Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    20/07/2015    5 recensioni
"Lui amava Sherlock Holmes.
Con il suo cuore.
Con la sua anima.
Con tutto se stesso.
E non glielo aveva mai detto.
E adesso l’unico consulente investigativo al mondo, l’unico uomo che lo avesse mai amato con tutto se stesso, senza riserve e senza pregiudizi, stava morendo.
Questa volta per davvero.
Nessun trucco.
Nessuna fuga.
Solo la morte.
Vera.
Terribile.
Permanente."
[AU Serie 3]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Shattered

V
Rebuilt
 
  John rientrò al 221B, svariate ore più tardi e la prima cosa che fece fu cercare Sherlock.
 Non l’aveva mai visto così spaventato in vita sua e aveva deciso di lasciarlo da solo per un po’ per fare in modo che si calmasse. Non si aspettava un attacco di panico così potente, non da una persona come Sherlock, almeno. L’aveva sempre visto calmo, razionale e posato – con l’unica eccezione del caso a Baskerville – non aveva mai reagito in quel modo.
 Il medico controllò il salotto e la cucina, ma dato che l’amico non era lì entrò in corridoio, diretto verso la sua stanza. Era certo che l’avrebbe trovato lì, proprio come l’ultima volta.
 Quando spinse la porta e uno spiraglio di luce penetrò all’interno illuminando una porzione di materasso, il suo cuore perse un battito.
 Stretti l’uno all’altro, sopra le lenzuola, c’erano Sherlock e Mycroft, entrambi profondamente addormentati. Il volto di Sherlock, pallido e scarno, era poggiato sul petto del fratello, che gli aveva circondato il petto con le braccia con fare protettivo e aveva poggiato la guancia sui suoi capelli corvini tutti in disordine.
 John sorrise.
 Come aveva potuto dubitare del fatto che Mycroft volesse bene a Sherlock?
 L’aveva salvato dalla Serbia quando nessun altro l’aveva fatto.
 Gli era rimato accanto in seguito e anche adesso era lì per lui.
 Watson abbassò lo sguardo.
 Avrebbe dovuto essere lui.
 Avrebbe dovuto essere lui a prendersi cura di Sherlock.
 Eppure non era stato in grado di farlo.
 C’era stata sempre e soltanto Mary.
 E se stesso.
 Come aveva potuto essere così egoista e così cieco?
 Si chiuse la porta alle spalle e si diresse in cucina per prepararsi un tè.
 Avrebbe dovuto rimediare. Rimanere al fianco di Sherlock e aiutarlo a superare quella situazione, che non era poi tanto diversa da quella in cui si era ritrovato lui appena tornato dall’Afghanistan.
 E Sherlock era stato lì per lui, gli aveva dato una mano a riprendersi.
 Erano bastate poche ore con lui per dimenticare la zoppia e la solitudine.
 Erano bastate le melodie del suo violino a fargli dimenticare gli incubi e la paura.
 Sherlock l’aveva salvato.
 Adesso era il suo turno.
 John Watson, da qual momento in poi, sarebbe stato l’adrenalina e il violino di Sherlock Holmes.
 
