I
Gyps non erano assolutamente come me li ero aspettati. Erano uomini e
donne
estremamente snelli con costole sporgenti, capelli rasati fino alle
radici e
pelle bruciata dal sole. La maggior parte di loro aveva occhi azzurro
cielo o
grigio come le nuvole tempestose, ma c’era anche qualcuno i
cui occhi sfumavano
verso tonalità di un lilla misterioso.
-Non
mi fido a girare fra loro disarmata-, ammisi, mentre li osservavo
volare sopra
le nostre teste.
I
predoni avevano imparato a utilizzare i pezzi dei mezzi che attaccavano
per
costruire impalcature metalliche a forma di ali, sulle quali stendevano
delle
pelli, principalmente animali, che conciate secondo una loro antica
tradizione
donavano a quegli uomini la capacità di planare e librarsi
in aria. Il tutto
grazie alle forti correnti ascensionali e discensionali che spiravano
in
turbinii e tempeste dal Deserto fin su al Nord.
-Pensi
che abbia avuto scelta? E’ stato ciò che mi hanno
chiesto in cambio di
ospitalità-, fumò fuori Fobos, spegnendo poi la
sigaretta sulla fibbia dei
jeans.
Scelta.
L’Ibrido una scelta l’avrebbe potuta avere davvero.
Avrebbe potuto lasciarmi
morire nell’incendio, dandomi in pasto a quella risata
sinistra e meritandosi
un’altra medaglia al valore per aver evacuato con successo
tutti i cittadini
del Vallum. E
invece aveva scelto di
diventare un disertore al mio fianco, pur non avendo commesso alcun
crimine di
suo. Stava di fatto che, a quanto mi aveva raccontato Fobos,
l’Esercito
sospettava che avessi appiccato quell’incendio con dolo.
Pensava che avessi
allontanato Galeno con una scusa per condurre a termine i miei sporchi
piani e
che con sediziosa calma avessi agito da terrorista, facendomi saltare
in aria
per una causa che nemmeno io conoscevo. Fobos si era rifiutato di
credere a
questi sofismi e, conoscendo la mia mentalità primitiva e
acerba, aveva capito
che mi ero chiusa là sotto nel tentativo di salvare almeno
una vita.
-Non
ti ringrazierò mai abbastanza-, sospirai, capendo finalmente
come, dietro a
quella scorza dura che erano il suo atteggiamento e il suo
comportamento, Fobos
fosse una alleato prezioso e un uomo di onore. Allungai una mano,
lentamente,
quasi per paura, e la strinsi alla sua. Il suo braccio si contrasse e
le sue
spalle si immobilizzarono, mentre i suoi occhi saettarono in direzione
dell’intreccio
delle nostre dita.
-Avevamo
un Debito, no? -, mormorò, stringendo appena la presa sulla
mia mano.
Sorrisi,
ma lasciai andare le sue dita quasi immediatamente quando notai un uomo
venire
nella nostra direzione. Era di carnagione abbastanza scura con delle
pitture
argillose che gli decoravano il corpo come tatuaggi tribali. Doveva
essere
giovane, della stessa età di Fobos o qualche anno di
più.
Spostò
i suoi occhi plumbei su di noi, mostrandoci una fila di denti aguzzi,
come
affilati da lame.
-Ben
svegliati, stranieri! Avete dormito bene? -.
Subito
avvampai, nonostante negli occhi del ragazzo non vi fosse alcuna
malizia.
-Benissimo,
grazie Xerse-, rispose prontamente Fobos, allungando una mano e
stringendola a
quella del Gyps. Faceva uno strano effetto vedere le loro carnagioni
diverse unirsi
in una stretta di mano, eppure questo mi fece sentire molto
più tranquilla.
Rilassai i muscoli e mi presentai secondo l’etichetta.
-Bene, ora che anche
voi siete ufficialmente
dei fuorilegge, vorrei darvi alcuni consigli-.
Ci
incamminammo verso un edificio basso e diroccato con una tenda scura
simile
all’ala di un pipistrello come tetto. Era fresco e profumato
di menta al suo
interno, arredato con pochi oggetti, ma tutti visibilmente antichi.
Probabilmente erano il frutto del commercio con i Mauriani.
