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Autore: Dusky Doll    23/07/2015    2 recensioni
Questa è la storia di Astreya, una giovane donna dal carattere forte e dal cipiglio severo, nata in un mondo corrotto, un mondo dove bisogna crescere in fretta. Il suo mistero si cela dietro i suoi capelli neri e i suoi occhi indagatori, un segreto talmente intrigante da aver attratto le mire della casta militare e di un soldato oltremodo speciale. Ma è tutto oro ciò che luccica? E cosa deciderà Astreya: si venderà all' Esercito o deciderà di combattere da sola la sua battaglia, come un lupo solitario?
NdA: Storia illustrata... da me:) Spero vi piaccia!
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 23

 

I Gyps non erano assolutamente come me li ero aspettati. Erano uomini e donne estremamente snelli con costole sporgenti, capelli rasati fino alle radici e pelle bruciata dal sole. La maggior parte di loro aveva occhi azzurro cielo o grigio come le nuvole tempestose, ma c’era anche qualcuno i cui occhi sfumavano verso tonalità di un lilla misterioso.
-Non mi fido a girare fra loro disarmata-, ammisi, mentre li osservavo volare sopra le nostre teste.
I predoni avevano imparato a utilizzare i pezzi dei mezzi che attaccavano per costruire impalcature metalliche a forma di ali, sulle quali stendevano delle pelli, principalmente animali, che conciate secondo una loro antica tradizione donavano a quegli uomini la capacità di planare e librarsi in aria. Il tutto grazie alle forti correnti ascensionali e discensionali che spiravano in turbinii e tempeste dal Deserto fin su al Nord.
-Pensi che abbia avuto scelta? E’ stato ciò che mi hanno chiesto in cambio di ospitalità-, fumò fuori Fobos, spegnendo poi la sigaretta sulla fibbia dei jeans.
Scelta. L’Ibrido una scelta l’avrebbe potuta avere davvero. Avrebbe potuto lasciarmi morire nell’incendio, dandomi in pasto a quella risata sinistra e meritandosi un’altra medaglia al valore per aver evacuato con successo tutti i cittadini del Vallum.  E invece aveva scelto di diventare un disertore al mio fianco, pur non avendo commesso alcun crimine di suo. Stava di fatto che, a quanto mi aveva raccontato Fobos, l’Esercito sospettava che avessi appiccato quell’incendio con dolo. Pensava che avessi allontanato Galeno con una scusa per condurre a termine i miei sporchi piani e che con sediziosa calma avessi agito da terrorista, facendomi saltare in aria per una causa che nemmeno io conoscevo. Fobos si era rifiutato di credere a questi sofismi e, conoscendo la mia mentalità primitiva e acerba, aveva capito che mi ero chiusa là sotto nel tentativo di salvare almeno una vita.
-Non ti ringrazierò mai abbastanza-, sospirai, capendo finalmente come, dietro a quella scorza dura che erano il suo atteggiamento e il suo comportamento, Fobos fosse una alleato prezioso e un uomo di onore. Allungai una mano, lentamente, quasi per paura, e la strinsi alla sua. Il suo braccio si contrasse e le sue spalle si immobilizzarono, mentre i suoi occhi saettarono in direzione dell’intreccio delle nostre dita.
-Avevamo un Debito, no? -, mormorò, stringendo appena la presa sulla mia mano.
Sorrisi, ma lasciai andare le sue dita quasi immediatamente quando notai un uomo venire nella nostra direzione. Era di carnagione abbastanza scura con delle pitture argillose che gli decoravano il corpo come tatuaggi tribali. Doveva essere giovane, della stessa età di Fobos o qualche anno di più.
Spostò i suoi occhi plumbei su di noi, mostrandoci una fila di denti aguzzi, come affilati da lame.
-Ben svegliati, stranieri! Avete dormito bene? -.
Subito avvampai, nonostante negli occhi del ragazzo non vi fosse alcuna malizia.
-Benissimo, grazie Xerse-, rispose prontamente Fobos, allungando una mano e stringendola a quella del Gyps. Faceva uno strano effetto vedere le loro carnagioni diverse unirsi in una stretta di mano, eppure questo mi fece sentire molto più tranquilla. Rilassai i muscoli e mi presentai secondo l’etichetta.
 -Bene, ora che anche voi siete ufficialmente dei fuorilegge, vorrei darvi alcuni consigli-.