 Qualche giorno dopo, in un piovoso pomeriggio in cui Lestrade non aveva sottoposto a Sherlock nessun caso abbastanza interessante da poter essere preso in considerazione, John decise che avrebbe parlato con l’amico di ciò che stava succedendo.
 Appena tornato da fare la spesa, dopo averla sistemata, entrò in salotto.
 Il consulente investigativo era seduto sulla sua poltrona con le mani giunte sotto il mento e gli occhi chiusi, probabilmente immerso nei meandri del suo palazzo mentale.
 John prese posto sulla sua poltrona e attese. Sapeva che Holmes odiava essere disturbato.
 Dopo più di un’ora, Sherlock si ridestò e lo vide.
 «John.» disse.
 Il medico sorrise. «Ciao.»
 «Da quanto sei lì?» domandò.
 «Un’ora.» rispose il biondo con un mezzo sorriso.
 Il moro si mise seduto diritto, volgendo lo sguardo verso le fiamme che scoppiettavano nel camino. «Avresti potuto chiamarmi.»
 «So che non ti piace essere disturbato, quando sei nel tuo palazzo mentale.»
 «Tu non mi disturbi, John.» fece notare.
 Watson sorrise, poi sospirò, preparandosi a parlare. Sarebbe stata una conversazione dura. «Dobbiamo parlare.»
 L’uomo aggrottò le sopracciglia. «Di cosa?»
 «Di quello che è successo nei due anni in cui non sei stato qui.» replicò diretto l’ex-militare.
 Sherlock si incupì e poggiò la schiena alla poltrona, chiudendo gli occhi e deglutendo a vuoto.
 «Ascolta, Sherlock, mi rendo conto che per te sarà dura.» affermò il medico «Ma voglio solo aiutarti a stare meglio.»
 «Non c’è nulla da sapere.» disse Holmes.
 Watson scosse il capo. «Sai bene che non è vero.» riprese «Ho parlato con Mycroft. E lui mi ha detto che hai dovuto subire torture terribili, soprattutto nei mesi che hanno preceduto il tuo ritorno.» sospirò «E i flashback e gli incubi sono la prova che quello che hai vissuto ti ha segnato profondamente.»
 «Sto bene.»
 «Non è vero.» lo smentì sporgendosi sulla poltrona «Ti prego, lascia che ti aiuti.»
 «Non mi serve il tuo aiuto.» ribatté «Non voglio coinvolgerti in tutto questo.»
 John sbuffò. «Mi hai coinvolto quando mi hai accolto nella tua vita, Sherlock.» dichiarò «E io sono qui per te. Sono qui per stare al tuo fianco, per supportarti e aiutarti. Proprio come tu hai fatto con me, ricordi? Lascia che ti aiuti a portare questo peso. È troppo per te. Sarebbe troppo per chiunque.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sguardo e puntò gli occhi in quelli del medico. Erano blu come il cielo d’estate, dolci come li ricordava, profondi, colmi d’amore e di rispetto. Nessuna traccia di compassione o disgusto.
 «Cosa vuoi sapere?» chiese Holmes con voce flebile, dopo qualche secondo di completo silenzio.
 «Voglio che mi racconti cos’è successo in Serbia.» affermò l’altro «Voglio che ti liberi da questo peso.»
 Il moro chiuse gli occhi e alla fine annuì.
 Prese un bel respiro e lentamente cominciò a raccontare.
 John, nel racconto dell’amico, ritrovò le parole che Mycroft gli aveva rivolto giorni prima, dopo uno dei primi attacchi di panico di Sherlock a cui aveva assistito. Però, man mano che Sherlock andava avanti, le parole sembravano farsi macigni troppo pesanti da sopportare. Ogni dettaglio era come una stilettata al cuore, ogni lacrima che fuggiva al controllo del moro come un pugno nello stomaco.
 «Quanto è durata?» chiese alla fine il dottore, quando ebbe ritrovato la forza di parlare.
 «Dieci giorni.» rispose il consulente investigativo. «Più andava avanti, più sembrava peggiorare. L’oscurità della mia cella era opprimente, quasi soffocante. Le torture dei carcerieri sempre più pesanti e violente. Ho dovuto convivere con allucinazioni e incubi per gironi interi, non sapendo da quanto tempo fossi stato rinchiuso, con la costante para che i carcerieri potesse tornare e continuare a-» si bloccò, abbassò lo sguardo e si schiarì la voce. L’unico modo che avevo per sfuggire a tutto questo era rifugiarmi nel mio palazzo mentale. Cercare qualcosa per cui rimanere vivo, una ragione per convincermi a resistere.»
 «Perché non hai detto loro quello che volevano sapere?» domandò John, chiudendo gli occhi per reprimere le lacrime. Sapeva bene che ciò che Sherlock gli aveva raccontato era la minima parte di ciò che era successo, ma in cuor suo ringraziò che avesse deciso di non spingersi troppo oltre, non avrebbe retto oltre.
 «Non potevo.» rispose il moro «Erano gli ultimi membri della rete di Moriarty e se mi fosse sfuggito qualcosa sarebbero venuti a cercare te, Lestrade e la signora Hudson. Non potevo permettere che arrivassero a voi dopo tutto ciò che avevo fatto per proteggervi.»
 Watson annuì, ricordando le parole di Mycroft.
 Sospirò e si voltò verso il camino.
 C’era ancora qualcosa che avrebbe voluto chiedergli.
 Qualcosa che lo tormentava da quando qualche pomeriggio aveva lasciato Baker Street dopo il terribile flashback che aveva scosso il suo migliore amico.
 Doveva sapere.
 «Sherlock?» lo chiamò, vedendo che aveva abbassato lo sguardo.
 Il moro puntò gli occhi sul suo viso.
 «L’altro giorno, quando ci siamo baciati e hai avuto quel flashback, hai detto qualcosa.» affermò e vedendolo aggrottare le sopracciglia, continuò. «Quando hai tentato di allontanarmi hai detto “Non farmi questo di nuovo.” Cosa intendevi dire?» domandò cautamente.
 Holmes trasalì, ma non rispose. Volse nuovamente lo sguardo, chiudendo gli occhi.
 «Ehi…» lo chiamò John, poggiandogli una mano sul ginocchio. «Senti, so che non mi hai detto tutto. Te lo leggo negli occhi e l’ho visto scritto in faccia a Mycroft quando mi ha spiegato cos’era successo. Spiegami.»
 Il respiro di Sherlock accelerò. «Ti prego, John, non chiedermelo.»
 «Sai che puoi dirmi tutto, vero? Non devi avere paura che io mi spaventi o che scappi via. Ho visto cose terribili nella mia vita, posso sopportarlo. Posso farlo per te.» concluse. 
 «Non questo.» ribatté il consulente investigativo. «Non posso. Scusa…»
 Il medico aggrottò le sopracciglia e un’idea si fece strada nella sua mente. Un’idea che si diffuse come l’acqua che raggiunge lentamente le radici di una pianta portandole nutrimento.
 Il cuore mancò un battito, non appena ebbe realizzato.
 In quel momento tutto gli fu chiaro.
 Il perché di quei flashback.
 Il perché si presentassero solo in determinati momenti.
 Il perché di quella resistenza a parlare.
 «Sono andati oltre alle torture, non è vero?» chiese con voce strozzata.
 Una lacrima rigò il volto del moro. Dopo qualche secondo di completa immobilità, annuì flebilmente, lasciandosi sfuggire dalle labbra un singhiozzo strozzato.
 «Quanto oltre?» chiese ancora Watson.
 Sherlock scosse il capo e prese a singhiozzare convulsamente, portandosi le mani al volto.
 John non disse nulla. Si mise in piedi, si sedette sul bracciolo della poltrona dell’amico e lo strinse a sé, accarezzandogli i capelli e cullandolo dolcemente. «Oh, Sherlock…»
 «Non sono riuscito a impedirlo… Erano in quattro e hanno-» si interruppe, singhiozzando senza controllo. «Loro hanno… mi hanno-»
 John chiuse gli occhi.
 Come avevano potuto fargli questo dopo tutte le torture a cui lo avevano già sottoposto?
 «Quante volte è successo?» chiese con voce rotta.
 Sherlock ansimò. «Non… non me lo ricordo. Dopo le prime due ho… mi chiudevo nel mio palazzo mentale per non dover-» si interruppe «Non sono stato abbastanza forte per-»
 «No, Sherlock.» lo interruppe il medico, inginocchiandosi di fronte a lui e prendendogli il volto fra le mani. «Sei riuscito a resistere a giorni di torture e pressione psicologica. Hai resistito per proteggerci da Moriarty.»
 «Ho lasciato che mi stuprassero!» gridò Sherlock tra le lacrime, scattando in piedi. «Ho lasciassero che si approfittassero della mia debolezza per farmi a pezzi.»
 «Debolezza?» chiese John, alzandosi a sua volta da terra. «Sherlock, tu non sei debole.»
 «Sì, invece.» gemette, portandosi le mani alla fronte. «Altrimenti non avrei mai permesso loro di-» si bloccò. Represse un singhiozzo e un’espressione di puro dolore si dipinse sul suo volto. «Da quando mi hanno fatto questo non riesco più a dedurre. Non riesco più a fare ciò che facevo prima. Mi hanno portato via tutto, John. La mia vita, la possibilità di star bene, le mie capacità… non posso più proteggerti. Come posso proteggerti se non riesco a…?» un gemito gli sfuggì dalle labbra.
 John intuì che probabilmente era quella la ragione per cui non era riuscito a vedere che Mary aveva mentito per tutto quel tempo. Le torture fisiche e psicologiche l’avevano logorato a tal punto da impedirgli di fare ciò che prima per lui era semplice: osservare, capire, dedurre.
 «È vero, ti hanno distrutto.» confermò il medico «Ma questo non vuol dire che ti abbiano portato via la tua vita.» gli accarezzò il volto, cercando il suo sguardo. «Ciò che hanno fatto in Serbia non cambierà niente. Per noi sei sempre lo stesso. Sei sempre il nostro sociopatico iperattivo che insultando Anderson e Donovan risolve i casi nei modi più bizzarri e brillanti. E sei sempre mio amico, il mio fantastico e sorprendente migliore amico.»
 Un sorriso leggero si dipinse sulle labbra del consulente investigativo irrompendo tra le lacrime come il sole tra le nubi temporalesche.
 John sorrise a sua volta, felice di essere riuscito a riportargli il sorriso sulle labbra. Gli accarezzò delicatamente lo zigomo con il pollice. «Mi mancava il tuo sorriso.» affermò facendo correre lo sguardo lungo il suo volto pallido e dai tratti spigolosi. «Non smettere mai di sorridere, Sherlock. Promettimelo.»
 «Non è qualcosa che ti posso promettere. Le persone non posso essere felici per sempre.» affermò in un sussurro, ricordando il matrimonio di John e Mary. Il momento delle promesse, dello scambio degli anelli, del bacio e il momento in cui aveva sentito quel terribile dolore al petto, come se stessero provando a strappargli il cuore. «Non si può evitare di soffrire. Ci sarà sempre qualcosa che mi porterà via il sorriso.»
 «Allora io sarò sempre qui per farlo tornare.» replicò tirandolo verso di sé e poggiando la fronte contro la sua. Aveva davvero perso la speranza di poter tornare a star bene? «Non lascerò che si spenga mai, te lo prometto.»
 Holmes sorrise nuovamente e chiuse gli occhi, rimanendo con la fronte a contatto con quella del medico, nel più completo silenzio.
 Quel contatto con John era piacevole.
 Il più bello e intimo che avesse mai provato.
 Era delicato.
 Carico d’amore e di dolcezza.
 Da togliere il fiato.
 Inspirò profondamente sentendo il naso di Watson sfiorare delicatamente il suo. Le loro labbra erano a pochi centimetri le une dalle altre e si sfiorarono più volte delicatamente. Nessun bacio, solo una carezza fra labbra.
«Possiamo andare a letto?» mormorò Sherlock «Sono stanco, John.»
 Il medico annuì. «Certo.» si allontanò da lui, gli prese la mano e lo guidò lungo il corridoio fino alla sua stanza.
 Il consulente investigativo ebbe appena la forza di infilarsi il pigiama prima di crollare sul materasso e trascinarsi sotto le coperte, affondando il capo nel cuscino.
 John chiuse le imposte e la finestra. Si avvicinò al comodino e tentò di spegnere la luce, ma venne bloccato dall’amico.
 «No.» sbottò «Puoi… puoi lasciarla accesa? Non voglio rimanere al buio.»
 L’espressione che attraversò il volto di John fu di puro dolore.
 Dopo giorni passati in quella cella buia e silenziosa, in attesa del ritorno dei suoi carcerieri, non riusciva più a rimanere al buio, cosa che prima trovava stimolante e utile per pensare. Sembrava che l’uomo forte e senza timori che John aveva conosciuto tre anni prima al Bart’s fosse totalmente scomparso.
 «Sì, ma certo.» disse, schiarendosi la voce allontanandosi dall’abat-jour. Gli rimboccò le coperte e gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Adesso riposati, Sherlock. Sono in salotto sei hai bisogno di me.»
 «John, no, aspetta.» aggiunse il moro, prima che il medico potesse lasciare la stanza. «Non… non voglio stare da solo. Rimani con me? Per favore.»
 Il dottore sorrise. «Sì, Sherlock.» rispose «Metto il pigiama e torno da te.»
 E così fece.
 Raggiunse la sua stanza, indosso il pigiama e tornò nella stanza del consulente investigativo. Si sdraiò sul materasso accanto a Sherlock e poggiò la testa sul braccio per poterlo guardare negli occhi. Gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sorrise.
 «Non so se ci riuscirò.» disse il moro, rompendo il silenzio.
 John aggrottò le sopracciglia. «A fare cosa?»
 «Dopo quello che è successo…» mormorò «Non so se riuscirò mai ad andare oltre a-» con un gesto della mano indicò se stesso e John.
 Il medico portò una mano alla sua guancia. «Sherlock, io non ti forzerò a fare nulla.» lo rassicurò «Se non vorrai mai andare oltre ai baci non mi importa. Ti amavo prima quando nemmeno ci sfioravamo e continuerò a farlo comunque.»
 «Ma John, come posso renderti felice se…?»
 L’ex-militare scosse il capo. «Sherlock, tu mi hai reso felice dal primo momento in cui ci siamo visti.» spiegò «Prima di qualche settimana fa non ci eravamo mai baciati eppure ero la persona più felice al mondo quando eri accanto a me. Mi basta questo.»
 Gli occhi di Holmes si velarono di lacrime. «Puoi stringermi tra le braccia?»
 «Sì.» replicò John e lasciò che l’amico strisciasse sul materasso, stringendosi contro di lui. Gli circondò il corpo con le braccia e gli accarezzò i capelli. «Dormi, adesso.»
 Le loro gambe si intrecciarono.
 «Non andare via.» sussurrò il consulente investigativo.
 «Mai più.»
 
