Arrivammo
in vista del Vallum la sera tardi. Il sole stava declinando dietro il
profilo
della città facendo rilucere gli edifici di un color grigio
spento. C’erano
case ovunque, arroccate sulle montagne brune e direttamente a ridosso
della cinta
muraria. Erano fatte di pietra e ricoperte da un sottile strato di
sabbia
rossa. Non sembravano edifici moderni, ma le antiche vestigia di una
civiltà
anteriore. Ci spostammo rapidi per le viuzze, mentre gli abitanti del
posto ci
scrutavano curiosi, ma timidi da finestre e crocicchi.
-Non
sono abituati a vedere così tanti soldati-,
mormorò Deimos, giungendo a piedi
accanto alla mia moto. Tolsi il casco e sciolsi i capelli, assaporando
la sensazione
del fresco della notte sulla pelle bollente. Era pieno inverno, eppure,
lassù a
Nord, di fronte al Vallum, faceva un caldo incredibile.
-
Meglio che capiscano chi comanda-, rispose un uomo sulla quarantina con
dei
corti capelli ricci e due occhiaie blu livide. – Io sono il
Generale Achileos,
piacere di conoscerla, Astreya-, disse poi, allungando una mano e
posandosela
sul petto. Annuii distrattamente mentre i miei occhi si spostavano
sull’enorme
breccia di fronte a noi. Era una sorta di gigantesca crepa in cui il
vento
ululava e dove le correnti di aria creavano mulinelli e risucchi.
C’erano delle
guardiole di fortuna posizionate ai lati della feritoia e alcuni uomini
in
divisa che le presidiavano. Dovevano essere membri del Reggimento del
Sole a giudicare
dal colorito nauseato dei loro volti e dalle occhiate impaurite che ci
lanciavano.
-Sarà
uno spasso-.
Fobos
mi passò accanto con la katana appoggiata alla spalla
destra. Sorrideva
divertito e, in fretta, si stava dirigendo verso i militari.
Parcheggiai la
moto a lato della strada, accanto a quella di Galeno. Poi a passo
svelto
raggiunsi l’Ibrido.
-
Sentite, sgomberate in fretta. Da adesso prendiamo noi il comando-, lo
sentii
dire serio. Mai avrei pensato che quei soldati avrebbero ceduto
così facilmente
e, invece, qualche insistenza più tardi, si stavano
già ritirando all’interno
della cupola, in una galleria esplosa di cavi elettrici e spie spente.
-Hanno
fatto un bel danno-, mormorai, scostando un cavo con il gomito.
- E’ vero.
Non ho mai visto un’esplosione di
queste proporzioni-, ammise Galeno, comparso dal nulla al mio fianco.
Studiava
estasiato il disastro che lo circondava, attento a non calpestare i
detriti e i
piccoli frammenti di cavi che si trovavano nascosti sulla
pavimentazione mezzo
annerita.
-
E’ evidente che i Mauriani li abbiano appoggiati. Questo
genere di armi non può
essere venduto a normali cittadini-, commentò perplesso
Fobos, mentre la placca
metallica che aveva sul braccio si accendeva rivelando un display.
Glielo vidi
maneggiare con un paio di tocchi e poi sulla patina lucida dello
schermo
comparve una carta geografica. Con una piccola x rossa erano segnati
due
luoghi. Mi avvicinai all’Ibrido, raccogliendo i capelli da un
lato e osservando
con lui quei segni. Le mete destinate erano il Deserto del profondo Sud
e il
Vallum stesso.
-
C’è parecchia strada da fare per raggiungere il
Deserto, da qui. E a ben
vedere, questa gente non mi sembra affatto in grado di sostenere un
simile
viaggio. Inoltre le strade che portano da qui a quell’inferno
di sabbia, sono
battute dai Gyps. Non credo che questi poveracci abbiano abbastanza
denaro per
convincere quegli accaparratori a farli passare-.
Fobos
era acuto come al solito. Io quelle considerazioni le avevo sentite da
Iatro,
un uomo fatto e finito con una lunga carriera alle spalle e un cervello
decisamente
brillante, non da un giovane ancora nel pieno dei suoi
vent’anni. Capii subito
perché era riuscito a diventare Generale prima dei trenta:
il suo era un
ragionare meticoloso e scrupoloso, oltre che raffinato come un setaccio
per la
farina.