Ci incamminammo verso un edificio basso e diroccato con una tenda scura simile all’ala di un pipistrello come tetto. Era fresco e profumato di menta al suo interno, arredato con pochi oggetti, ma tutti visibilmente antichi. Probabilmente erano il frutto del commercio con i Mauriani.
-Sediamoci al tavolo-, ci invitò Xerse, incrociando le gambe su un cuscino morbido ai piedi di un tavolo basso. Io lo seguii a ruota, nonostante il dolore al fianco, mentre Fobos dovette fare numerosi tentativi per riuscire a sedersi in maniera civile, senza sembrare un gigante ingabbiato.
-Ebbene…-, cominciò il ragazzo, estraendo una vecchia cartina sabbiosa. – So che state cercando di capire cosa stia accadendo al Vallum e che perciò volete entrare in territorio Mauriano-.
-Esattamente-, mormorai osservando l’enorme macchia rosso sangue che capeggiava all’estremo Sud della cartina.
-Sono cinquanta giorni di viaggio, non voglio mentirvi. Venti se decidete di volare-.
L’espressione di Fobos sconfinò nel fastidio più totale. Forse sperava che raggiungere i Mauriani fosse più semplice che attraversare a piedi l’intero Deserto.
-Ad ogni modo, ora il Mercato Mauriano è stanziato proprio qui, al centro del Sandpit, la grande fossa di sabbia. E’ una zona altamente fortificata, quindi non pensate nemmeno di scavalcare le recinzioni senza un piano a prova di Segugio-.
Gli occhi di Xerse si illuminarono quando una donna anziana con gli occhi velati di bianco fece il suo ingresso in sala, depositando sul tavolo un servizio da tè molto raffinato.
-Questa è mia nonna, Lakesi. E’ una donna molto saggia e potrà consigliarvi meglio di un giovane come me-.
Osservai la nonna di Xerse con attenzione. C’era qualcosa di estremamente famigliare in lei e anche qualcosa di stranamente sbagliato. Scrutai i suoi lunghi e fini capelli bianchi, la carnagione decisamente più chiara del nipote, con chiazze scure qua e là affondate nella carne rugosa. Sembrava sofferente, con quell’espressione profondamente severa che la contraddistingueva.
-Benvenuti tra i Gyps, alleati. So che siete in cerca di risposte e che le state cercando nel Deserto-.
Fece una pausa per servirci il tè. Non una goccia fuoriuscì dalle tazze sbeccate nonostante la sua cecità.
-Questo è il nostro tonico per eccellenza. Lo chiamiamo Oruktà e ve ne servirà parecchio per non rimanere seccati dal forte sole del deserto. So cosa pensate voi cittadini dei nostri rimedi, ma garantisco che questa bevanda è più nutriente di qualsiasi acqua filtrata abbiate mai bevuto-.
Fobos, decisamente diffidente, osservò il pelo di quella brodaglia nerastra e si astenne dal portarla alle labbra. Io, invece, dopo una prima ancestrale forma di reticenza, ne inghiottii qualche goccia, sentendomi subito meglio e refrigerata. Non so perché, ma la stanchezza e i cerchi alla testa dovuti alla mancanza della Cura si assopirono e il mio stomaco fu riempito da una sensazione appagante di pienezza.
Gli occhi mi si allargarono per lo stupore.
-E’ davvero fantastico-, dissi, sorseggiandone un altro po’.
-Bene. Questo è solo l’inizio. Il vostro corpo è troppo muscoloso e pesante per poter volare. Inoltre, senza l’esperienza di anni di addestramento le correnti ventose potrebbero allontanarvi ulteriormente dall’obiettivo costringendovi ad una morte lenta e dolorosa-.
Deglutii.
-Che speranza abbiamo, quindi? -.
La donna sorrise, mostrandomi gli stessi denti aguzzi del nipote.
-Se ci vendeste la moto, potremmo rimediarvi un passaggio sul Tachiforo -.
-Che cosa è un Tachiforo? -, chiesi, curiosa come una bambina piccola.
-E’ una nostra invenzione. Si tratta di un treno merci che viaggia su delle rotaie sopraelevate a una velocità incredibile. Si può dire quasi che voli-.
Le sopracciglia di Fobos si aggrottarono, puntando verso il naso. Cominciò a torturare il bordo della tazza, indeciso o meno se fidarsi di quella gente. C’erano delle domande appena nate che si dibattevano come farfalle sull’increspatura della sua fronte.