 Pian piano la situazione migliorò.
 Sherlock riprese a lavorare i casi con l’aiuto di John, Mycroft e Lestrade che erano pronti a dargli una mano ogni volta in cui sembrava in difficoltà o sembrava essere sull’orlo di un attacco di panico.
 Il politico faceva visita al fratello minore molto più spesso. Si presentava a Baker Street per prendere un tè, o anche solo per sapere come stava. Spesso gli aveva proposto di accompagnarlo a fare una passeggiata a Hyde Park in modo da aiutarlo a recuperare completamente le sue capacità deduttive.
 Anche se non voleva darlo a vedere, il consulente investigativo era felice che il fratello fosse lì con lui. L’aveva salvato dai Serbi ed era stato il primo a conoscere la verità riguardo a ciò che aveva dovuto subire durante la sua prigionia e riguardo i suoi sentimenti per John. E anche se inizialmente non aveva visto di buon occhio la sua relazione con Lestrade, era arrivato alla conclusione che dopo tutto ciò che entrambi avevano dovuto passare a causa sua – la droga, la preoccupazione di perderlo ogni qualvolta si buttava a capofitto in un caso potenzialmente pericoloso e la sua finta morte – si meritavano di essere felici insieme.
 John riprese a lavorare allo studio medico, evitando Mary dato che non poteva permettersi di trovare una nuova segretaria se l’avesse licenziata.
 Anche se lei aveva tentato più volte di parlargli per dargli una spiegazione riguardo ciò che era successo, l’uomo non aveva fatto altro che respingerla, rifiutandosi di ascoltare le sue giustifiche e le sue scuse, che non sembravano fare altro che infastidirlo ancora di più.
 L’unica cosa che sembrava farlo stare meglio dopo una giornata allo studio medico era tornare a casa e trovare Sherlock sulla poltrona ad attenderlo, con le mani giunte poggiate alle labbra e gli occhi chiusi, segno che era completamente immerso nel suo palazzo mentale.
 