-Bisognerebbe
interrogare i cittadini, per sapere qualcosa. Con metodi meno ortodossi
sono
certo che canterebbero come merli-, commentò Achileos,
già pregustandosi la
scena. Tuttavia, dovetti bloccare questo suo famelico desiderio sul
nascere.
-Non
siamo qui per torturare delle persone innocenti, fino a prova
contraria. Siamo
qui per proteggere il Vallum. A meno che non ci giungano ordini diversi
da
Carthagyos, noi qui ci limiteremo a condurre la missione secondo le
linee
generali prestabilite-.
Deimos
e Fobos annuirono persuasi, mentre Galeno, immobile, si perdeva tra
quella
marea di fili elettrici che brillavano come fuochi
d’artificio sopra le nostre
teste.
-Scusate
se vi interrompo-, disse poi il Biotecnico –Ma credo che se
non ci sbrighiamo,
questi cavi scoperti potrebbero creare un’esplosione senza
pari-.
Deimos
impallidì e Fobos digrignò i denti.
-L’elettricità
dovrebbe essere stata staccata-, commentò l’Ibrido
avvicinandosi a Galeno e
osservando con lui le fascette che stringevano gli enormi serpentoni di
PVC lì
attorno.
In
effetti sin da quando eravamo arrivati, c’eravamo accorti che
la Cupola era
stata disattivata, probabilmente perché malfunzionante, e
che le luci della
Sede Governativa erano tutte spente. Come poteva essere che, invece,
l’energia scorresse
ancora nei fili della zona colpita? Subito cominciammo a sudare freddo.
Qualcuno ci voleva morti: eravamo entrati in un valico in alta
tensione, su un
pavimento isolante malmesso e una serie di pozzanghere di acqua lurida
che
sobbollivano sotto le nostre suole riscaldate dal cocente tramonto
infuocato.
-Questa
è una dichiarazione di guerra in pieno ordine-,
esclamò Fobos, mentre il suo
viso si contorceva in una smorfia di disgusto e i suoi occhi spiavano i
volti
terrei della gente che ci stava spiando dalle finestre.
-
Ci deve essere attivo un generatore di emergenza da qualche parte-.
Galeno
aveva cominciato a spostare alcuni detriti accatastati a terra con fin
troppa
cura. Mi avvicinai per dargli una mano, afferrando lamiere e rifiuti
metallici,
ma Fobos mi scansò con un gesto brusco e si
accovacciò accanto a Galeno,
sollevando tre volte il peso che il Biotecnico cavava fuori di volta in
volta.
-Forza,
sbrighiamoci! -.
Scavarono
sotto le rovine ininterrottamente, imprecando contro le sentinelle che
non
avevano nemmeno notato di avere una bomba sotto ai piedi. Come potevano
non
essersi accorte che qualcuno ero sgattaiolato alle loro spalle,
passando
proprio sotto il loro naso?
Sotto
quelle carcasse di alluminio, titanio e ghisa trovammo una botola. Era
rettangolare e larga a sufficienza per far passare un uomo di media
corporatura. Deimos sollevò lo sportello, e noi tutti ci
sporgemmo per vedere
cosa ci aspettava là sotto. Di fronte a noi c’era
un enorme buco nero, con una
scaletta metallica a pioli che sprofondava nel buio, verso il centro
della Terra.
-Io
là sotto non ci vado-, mormorò Fobos, sollevando
un sopracciglio e incrociando
le braccia sul petto.
-Ce
ne occupiamo noi-, risposi allora io, annoverando nel team di
esploratori
soltanto me e Galeno.
-Non
se ne parla. E’ pericoloso. Se là sotto ci fossero
perdite d’acqua rimarreste
fulminati prima ancora di toccare terra con l’alluce-.
Il
tono di Fobos era perentorio e la sua mano, nascondendosi alla vista
altrui,
era schizzata attorno al mio polso stringendolo in una morsa
invincibile, a mo’
di tagliola.
-E
chi dovrebbe scendere se non un team di Biotecnici?
-, lo rimproverai, gettandogli
un’occhiataccia torva. Lui me la rimandò,
più malevola di quanto mi aspettassi,
e solo dopo, sbuffando, accettò di ascoltare le nostre
ragioni.