-Come può essere? Non voglio dubitare di voi, ma conosco molto bene la tecnologia-.
- Elettromagnetismo! -, esclamò Xerse, talmente entusiasta da non riuscire a contenere la sua euforia. – Abbiamo trovato alcuni antichi testi che spiegavano come già nelle civiltà precedenti vi fossero treni in grado di levitare su binari magnetici. Abbiamo preso spunto dai loro progetti per sviluppare il Tachiforo. Si tratta di un qualcosa di talmente primitivo da averci colti impreparati: non ci era venuto in mente nulla di simile prima di allora-.
Fobos puntò i suoi occhi dritti in quelli del ragazzo, scrutandogli persino l’anima.
-Non mi fido di voi, questo è evidente a tutti, come del resto so che anche voi non vi fidate di noi. Ma pare che questo Tachiforo sia l’unica chance che abbiamo per raggiungere celermente i Mauriani al Sandpit-, sospirò, allungando una mano e porgendola alla donna cieca di fronte a lui. Un largo sorriso si allargò sul volto di Lakesi, mentre le sue labbra si arricciavano.
-La moto è vostra-, sentenziò infine Fobos la mano stretta ferreamente in quella della donna. Rimasero qualche secondo così, con i muscoli delle braccia tese, poi vidi gli occhi di Fobos diventare enormi, e i muscoli degli avambracci guizzare per sottrarsi a quel contatto. Fece una smorfia di dolore e con uno strattone scampò alla ferrea morsa della donna, cadendo con la schiena a terra. Subito, senza nemmeno dubitare del giudizio di Fobos, afferrai il pugnale che Xerse portava alla cinta e, con un balzo, oltrepassai il tavolo e puntai il coltello al collo rugoso della vecchia. Vidi il mio viso contratto dalla rabbia riflesso nei suoi occhi bianchi, e notai che il mio volto era nuovamente cambiato: scarno, scavato, con gli occhi ambrati enormi appesantiti dalla furiosa piega delle sopracciglia, un ringhio animalesco sulle labbra e una fierezza intrinseca. Stentavo a riconoscermi. Tuttavia, non una singola particella del mio corpo esitò e la lama rimase posizionata a fil di gola.
-Vecchia, non ti azzardare-, ruggii, mentre con lo sguardo tenevo sotto controllo anche Xerse, immobile. Tremava come una foglia: sicuramente Lakesi ricopriva un ruolo di certa importanza per quei Gyps, e io la stavo per sgozzare. Strinsi i denti per trattenere il mio mostro e non urlare a causa del dolore al fianco.
Nel frattempo, Fobos si era alzato e osservava la scena sconcertato. Non si aspettava che avrei preso le sue difese senza alcun motivo logico, ma lo avevo fatto, e ora i miei muscoli erano pronti e assetati. Mi sentivo come un predatore in agguato.
Lakesi deglutì appena abbassando stentatamente il filo del pugnale e facendolo brillare.
-Quell’uomo, quell’uomo è un mostro. L’ ho capito fin da subito, ma non potevo esserne certa. Dovrebbe essere morto, non capisco! Custode, parla! Dimmi perché ti accompagni a un simile errore della Natura-.
L’aura di Fobos si espanse facendomi lacrimare gli occhi, ma non era nulla paragonata alla mia rabbia. Allungai una mano e afferrai il collo della vecchia, guardandola dritta negli occhi, dall’alto al basso.
-Come sai che sono una Custode? -, sibilai. Lakesi rise.
-Non riconosci più una tua simile quando la vedi? Mi hai appena vista scrutare nel passato del tuo uomo e ancora hai dubbi? -.
Senza pensarci le tirai uno schiaffo, costringendola a voltare il viso nell’altra direzione. Poi mi alzai in piedi sul tavolino e gettai il pugnale in direzione di Xerse, piantandoglielo a due centimetri dallo zigomo destro.
-Astreya, calmati-.
La voce di Fobos era rassegnata, come la mia quando avevo mentito a mia madre dicendo che non mi importava essere venduta, perché avevano ragione: ero un mostro e qualcosa nel mio cervello non andava. Mi morsi la lingua, finchè non sentii il famigliare sapore del sangue. Forse per Fobos le parole di Lakesi erano solo una vaga offesa, un incubo ricorrente o uno sprone per vedere di che pasta fossimo fatti. Io la vedevo come la sua condanna a morte. Nessuno poteva puntare il dito e dare del mostro a qualcuno in mia presenza!
