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Autore: _sonder    20/07/2015    3 recensioni
Gli occhi di un dio non sono quelli di un fanciullo.
| Ottava classificata e Miglior storia breve al contest "The Ancient Tales" indetto da -Tsunade- e Ino;Chan sul forum di EFP. |
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il letto
su cui
banchetta
il dio

Calene rammendò il tappeto di pelle di orso e lo consegnò a donna Merya. Sulle dita aveva i baci dell’ago e qualche piccolo rigagnolo di sangue, che era sceso fino al polso. Frugò nella tasca del grembiale sino a scovare la pezzuola e a tirarla fuori per un lembo. Con un po’ di saliva e olio di gomito poteva tornare linda e innocente, come sua madre l’aveva creata. Sputò sulla stoffa e prese a frizionare le striature rosse.

“Sarebbe bello, se così fosse.”

Sospirò e succhiò il dito fra le labbra sottili. Tornare fra le fasce non era un pensiero confortante: nel vento volteggiava il presagio di prossimi mutamenti e neanche i grembi materni sapevano mantenere la supplica di protezione dei nascituri; pure la roccia cedeva sotto il peso degli arieti e il legno era leccato dalle lingue di fuoco.
I confini brulicavano di morti e poche persone si attardavano ancora nei villaggi limitrofi; negli ultimi tempi, i popolani pregavano di rifugiarsi nel borgo del castello. I torrioni di Montescuro agitavano ancora gli stendardi liberi, mentre le lande si arrendevano alla rovina e ai barbari invasori. Gli orsi degli araldi si gonfiavano al respiro gelido delle alture e ruggivano la propria ira. Così, di albero in albero, si diffondeva l’ostinazione del volgo e del suo signore.
Le merlature lugubri erano accolte con gioia dai fuggiaschi; ritirarsi fra le mura di pietra suonava dolce e zittiva le voci sulle segrete e sulla gelida bellezza della signora di Montescuro. Le dita evitavano di contare gli uomini che avevano giostrato per la sua mano; di quello splendore, tanto altezzoso quanto letale, le bocche non volevano parlare, come per timore di una malia.

Calene arricciò le labbra e si drizzò sulle punte delle calzature per osservare le truppe radunate nel cortile, che avrebbero lasciato il maniero alla volta dei campi di battaglia. Il verde delle sue iridi saettò da un angolo all’altro del cortile: una mano tirava, disfaceva e riaccomodava il fiocco sotto il suo collo, mentre scorreva uno per uno tutti i nobili titolati. I cavalieri e i loro scudieri attorniavano i rispettivi destrieri. All’aria rigida del mattino si mescolava l’odore di fieno, che giungeva fino alle cucine, dove il fuoco era già alto e l’acqua borbottava. Le donne mugugnavano vecchi canti, impastati assieme alla farina e all’olio raccolto dai braccianti.
Merya già la chiamava, con la sua voce spessa, ben abbinata alla stazza, come un otre di vino dal suono rigoglioso. Calene scrollò le spalle e passò una mano sulla ciocca corvina sfuggita alla cuffia. Stette a rimirare il purosangue di Ser Laron e si allontanò a passi decisi dalle imposte.
Presto i bracieri sarebbero tornati ad ardere e la luce del mattino avrebbe stracciato le nubi, nello stesso modo in cui le serve tiravano i colli delle galline; grida inumane si sarebbero levate a imbizzarrire gli animali nelle scuderie e a spingere i maiali a calpestare acquitrini di fango.
Era tutta lì, la sua vita. Appesa alle consuetudini, senza le gioie dei grandi canti, fra il grugnito di un porco e le mani moleste di suini su due piedi, che tutto mettevano a tacere con una moneta d’argento. Calene cercava di bere dalla coppa che le era spettata, con la furbizia di chi è costretto a sopravvivere e s’ingegna e trova scampo alla violenza.
All’ennesimo urlo di Merya, allungò le falcate delle sue gambe storte. Pizzicò la stoffa della gonna e poi la strinse con entrambe le mani, torcendone le estremità. Si appiattì contro l’uscio, ribollendo di astio. Odiava quella voce piena, come mai lo era stato il suo ventre. La bocca si stirò e la cicatrice accanto al labbro si estese, quasi volesse aprirsi e sanguinare.
Da mane a sera, Calene sentiva il proprio nome, cacciato dalla gola con un nervosismo tale da scuoterla tutta e schiaffeggiarle le guance.
— Calene, Calene!
Non era che un panno da battere a lungo e da ripulire della sporcizia, dei turpiloqui degli uomini. Corrugò la fronte in un gruppo di pieghe profonde, tutte arroccate sul naso aquilino. Inspirò a fondo, prima di aprire la porta di legno.