Galeno
pregò Fobos di attivare nuovamente il suo display e di
proiettare la cartina
della Sede Governativa. Sotto al piano su cui ci trovavamo
c’era, infatti, una
sorta di città sotterranea, una centrale geotermica immensa,
in grado di
alimentare gli otto generatori che gestivano l’illuminazione
e la sicurezza di
tutto il perimetro del Vallum.
-Come
potete vedere questo impianto è a ciclo binario. Questi sono
i condotti che
trasportano l’acqua bollente e questi quelli che, invece,
conducono isopentano.
Ed entrambi confluiscono nello scambiatore di calore. Qui abbiamo il
fenomeno
dell’evaporazione, e appena dopo… ecco la turbina.
Se troviamo la turbina siamo
a cavallo. Da qui infatti si dipartono le otto utenze, disposte a
stella e
tutte e otto indipendenti fra loro. Basterà seguire quella
in direzione Nord,
per raggiungere il nostro generatore e disattivarlo. Credo che
l’intera
centrale sia in fase di stallo, ogni sua parte risulterà
spenta. Quindi, la mia
ipotesi è che l’elettricità sia stata
reintegrata tramite un generatore di
emergenza a nafta collegato a un commutatore a sua volta allacciato al
quadro
elettrico-.
Guardai
Galeno assorta, sorprendendomi nel capire esattamente ciò
che stava dicendo.
-
Vuoi dire che qualcuno è sceso là sotto con un
generatore portatile e che
nessuno lo ha visto?-.
-Esattamente-,
commentò Galeno, mentre i suoi occhi mangiavano euforici
l’oscurità progressiva
della botola.
-Quindi
potreste trovare delle persone là sotto, o qualcosa pronto a
esplodere-.
Era
stato Fobos a parlare, gli occhi trasformati in fessure e uno sguardo
truce.
-Forse
è il caso che venga anche io là sotto-, aggiunse
Deimos, osservandoci
perplesso. Non sapeva esattamente cosa fosse accaduto e questo stava
minando la
sua capacità di gestire la situazione.
-No,
non penso che sia il caso. Basteremo io e Astreya là sotto.
Ricordiamoci che i
Biotecnici non sono solo scienziati, ma anche soldati-.
Lo
sguardo di Galeno non era più timoroso, ma acceso dalla
determinazione. Amava
gli enigmi e non vedeva l’ora di intrufolarsi in quel buco
nero ai suoi piedi.
-Molto
bene, allora-, si arrese Deimos, scrutando con i suoi occhi verdi il
volto
contratto di Fobos. – Prendete le torce e gli strumenti
necessari prima di
scendere-.
Io
e Galeno annuimmo, spostandoci verso le camionette parcheggiate nelle
viuzze.
-Bene,
Galeno. Vi daremo tempo due ore, dopodiché vi verremo a
cercare. Dubito che da
là sotto potrete comunicare con noi, perciò fate
molta attenzione-.
Le
parole di Deimos erano razionali e cautelative, ma la sfumatura di
preoccupazione della sua voce non passò inosservata a
nessuno di noi due. Ad
ogni modo non potevamo deconcentrarci iniziando a pensare a quali
trabocchetti
avrebbero potuto attenderci in quella bocca di lupo. Dovevamo
semplicemente
svolgere il nostro dovere, pronti a tutto, anche a morire. Mi caricai
uno zaino
rigido sulle spalle a cui legai le katane, e indossai attorno alle
cosce una
cinghia di aghi velenosi, utilissimi in situazioni come quelle. Infine
infilai
il guanto torcia e lo accesi, testandone la luminosità. Il
cerchio disegnato al
centro del palmo si illuminò di una luce azzurrognola che
pulsava lenta.
Perlomeno funzionava. Strinsi la mano un paio di volte e quella
lucciola
artificiale si spense del tutto.
-Sono
pronta-, urlai a Galeno, immerso nel retro di un carro poco distante da
me. Feci,
quindi, per voltarmi e dirigermi verso la botola, ma andai a sbattere
contro il
torace di Fobos, fermo e immobile alle mie spalle.
Abbassò
appena gli occhi per osservarvi con un’espressione
rannuvolata, poi mi disse: -
Non dovresti fare l’eroe. Ce ne sono già
abbastanza sulle pire-.
-Fobos,
che ti prende? Hai paura? -.