 Non appena Sherlock chiuse gli occhi, un terribile incubo si materializzò nella sua mente. Fu così potente e spaventoso da scuotere le pareti del suo palazzo mentale, tanto che gli sembrò che tutto stesse per crollare sotto il peso del terrore e del dolore che quelle immagini stavano procurando.
 Il consulente investigativo si agitò per quasi un’ora sotto le coperte, tremando, scosso da ansiti e singhiozzi sempre più convulsi e potenti, man mano che la visione si faceva più vivida e reale.
 John – che dormiva accanto a lui da più di due mesi, da quando si era trasferito nuovamente a Baker Street – si svegliò sentendosi sfiorare il braccio. Aprì gli occhi passandosi una mano sul viso per eliminare le tracce di sonno e capire cosa l’avesse svegliato.
 Fu a quel punto che sentì Sherlock dimenarsi accanto a lui.
 Si voltò.
 La luce dell’abat-jour sul comodino di Holmes illuminava il suo volto e il petto pallido e magro coperto di cicatrici argentee. Il moro si muoveva convulsamente, intrappolato tra le lenzuola che sulla sua pelle sembravano pesanti catene che gli impedivano di liberarsi.
 «Sherlock.» lo chiamò Watson, poggiandogli una mano sulla spalla per svegliarlo e tirarlo fuori a forza da quell’incubo. «Svegliati.»
 L’uomo continuò ad agitarsi e a borbottare cose senza senso, fino a quando, all’ennesimo potente scrollone di John, aprì gli occhi di scatto. Si mise a sedere ansimando pesantemente, la fronte madida di sudore freddo e gli occhi velati da lacrime bollenti che minacciavano di rigargli le guance.
 «C-cosa…?» gemette, senza fiato. «John?» domandò, incontrando gli occhi del medico, il volto a pochi centimetri dal suo, tirato e spaventato.
 «Sì.» confermò l’altro, poggiandogli una mano sulla spalla.
 «Dove siamo?» ansimò, guardandosi intorno.
 John gli prese il volto fra le mani. «Siamo a Londra. A Baker Street.» disse «Stavi avendo un incubo.»
 Sherlock continuò ad agitarsi e a guardarsi intorno per cercare una conferma al fatto che fossero davvero al 221B.
 «La cella… ero in una cella…» balbettò «Era la Serbia… ero di nuovo lì…» si coprì il volto con le mani portandosi le ginocchia al petto e prendendo a dondolarsi avanti e indietro e ansimando. «Era reale… era tutto vero…» le lacrime gli rigarono le guance.
 John gli circondò il petto con le braccia. «Era solo un brutto sogno, Sherlock. Va tutto bene.» sussurrò contro i suoi capelli «Non era reale. Nulla di ciò che hai visto era reale.»
 «Erano… i serbi volevano… tu non c’eri e io-» pianse il consulente investigativo, stringendosi contro l’amico e stringendo il tessuto della sua maglia tra le dita.
 John gli accarezzò i capelli. «Era solo un sogno. Non era reale.» affermò cullandolo dolcemente. «Non devi avere paura. Nessuno ti farà più del male.»
 Sherlock rimase in silenzio un momento, poi si separò da John per poterlo guardare negli occhi. Gli circondò il viso con le mani e percorse i suoi zigomi con i pollici. «Tutto questo è reale?» chiese percorrendo il suo viso con gli occhi, ancora lucidi di lacrime.
 «Sì, è reale.» affermò «Siamo a casa nostra, nella nostra Londra. Io e te, Sherlock.»
 «Mi ami davvero?» non fu più di un sussurro «O era solo un sogno?»
 John non poté trattenersi dal sorridere dolcemente. «Ti amo davvero. È tutto reale.» replicò «Siamo sempre io e te, Sherlock. Io e te contro il resto del mondo. Rimarrò sempre al tuo fianco.» promise poggiando la fronte contro la sua.
 
