati avrebbero ceduto così facilmente e, invece, qualche insistenza più tardi, si stavano già ritirando all’interno della cupola, in una galleria esplosa di cavi elettrici e spie spente.
-Hanno fatto un bel danno-, mormorai, scostando un cavo con il gomito.
 - E’ vero. Non ho mai visto un’esplosione di queste proporzioni-, ammise Galeno, comparso dal nulla al mio fianco. Studiava estasiato il disastro che lo circondava, attento a non calpestare i detriti e i piccoli frammenti di cavi che si trovavano nascosti sulla pavimentazione mezzo annerita.
- E’ evidente che i Mauriani li abbiano appoggiati. Questo genere di armi non può essere venduto a normali cittadini-, commentò perplesso Fobos, mentre la placca metallica che aveva sul braccio si accendeva rivelando un display. Glielo vidi maneggiare con un paio di tocchi e poi sulla patina lucida dello schermo comparve una carta geografica. Con una piccola x rossa erano segnati due luoghi. Mi avvicinai all’Ibrido, raccogliendo i capelli da un lato e osservando con lui quei segni. Le mete destinate erano il Deserto del profondo Sud e il Vallum stesso.
- C’è parecchia strada da fare per raggiungere il Deserto, da qui. E a ben vedere, questa gente non mi sembra affatto in grado di sostenere un simile viaggio. Inoltre le strade che portano da qui a quell’inferno di sabbia, sono battute dai Gyps. Non credo che questi poveracci abbiano abbastanza denaro per convincere quegli accaparratori a farli passare-.
Fobos era acuto come al solito. Io quelle considerazioni le avevo sentite da Iatro, un uomo fatto e finito con una lunga carriera alle spalle e un cervello decisamente brillante, non da un giovane ancora nel pieno dei suoi vent’anni. Capii subito perché era riuscito a diventare Generale prima dei trenta: il suo era un ragionare meticoloso e scrupoloso, oltre che raffinato come un setaccio per la farina.
-Bisognerebbe interrogare i cittadini, per sapere qualcosa. Con metodi meno ortodossi sono certo che canterebbero come merli-, commentò Achileos, già pregustandosi la scena. Tuttavia, dovetti bloccare questo suo famelico desiderio sul nascere.
-Non siamo qui per torturare delle persone innocenti, fino a prova contraria. Siamo qui per proteggere il Vallum. A meno che non ci giungano ordini diversi da Carthagyos, noi qui ci limiteremo a condurre la missione secondo le linee generali prestabilite-.
Deimos e Fobos annuirono persuasi, mentre Galeno, immobile, si perdeva tra quella marea di fili elettrici che brillavano come fuochi d’artificio sopra le nostre teste.
-Scusate se vi interrompo-, disse poi il Biotecnico –Ma credo che se non ci sbrighiamo, questi cavi scoperti potrebbero creare un’esplosione senza pari-.
Deimos impallidì e Fobos digrignò i denti.
-L’elettricità dovrebbe essere stata staccata-, commentò l’Ibrido avvicinandosi a Galeno e osservando con lui le fascette che stringevano gli enormi serpentoni di PVC lì attorno.
In effetti sin da quando eravamo arrivati, c’eravamo accorti che la Cupola era stata disattivata, probabilmente perché malfunzionante, e che le luci della Sede Governativa erano tutte spente. Come poteva essere che, invece, l’energia scorresse ancora nei fili della zona colpita? Subito cominciammo a sudare freddo. Qualcuno ci voleva morti: eravamo entrati in un valico in alta tensione, su un pavimento isolante malmesso e una serie di pozzanghere di acqua lurida che sobbollivano sotto le nostre suole riscaldate dal cocente tramonto infuocato.
-Questa è una dichiarazione di guerra in pieno ordine-, esclamò Fobos, mentre il suo viso si contorceva in una smorfia di disgusto e i suoi occhi spiavano i volti terrei della gente che ci stava spiando dalle finestre.
- Ci deve essere attivo un generatore di emergenza da qualche parte-.
Galeno aveva cominciato a spostare alcuni detriti accatastati a terra con fin troppa cura. Mi avvicinai per dargli una mano, afferrando lamiere e rifiuti metallici, ma Fobos mi scansò con un gesto brusco e si accovacciò accanto a Galeno, sollevando tre volte il peso che il Biotecnico cavava fuori di volta in volta.