Il
pomo d’Adamo di Fobos collassò un istante,
deglutendo a vuoto.
-Io
non ho paura. Solo credo che ti farai ammazzare alla prima occasione-,
sputò
fuori, appoggiandosi a braccia conserte contro la fredda pelle della
camionetta. Lo guardai di sottecchi cercando di capire cosa volesse
comunicarmi. Forse era il suo modo per proteggermi e tenermi al sicuro?
O forse
semplicemente non gli andava che una donna potesse avere tutto quel
potere in
una missione?
Sbuffai
e feci per andarmene, ma Fobos allungò una mano e mi
trattenne. Il suo sguardo
era del tutto diverso dal solito: era serio e non c’era ombra
di sarcasmo nella
sua voce quando parlò.
-Metterò
da parte il mio orgoglio questa volta. Se vuoi che scenda
laggiù con te, basta
che tu me lo chieda. Passerò il comando della missione a
Deimos se si renderà
necessario-.
Lo
guardai dritto negli occhi, colta di sorpresa. Non sapevo cosa dire,
né se
accettare la proposta. Razionalmente era meglio se uno dei due capi
spedizione
fosse rimasto lì fuori, per disporre la difesa del Vallum,
ma al contempo non
ero più convinta di voler scendere da sola, improvvisamente
consapevole di
essermi messa in pericolo.
-Starò
bene-, dissi alla fine, sorridendo appena e voltandogli le spalle prima
di
poter cambiare idea.
Tornai
in tutta fretta alla botola e con passo malfermo, assicuratami che
Galeno fosse
alle mie spalle, scesi un piolo dopo l’altro, attenta a che
gli anfibi non
sdrucciolassero su di essi.
Scendemmo
per un tempo che mi parve infinito, ma alla fine, torce alla mano,
giungemmo in
quello che sembrava in tutto e per tutto un luna park abbandonato.
C’erano
relitti di macchine ovunque, un calore insopportabile e un quantitativo
di
passaggi e cavalcavia allucinanti. Trattenni il respiro qualche
istante,
abbracciando con lo sguardo quel panorama desolato e a me sconosciuto.
Galeno
appoggiò a terra il suo zaino e, toltosi la canottiera, la
posizionò al suo
interno.
-Fa
caldo qui-, ammise, strofinandosi la fronte con la mano. –
Dobbiamo sbrigarci o
i nostri livelli vitali scenderanno sotto ai piedi. Questo ci
porterebbe in
breve alla disidratazione-.
Annuii
e rapidamente mi misi davanti a lui, puntando la torcia verso il buio.
Di
fronte a noi c’erano numerose impalcature che si inerpicavano
verso il centro
dell’impianto, al livello appena superiore.
-Forse
se saliamo su quella piattaforma, avremo più fortuna-, dissi.
Galeno
non obiettò e ci arrampicammo sul nuovo piano, dove
l’aria sapeva meno di
zolfo.
Lì
sopra avevamo una panoramica perfetta di tutto l’assieme e il
lay out
dell’impianto si rivelò essere più
semplice di quanto previsto. Avanzammo
spediti, secondo il piano di Galeno, finchè non individuammo
il generatore
estraneo. Era un piccolo robot rettangolare abbandonato su un
carrellino con le
ruote divergenti
-Ci
impiegherò solo un attimo-, disse Galeno, avvicinandosi
cauto. Riuscii a fermarlo
prima che mettesse un piede in una enorme pozza acquosa lì
accanto. Il
generatore di emergenza ne era completamente immerso.
-Dannazione!
Questa è davvero una trappola mortale-, sospiro Galeno,
osservandomi annusare
l’aria.
-E’
molto peggio-, dissi. - Questo è carburante-.
Galeno
strabuzzò gli occhi. Sapevamo entrambi che il petrolio era
un bene di lusso,
custodito e centellinato dalla casta politica ormai da secoli. Ne
rimaneva
davvero poco sulla Terra e ormai veniva utilizzato solo quando
l’idrogeno,
l’elettricità o qualsiasi altra forma di energia
più sostenibile non era
disponibile. Non tutti i normali cittadini, quindi, potevano
permettersi di
sprecarlo per farci rischiare la morte.