 Poi Sherlock, il giorno di Natale, sparò a Magnussen.
 Un colpo alla testa.
 A sangue freddo.
 Senza esitazioni.
 Senza rimorso.
 Quando il corpo del giornalista cadde a terra con un tonfo sordo, la prima cosa che il consulente investigativo fece fu lasciar cadere a terra la pistola di John e sollevare le mani sopra la testa.
 «Allontanati da me, John!» gridò per sovrastare il rumore dell’elicottero dal quale Mycroft li stava osservando senza parole. «Stai indietro!»
 John sollevò le mani a sua volta vedendo gli uomini di Mycroft avanzare con i fucili e i laser puntati su di loro. «Gesù, Sherlock!» gli sfuggì. Il cuore che batteva a mille, il volto pallido e segnato dalla paura.
 Holmes sentì un terribile dolore al petto.
 Quando Mary era andata da lui per chiedergli di aiutarla con Magnussen, aveva dovuto pensare a lungo prima di decidere se occuparsi del caso oppure no. Alla fine, dato che prima di decidere di sparargli Mary Morstand era la donna che John aveva sposato e che amava, il consulente investigativo le aveva fatto sapere che ci avrebbe pensato lui, recuperando tutto il materiale che Magnussen aveva su di lei e distruggendolo prima che qualcun altro ne entrasse in possesso.
 Ovviamente Holmes non aveva scelto di farlo per Mary, ma per il suo John, alla luce del fatto che il giornalista aveva minacciato Mary di colpire anche Watson se avesse fatto qualche passo falso. Watson sembrava ancora tenere alla moglie, nonostante tutto, e proprio per questo Holmes non avrebbe permesso a nessuno di fare del male a Mary se ciò avesse significato ferire al contempo John.
 Tuttavia quando Magnussen aveva rivelato a Holmes e al medico che non c’erano documenti cartacei e che tutto ciò che sapeva si trovava all’interno del suo Palazzo Mentale, Sherlock si era sentito perso. Aveva messo a rischio segreti di stato portando al giornalista il computer di Mycroft come merce di scambio e sapeva bene che sia lui che il suo migliore amico sarebbero stati arrestati per tradimento, dato che non c’era nessuna prova materiale che Magnussen stesse ricattando Mary.
 L’unica soluzione che il suo cervello era riuscito a trovare, districandola da un groviglio di emozioni e informazioni confuse, era stata quella di ucciderlo prima che facesse del male a qualcun altro.
 Sherlock si volse nuovamente verso John, il cuore a pezzi man mano che la consapevolezza di averlo perso raggiungeva ogni fibra del suo corpo, cercò il suo sguardo e quando i loro occhi si incontrarono parlò nuovamente.
 «Vai da Mary.» disse «Dille che è al sicuro, adesso. E che lo sei anche tu.»
 «No, Sherlock…» sussurrò John, gli occhi spalancati per lo shock e velati dalle lacrime. «No…»
 Holmes si volse verso l’elicottero e si inginocchiò a terra, il volto solcato dalle lacrime, portando le mani dietro il capo, pronto per essere arrestato e portato via.
 