-Forza, sbrighiamoci! -.
Scavarono sotto le rovine ininterrottamente, imprecando contro le sentinelle che non avevano nemmeno notato di avere una bomba sotto ai piedi. Come potevano non essersi accorte che qualcuno ero sgattaiolato alle loro spalle, passando proprio sotto il loro naso?
Sotto quelle carcasse di alluminio, titanio e ghisa trovammo una botola. Era rettangolare e larga a sufficienza per far passare un uomo di media corporatura. Deimos sollevò lo sportello, e noi tutti ci sporgemmo per vedere cosa ci aspettava là sotto. Di fronte a noi c’era un enorme buco nero, con una scaletta metallica a pioli che sprofondava nel buio, verso il centro della Terra.
-Io là sotto non ci vado-, mormorò Fobos, sollevando un sopracciglio e incrociando le braccia sul petto.
-Ce ne occupiamo noi-, risposi allora io, annoverando nel team di esploratori soltanto me e Galeno.
-Non se ne parla. E’ pericoloso. Se là sotto ci fossero perdite d’acqua rimarreste fulminati prima ancora di toccare terra con l’alluce-.
Il tono di Fobos era perentorio e la sua mano, nascondendosi alla vista altrui, era schizzata attorno al mio polso stringendolo in una morsa invincibile, a mo’ di tagliola.
-E chi dovrebbe scendere se non un team di Biotecnici?  -, lo rimproverai, gettandogli un’occhiataccia torva. Lui me la rimandò, più malevola di quanto mi aspettassi, e solo dopo, sbuffando, accettò di ascoltare le nostre ragioni.
Galeno pregò Fobos di attivare nuovamente il suo display e di proiettare la cartina della Sede Governativa. Sotto al piano su cui ci trovavamo c’era, infatti, una sorta di città sotterranea, una centrale geotermica immensa, in grado di alimentare gli otto generatori che gestivano l’illuminazione e la sicurezza di tutto il perimetro del Vallum.
-Come potete vedere questo impianto è a ciclo binario. Questi sono i condotti che trasportano l’acqua bollente e questi quelli che, invece, conducono isopentano. Ed entrambi confluiscono nello scambiatore di calore. Qui abbiamo il fenomeno dell’evaporazione, e appena dopo… ecco la turbina. Se troviamo la turbina siamo a cavallo. Da qui infatti si dipartono le otto utenze, disposte a stella e tutte e otto indipendenti fra loro. Basterà seguire quella in direzione Nord, per raggiungere il nostro generatore e disattivarlo. Credo che l’intera centrale sia in fase di stallo, ogni sua parte risulterà spenta. Quindi, la mia ipotesi è che l’elettricità sia stata reintegrata tramite un generatore di emergenza a nafta collegato a un commutatore a sua volta allacciato al quadro elettrico-.
Guardai Galeno assorta, sorprendendomi nel capire esattamente ciò che stava dicendo.
- Vuoi dire che qualcuno è sceso là sotto con un generatore portatile e che nessuno lo ha visto?-.
-Esattamente-, commentò Galeno, mentre i suoi occhi mangiavano euforici l’oscurità progressiva della botola.
-Quindi potreste trovare delle persone là sotto, o qualcosa pronto a esplodere-.
Era stato Fobos a parlare, gli occhi trasformati in fessure e uno sguardo truce.
-Forse è il caso che venga anche io là sotto-, aggiunse Deimos, osservandoci perplesso. Non sapeva esattamente cosa fosse accaduto e questo stava minando la sua capacità di gestire la situazione.
-No, non penso che sia il caso. Basteremo io e Astreya là sotto. Ricordiamoci che i Biotecnici non sono solo scienziati, ma anche soldati-.
Lo sguardo di Galeno non era più timoroso, ma acceso dalla determinazione. Amava gli enigmi e non vedeva l’ora di intrufolarsi in quel buco nero ai suoi piedi.
-Molto bene, allora-, si arrese Deimos, scrutando con i suoi occhi verdi il volto contratto di Fobos. – Prendete le torce e gli strumenti necessari prima di scendere-.
Io e Galeno annuimmo, spostandoci verso le camionette parcheggiate nelle viuzze.
-Bene, Galeno. Vi daremo tempo due ore, dopodiché vi verremo a cercare. Dubito che da là sotto potrete comunicare con noi, perciò fate molta attenzione-.