-Sempre
più misteriosa la questione-, mormorò Galeno,
notando un paio di fili scoperti
sul pelo del combustibile. –Hanno persino rischiato il
malfunzionamento del
macchinario per aumentare le probabilità di farci saltare in
aria-.
Il
suo tono mesto mi fece capire che non aveva ancora elaborato un piano B
per la
disattivazione dell’oggetto.
-Ho
idea che prenderà fuoco in breve tempo. Guarda quei fili,
sono pericolosamente
vicini al pelo libero del liquido. Forse conviene tornare indietro ed
evacuare
tutta la zona prima che accada l’inevitabile-.
Aveva
ragione, ma se avessimo abbandonato il proposito e fosse davvero
divampato un
incendio là sotto sarebbe stato un completo disastro.
Eravamo incastrati
all’interno di una ragnatela di torrentelli di benzina, a un
soffio dalla
morte, e io non facevo altro che pensare che qualcuno stava tramando
alle
nostre spalle, qualcuno di molto furbo e bravo a nascondersi. Non
volevo che un
simile individuo l’avesse vinta così facilmente,
per cui iniziai a pensare
velocemente a una alternativa.
-Se
dovessi anche solo increspare la superficie del liquido, quei cavi
sarebbero
l’ultima cosa che vedremmo-, mormorai, perplessa.
–Però non vedo altra
soluzione-.
Galeno
mi scrutò interdetto, controllando l’orario sul
suo tecnologico orologio da
polso. Mancava davvero poco prima che altri uomini, ignari del
pericolo,
venissero a cercarci.
-Galeno,
lei deve uscire da qui. Posso provare a raggiungere il generatore
isolando con
uno scudo i cavi dal suolo, ma non ho mai provato a proiettare
esteriormente la
mia bioenergia ed è da quando siamo partiti che non mi
sottopongo alla
Cura. Perciò
devo essere certa che a
rischiare la vita sia solo io-.
Galeno
spalancò la bocca in una grande o. – Non posso
lasciare il capo missione qua
sotto. E’ contro il mio codice etico-.
-E’
un ordine-, ringhiai, prima di dargli il mio zaino e le mie armi. Gli
lasciai
tutto ciò che avrebbe potuto appesantirmi e deconcentrarmi,
poi lo congedai.
Galeno si oppose fino alla fine, ma di fronte alla prospettiva di
un’esplosione
senza pari, proveniente per di più dalle
profondità della Terra, era lampante
la necessità di avere un messo che portasse la notizia in
superficie. Non lasciare
lì sotto me, che avevo maggiori possibilità di
riuscire, sarebbe stato un
insulto all’intelligenza umana. Perciò alla fine
il Biotecnico fece
retromarcia, caricato anche delle mie attrezzature.
Rimasi
sola con il mio mostro come unica compagnia. Mi affidai a lui, certa
che
sarebbe stato in grado di conferirmi la forza che io, di mio, non
avevo; mi concentrai
sui fili scoperti e il pelo dell’acqua, cercando di colmare
con la mia energia
il sottile foglio di aria fra di loro. Cominciai a sudare, mentre il
caldo
della sala macchine mi invadeva le narici e mi faceva prudere la nuca.
Non
dovevo perdere il controllo, o avrei fallito ancora prima di
cominciare.
Avanzai titubante verso la pozza di benzina infilandovi dapprima la
punta e poi
tutta la scarpa. Inspirai ed espirai piano, concentrandomi sulla lama
di
energia che divideva non solo i cavi dal liquido, ma anche me dalla
morte.
Posizionai il secondo piede, mentre il mio mostro si aggrappava con
forza a me,
incollandosi alla mia colonna vertebrale come un parassita affamato. Lo
sentii
invadermi la mente e rafforzare le mie capacità. Lo scudo di
energia si fece
più forte: ero in grado di vedere le particelle distorte e
l’elettricità
scoppiettargli attorno in mille bolle di energia. Riuscii ad avanzare
di
qualche passo, stringendo i denti, mentre il sudore mi scivolava
ghiacciato
lungo la schiena, inzuppandomi la divisa. Il caldo stava diventando
insopportabile e sentivo il sangue pulsare nelle tempie: stavo
usufruendo degli
ultimi minuti di energia rimastami, poi sarei crollata e, infine, se
nessuno mi
avesse trovata e mi avesse iniettato la Cura, sarei morta. Era la dura
conseguenza di essere una Polivalente. Potevo sfruttare i poteri di
tutte le
tipologie di Custodi, ma non potevo farlo senza uno scotto da pagare. E
il
conto mi veniva presentato così, con la morte per
sovraeccitazione
nervosa. Giunsi con
la vista annebbiata
fino al generatore. Lo vedevo ondeggiare davanti a me. Allungai una
mano,
mentre il mostro mi stringeva i denti intorno alla giugulare per
regalarmi
l’ultimo guizzo di vita prima dell’incoscienza.