-Sediamoci
al tavolo-, ci invitò Xerse, incrociando le gambe su un
cuscino morbido ai
piedi di un tavolo basso. Io lo seguii a ruota, nonostante il dolore al
fianco,
mentre Fobos dovette fare numerosi tentativi per riuscire a sedersi in
maniera
civile, senza sembrare un gigante ingabbiato.
-Ebbene…-,
cominciò il ragazzo, estraendo una vecchia cartina sabbiosa.
– So che state
cercando di capire cosa stia accadendo al Vallum e che
perciò volete entrare in
territorio Mauriano-.
-Esattamente-,
mormorai osservando l’enorme macchia rosso sangue che
capeggiava all’estremo
Sud della cartina.
-Sono
cinquanta giorni di viaggio, non voglio mentirvi. Venti se decidete di
volare-.
L’espressione
di Fobos sconfinò nel fastidio più totale. Forse
sperava che raggiungere i
Mauriani fosse più semplice che attraversare a piedi
l’intero Deserto.
-Ad
ogni modo, ora il Mercato Mauriano è stanziato proprio qui,
al centro del
Sandpit, la grande fossa di sabbia. E’ una zona altamente
fortificata, quindi
non pensate nemmeno di scavalcare le recinzioni senza un piano a prova
di
Segugio-.
Gli
occhi di Xerse si illuminarono quando una donna anziana con gli occhi
velati di
bianco fece il suo ingresso in sala, depositando sul tavolo un servizio
da tè
molto raffinato.
-Questa
è mia nonna, Lakesi. E’ una donna molto saggia e
potrà consigliarvi meglio di
un giovane come me-.
Osservai
la nonna di Xerse con attenzione. C’era qualcosa di
estremamente famigliare in
lei e anche qualcosa di stranamente sbagliato. Scrutai i suoi lunghi e
fini capelli
bianchi, la carnagione decisamente più chiara del nipote,
con chiazze scure qua
e là affondate nella carne rugosa. Sembrava sofferente, con
quell’espressione
profondamente severa che la contraddistingueva.
-Benvenuti
tra i Gyps, alleati. So che siete in cerca di risposte e che le state
cercando
nel Deserto-.
Fece
una pausa per servirci il tè. Non una goccia
fuoriuscì dalle tazze sbeccate
nonostante la sua cecità.
-Questo
è il nostro tonico per eccellenza. Lo chiamiamo
Oruktà e ve ne servirà
parecchio per non rimanere seccati dal forte sole del deserto. So cosa
pensate
voi cittadini dei nostri rimedi, ma garantisco che questa bevanda
è più
nutriente di qualsiasi acqua filtrata abbiate mai bevuto-.
Fobos,
decisamente diffidente, osservò il pelo di quella brodaglia
nerastra e si
astenne dal portarla alle labbra. Io, invece, dopo una prima ancestrale
forma
di reticenza, ne inghiottii qualche goccia, sentendomi subito meglio e
refrigerata. Non so perché, ma la stanchezza e i cerchi alla
testa dovuti alla
mancanza della Cura si assopirono e il mio stomaco fu riempito da una
sensazione appagante di pienezza.
Gli
occhi mi si allargarono per lo stupore.
-E’
davvero fantastico-, dissi, sorseggiandone un altro po’.
-Bene.
Questo è solo l’inizio. Il vostro corpo
è troppo muscoloso e pesante per poter
volare. Inoltre, senza l’esperienza di anni di addestramento
le correnti
ventose potrebbero allontanarvi ulteriormente dall’obiettivo
costringendovi ad
una morte lenta e dolorosa-.
Deglutii.
-Che
speranza abbiamo, quindi? -.
La
donna sorrise, mostrandomi gli stessi denti aguzzi del nipote.
-Se
ci vendeste la moto, potremmo rimediarvi un passaggio sul Tachiforo -.
-Che
cosa è un Tachiforo? -, chiesi, curiosa come una bambina
piccola.
-E’
una nostra invenzione. Si tratta di un treno merci che viaggia su delle
rotaie
sopraelevate a una velocità incredibile. Si può
dire quasi che voli-.
Le
sopracciglia di Fobos si aggrottarono, puntando verso il naso.
Cominciò a
torturare il bordo della tazza, indeciso o meno se fidarsi di quella
gente.
C’erano delle domande appena nate che si dibattevano come
farfalle sull’increspatura
della sua fronte.