-Non mi interessa se sei stata una Bendata, se sei diventata un guru spirituale e ti bevi questo tonico al posto della Cura. Tu hai perso la testa: non riconosci più i veri mostri. Perché non è di quell’uomo che devi avere paura, ma di me-.
Tirai un calcio al servizio da tè, mandandolo a sfracellare contro il muro.
-Smettila, Astreya. La reazione di Lakesi era comprensibile-.
Fulminai Fobos con lo sguardo, rivolgendomi poi a Xerse.
-Tu hai davvero intenzione di aiutarci, o sei qui solo per sputare sentenze? In tal caso, leva le tende. Noi non abbiamo tempo da perdere-.
Gli occhi chiari del giovane si puntarono in quelli dell’Ibrido, cercando di capire fino a che punto fosse disposto a lasciarmi sfogare. Fobos, in risposta alle sue aspettative, si sollevò in tutta la sua altezza proiettando la sagoma dinoccolata della sua ombra sul corpo minuto della Bendata.
Si fece avanti posandomi una mano sulla testa e, stringendola bruscamente, mi pregò di smetterla.
-Stai peggiorando la situazione. Dobbiamo solo guadagnarci un passaggio su quel treno. Non dobbiamo fare amicizia-.
Lakesi sollevò appena il mento e lo indirizzò verso Fobos, quasi potesse vederlo.
-Non comprendo davvero perché questa donna voglia starti accanto. La stai rendendo un mostro come te. Guardala, è più un animale che un umano-.
-Nonna! -.
La voce di Xerse era imperiosa e il suo tono non tradì la minima emozione. Mi voltai verso di lui, mentre la mano di Fobos scivolava sul mio fianco, costringendomi a sé con forza. Sapeva che sarei scattata e che lo avrei fatto quando meno se lo aspettava, perciò mi aveva trattenuta prima che fosse troppo tardi. Capivo la necessità di fare buon viso a cattivo gioco, ma non comprendevo in alcun modo la fredda tranquillità dell’Ibrido. Lo spiai da sotto le ciglia e il suo mare ambrato per un secondo incontrò il mio sguardo. Era decisamente teso, ma non lo dava a vedere.
-Nonna, questi soldati si sono dimostrati accomodanti con noi. Ci hanno fornito nuove e preziose risorse, armi e un Esoscheletro. Che importa chi o cosa sono? -.
Lakesi abbassò il volto e i capelli candidi gli scivolarono sul volto, leggiadri come ragnatele.
-Xerse, non dire alla testa del corpo dei Gyps come agire. Il nostro legame di sangue non conta nulla di fronte alla mia autorità, ricordalo-.
Un’altra donna infeconda, una creatura il cui amore era sterile e senza frutti. Disprezzai Lakesi con tutta me stessa, schierandomi affianco di quel giovane di più ampie vedute. Xerse meritava il trono più di quella cariatide, senza ombra di dubbio.
-Senta, Lakesi. Io non pretendo che lei accetti la mia Natura, perché nemmeno io l’ho ancora completamente accettata. Tuttavia, crede davvero di essere un buon capo? Non sottovaluti mai il potere di un mostro come me. Non può vedermi, ma le assicuro che potrei farle raggelare il sangue nelle vene-.
Il viso di Fobos si avvicinò a quello della vecchia, scostandole una ciocca di capelli dagli occhi. Poi sussurrò al suo orecchio: - Vuole mercanteggiare con noi, o no? Dei suoi giudizi me ne faccio ben poco. Se vuole quella moto, ne possiamo discutere. Altrimenti quel biglietto per il Sandpit ce lo prenderemo con la forza, ricordandoci una volta arrivati alla fossa di dire ai Mauriani come abbiate sostenuto solertemente l’Esercito e di come abbiate nascosto i frutti materiali della nostra contrattazione. Sono certo che si fionderebbero qui per poter avere le briciole della tecnologia che vi abbiamo gentilmente donato-.
Lakesi si sollevò, titubante, il volto pallido e una goccia di sudore appesa alla tempia. – Mio nipote sembra davvero essere in grado di comprendervi più di quanto non lo sia io, perciò lascerò a lui il verdetto-.