Premetti il pulsante e, con mia
grande gioia, vidi le spie del generatore spegnersi e quelle del quadro
elettrico opacizzarsi altrettanto velocemente.
Il
sollievo fu talmente enorme da farmi mancare la presa sul terreno e
cadere con
le ginocchia nella benzina. Le mani erano immerse in quel bitume
odoroso, e gli
occhi cominciarono a lacrimarmi. Dovevo uscire di lì in
fretta. Mi sollevai a
fatica, barcollando e reggendomi alla balaustra che dava sul centro
della
Terra. Ripercorsi a rilento la strada che avevo imboccato insieme a
Galeno, fino
a quando nell’oscurità non vidi qualcosa che non
avrebbe dovuto esserci.
Stropicciai gli occhi, piegata a metà sul corrimano: a
qualche metro da me
c’era una lucina rossa, simile alla brace delle sigarette o
alla fiammella di
un accendino. La vidi galleggiare dall’altro lato del
camminamento, dispersa
nell’oscurità come un occhio di fuoco.
C’era
qualcuno là sotto con me, era evidente. Cercai di rimanere
calma ed estrassi
uno degli aghi dal suo supporto. Avanzai ulteriormente senza mai
smettere di
mirare alla luce che filtrava tenue a metri e metri di distanza sopra
la mia
testa. Tenni sotto controllo quel lumino, finchè non lo vidi
lentamente
scivolare a terra, accompagnato da una risata sinistra. Istintivamente
cominciai a correre, spingendo i miei polmoni allo spasmo e facendo
scricchiolare le articolazioni. Corsi più veloce che potei,
ma senza che me ne
rendessi conto il fuoco era già divampato alle mie spalle e
il fumo mi stava
raggiungendo, seguito a ruota dall’esplosione e dai frammenti
di acciaio. Mi
lanciai giù dalla scala, senza nemmeno pensarci mentre le
fiamme mi lambivano
un fianco facendomi gridare.
-Corri,
animaletto! -, sentii esclamare a una voce maschile, poi atterrai sulle
caviglie. Sentii una scossa di calore irradiarsi da quella di destra e
dovetti
spingere tutto il peso sull’altra per riuscire nuovamente a
correre. Sentivo
dolori ovunque e cominciavo a domandarmi se ce l’avrei fatta.
Dai brucianti
anfratti dell’impianto udii nuovamente una risata malvagia,
poi la voce
dell’assalitore venne risucchiata dalle fiamme: probabilmente
quell’uomo aveva
sacrificato se stesso per uccidermi. Ignorai il senso di angoscia che
lentamente affiorava insieme alla paura e all’istinto di
sopravvivenza, e mi
augurai che Galeno fosse riuscito a convincere Fobos a evacuare la
zona. Mi
voltai solo una volta per vedere quanto grave fosse la situazione, e mi
accorsi
che ormai le strutture di acciaio erano avvolte dalle fiamme e che
scoppiettavano
pronte a collassare. Se non mi fossi sbrigata, sarei rimasta
là sotto per
l’eternità.
Perciò
quando raggiunsi la scala, mi parve di sprofondare in un incubo. Era
lì a pochi
centimetri dalle mie dita, ma ormai non avevo più energie e
il corpo mi stava
abbandonando. Cominciai a sperare nel miracolo e un po’
persino negli Dei,
certa che altrimenti sarei finita come un topo in trappola.
Presi
a tossire con violenza, mentre gli anfibi scivolavano sui primi pioli
della
scala, costringendomi a indietreggiare ad ogni singolo disperato
tentativo. Il
fumo cominciò a penetrarmi nel naso con insistenza e in
breve mi accorsi che
stavo per svenire. Da quell’istante in poi, la mia mente
iniziò a vacillare: ricordo
ben poco di quello che successe di lì a poco. Vidi delle
braccia prendermi da
sotto le ascelle e il volto di Fobos tra le volute di fumo che
serpeggiavano
fuori dalla botola.