Ikar aprì le palpebre e le chiuse poco dopo. Sotto la nuca, il sudore gli aveva lasciato una traccia di bagnato e un odore di selvatico, che gli pervadeva vestiti e membra. Ovunque annusasse, lo percepiva con maggiore chiarezza e lo individuava sui cuscini e sulla camicia da notte. Allontanò da sé la coperta più pesante e la buttò ai piedi, convinto di scacciare il tepore in eccesso. Agitò le gambe e si girò su un fianco, rannicchiandosi nell’angolo più fresco del letto. Con una mano si abbracciò l’addome e provò a riposare, rilassando le spalle. Gli occhi grigi incontrarono il buio, ma non il sonno; il castello si era svegliato ben prima di lui e la vita pullulava senza contenersi, abbattendo le proprie ondate di voci e di passi contro i muri delle sue stanze. Sobbalzò e attorcigliò un lenzuolo al petto, quando lo squittio dei topi annunciò la loro presenza. Seduto, Ikar scrutò bene gli angoli ai piedi del letto e lo scranno a sua misura accanto allo scrittoio.
Trasalì e un brivido freddo gli tamburellò la schiena assieme alle gocce di sudore. La camiciola era come un serpente che lo risucchiava al proprio interno. Portò le mani tremanti su entrambe le orecchie e il silenzio lo rassicurò. Non vedere e non sentire… era la condizione necessaria per uccidere il superfluo, gli ripeteva la signora madre.
La frangia riccioluta si scontrò con le ciglia. Ikar era una nuvola morbida di capelli chiari e lunghi, tenuti legati in una treccia sulle spalle. Il sonno agitato l’aveva disfatta e ora pareva l’intreccio di paglia dei contadini di cui aveva sentito narrare dal menestrello Prysde.
Più diafana della chioma era la sua carnagione. Durante l’addestramento, diventava cinerea come la polvere nelle grandi urne degli antenati o come la pietra spenta dei raminghi di Piana dei Pozzi. Lungo quelle praterie, venivano inviati gli esiliati e i criminali graziati.
“Perdona il crimine, ma non evitare la condanna”.
La voce della signora madre gli riempì le orecchie come sabbia. Ikar pensò ai penitenti nel buio dei pozzi e ai loro sospiri, che il vento riconduceva al castello. La notte poteva udirli battere sugli scuri e pregare di aver salva la pelle.
Bussarono. Saltò e portò il lenzuolo fino alle labbra e ne addentò un orlo per fermare i denti e il tremito che accompagnava la mandibola. Doveva essere uno degli uomini banditi dal lord suo padre; invece, a entrare nella penombra delle imposte, fu Calene, ingobbita dal mastello per il bagno caldo.
Ikar serrò gli occhi, perché gli venisse risparmiato di presenziare alla benedizione degli scudi e dei pani. Voleva soltanto restare a letto e non guardare negli occhi austeri della signora Laela, sua madre.