-Come
può essere? Non voglio dubitare di voi, ma conosco molto
bene la tecnologia-.
-
Elettromagnetismo! -, esclamò Xerse, talmente entusiasta da
non riuscire a
contenere la sua euforia. – Abbiamo trovato alcuni antichi
testi che spiegavano
come già nelle civiltà precedenti vi fossero
treni in grado di levitare su
binari magnetici. Abbiamo preso spunto dai loro progetti per sviluppare
il
Tachiforo. Si tratta di un qualcosa di talmente primitivo da averci
colti impreparati:
non ci era venuto in mente nulla di simile prima di allora-.
Fobos
puntò i suoi occhi dritti in quelli del ragazzo,
scrutandogli persino l’anima.
-Non
mi fido di voi, questo è evidente a tutti, come del resto so
che anche voi non
vi fidate di noi. Ma pare che questo Tachiforo sia l’unica
chance che abbiamo
per raggiungere celermente i Mauriani al Sandpit-, sospirò,
allungando una mano
e porgendola alla donna cieca di fronte a lui. Un largo sorriso si
allargò sul
volto di Lakesi, mentre le sue labbra si arricciavano.
-La
moto è vostra-, sentenziò infine Fobos la mano
stretta ferreamente in quella
della donna. Rimasero qualche secondo così, con i muscoli
delle braccia tese,
poi vidi gli occhi di Fobos diventare enormi, e i muscoli degli
avambracci
guizzare per sottrarsi a quel contatto. Fece una smorfia di dolore e
con uno
strattone scampò alla ferrea morsa della donna, cadendo con
la schiena a terra.
Subito, senza nemmeno dubitare del giudizio di Fobos, afferrai il
pugnale che
Xerse portava alla cinta e, con un balzo, oltrepassai il tavolo e
puntai il
coltello al collo rugoso della vecchia. Vidi il mio viso contratto
dalla rabbia
riflesso nei suoi occhi bianchi, e notai che il mio volto era
nuovamente
cambiato: scarno, scavato, con gli occhi ambrati enormi appesantiti
dalla
furiosa piega delle sopracciglia, un ringhio animalesco sulle labbra e
una
fierezza intrinseca. Stentavo a riconoscermi. Tuttavia, non una singola
particella del mio corpo esitò e la lama rimase posizionata
a fil di gola.
-Vecchia,
non ti azzardare-, ruggii, mentre con lo sguardo tenevo sotto controllo
anche
Xerse, immobile. Tremava come una foglia: sicuramente Lakesi ricopriva
un ruolo
di certa importanza per quei Gyps, e io la stavo per sgozzare. Strinsi
i denti
per trattenere il mio mostro e non urlare a causa del dolore al fianco.
Nel
frattempo, Fobos si era alzato e osservava la scena sconcertato. Non si
aspettava che avrei preso le sue difese senza alcun motivo logico, ma
lo avevo
fatto, e ora i miei muscoli erano pronti e assetati. Mi sentivo come un
predatore in agguato.
Lakesi
deglutì appena abbassando stentatamente il filo del pugnale
e facendolo
brillare.
-Quell’uomo,
quell’uomo è un mostro. L’ ho capito fin
da subito, ma non potevo esserne
certa. Dovrebbe essere morto, non capisco! Custode, parla! Dimmi
perché ti accompagni
a un simile errore della Natura-.
L’aura
di Fobos si espanse facendomi lacrimare gli occhi, ma non era nulla
paragonata alla
mia rabbia. Allungai una mano e afferrai il collo della vecchia,
guardandola dritta negli occhi, dall’alto al basso.
-Come
sai che sono una Custode? -, sibilai. Lakesi rise.
-Non
riconosci più una tua simile quando la vedi? Mi hai appena
vista scrutare nel
passato del tuo uomo e ancora hai dubbi? -.
Senza
pensarci le tirai uno schiaffo, costringendola a voltare il viso
nell’altra direzione.
Poi mi alzai in piedi sul tavolino e gettai il pugnale in direzione di
Xerse,
piantandoglielo a due centimetri dallo zigomo destro.
-Astreya,
calmati-.