Le parole di Deimos erano razionali e cautelative, ma la sfumatura di preoccupazione della sua voce non passò inosservata a nessuno di noi due. Ad ogni modo non potevamo deconcentrarci iniziando a pensare a quali trabocchetti avrebbero potuto attenderci in quella bocca di lupo. Dovevamo semplicemente svolgere il nostro dovere, pronti a tutto, anche a morire. Mi caricai uno zaino rigido sulle spalle a cui legai le katane, e indossai attorno alle cosce una cinghia di aghi velenosi, utilissimi in situazioni come quelle. Infine infilai il guanto torcia e lo accesi, testandone la luminosità. Il cerchio disegnato al centro del palmo si illuminò di una luce azzurrognola che pulsava lenta. Perlomeno funzionava. Strinsi la mano un paio di volte e quella lucciola artificiale si spense del tutto.
-Sono pronta-, urlai a Galeno, immerso nel retro di un carro poco distante da me. Feci, quindi, per voltarmi e dirigermi verso la botola, ma andai a sbattere contro il torace di Fobos, fermo e immobile alle mie spalle.
Abbassò appena gli occhi per osservarvi con un’espressione rannuvolata, poi mi disse: - Non dovresti fare l’eroe. Ce ne sono già abbastanza sulle pire-.
-Fobos, che ti prende? Hai paura? -.
Il pomo d’Adamo di Fobos collassò un istante, deglutendo a vuoto.
-Io non ho paura. Solo credo che ti farai ammazzare alla prima occasione-, sputò fuori, appoggiandosi a braccia conserte contro la fredda pelle della camionetta. Lo guardai di sottecchi cercando di capire cosa volesse comunicarmi. Forse era il suo modo per proteggermi e tenermi al sicuro? O forse semplicemente non gli andava che una donna potesse avere tutto quel potere in una missione?
Sbuffai e feci per andarmene, ma Fobos allungò una mano e mi trattenne. Il suo sguardo era del tutto diverso dal solito: era serio e non c’era ombra di sarcasmo nella sua voce quando parlò.
-Metterò da parte il mio orgoglio questa volta. Se vuoi che scenda laggiù con te, basta che tu me lo chieda. Passerò il comando della missione a Deimos se si renderà necessario-.
Lo guardai dritto negli occhi, colta di sorpresa. Non sapevo cosa dire, né se accettare la proposta. Razionalmente era meglio se uno dei due capi spedizione fosse rimasto lì fuori, per disporre la difesa del Vallum, ma al contempo non ero più convinta di voler scendere da sola, improvvisamente consapevole di essermi messa in pericolo.
-Starò bene-, dissi alla fine, sorridendo appena e voltandogli le spalle prima di poter cambiare idea.
Tornai in tutta fretta alla botola e con passo malfermo, assicuratami che Galeno fosse alle mie spalle, scesi un piolo dopo l’altro, attenta a che gli anfibi non sdrucciolassero su di essi.
Scendemmo per un tempo che mi parve infinito, ma alla fine, torce alla mano, giungemmo in quello che sembrava in tutto e per tutto un luna park abbandonato. C’erano relitti di macchine ovunque, un calore insopportabile e un quantitativo di passaggi e cavalcavia allucinanti. Trattenni il respiro qualche istante, abbracciando con lo sguardo quel panorama desolato e a me sconosciuto.
Galeno appoggiò a terra il suo zaino e, toltosi la canottiera, la posizionò al suo interno.
-Fa caldo qui-, ammise, strofinandosi la fronte con la mano. – Dobbiamo sbrigarci o i nostri livelli vitali scenderanno sotto ai piedi. Questo ci porterebbe in breve alla disidratazione-.
Annuii e rapidamente mi misi davanti a lui, puntando la torcia verso il buio. Di fronte a noi c’erano numerose impalcature che si inerpicavano verso il centro dell’impianto, al livello appena superiore.
-Forse se saliamo su quella piattaforma, avremo più fortuna-, dissi.
Galeno non obiettò e ci arrampicammo sul nuovo piano, dove l’aria sapeva meno di zolfo.