Xerse gonfiò il petto, quando Fobos si rivolse direttamente a lui. Allungò una mano e la pose, trattenendo il respiro, sulla spalla dell’Ibrido. Attese, infine, che Lakesi se ne fosse andata poi sputò fuori tutto quello che pensava.
-Non ho mai visto una donna come quella-, commentò, lanciandomi uno sguardo gonfio di ammirazione. – Né una creatura intelligente come te. Sono sicuro di aver fatto bene a non avervi ucciso, quando vi abbiamo trovati. Meritate una chance da questo mondo. Perciò che diritto ho io di mettervi i bastoni fra le ruote? Patto accettato-.
-Sei un uomo di parola, Xerse. Hai detto che ci avresti aiutati e lo stai facendo. Spero che un giorno i Gyps riconoscano il tuo potenziale-.
Le parole di Fobos fecero imbarazzare il giovane che, con un grugnito di sorpresa, si schermì il volto. Quindi, tracannò la sua tazza di Oruktà e ci spiegò i dettagli del nostro prossimo viaggio. I Gyps ci avrebbero fornito degli zaini di tela leggera e degli abiti adatti al Deserto. All’interno delle sacche avremmo trovato acqua, un coltello, una quantità abbondante del loro tonico in polvere e uno strano strumento per estrarre il liquido potabile contenuto nelle piante grasse che puntellavano le distese sabbiose. Il Tachiforo avrebbe atteso il nostro arrivo per la partenza prevista alle sei della mattina e ci avrebbe depositati ad una trentina di chilometri dal Sandpit. Una volta là avremmo dovuto contare solo su noi stessi.
Ascoltammo con attenzione le indicazioni, sfruttando le conoscenze di Xerse per farci un’idea di ciò che avremmo trovato là fuori una volta rimasti senza l’appoggio del suo popolo.

 

 

Quando uscimmo dall’edificio il sole scottava ancora sulle nostre pelli e le spalle di Fobos stavano assumendo il colorito rosato di chi sta decisamente per ustionarsi. Il suo corpo era già segnato dalle privazioni e dalla fame, sarebbe riuscito a sopravvivere all’arsura e alla calura del Deserto? Se già soffriva appena poco più a Sud del Vallum, la sua pelle sarebbe stata un grosso ostacolo per noi nell’aridità del Sandpit.
-Sei stata avventata, prima-, mormorò mentre osservavamo il nostro unico mezzo venirci sottratto. La moto mi sarebbe decisamente mancata.
-Quella donna non aveva diritto di parlare. Non ti conosce nemmeno-, borbottai, riprendendo il cammino per dirigermi verso la stanza che ci era stata assegnata. Xerse ci aveva detto che ci era stata servita la cena, e io avevo una fame incredibile. Lo stomaco mi brontolava come pentola di fagioli e la mente continuava a fare cilecca.
-Nemmeno tu mi conosci-.
-Questo perché tu non me lo permetti-, obiettai, guardandolo da sotto in su a braccia conserte, nella posa che lui stesso era solito assumere con me. Fobos inspirò e osservò la gabbia di Apollyo sanguinare fiammeggiate nel cielo rossastro.
-Vorresti davvero sapere tutto di me? -.
Annuii. L’Ibrido rimase per qualche secondo in silenzio, poi raccolse la mia mano fra le sue e distendendo tutto il suo essere, rilasciò la sua aura, facendomi pizzicare gli occhi.
-Dovrebbe funzionare. L’ultima volta ci sei riuscita-.
Sgranai gli occhi, mentre il mostro appiccicoso che vedevo sempre appeso alle sue scapole prendeva la mesta forma di un ragazzino pallido, con enormi occhi verdi e un fisico estremamente magro.
-Perché? - riuscii a chiedere, prima di cadere vorticosamente in una sorta di trance, una specie di viaggio onirico nei meandri dell’anima di Fobos. Non riuscii a trattenere la mia mente dal raggiungere ogni angolo del suo corpo completamente privo di difese, e in breve fui non solo nella sua testa, ma anche nel suo cuore.

 

-Fobos! Fobos, svegliati. O farai tardi-.
Pigramente mi alzai dal letto, la testa pesante e le ossa che scricchiolavano come le giunture di un vecchio. Mi trascinai in bagno, dove Achileos mi stava attendendo. Mi sollevò il mento con fare preoccupato, osservando i lividi bluastri che erano comparsi sotto agli occhi e ai lati della bocca. Sembravo più un cadavere che un ragazzo di quindici anni, ma non me ne poteva importare di meno.