La
voce di Fobos era rassegnata, come la mia quando avevo mentito a mia
madre
dicendo che non mi importava essere venduta, perché avevano
ragione: ero un
mostro e qualcosa nel mio cervello non andava. Mi morsi la lingua,
finchè non
sentii il famigliare sapore del sangue. Forse per Fobos le parole di
Lakesi
erano solo una vaga offesa, un incubo ricorrente o uno sprone per
vedere di che
pasta fossimo fatti. Io la vedevo come la sua condanna a morte. Nessuno
poteva
puntare il dito e dare del mostro a qualcuno in mia presenza!
-Non
mi interessa se sei stata una Bendata, se sei diventata un guru
spirituale e ti
bevi questo tonico al posto della Cura. Tu hai perso la testa: non
riconosci
più i veri mostri. Perché non è di
quell’uomo che devi avere paura, ma di me-.
Tirai
un calcio al servizio da tè, mandandolo a sfracellare contro
il muro.
-Smettila,
Astreya. La reazione di Lakesi era comprensibile-.
Fulminai
Fobos con lo sguardo, rivolgendomi poi a Xerse.
-Tu
hai davvero intenzione di aiutarci, o sei qui solo per sputare
sentenze? In tal
caso, leva le tende. Noi non abbiamo tempo da perdere-.
Gli
occhi chiari del giovane si puntarono in quelli dell’Ibrido,
cercando di capire
fino a che punto fosse disposto a lasciarmi sfogare. Fobos, in risposta
alle
sue aspettative, si sollevò in tutta la sua altezza
proiettando la sagoma
dinoccolata della sua ombra sul corpo minuto della Bendata.
Si
fece avanti posandomi una mano sulla testa e, stringendola bruscamente,
mi
pregò di smetterla.
-Stai
peggiorando la situazione. Dobbiamo solo guadagnarci un passaggio su
quel
treno. Non dobbiamo fare amicizia-.
Lakesi
sollevò appena il mento e lo indirizzò verso
Fobos, quasi potesse vederlo.
-Non
comprendo davvero perché questa donna voglia starti accanto.
La stai rendendo
un mostro come te. Guardala, è più un animale che
un umano-.
-Nonna!
-.
La
voce di Xerse era imperiosa e il suo tono non tradì la
minima emozione. Mi voltai
verso di lui, mentre la mano di Fobos scivolava sul mio fianco,
costringendomi
a sé con forza. Sapeva che sarei scattata e che lo avrei
fatto quando meno se
lo aspettava, perciò mi aveva trattenuta prima che fosse
troppo tardi. Capivo
la necessità di fare buon viso a cattivo gioco, ma non
comprendevo in alcun
modo la fredda tranquillità dell’Ibrido. Lo spiai
da sotto le ciglia e il suo
mare ambrato per un secondo incontrò il mio sguardo. Era
decisamente teso, ma
non lo dava a vedere.
-Nonna,
questi soldati si sono dimostrati accomodanti con noi. Ci hanno fornito
nuove e
preziose risorse, armi e un Esoscheletro. Che importa chi o cosa sono?
-.
Lakesi
abbassò il volto e i capelli candidi gli scivolarono sul
volto, leggiadri come
ragnatele.
-Xerse,
non dire alla testa del corpo dei Gyps come agire. Il nostro legame di
sangue
non conta nulla di fronte alla mia autorità, ricordalo-.
Un’altra
donna infeconda, una creatura il cui amore era sterile e senza frutti.
Disprezzai Lakesi con tutta me stessa, schierandomi affianco di quel
giovane di
più ampie vedute. Xerse meritava il trono più di
quella cariatide, senza ombra
di dubbio.
-Senta,
Lakesi. Io non pretendo che lei accetti la mia Natura,
perché nemmeno io l’ho
ancora completamente accettata. Tuttavia, crede davvero di essere un
buon capo?
Non sottovaluti mai il potere di un mostro come me. Non può
vedermi, ma le
assicuro che potrei farle raggelare il sangue nelle vene-.
Il
viso di Fobos si avvicinò a quello della vecchia,
scostandole una ciocca di
capelli dagli occhi. Poi sussurrò al suo orecchio: - Vuole
mercanteggiare con
noi, o no? Dei suoi giudizi me ne faccio ben poco. Se vuole quella
moto, ne
possiamo discutere. Altrimenti quel biglietto per il Sandpit ce lo
prenderemo
con la forza, ricordandoci una volta arrivati alla fossa di dire ai
Mauriani
come abbiate sostenuto solertemente l’Esercito e di come
abbiate nascosto i
frutti materiali della nostra contrattazione. Sono certo che si
fionderebbero
qui per poter avere le briciole della tecnologia che vi abbiamo
gentilmente
donato-.