Lì sopra avevamo una panoramica perfetta di tutto l’assieme e il lay out dell’impianto si rivelò essere più semplice di quanto previsto. Avanzammo spediti, secondo il piano di Galeno, finchè non individuammo il generatore estraneo. Era un piccolo robot rettangolare abbandonato su un carrellino con le ruote divergenti
-Ci impiegherò solo un attimo-, disse Galeno, avvicinandosi cauto. Riuscii a fermarlo prima che mettesse un piede in una enorme pozza acquosa lì accanto. Il generatore di emergenza ne era completamente immerso.
-Dannazione! Questa è davvero una trappola mortale-, sospiro Galeno, osservandomi annusare l’aria.
-E’ molto peggio-, dissi. - Questo è carburante-.
Galeno strabuzzò gli occhi. Sapevamo entrambi che il petrolio era un bene di lusso, custodito e centellinato dalla casta politica ormai da secoli. Ne rimaneva davvero poco sulla Terra e ormai veniva utilizzato solo quando l’idrogeno, l’elettricità o qualsiasi altra forma di energia più sostenibile non era disponibile. Non tutti i normali cittadini, quindi, potevano permettersi di sprecarlo per farci rischiare la morte.
-Sempre più misteriosa la questione-, mormorò Galeno, notando un paio di fili scoperti sul pelo del combustibile. –Hanno persino rischiato il malfunzionamento del macchinario per aumentare le probabilità di farci saltare in aria-.
Il suo tono mesto mi fece capire che non aveva ancora elaborato un piano B per la disattivazione dell’oggetto.
-Ho idea che prenderà fuoco in breve tempo. Guarda quei fili, sono pericolosamente vicini al pelo libero del liquido. Forse conviene tornare indietro ed evacuare tutta la zona prima che accada l’inevitabile-.
Aveva ragione, ma se avessimo abbandonato il proposito e fosse davvero divampato un incendio là sotto sarebbe stato un completo disastro. Eravamo incastrati all’interno di una ragnatela di torrentelli di benzina, a un soffio dalla morte, e io non facevo altro che pensare che qualcuno stava tramando alle nostre spalle, qualcuno di molto furbo e bravo a nascondersi. Non volevo che un simile individuo l’avesse vinta così facilmente, per cui iniziai a pensare velocemente a una alternativa.
-Se dovessi anche solo increspare la superficie del liquido, quei cavi sarebbero l’ultima cosa che vedremmo-, mormorai, perplessa. –Però non vedo altra soluzione-.
Galeno mi scrutò interdetto, controllando l’orario sul suo tecnologico orologio da polso. Mancava davvero poco prima che altri uomini, ignari del pericolo, venissero a cercarci.
-Galeno, lei deve uscire da qui. Posso provare a raggiungere il generatore isolando con uno scudo i cavi dal suolo, ma non ho mai provato a proiettare esteriormente la mia bioenergia ed è da quando siamo partiti che non mi sottopongo alla Cura.  Perciò devo essere certa che a rischiare la vita sia solo io-.
Galeno spalancò la bocca in una grande o. – Non posso lasciare il capo missione qua sotto. E’ contro il mio codice etico-.
-E’ un ordine-, ringhiai, prima di dargli il mio zaino e le mie armi. Gli lasciai tutto ciò che avrebbe potuto appesantirmi e deconcentrarmi, poi lo congedai. Galeno si oppose fino alla fine, ma di fronte alla prospettiva di un’esplosione senza pari, proveniente per di più dalle profondità della Terra, era lampante la necessità di avere un messo che portasse la notizia in superficie. Non lasciare lì sotto me, che avevo maggiori possibilità di riuscire, sarebbe stato un insulto all’intelligenza umana. Perciò alla fine il Biotecnico fece retromarcia, caricato anche delle mie attrezzature.