Calene fu di altro avviso. Lasciò aperta la soglia e rientrò con due secchi di acqua bollente, che rovesciò, non senza emettere un verso di stizza. Aveva voglia di denudarsi e godersi lo scroscio caldo e gli unguenti d’Oriente. Grandi velieri salpavano e cavalcavano i flutti fino a giungere a spiagge remote, dove gli alberi erano ampi come gonne e avevano frutti tondi e colmi di latte. Oltre il mare di Spiaggialieta, v’erano correnti e mostri salmastri, che spingevano alla fine di un mondo piatto.
— Lord Ikar, alzatevi. Il giorno è già alto e Vostra Madre chiede di Voi.
Calene si avvicinò e posò una mano sul capo candido di Ikar. Il giorno in cui era arrivata al castello, le avevano decantato l’aspetto dell’erede come quello delle nevi perenni di Biancacima. Adesso, a toccare i suoi capelli madidi di sudore, le venne l’impulso di ritrarre le dita e cacciarle nell’acqua. Doveva tenerlo a mente: i nobili avevano le stesse debolezze dei più umili e non erano meno lordi di uno straccione.
Rimase vigile e ritta sul moccioso. Il figlio del lord padrone aveva dieci anni meno di lei e non aveva manifestato il desiderio di abbandonare le mura per congiungersi alla milizia dello zio cavaliere, Ser Kilburn, com’era accaduto per i due fratelli maggiori, ambedue seppelliti nella bufera della gola di Thriawe, su suolo nanico.

La sua pelle, se ne avvide allora, le scaldò i polpastrelli: carezzando un poco più forte la guancia, Calene avvertì il battito del lord. Come un timido passero, agitava il cuore sotto uno strato di tenera carne. Gli occhi di Calene brillarono d’invidia, ma si trattenne; strattonò il cotone dei neri di Verdestigia e gli ripeté di sollevarsi. Si chinò col naso a picchiettare sulla spalla di Ikar e gli sussurrò una sconcezza per imbarazzarlo. Lo vide arrossire e poi udì un attacco di tosse nervosa, finché non si voltò verso di lei e afferrò la cuffia, con la minaccia di dire tutto alla signora madre.
— Abbiamo fegato, oggi, Vossignoria. Temo che Vostra Madre sarà alquanto contrariata del ritardo, per badare alle fantasie di un bambino capriccioso.
— Abbassate la voce, brutta strega! Io non sono un poppante! Sono l’erede di Montescuro e potrei farvi tagliare la testa, sapete?
Calene gracchiò. La sua risata balzò ai quattro lati della camera, per tornare sul corpicino di Ikar, beffarda.
— Credete davvero di riuscirvi? — chiese lei, la voce rotta da altre risa di scherno.
Il bambino la squadrò e tremò d’orgoglio e di rabbia. Poi, abbassò gli occhi sulla propria veste da notte e unì le ginocchia.
Farfugliò, ricordando parola dopo parola, a memoria: — Un bravo lord dovrebbe esserne in grado. Per il bene del popolo.
Calene strinse le palpebre e si sedette, schioccando la lingua. Annuì e si intimò il silenzio; non resistette all’impulso di spingersi fino all’erede e gattonò sinuosa, fino ad arrivargli sotto il mento, curiosa di giocare con il topolino. Gli sollevò la mascella con un dito. A Ikar parve alta e lunga, come un’ombra che precedeva la notte.
— E voi che tipo di lord siete, mio signore?
— Io, io sono, sarò, un lord giusto! Non manderò cittadini ai pozzi… piuttosto li farò lavorare nei campi. Solo, non oggi. Preferisco riposare. Non mi sento bene!
Ikar trattenne il fiato e incrociò le braccia sui fianchi. Si piegò per il dolore. Era la nota fitta che coglieva Ser Noford prima di ogni lizza. Il suo scudiero, Quiss, tagliava corto e gli tendeva il secchio per consentirgli di rimettere l’anima al fondo di legno.
— Non preferireste, invece, cavalcare in giardino e scortare Vostra Madre nei suoi viaggi?
— Ella è molto impegnata, — ribatté Ikar, — e devo esserle grato. Il lord mio padre dice che la signora madre si occupa di me anche se non dovrebbe.
— Gli credete?
Un’ombra scurì il viso di Ikar e soppesò il sorriso di Calene. Era strano, si disse e guardò più da vicino la cicatrice accanto alla sua bocca. Pensò alla solitudine, che mai aveva provato con la madre biologica; pensò alle dita fredde di Leala e rabbrividì.
— La signora madre… non sembra molto contenta di me.
Strinse le palpebre e si aspettò una ramanzina. Aprì un solo occhio per sbirciare le mosse di Calene e la vide recuperare un pettine per i suoi capelli.
— Voltatevi, baderò alla chioma.
Ikar serbò il groppo in gola e immaginò le mani della madre, che lo rassicuravano al termine di un incubo.
— Vorrei essere un lord che possa sposare la donna che desidera, — mormorò, infine.
— Questo chi ve lo ha detto?
— Non posso dirlo. Ho stretto una promessa e non intendo violarla, — affermò, calcando sulle parole che aveva già udito uscire dalla bocca del lord suo padre.
Le mani di Calene erano screpolate e pungevano come lana. Più volte, Ikar sussultò nel sentirne il tocco e rimpianse quelle che cominciava a dimenticare, perché gli anni si allungavano soltanto per i vivi e i morti restavano terra.
— Voi mi sposereste, Calene?
Le labbra di lei si curvarono verso l’alto: — Siete uno strano lord. Non desiderate una nobildonna?
— Potreste lo stesso, se a volerlo fossi io. Basterebbe convincere la signora madre e non dovreste più pulire le stanze e rovinarvi le dita.
— Non preferireste correre verso altre terre e conoscere genti diverse?
— Voi siete sincera, — mormorò, con la voce impastata dal sonno, — e mi piacete. La mia defunta madre mi consigliava di apprezzare le persone oneste.
— A volte, dire la verità non ricompensa come un uomo crede.
— Non capisco cosa intendete. La sincerità offre dei premi?
— Un giorno lo vedrete con gli occhi, il cuore pungerà e allora vi direte: “Ho compreso”. Allora non sarete più lo stesso, mio piccolo amico.
Ikar si stese e toccò le sue mani con le labbra. Supino, poteva guardare le ombre degli scuri che volavano sul soffitto.
Calene si avviò verso la soglia, con le mani in grembo. Quando si voltò, colse l’ultimo sguardo di Ikar e le labbra esangui. Il bambino tendeva una mano insanguinata verso di lei.