Lakesi
si sollevò, titubante, il volto pallido e una goccia di
sudore appesa alla
tempia. – Mio nipote sembra davvero essere in grado di
comprendervi più di
quanto non lo sia io, perciò lascerò a lui il
verdetto-.
Xerse
gonfiò il petto, quando Fobos si rivolse direttamente a lui.
Allungò una mano e
la pose, trattenendo il respiro, sulla spalla dell’Ibrido.
Attese, infine, che
Lakesi se ne fosse andata poi sputò fuori tutto quello che
pensava.
-Non
ho mai visto una donna come quella-, commentò, lanciandomi
uno sguardo gonfio
di ammirazione. – Né una creatura intelligente
come te. Sono sicuro di aver fatto
bene a non avervi ucciso, quando vi abbiamo trovati. Meritate una
chance da
questo mondo. Perciò che diritto ho io di mettervi i bastoni
fra le ruote?
Patto accettato-.
-Sei
un uomo di parola, Xerse. Hai detto che ci avresti aiutati e lo stai
facendo. Spero
che un giorno i Gyps riconoscano il tuo potenziale-.
Le
parole di Fobos fecero imbarazzare il giovane che, con un grugnito di
sorpresa,
si schermì il volto. Quindi, tracannò la sua
tazza di Oruktà e ci spiegò i
dettagli del nostro prossimo viaggio. I Gyps ci avrebbero fornito degli
zaini
di tela leggera e degli abiti adatti al Deserto. All’interno
delle sacche avremmo
trovato acqua, un coltello, una quantità abbondante del loro
tonico in polvere
e uno strano strumento per estrarre il liquido potabile contenuto nelle
piante
grasse che puntellavano le distese sabbiose. Il Tachiforo avrebbe
atteso il
nostro arrivo per la partenza prevista alle sei della mattina e ci
avrebbe
depositati ad una trentina di chilometri dal Sandpit. Una volta
là avremmo
dovuto contare solo su noi stessi.
Ascoltammo
con attenzione le indicazioni, sfruttando le conoscenze di Xerse per
farci
un’idea di ciò che avremmo trovato là
fuori una volta rimasti senza l’appoggio
del suo popolo.
Quando
uscimmo dall’edificio il sole scottava ancora sulle nostre
pelli e le spalle di
Fobos stavano assumendo il colorito rosato di chi sta decisamente per
ustionarsi. Il suo corpo era già segnato dalle privazioni e
dalla fame, sarebbe
riuscito a sopravvivere all’arsura e alla calura del Deserto?
Se già soffriva appena
poco più a Sud del Vallum, la sua pelle sarebbe stata un
grosso ostacolo per
noi nell’aridità del Sandpit.
-Sei
stata avventata, prima-, mormorò mentre osservavamo il
nostro unico mezzo
venirci sottratto. La moto mi sarebbe decisamente mancata.
-Quella
donna non aveva diritto di parlare. Non ti conosce nemmeno-, borbottai,
riprendendo
il cammino per dirigermi verso la stanza che ci era stata assegnata.
Xerse ci
aveva detto che ci era stata servita la cena, e io avevo una fame
incredibile.
Lo stomaco mi brontolava come pentola di fagioli e la mente continuava
a fare
cilecca.
-Nemmeno
tu mi conosci-.
-Questo
perché tu non me lo permetti-, obiettai, guardandolo da
sotto in su a braccia
conserte, nella posa che lui stesso era solito assumere con me. Fobos
inspirò e
osservò la gabbia di Apollyo sanguinare fiammeggiate nel
cielo rossastro.
-Vorresti
davvero sapere tutto di me? -.
Annuii.
L’Ibrido rimase per qualche secondo in silenzio, poi raccolse
la mia mano fra
le sue e distendendo tutto il suo essere, rilasciò la sua
aura, facendomi
pizzicare gli occhi.
-Dovrebbe
funzionare. L’ultima volta ci sei riuscita-.
Sgranai
gli occhi, mentre il mostro appiccicoso che vedevo sempre appeso alle
sue
scapole prendeva la mesta forma di un ragazzino pallido, con enormi
occhi verdi
e un fisico estremamente magro.