Rimasi sola con il mio mostro come unica compagnia. Mi affidai a lui, certa che sarebbe stato in grado di conferirmi la forza che io, di mio, non avevo; mi concentrai sui fili scoperti e il pelo dell’acqua, cercando di colmare con la mia energia il sottile foglio di aria fra di loro. Cominciai a sudare, mentre il caldo della sala macchine mi invadeva le narici e mi faceva prudere la nuca. Non dovevo perdere il controllo, o avrei fallito ancora prima di cominciare. Avanzai titubante verso la pozza di benzina infilandovi dapprima la punta e poi tutta la scarpa. Inspirai ed espirai piano, concentrandomi sulla lama di energia che divideva non solo i cavi dal liquido, ma anche me dalla morte. Posizionai il secondo piede, mentre il mio mostro si aggrappava con forza a me, incollandosi alla mia colonna vertebrale come un parassita affamato. Lo sentii invadermi la mente e rafforzare le mie capacità. Lo scudo di energia si fece più forte: ero in grado di vedere le particelle distorte e l’elettricità scoppiettargli attorno in mille bolle di energia. Riuscii ad avanzare di qualche passo, stringendo i denti, mentre il sudore mi scivolava ghiacciato lungo la schiena, inzuppandomi la divisa. Il caldo stava diventando insopportabile e sentivo il sangue pulsare nelle tempie: stavo usufruendo degli ultimi minuti di energia rimastami, poi sarei crollata e, infine, se nessuno mi avesse trovata e mi avesse iniettato la Cura, sarei morta. Era la dura conseguenza di essere una Polivalente. Potevo sfruttare i poteri di tutte le tipologie di Custodi, ma non potevo farlo senza uno scotto da pagare. E il conto mi veniva presentato così, con la morte per sovraeccitazione nervosa.  Giunsi con la vista annebbiata fino al generatore. Lo vedevo ondeggiare davanti a me. Allungai una mano, mentre il mostro mi stringeva i denti intorno alla giugulare per regalarmi l’ultimo guizzo di vita prima dell’incoscienza. Premetti il pulsante e, con mia grande gioia, vidi le spie del generatore spegnersi e quelle del quadro elettrico opacizzarsi altrettanto velocemente.
Il sollievo fu talmente enorme da farmi mancare la presa sul terreno e cadere con le ginocchia nella benzina. Le mani erano immerse in quel bitume odoroso, e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. Dovevo uscire di lì in fretta. Mi sollevai a fatica, barcollando e reggendomi alla balaustra che dava sul centro della Terra. Ripercorsi a rilento la strada che avevo imboccato insieme a Galeno, fino a quando nell’oscurità non vidi qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Stropicciai gli occhi, piegata a metà sul corrimano: a qualche metro da me c’era una lucina rossa, simile alla brace delle sigarette o alla fiammella di un accendino. La vidi galleggiare dall’altro lato del camminamento, dispersa nell’oscurità come un occhio di fuoco.
C’era qualcuno là sotto con me, era evidente. Cercai di rimanere calma ed estrassi uno degli aghi dal suo supporto. Avanzai ulteriormente senza mai smettere di mirare alla luce che filtrava tenue a metri e metri di distanza sopra la mia testa. Tenni sotto controllo quel lumino, finchè non lo vidi lentamente scivolare a terra, accompagnato da una risata sinistra. Istintivamente cominciai a correre, spingendo i miei polmoni allo spasmo e facendo scricchiolare le articolazioni. Corsi più veloce che potei, ma senza che me ne rendessi conto il fuoco era già divampato alle mie spalle e il fumo mi stava raggiungendo, seguito a ruota dall’esplosione e dai frammenti di acciaio. Mi lanciai giù dalla scala, senza nemmeno pensarci mentre le fiamme mi lambivano un fianco facendomi gridare.
-Corri, animaletto! -, sentii esclamare a una voce maschile, poi atterrai sulle caviglie. Sentii una scossa di calore irradiarsi da quella di destra e dovetti spingere tutto il peso sull’altra per riuscire nuovamente a correre. Sentivo dolori ovunque e cominciavo a domandarmi se ce l’avrei fatta. Dai brucianti anfratti dell’impianto udii nuovamente una risata malvagia, poi la voce dell’assalitore venne risucchiata dalle fiamme: probabilmente quell’uomo aveva sacrificato se stesso per uccidermi. Ignorai il senso di angoscia che lentamente affiorava insieme alla paura e all’istinto di sopravvivenza, e mi augurai che Galeno fosse riuscito a convincere Fobos a evacuare la zona. Mi voltai solo una volta per vedere quanto grave fosse la situazione, e mi accorsi che ormai le strutture di acciaio erano avvolte dalle fiamme e che scoppiettavano pronte a collassare. Se non mi fossi sbrigata, sarei rimasta là sotto per l’eternità.
Perciò quando raggiunsi la scala, mi parve di sprofondare in un incubo. Era lì a pochi centimetri dalle mie dita, ma ormai non avevo più energie e il corpo mi stava abbandonando. Cominciai a sperare nel miracolo e un po’ persino negli Dei, certa che altrimenti sarei finita come un topo in trappola.