 Mycroft varcò la soglia della stanza in cui Sherlock era stato rinchiuso dopo essere stato arrestato, richiudendosi la porta alle spalle. Sentiva le gambe e la testa pesanti come se fossero state colme di piombo da quando aveva visto suo fratello sparare a Magnussen. Aveva visto suo fratello comportarsi in modo sciocco e sconsiderato tante volte, ma quando aveva assistito all’omicidio aveva sentito il cuore fermarsi nel petto.
 Non riusciva a capire come Sherlock avesse potuto fare una cosa tanto avventata come uccidere l’uomo più potente del Regno Unito.
 Non appena era stato prelevato e portato via dai suoi uomini, Mycroft aveva fatto richiesta perché venisse scortato lontano da occhi indiscreti e i suoi colleghi gliel’avevano accordata.
 Il minore era in piedi accanto alla finestra e stava osservando il paesaggio all’esterno attraverso le sbarre, con sguardo perso e fisso.
 «Sherlock.» lo chiamò il politico.
 Lui si voltò.
 Era pallido e gli occhi erano arrossati a causa delle lacrime.
 Quando vide Mycroft, dopo un momento di completa immobilità, il consulente investigativo si mosse verso di lui e gli gettò le braccia al collo, lasciando che altre lacrime gli rigassero nuovamente le guance.
 «Oh, Sherlock, che cosa hai fatto?» gli sussurrò il maggiore all’orecchio, accarezzandogli i capelli e la schiena.
 «Mi dispiace.» gemette Sherlock «Mi dispiace tanto, Myc.» affondò il capo nella spalla di Mycroft. «Non potevo fare altro. Minacciava di fare del male a John.»
 Il maggiore sospirò.
 Lo capiva.
 Capiva perfettamente ciò che suo fratello doveva aver provato. Se qualcuno avesse minacciato Greg o avesse anche solo tentato di sfiorarlo, lo avrebbe ucciso con le sue mani.
 Capiva il dolore e la paura di perdere la persona che più si amava al mondo.
 E Sherlock l’aveva già provato così tante volte, che Mycroft poteva comprendere il suo gesto, anche se ovviamente non era giustificabile.
 «Non potevo permettergli di fare del male a John.» singhiozzò nuovamente.
 «Lo so.» disse infatti. Mycroft continuò ad accarezzargli il capo, cullandolo gentilmente. «Ma sei cosciente che la tua azione avrà delle conseguenze?» chiese allontanandolo dal suo petto e poggiandogli le mani sulle spalle «Questa volta non potrò aiutarti, fratellino. Hai commesso un omicidio e non potrò fare nulla per impedire che tu venga condannato.»
 Un sospiro tremante sfuggì dalle labbra di Sherlock, ben consapevole che il suo gesto avrebbe portato a conseguenze funeste.
 Mycroft sospirò e poi riprese, con voce affranta e rotta dalla sofferenza. «Finirai in prigione.»
 Sherlock si irrigidì, gli occhi si spalancarono per la paura. «No.» sbottò «No, Myc, per favore. Non puoi lasciare che mi mettano in prigione. Non voglio che mi rinchiudano in una cella…»
 Il politico sospirò e scosse il capo. «Sherlock, hai ucciso Magnussen a sangue freddo.» fece notare «Non posso-»
 L’altro lo interruppe. «Ti prego…» lo implorò «Ci dev’essere un altro modo. Ti sto implorando, Mycroft, se tieni a me, non farmi rinchiudere di nuovo. Questa volta non ce la farei.» un’altra lacrima gli solcò la guancia.
 Il maggiore degli Holmes abbassò lo sguardo. «Tengo a te più che a me stesso, Sherlock, ma questa volta ho le mani legate. Dovrei scegliere tra rinchiuderti o perderti di nuovo.»
 «Quindi un altro modo c’è.» affermò Sherlock e una scintilla si accese nei suoi occhi. «Cosa ti hanno proposto?»
 Mycroft sospirò. «Sherlock…»
 «Dimmelo.»
 «Ricordi che ti avevo parlato di una missione nell’Est Europa, il giorno di Natale?» chiese e vedendolo annuire, continuò «I miei colleghi hanno convenuto che se avessi rifiutato di andare in prigione – come io avevo previsto alla luce di ciò che era successo - saresti stato inviato in missione lì, in modo da poter rendere un servizio al Governo Inglese.» spiegò «Capisci che dopo ciò che hai fatto non puoi rimanere qui o comunque essere lasciato in libertà, ma speravo che declinassi nuovamente l’offerta dell’MI6 che significherebbe-»
 Sherlock non lo lasciò concludere. «Accetto.»
 Questa volta fu il volto di Mycroft ad essere attraversato dal panico. Prese il fratello per le spalle, per essere certo di avere la sua attenzione. «Sherlock, stai firmando la tua condanna a morte. Non rivedrai più John se partirai per questa missione. Ti sarà fatale in meno di sei mesi.»
 «Non mi importa.» affermò il minore, scuotendo il capo. «John è al sicuro, adesso. È questo che mi importa. Non tornerò in una cella, Myc. Non posso.»
 «Anche a costo di morire?»
 «Sì.»
 Il politico volse lo sguardo e poi sospirò. «Sei sicuro della tua decisione?»
 Sherlock annuì.
 «E riguardo a John?» chiese il politico lasciando andare il fratello. Non aveva ancora parlato con lui dopo ciò che era successo, ma era certo che fosse distrutto dalla consapevolezza che avrebbe perso l’uomo che amava.
 Il consulente investigativo per un momento sembrò perso. «Ha ancora Mary.» affermò dopo aver abbassato lo sguardo sul pavimento. «Ora che entrambi sono al sicuro, potrà tornare da lei se lo desidera.»
 «È questo il punto.» ribattè il maggiore «Quello che John desidera sei tu.»
 «Allora devi fare in modo che torni da Mary.» disse risollevando lo sguardo «Lei lo ama e lo proteggerà. Devi convincerlo, Mycroft. Devi dirgli che lei non voleva uccidermi e che tutto ciò che ha fatto l’ha fatto per proteggere lui.»
 «Non accetterà mai di tornare da sua moglie, non dopo ciò che ha fatto passare a te.» fece notare il politico.
 Sherlock scosse il capo. «Non mi importa se non tornerà da lei.» affermò «L’unica cosa che voglio e che non cada a pezzi.» poggiò una mano sulla spalla del fratello «Myc, promettimi che farai qualsiasi cosa sarà in tuo potere per impedire che cada a pezzi di nuovo.»
 «Se tu dovessi morire, questa volta John non esiterà a seguirti.»
 «Devi impedirglielo.»
 «Come?» chiese alzando la voce «Come potrò impedirgli di tentare di raggiungere l’uomo che ama? Quando sei saltato dal tetto del Bart’s l’avrebbe fatto se non fosse stato per Mary, ma adesso che non vuole più averci nulla a che fare, chi potrà fermarlo?»
 «Tu.» insistette il minore con risolutezza. «Mi fido di te. E so che lo proteggerai, perché so che capisci che tengo a lui più che a me stesso.»
 «Sì, lo so.» confermò. «Farò del mio meglio.» promise alla fine.
 Sherlock si concesse un sorriso carico di tristezza. «Grazie, Myc.» concluse e abbracciò nuovamente suo fratello, circondandogli il petto con le braccia e poggiando il capo sulla sua spalla.
 Dopo un momento di silenzio il politico parlò nuovamente senza tentare di nascondere le lacrime che minacciavano di traboccare dai suoi occhi per rigargli il volto. «E riguardo a me?» chiese.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia e si allontanò da lui per guardarlo negli occhi.
 «Chi mi impedirà di andare in pezzi, Sher?» continuò il maggiore «Chi mi impedirà di morire dal dolore quando tu non sarai più qui?»
 Il minore accennò un sorriso e poggiò la fronte contro quella del politico. «Oh, Myc…» sussurrò accarezzandogli una guancia con la mano e lasciando che un’ultima lacrima gli solcasse il volto. Si schiarì la voce per tentare di mantenerla più ferma possibile. «Confido che Lestrade si prenderà cura di te. Sono certo che senza di me avrete meno guai da dover sistemare e più tempo per voi. Lui è tutto quello di cui hai bisogno. So che ti renderà felice.»
 Una sospirò tremante lasciò le labbra di Mycroft. «Ho bisogno anche di te.»
 Il consulente investigativo si allontanò dall’altro e osservò il suo volto pallido e scavato, gli occhi chiarì segnati dalle lacrime e dalla preoccupazione. «Ti ho mai detto che i sentimenti non ti si addicono, Mycroft?»
 Il maggiore degli Holmes rise sommessamente e abbassò lo sguardo.
 In quel momento, qualcuno bussò alla porta e poi la aprì.
 Anthea varcò la soglia. «L’auto è pronta, signore.» disse rivolgendosi al suo capo.
 Mycroft annuì, poi si rivolse nuovamente a Sherlock. «Sono riuscito a convincere i miei colleghi a farti passare la tua ultima notte a casa mia.» affermò «Non potevano farti tornare a Baker Street con il rischio che scappassi, perciò hanno optato per un luogo più sicuro.»
 Il minore annuì. «Meglio di niente. Almeno dormirò in un vero letto e non su una branda di ferro.» e insieme si avviarono verso l’auto.
 