-Perché?
- riuscii a chiedere, prima di cadere vorticosamente in una sorta di
trance,
una specie di viaggio onirico nei meandri dell’anima di
Fobos. Non riuscii a
trattenere la mia mente dal raggiungere ogni angolo del suo corpo
completamente
privo di difese, e in breve fui non solo nella sua testa, ma anche nel
suo
cuore.
-Fobos!
Fobos, svegliati. O farai
tardi-.
Pigramente mi alzai dal letto, la
testa pesante e le ossa che scricchiolavano come le giunture di un
vecchio. Mi
trascinai in bagno, dove Achileos mi stava attendendo. Mi
sollevò il mento con fare
preoccupato, osservando i lividi bluastri che erano comparsi sotto agli
occhi e
ai lati della bocca. Sembravo più un cadavere che un ragazzo
di quindici anni,
ma non me ne poteva importare di meno.
-Laviamoci questa faccia-, sorrise
mesto il Caporale, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle mie
cicatrici,
dal mio dolore e dai miei occhi indolenti, senza vita. Cercai di
sbloccare la
manopola del lavandino, ma non ci riuscii. Mi avevano inoculato un
siero anti
ipnotico che da giorni mi teneva sveglio. Persino la notte non riuscivo
a
dormire, nemmeno quando il mio corpo e il mio cervello urlavano di
farlo,
perché sovraccarichi di stimoli e di dolore.
Achileos si allungò verso di me,
aprendomi l’acqua, gelida e pungente come una lama affilata,
e, senza dire
nulla, mi infilò la testa sotto al getto freddo. Le gocce di
quella pioggia
sporca mi lavarono via un po’ di stanchezza, ma mi ferirono
ulteriormente il volto
tumefatto dalla magia e dalle sperimentazioni. Mi morsi le labbra,
stringendo
gli occhi e ancorandomi al bordo del lavabo, finchè quella
tortura non ebbe
fine e Achileos mi lanciò un asciugamano umido in testa.
-Forza ragazzo. Sii forte-, mi
implorò, con la voce di chi non può fare altro
che guardare un parente, un
figlio o un amico morire. Era uno sguardo che odiavo, perché
mi ricordava
quanto fossi diverso da loro. Perciò mi imposi di ripetere
quello che Upokrates
mi cantilenava ogni giorno e che ormai era diventato il mio mantra.
-Io sono già forte. I soldati veri
non dormono, non mangiano e non provano paura. E io non
proverò più nessuna di
queste cose-.
La mia voce risultò piatta e
monotona, come se stessi leggendo un normale catalogo di articoli
domestici.
Storsi il naso e tornai nel dormitorio per vestirmi. C’era un
brusio
insopportabile e una miriade di ragazzi che sciamava di qua e di
là cercando
uno stivale o le fondine.
-Ehi, Fobos, che brutta cera-.
Deimos, appena tredicenne, era
apparso alle mie spalle con aria sgomenta. La spalla, laddove si era
posata la
sua mano, bruciava come il foro di un proiettile. Era sangue del mio
sangue quella
creatura, ma non potevo fare a meno di odiarla. Perché aveva
scelto la stessa
vita che i nostri genitori avevano imposto a me? Io avrei ucciso per
essere
libero e lui si era appena immatricolato, spinto dal puro e semplice
desiderio
di fama e gloria. Era ripugnante, eppure in qualche modo non potevo
impedirmi
di volergli bene.
-Smamma, piattola-.
- Ma come? Non trattarmi così, mezza
sega scorbutica! -, ridacchiò il ragazzino, ancora troppo
magro affinchè la
divisa gli calzasse bene. Nemmeno i sarti del campo avevano potuto fare
un
lavoro migliore di quello.
Istintivamente, osservai per
differenza il mio corpo. Avevamo solo un paio di anni di differenza
eppure il
mio fisico era già quello di un uomo, magro e liso, ma pur
sempre scolpito e
con le spalle larghe. Mi aggrappai alla spalliera del letto per non
vomitare.
Un altro attacco di sonno, o fame, o qualsiasi istinto fosse, mi
catturò le
budella, facendole contorcere.
-Chiamo Upokrates? -.