Presi a tossire con violenza, mentre gli anfibi scivolavano sui primi pioli della scala, costringendomi a indietreggiare ad ogni singolo disperato tentativo. Il fumo cominciò a penetrarmi nel naso con insistenza e in breve mi accorsi che stavo per svenire. Da quell’istante in poi, la mia mente iniziò a vacillare: ricordo ben poco di quello che successe di lì a poco. Vidi delle braccia prendermi da sotto le ascelle e il volto di Fobos tra le volute di fumo che serpeggiavano fuori dalla botola.
-Dovete scappare. Attentato… fuoco-, mugugnai, mentre l’Ibrido richiudeva la botola con un calcio e mi caricava in spalla.
-L’ho detto che sei un’idiota-, mugugnò cominciando a correre in direzione dell’unico veicolo rimasto. La mia moto. Montammo rapidamente, poi Fobos accelerò e fece sgommare la ruota posteriore. Tutto attorno a noi echeggiava il tetro rimbombo dell’inferno che avvampava sotto i nostri piedi, ma la città da quello che potevo vedere era stata evacuata, almeno nella zona limitrofa.
Grazie agli Dei non erano molti quelli abitavano a ridosso del Vallum.
Mi addormentai sulla spalla di Fobos con ancora davanti agli occhi l’immagine di quell’accendino e nelle orecchie la risata di quell’uomo. Era lì per noi, per ucciderci nel qual caso non ci fosse riuscito il generatore di emergenza. Qualcuno sapeva di non doverci sottovalutare e aveva dei piani di riserva. Sicuramente non sarebbe stato l’ultimo attacco che avremmo subito.

 

 

Quando mi svegliai sentii il calore di un corpo accanto al mio. Era una sensazione strana, nuova e accogliente. Inizialmente pensai a mia madre, al suo profumo e alla sua pelle chiara, a quel ricordo ancestrale e primitivo che, nonostante il dolore e la delusione, mi faceva sempre tornare a lei. Schiusi gli occhi e l’immagine di una stanza austera mi comparve di fronte agli occhi. Cercai, quindi, di voltarmi, ancora in quello stato di dormiveglia che non mi faceva rendere conto con lucidità di ciò che mi stava accadendo. Non ci riuscii perché qualcosa premeva contro il mio stomaco e mi teneva bloccata in quella posizione. Sentivo della seta scorrermi sul viso, come la carezza della Dea Hera. Che fossi morta nella sonno e me ne stessi fra le braccia di una creatura divina? Derisi mentalmente quella mia stupida deduzione e imposi al mio corpo di svegliarsi del tutto. Sbadigliai, mi stropicciai gli occhi e infine lo vidi. Quelli che avevo scambiato per seta, in realtà, erano lunghi capelli corvini, lisci e sparsi su di me come un’esplosione di inchiostro. Quello che avevo percepito come un abbraccio celestiale era, invece, il braccio di un uomo giovane, ricoperto di piccole cicatrici bianche e di ferite appena rimarginate. Il cuore cominciò a battermi nel petto alla velocità della luce, mentre il mio cervello collegava gli indizi a uno a uno.  Non poteva essere. Eppure quel calore e quel soffio leggero sulla mia nuca erano prove inconfutabili della presenza di un uomo nel mio letto. Arrossii violentemente, forse per la situazione in sé, forse perché avevo appena capito chi fosse la creatura che dormiva abbracciata a me. Lentamente allentai la sua presa, forzando leggermente il suo abbraccio, e mi sollevai appena sui gomiti, per guardarlo. Lui se ne stava lì, assopito, con gli occhi chiusi e il viso addolcito dal sonno. Non sembrava così minaccioso mentre dormiva, anzi, assomigliava a ciò che avrebbe dovuto essere: un semplice giovane uomo, affascinante e accogliente.  Indossava dei jeans stinti e una felpa nera, mentre dell’uniforme non c’era più traccia. Guardai il suo braccio magro appoggiato sul mio grembo e, quando mi resi conto di indossare abiti che non erano i miei, per poco non urlai: qualcuno doveva avermi lavata e cambiata perché anche l’odore della benzina se ne era andato. Mi morsi in tempo le labbra e ammutolii il mio istinto di fuggire dall’imbarazzo. Scelsi, invece, di concentrarmi su altro, come ad esempio, il rassicurante colore bianco dell’aura di Fobos. Sembrava stesse sognando qualcosa perché talvolta sfumava in un colore rosato insolito e in netto contrasto con l’oscuro fascino che solitamente emanava. Aveva le lebbra tese nella sua solita espressione seria, ma la fronte distesa gli conferiva un’aria più giovane e sognante, quasi normale a dire il vero. Un sorriso mi increspò le labbra, mentre con le dita iniziai a sciogliergli i nodi nei capelli. Erano morbidi e setosi, un vero piacere da accarezzare, per cui non fu una sorpresa scoprire che la mia mano, di sua volontà, era risalita lungo i suoi crini per giungere vicino al volto. Avevo un’occasione unica e che probabilmente non mi sarebbe mai più capitata, perciò non ci pensai due volte e allungai un polpastrello a sfiorargli gli zigomi magri. Tuttavia, non appena il mio tocco lo raggiunse, i suoi occhi si spalancarono e la sua mano mi attanagliò con violenza il polso, allontanandomi dal suo viso. Si tirò su con uno scatto nervoso, come fosse appena stato attaccato.