 Sherlock non appena raggiunse la vila del fratello si rintanò nella sua stanza.
 All’idea che il giorno seguente sarebbe dovuto partire per una missione dalla quale non era sicuro sarebbe mai tornato sentiva una stanchezza viscerale raggiungere i recessi della sua anima, arrivando fino all’angolo più recondito della sua mente.
 Avrebbe dovuto dire addio a John, a suo fratello e – anche se gli costava ammetterlo – a malincuore anche a Lestrade, sperando che potesse tenere a galla sia Watson che il fratello maggiore. Non avrebbe potuto sopportare di vederli soffrire ancora a causa sua. Aveva già portato troppo dolore a tutti coloro a cui teneva, durante la sua vita.
 Un lieve bussare alla porta lo riportò alla realtà.
 «Avanti.» disse, mettendosi seduto sul materasso per accogliere chiunque avesse deciso di fargli visita, mostrando una sicurezza e una forza che sentiva di aver perso da tempo.
 La porta si aprì lentamente e una figura avanzò chiudendosi la porta alle spalle e bloccandosi sulla soglia.
 Il consulente investigativo lo riconobbe immediatamente. «John…» sussurrò mettendosi in piedi.
 Il medico accennò un sorriso e senza dire nient’altro lo raggiunse e lo abbracciò.
 Sherlock ricambiò la stretta, affondando il viso nella sua spalla e inspirando il suo profumo.
 «Perché l’hai fatto, Sherlock?» chiese Watson contro la sua spalla «Perché?» la voce, incrinata dalla disperazione, scemò.
 «Ho dovuto.» ammise l’uomo «Minacciava di farti del male usando Mary. Non potevo permetterlo.» concluse senza rompere il contatto tra i loro corpi. «Come sei entrato, qui? Come hai eluso la sorveglianza?» i colleghi di Mycroft gli avevano concesso di passare la notte lì solo a patto che ci fossero degli uomini a sorvegliare la casa e a impedire a chiunque di entrare.
 «Mycroft.» rispose il medico. «Gli ho chiesto di poterti vedere. Lui mi ha detto della missione e io non potevo lasciarti andare senza prima salutarti.» si allontanò da lui poggiando la fronte contro la sua. «Come posso farcela senza di te per sei mesi?»
 Sherlock chiuse gli occhi, reprimendo a stento le lacrime. Ringraziando il cielo Mycroft gli aveva fatto sapere che quella missione sarebbe durata sei mesi, ma non che sarebbe stata l’ultima della sua vita.
 «Puoi farcela, John.» affermò «Sei forte.»
 «Non abbastanza, Sherlock.» dichiarò «Non andare dove non posso seguirti.»
 Il moro scosse il capo. «Vedrai che andrà tutto bene e che sarà finita prima che tu te ne accorga.» si allontanò da lui e gli sorrise.
 John sorrise a sua volta. «Sherlock, prima che tu vada vorrei…» si interruppe, abbassando lo sguardo «So che non sei pronto e potrai dirmi di no se non vorrai, ma vorrei, ecco… che io e te-»
 «Anche io.» lo interruppe il moro, prima che potesse continuare.
 Le labbra di John – dopo un momento di assoluta immobilità – si curvarono ancora di più ampliando il suo sorriso e illuminandogli il volto. Portò una mano dietro il collo di Holmes e lo tirò verso di sé per baciarlo, accarezzandogli le labbra con le sue delicatamente e con una gentilezza inaspettata.
 E la risposta non tardò ad arrivare.
 
 Quella notte, Sherlock e John si amarono dolcemente, con gentilezza e calma, ma allo stesso tempo con passione e frenesia all’idea che la notte non sarebbe stata eterna.  
 Per un po’ dimenticarono la missione, Magnussen, Mary e tutti i problemi e la sofferenza dell’ultimo periodo.
 In quel momento c’erano solo Sherlock e John.
 Le loro labbra.
 I loro corpi.
 I loro cuori.
 Nient’altro aveva importanza.
 