-Dovete
scappare. Attentato… fuoco-, mugugnai, mentre
l’Ibrido richiudeva la botola con
un calcio e mi caricava in spalla.
-L’ho
detto che sei un’idiota-, mugugnò cominciando a
correre in direzione dell’unico
veicolo rimasto. La mia moto. Montammo rapidamente, poi Fobos
accelerò e fece
sgommare la ruota posteriore. Tutto attorno a noi echeggiava il tetro
rimbombo
dell’inferno che avvampava sotto i nostri piedi, ma la
città da quello che
potevo vedere era stata evacuata, almeno nella zona limitrofa.
Grazie
agli Dei non erano molti quelli abitavano a ridosso del Vallum.
Mi
addormentai sulla spalla di Fobos con ancora davanti agli occhi
l’immagine di
quell’accendino e nelle orecchie la risata di
quell’uomo. Era lì per noi, per
ucciderci nel qual caso non ci fosse riuscito il generatore di
emergenza.
Qualcuno sapeva di non doverci sottovalutare e aveva dei piani di
riserva.
Sicuramente non sarebbe stato l’ultimo attacco che avremmo
subito.
Quando
mi svegliai sentii il calore di un corpo accanto al mio. Era una
sensazione
strana, nuova e accogliente. Inizialmente pensai a mia madre, al suo
profumo e
alla sua pelle chiara, a quel ricordo ancestrale e primitivo che,
nonostante il
dolore e la delusione, mi faceva sempre tornare a lei. Schiusi gli
occhi e l’immagine
di una stanza austera mi comparve di fronte agli occhi. Cercai, quindi,
di
voltarmi, ancora in quello stato di dormiveglia che non mi faceva
rendere conto
con lucidità di ciò che mi stava accadendo. Non
ci riuscii perché qualcosa
premeva contro il mio stomaco e mi teneva bloccata in quella posizione.
Sentivo
della seta scorrermi sul viso, come la carezza della Dea Hera. Che
fossi morta
nella sonno e me ne stessi fra le braccia di una creatura divina?
Derisi
mentalmente quella mia stupida deduzione e imposi al mio corpo di
svegliarsi
del tutto. Sbadigliai, mi stropicciai gli occhi e infine lo vidi.
Quelli che
avevo scambiato per seta, in realtà, erano lunghi capelli
corvini, lisci e
sparsi su di me come un’esplosione di inchiostro. Quello che
avevo percepito
come un abbraccio celestiale era, invece, il braccio di un uomo
giovane,
ricoperto di piccole cicatrici bianche e di ferite appena rimarginate.
Il cuore
cominciò a battermi nel petto alla velocità della
luce, mentre il mio cervello
collegava gli indizi a uno a uno.
Non
poteva essere. Eppure quel calore e quel soffio leggero sulla mia nuca
erano
prove inconfutabili della presenza di un uomo nel mio letto. Arrossii
violentemente, forse per la situazione in sé, forse
perché avevo appena capito
chi fosse la creatura che dormiva abbracciata a me. Lentamente allentai
la sua
presa, forzando leggermente il suo abbraccio, e mi sollevai appena sui
gomiti,
per guardarlo. Lui se ne stava lì, assopito, con gli occhi
chiusi e il viso
addolcito dal sonno. Non sembrava così minaccioso mentre
dormiva, anzi,
assomigliava a ciò che avrebbe dovuto essere: un semplice
giovane uomo,
affascinante e accogliente. Indossava
dei jeans stinti e una felpa nera, mentre dell’uniforme non
c’era più traccia.
Guardai il suo braccio magro appoggiato sul mio grembo e, quando mi
resi conto di
indossare abiti che non erano i miei, per poco non urlai: qualcuno
doveva
avermi lavata e cambiata perché anche l’odore
della benzina se ne era andato. Mi
morsi in tempo le labbra e ammutolii il mio istinto di fuggire
dall’imbarazzo.