-Scusami, non… non volevo svegliarti-, dissi. Fobos sollevò gli occhi al cielo e si lasciò nuovamente scivolare sul cuscino, i capelli scompigliati attorno a lui come i raggi di un sole nero.
-Perché lo hai fatto allora? -, borbottò, mentre si schermava il viso dalla luce che filtrava attraverso il vetro. Dovevano essere circa le sei e in quel posto regnava ancora il silenzio della notte.
Mi sedetti accanto a lui a gambe incrociate, afferrai un cuscino di forma ovale e lo stritolai come fosse un orsacchiotto. Era un ottimo antistress mattutino ed era un’abitudine che avevo conservato sin da quando ero una bambina sola fra i vicoli che rendevano Carthagyos un posto poco raccomandabile.  Ripensai a quegli anni e a come fossi cambiata da allora, a come anche il resto del mondo fosse cambiato senza che me ne fossi mai resa conto del tutto. Era facile perdersi nella malinconia di quelle mattinate grigie, ma quel giorno avevo al mio fianco Fobos. E Fobos mi stava osservando fra le ciglia scure, rendendomi impossibile formulare qualsiasi tipo di pensiero.
-Che hai? -, domandò con la stessa noncuranza che ostentava da quando lo conoscevo.
-Mi domandavo dove siamo e perché condividiamo lo stesso letto…-, buttai lì, stringendo ancora più forte il cuscino. Lo stavo praticamente arpionando, le unghie conficcate nella stoffa e la gommapiuma che tentava di esplodermi in faccia. Lo sguardo di Fobos seguì la tensione nei miei muscoli e si accorse delle torture che stavo infliggendo al povero oggetto inanimato. Sorrise, e si allungò verso di me, con lo stesso sguardo con cui la prima volta mi aveva baciata. Arrossii ancora di più, incerta se volessi scappare o meno. Ma lui, con il suo sorriso tra il sadico e il dolce, non prese nemmeno in considerazione la possibilità di farmi fuggire. Mi tolse dagli artigli il cuscino e lo gettò contrò il muro, poi mi circondò con le braccia, stringendomi con la stessa intensità con la quale io avevo stretto a me il guanciale. Rimasi un attimo interdetta, gli occhi spalancati e le braccia sollevate a mezz’aria.
-Non farmi mai più uno scherzo del genere. Se non fossi tornato a prenderti, saresti morta-.
-Grazie per avermi salvata-, mormorai, ancora più sorpresa, mentre la mano del ragazzo mi scorreva fra i capelli e lungo la schiena in un turbinio di spirali. Il tutto durò solo pochi secondi e al termine di quel breve lasso di tempo Fobos si staccò da me di scatto come avesse ricevuto una scossa. Il sole gli illuminava gli occhi di una sfumatura colore del miele che risplendeva come oro in un mare tenebroso.
-Dove siamo? -, gli chiesi, ricordandomi improvvisamente di tutta la catena di eventi del giorno prima. La stanza e il letto in cui ci trovavamo erano estranei, così come il panorama fuori dalla finestra.
-Dai Gyps-, sorrise lui.

   
 
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