Sentiva freddo. Ikar fissava l’uscio: Calene, per come la conosceva, era adagiata su una seggiola. Un altro tipo di sorriso le apriva la gola e il sangue colava come la bava di Ser Ithold, durante il banchetto per le nozze della primogenita.
In piedi, accanto all’uscio, c’era un’altra Calene. Era una donna ed era abbigliata come una regina. Polvere come piuma di corvo si alzava dallo strascico del suo abito. Lo guardava, ma non sembrava vedere lui, mentre impugnava un candelabro tetro, che emanava luce sinistra. Stava con le labbra morbide, a puntare gli occhi verso la signora madre, Leala, e il di lei amante, il menestrello Prysde, il favorito di Ikar.
“Un vero lord dovrebbe sposare la donna che ama”, ricordò l’erede e premette la pancia, aperta come quella di un cervo.
Sentiva freddo: Calene si tratteneva dall’agire. Spogliata del suo corpo umano, dea degli assassini, studiava gli amanti con una linea di amarezza sulla bocca, che la rendeva più spigolosa. E restò ferma, perché il suo dono non poteva ridare la vita né mischiarsi ai giochi dei mortali.
— La verità è cruda e lo vedrai coi tuoi occhi.
Accanto a lei, con la corona di un sovrano, Ikar riuscì a vedere come sarebbe stato se solo avesse potuto. Un cuore degno di un re, forse in un reame più gentile; un cuore degno di un monarca, dai lunghi capelli intessuti in una treccia, col manto di fulgide speranze… e l’innocenza votata all’orizzonte di un giorno chiaro e senza macchia di sangue: un sogno di ceneri sparse al vento.





  
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