Scelsi, invece, di concentrarmi su altro, come ad esempio, il
rassicurante
colore bianco dell’aura di Fobos. Sembrava stesse sognando
qualcosa perché
talvolta sfumava in un colore rosato insolito e in netto contrasto con
l’oscuro
fascino che solitamente emanava. Aveva le lebbra tese nella sua solita
espressione seria, ma la fronte distesa gli conferiva un’aria
più giovane e
sognante, quasi normale a dire il vero. Un sorriso mi
increspò le labbra,
mentre con le dita iniziai a sciogliergli i nodi nei capelli. Erano
morbidi e
setosi, un vero piacere da accarezzare, per cui non fu una sorpresa
scoprire
che la mia mano, di sua volontà, era risalita lungo i suoi
crini per giungere
vicino al volto. Avevo un’occasione unica e che probabilmente
non mi sarebbe
mai più capitata, perciò non ci pensai due volte
e allungai un polpastrello a
sfiorargli gli zigomi magri. Tuttavia, non appena il mio tocco lo
raggiunse, i
suoi occhi si spalancarono e la sua mano mi attanagliò con
violenza il polso,
allontanandomi dal suo viso. Si tirò su con uno scatto
nervoso, come fosse
appena stato attaccato.
-Scusami,
non… non volevo svegliarti-, dissi. Fobos sollevò
gli occhi al cielo e si
lasciò nuovamente scivolare sul cuscino, i capelli
scompigliati attorno a lui
come i raggi di un sole nero.
-Perché
lo hai fatto allora? -, borbottò, mentre si schermava il
viso dalla luce che
filtrava attraverso il vetro. Dovevano essere circa le sei e in quel
posto
regnava ancora il silenzio della notte.
Mi
sedetti accanto a lui a gambe incrociate, afferrai un cuscino di forma
ovale e
lo stritolai come fosse un orsacchiotto. Era un ottimo antistress
mattutino ed
era un’abitudine che avevo conservato sin da quando ero una
bambina sola fra i
vicoli che rendevano Carthagyos un posto poco raccomandabile. Ripensai a quegli anni e a
come fossi
cambiata da allora, a come anche il resto del mondo fosse cambiato
senza che me
ne fossi mai resa conto del tutto. Era facile perdersi nella malinconia
di
quelle mattinate grigie, ma quel giorno avevo al mio fianco Fobos. E
Fobos mi
stava osservando fra le ciglia scure, rendendomi impossibile formulare
qualsiasi tipo di pensiero.
-Che
hai? -, domandò con la stessa noncuranza che ostentava da
quando lo conoscevo.
-Mi
domandavo dove siamo e perché condividiamo lo stesso
letto…-, buttai lì,
stringendo ancora più forte il cuscino. Lo stavo
praticamente arpionando, le
unghie conficcate nella stoffa e la gommapiuma che tentava di
esplodermi in
faccia. Lo sguardo di Fobos seguì la tensione nei miei
muscoli e si accorse
delle torture che stavo infliggendo al povero oggetto inanimato.
Sorrise, e si
allungò verso di me, con lo stesso sguardo con cui la prima
volta mi aveva
baciata. Arrossii ancora di più, incerta se volessi scappare
o meno. Ma lui,
con il suo sorriso tra il sadico e il dolce, non prese nemmeno in
considerazione la possibilità di farmi fuggire. Mi tolse
dagli artigli il
cuscino e lo gettò contrò il muro, poi mi
circondò con le braccia, stringendomi
con la stessa intensità con la quale io avevo stretto a me
il guanciale. Rimasi
un attimo interdetta, gli occhi spalancati e le braccia sollevate a
mezz’aria.
-Non
farmi mai più uno scherzo del genere. Se non fossi tornato a
prenderti, saresti
morta-.
-Grazie
per avermi salvata-, mormorai, ancora più sorpresa, mentre
la mano del ragazzo
mi scorreva fra i capelli e lungo la schiena in un turbinio di spirali.
Il
tutto durò solo pochi secondi e al termine di quel breve
lasso di tempo Fobos
si staccò da me di scatto come avesse ricevuto una scossa.
Il sole gli
illuminava gli occhi di una sfumatura colore del miele che risplendeva
come oro
in un mare tenebroso.
-Dove
siamo? -, gli chiesi, ricordandomi improvvisamente di tutta la catena
di eventi
del giorno prima. La stanza e il letto in cui ci trovavamo erano
estranei, così
come il panorama fuori dalla finestra.
-Dai
Gyps-, sorrise lui.