 Sherlock attese insieme a Mycroft l’arrivo di John – che aveva lasciato la villa molto presto per non essere visto dalle guardie che la presidiavano – e Lestrade all’aeroporto da cui sarebbe partito per lasciare definitivamente l’Inghilterra.
 I due fratelli si erano salutati prima di uscire dalla villa.
 Nessuna lacrima.
 Nessuna parola di conforto o di affetto.
 C’era stato un semplice abbraccio carico d’amore e di tutte quelle parole non dette durante quegli anni, ma sottintese in quel gesto così semplice.
 L’auto nera inviata a Baker Street si fermò a pochi metri dall’aereo pronto a decollare.
 Il primo a scendere fu Lestrade, subito seguito da John che rimase a distanza per permettere all’Ispettore di salutare il giovane Holmes.
 Greg si avvicinò a Sherlock e gli sorrise.
 «Prenditi cura di mio fratello.» disse il consulente investigativo. «Tengo davvero a lui. E non provare a farlo soffrire, Gavin, altrimenti potrei decidere di cominciare a condurre i miei esperimenti su un essere vivente, anche se è contro i miei principi.» lo avvertì con un mezzo sorriso.
 «Sempre.» promise il poliziotto ridacchiando, senza nemmeno aver fatto caso al fatto che il moro l’avesse chiamato Gavin ancora una volta.
 Sospirò e la gioia si tramutò in dolore, assieme alla consapevolezza di essere in procinto di perdere uno dei suoi migliori amici e l’uomo più coraggioso che avesse mai incontrato.
 Lestrade mosse un altro passo verso Sherlock e lo abbracciò.
 Holmes rimase immobile, spiazzato di fronte a quel gesto così improvviso e carico d’affetto.
 Inaspettatamente si ritrovò a ricambiare, circondandogli le spalle con le braccia.
 «Voglio la verità.» sussurrò Greg al suo orecchio «Puoi promettermi che tornerai?»  
 Sherlock chiuse gli occhi. «Non questa volta.» mormorò.
 Lestrade si allontanò da lui, ricacciando indietro le lacrime e imponendosi di non crollare di fronte a John.
 «Grazie per esserti preso cura di me, Greg.» concluse Sherlock «Non lo dimenticherò.»
 «Sii prudente.» si raccomandò e detto questo affiancò Mycroft prendendogli la mano, intrecciando le loro dita e allontanandosi per lasciare Holmes e Watson da soli.
 John si avvicinò a Sherlock.
 Nessun dei due sembrava aver intenzione di parlare, ma alla fine fu il moro a rompere il silenzio.
 «Ti amo, John Hamish Watson.» disse accennando un sorriso, pronunciando per la prima volta quelle parole ad alta voce e sentendo il cuore accelerare di fronte alla consapevolezza che erano vere e che venivano dal profondo del suo cuore. Perché John Watson era il suo cuore.
 John ricambiò debolmente il sorriso. «Ti amo, William Sherlock Scott Holmes.» e detto questo lo baciò prendendogli il volto tra le mani e tirandolo verso di sé, sentendolo ricambiare e poggiare le mani sui suoi fianchi.
 Non c’era nient’altro da dire.
 Quando si separarono, Sherlock rivolse un’ultima occhiata al fratello e a Greg, alle loro mani intrecciate e alle loro espressioni addolorate e non poté fermare una lacrima sfuggita al suo controllo. E poi salì a bordo pronto a lasciare per un’ultima volta l’Inghilterra, la sua famiglia, i suoi amici e il suo John.
 
 Nessuno si sarebbe mai aspettato che a salvare la situazione sarebbe stato proprio James Moriarty.
 Mycroft osservava lo schermo all’interno dell’auto senza parole, sentendo le parole di Moriarty rimbombargli nella mente. Lestrade, accanto a lui era pallido come un cencio e John, in piedi accanto alla portiera aperta, non era da meno.
 Il politico prese il cellulare e compose il numero per contattare Sherlock, ancora sull’aereo, ignaro di tutto.
 «Mycroft?» disse il minore dall’altro capo.
 «Come va l’esilio, fratellino?» chiese senza nemmeno salutarlo, continuando a fissare il volto del consulente criminale, proiettato in contemporanea sugli schermi di tutto il paese.
 L’altro sbuffò. «Considerando che sono partito sì e no da quattro minuti, direi bene.» concluse.
 «A quanto pare è ora di tornare a casa, Sherlock Holmes.» affermò il maggiore.
 «Oh, ma volete prendere una decisione?» esclamò spazientito. «Chi ha bisogno di me, questa volta?»
 Mycroft sospirò sollevando le sopracciglia. «L’Inghilterra.» rispose.
 
 Non appena l’aereo toccò terra e lo stridore delle ruote rimbombò nell’aria, John si allontanò dall’auto di Mycroft e corse verso l’apparecchio, nuovamente immobile sulla pista.
 Il portellone si aprì verso l’alto con uno scatto metallico e la figura slanciata di Sherlock Holmes emerse muovendosi per scendere le scale.
 Sherlock non ebbe nemmeno tempo di toccare l’asfalto della pista, che le braccia di John si erano già chiuse attorno al suo petto e le sue labbra si erano già posate sulle sue, in un bacio carico di passione.
 Quando i due trovarono la forza di separarsi, Sherlock sorrise, continuando a tenere gli occhi chiusi. Il sapore di Watson ancora sulla bocca.
 «Mi sei mancato.» gli soffiò John sulle labbra, poggiando la fronte contro la sua.
 «Sembra che non possiate fare a meno di me.» ridacchiò il consulente investigativo.
 Watson sorrise. «Io no di certo.»
 I due si separarono e si guardarono negli occhi per un momento. Alla fine Sherlock sorrise, gli occhi luminosi come la prima volta in cui John li aveva visti. Gli occhi di cui si era innamorato.
 «A quanto pare, John Watson, il gioco è cominciato.»
 
ANGOLO DEL MOSTRICIATTOLO CHE SCRIVE
Ciao a tutti!
Eccoci giunti al termine di questa storia. :(
Be’, che dire?
Ringrazio tutti coloro che mi hanno letto/preferito/seguito/ricordato/recensito. Grazie a tutti, mi ha fatto davvero piacere sentirmi importante almeno per un po’ con questa ff semplice e senza pretese.
Spero che vi abbia appassionato leggerla quanto io ho amato scriverla :)
Grazie di cuore a tutti!
Un bacio, Eli :)
 
   
 
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