-No-, biascicai, cominciando a
boccheggiare sotto lo sguardo di tutti i presenti. Sentivo i loro
sguardi
trapassarmi, giudicarmi, sussurrarmi che ero un mostro. Leggevo la
paura nella
fissità delle loro pupille, un timore quasi sacrale verso i
lividi e le
cicatrici del mio corpo.
Li odiavo, li odiavo tutti. Sapevo
che quella rabbia non era tutta mia, che parte mi era stata imposta dai
trattamenti, ma davvero era impossibile ormai scindere il ragazzino che
ero
stato dall’uomo malvagio e distrutto che stavo diventando.
Che senso aveva
resistere? Che senso aveva opporsi a un Destino già scritto?
Mi morsi con
estrema violenza il polso, finchè il sangue non
cominciò a gocciolarmi sulla
punta degli anfibi, appagando il mio profondo desiderio di dolore e
morte.
-Fobos…-, mormorò Deimos alle mie
spalle, indietreggiando appena, gli occhi velati dalle lacrime. Anche
lui si
allontanava da me, quando perdevo il controllo. Fra loro non
c’era nessuno che
potesse tenere il mio passo, che potesse diventare abbastanza forte da
camminare al mio fianco, da sostenermi in battaglia e diventare davvero
sangue
del mio sangue. Non avrei mai potuto toccare una donna senza il timore
di
desiderarne la morte, né abbracciare un figlio senza il
rischio di frantumargli
le ossa nel mio abbraccio. E allora che senso aveva vivere? Morsi
ancora, con
più forza, lasciando che le punte dei canini trovassero la
loro via attraverso
la carne ruvida delle mie braccia.
-Smettila, abominio! -, commentò
qualcuno. Un ragazzino biondo con dei profondi occhi colore
dell’ebano. Lo
attaccai senza nemmeno pensarci, scattando come un predatore e
ringhiando come
un animale. Ma poco prima di riuscire ad afferrargli il collo, il mio
mento
sbattè rovinosamente contro il pavimento e mi ritrovai lungo
disteso sul linoleum.
Mi voltai, pronto a lottare, e vidi Achileos che mi tratteneva per un
piede,
nonostante stessi calciando come una bestia indomita.
-Dei benedetti, scusami, ragazzo-, mi
pregò e, detto questo, mi colpì alla testa con
l’impugnatura della sua katana.
Vidi tutto nero, poi i suoni si smorzarono. Collassai, ma rimasi
sveglio, cosciente
e mezzo morto.
Perché non mi lasciavano dormire?
-Vado a fare una doccia-, annunciai
atono, alzandomi con un immenso sforzo. Mano a mano che crescevo, il
mio corpo aveva
cominciato ad abituarsi alla continua sofferenza e ormai non ci facevo
più
caso. Quello che ancora mi urtava, invece, erano i commenti della gente
e i
loro bisbigli sommessi. Mi allontanai il più in fretta
possibile, trascinando i
piedi, e salutando i pochi volti che ancora mi concedevano il saluto.
Feci una doccia gelida. Svolsi con
cura tutte le bende che mi ricoprivano braccia, gambe e persino il
busto. Là
sotto c’era un macello incredibile che mi disgustava ogni
giorno di più.
Vomitai nel lavandino, percependo un tremendo dolore al basso ventre.
Accarezzai la pelle appena sotto l’ombelico, soffermandomi
sulle piccole
cicatrici delle siringhe. Poi sospirai, tirando un pugno allo specchio.
I
frammenti scivolarono a terra, cangianti, ferendomi le mani e le gambe.
Diciassette anni e nessuna
probabilità di avere figli. Upokrates diceva che un soldato
era molto più
efficiente se non aveva distrazioni, ma avendo già provato,
senza troppo
successi, a privarmi del cibo e del sonno, ora non gli rimaneva altro
che
attentare alla mia virilità. Speravo che anche in quel caso
le sue
sperimentazioni fallissero miseramente.
Allontanai con i piedi quel pattume
di vetri e mi infilai nella doccia, curvando la schiena per godermi la
sensazione di freschezza sul dorso. Mi ripulii in fretta e furia, senza
pensare
ad alcunché. Lasciai che le lacrime mi scorressero lungo gli
zigomi sempre più
magri, e semplicemente finsi che fossero acqua.
Attaccavo con cattiveria. Non miravo
a disarmare i miei avversari come chiedevano gli allenatori: io miravo
a
distruggerli. Annientarli. Non mi importava di sentire le loro urla,
né di
essere colpito. La sensazione di fare del male era troppo appagante.
-Basta. Cambio-.
Mi allontanai dal mio avversario,
riverso a terra con il naso sanguinante, e mi sedetti sugli spalti
della
palestra. Sciolsi i capelli e li tamponai con l’asciugamano.
-Stai esagerando-.
Deimos. Perché dovevo trovarmelo
sempre accanto? Perché semplicemente non poteva sparire?
-Non mi interessa-.
-E cosa sono quelle cose appese al
tuo labbro? -.
Quasi senza pensarci sfiorai gli
anellini appesi metallici appesi blandamente al mio viso. Non so
perché li
avessi fatti, ma mi ricordavano un po’ i canini dei lupi.
-Piercing-, risposi soprappensiero,
mentre osservavo i miei compagni allenarsi. Era evidente come loro
fossero un
branco male assortito eppure estremamente funzionale. Ognuno di loro
aveva un
ruolo da ricoprire ed ognuno di loro era indispensabile ai compagni. E
poi, e
poi c’ero io. Quello diverso, quello alto il doppio degli
altri ragazzi, quello
violento che spesso come un cane infedele si rivoltava contro la sua
stessa
famiglia. Quello che non accettava le regole, ma che si sottometteva al
padrone, scodinzolando come un cucciolo. Quello che piangeva solo
quando non
c’era nessuno nei paraggi, ma che non faceva nulla per
nascondere i segni delle
violenze che subiva. Qual era il mio posto in quel branco?
-Ehi! -.
Mi riscossi, quasi senza volerlo,
quando vidi il braccio di Deimos agitarsi nell’aria. Stava
salutando una
ragazza dai corti capelli biondi che correva nella nostra direzione.
Non
ricordavo chi fosse, ma il suo viso mi era noto. Si fermò
proprio di fronte a
noi, bevendo dell’acqua fresca dalla fontanella ai piedi
degli spalti.
-Come stai, Estya? -, domandò Deimos,
dandomi un leggero colpetto con il gomito. Sollevai gli occhi al cielo
e, senza
dire nulla, cominciai a spruzzare sulle nocche il cerotto liquido. Non
volevo
coltivare quel genere di amicizie. Erano sterili e improduttive.
-Oh alla grande, ragazzi! Che sudata.
Tu come stai, Fobos? -.
Sollevai lo sguardo infastidito, ma
risposi comunque cortesemente alla sua domanda, forse con un pizzico di
ironia.
-Alla grande-.
La giovane fece una smorfia di
disappunto, arrampicandosi lungo i gradoni e sedendosi proprio di
fianco a me.
Il suo braccio toccò il mio, e a me venne la nausea.
Quella
donna era diversa da qualunque
altra creatura avessi mai visto. Era minuta e fragile; avrei potuto
spazzarla
via con un dito, eppure in qualche modo era più combattiva
di un alligatore. Se
ne stava seduta di fronte a me, con gli enormi occhi colore del miele
che mi
fissavano indispettiti.
Avevamo gli stessi occhi, la stessa
sfumatura guerrafondaia in fondo alla retina, la stessa reticenza nel
contare
sugli altri.
Non avevo mai desiderato veramente
una donna; le avevo sempre avvicinate per convenienza. Eppure nel
guardare
quella ragazza tremare di fronte a me, collegata a mille elettrodi e
con i
capelli scuri a coprirle il seno, non potevo fare altro che volerla.
Finsi indifferenza e cominciai a
farle una serie di domande.
Lei rispondeva con quel suo tono di
voce sprezzante, lanciandomi occhiatacce e nascondendosi il
più possibile ai
miei occhi. L’avevo trattata male, e persino traumatizzata
forse. Allora perché
non cedeva? Perché continuava a sfidarmi con gli occhi?
Decisamente non era una del branco.
Era un lupo come me e i suoi occhi giallo lucente ne erano la prova.
Forse
questa Custode, Astreya, poteva diventare il compagno che Deimos o
chiunque
altro non ero riuscito ad essere. Poteva essere l’unica donna
ad attrarmi
psicologicamente e l’unica a essere abbastanza forte da stare
al mio passo. O
forse ero ammattito.