-Laviamoci questa faccia-, sorrise mesto il Caporale, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle mie cicatrici, dal mio dolore e dai miei occhi indolenti, senza vita. Cercai di sbloccare la manopola del lavandino, ma non ci riuscii. Mi avevano inoculato un siero anti ipnotico che da giorni mi teneva sveglio. Persino la notte non riuscivo a dormire, nemmeno quando il mio corpo e il mio cervello urlavano di farlo, perché sovraccarichi di stimoli e di dolore.
Achileos si allungò verso di me, aprendomi l’acqua, gelida e pungente come una lama affilata, e, senza dire nulla, mi infilò la testa sotto al getto freddo. Le gocce di quella pioggia sporca mi lavarono via un po’ di stanchezza, ma mi ferirono ulteriormente il volto tumefatto dalla magia e dalle sperimentazioni. Mi morsi le labbra, stringendo gli occhi e ancorandomi al bordo del lavabo, finchè quella tortura non ebbe fine e Achileos mi lanciò un asciugamano umido in testa.
-Forza ragazzo. Sii forte-, mi implorò, con la voce di chi non può fare altro che guardare un parente, un figlio o un amico morire. Era uno sguardo che odiavo, perché mi ricordava quanto fossi diverso da loro. Perciò mi imposi di ripetere quello che Upokrates mi cantilenava ogni giorno e che ormai era diventato il mio mantra.
-Io sono già forte. I soldati veri non dormono, non mangiano e non provano paura. E io non proverò più nessuna di queste cose-.
La mia voce risultò piatta e monotona, come se stessi leggendo un normale catalogo di articoli domestici. Storsi il naso e tornai nel dormitorio per vestirmi. C’era un brusio insopportabile e una miriade di ragazzi che sciamava di qua e di là cercando uno stivale o le fondine.
-Ehi, Fobos, che brutta cera-.
Deimos, appena tredicenne, era apparso alle mie spalle con aria sgomenta. La spalla, laddove si era posata la sua mano, bruciava come il foro di un proiettile. Era sangue del mio sangue quella creatura, ma non potevo fare a meno di odiarla. Perché aveva scelto la stessa vita che i nostri genitori avevano imposto a me? Io avrei ucciso per essere libero e lui si era appena immatricolato, spinto dal puro e semplice desiderio di fama e gloria. Era ripugnante, eppure in qualche modo non potevo impedirmi di volergli bene.
-Smamma, piattola-.
- Ma come? Non trattarmi così, mezza sega scorbutica! -, ridacchiò il ragazzino, ancora troppo magro affinchè la divisa gli calzasse bene. Nemmeno i sarti del campo avevano potuto fare un lavoro migliore di quello.
Istintivamente, osservai per differenza il mio corpo. Avevamo solo un paio di anni di differenza eppure il mio fisico era già quello di un uomo, magro e liso, ma pur sempre scolpito e con le spalle larghe. Mi aggrappai alla spalliera del letto per non vomitare. Un altro attacco di sonno, o fame, o qualsiasi istinto fosse, mi catturò le budella, facendole contorcere.
-Chiamo Upokrates? -.
-No-, biascicai, cominciando a boccheggiare sotto lo sguardo di tutti i presenti. Sentivo i loro sguardi trapassarmi, giudicarmi, sussurrarmi che ero un mostro. Leggevo la paura nella fissità delle loro pupille, un timore quasi sacrale verso i lividi e le cicatrici del mio corpo.
Li odiavo, li odiavo tutti. Sapevo che quella rabbia non era tutta mia, che parte mi era stata imposta dai trattamenti, ma davvero era impossibile ormai scindere il ragazzino che ero stato dall’uomo malvagio e distrutto che stavo diventando. Che senso aveva resistere? Che senso aveva opporsi a un Destino già scritto? Mi morsi con estrema violenza il polso, finchè il sangue non cominciò a gocciolarmi sulla punta degli anfibi, appagando il mio profondo desiderio di dolore e morte.
-Fobos…-, mormorò Deimos alle mie spalle, indietreggiando appena, gli occhi velati dalle lacrime. Anche lui si allontanava da me, quando perdevo il controllo. Fra loro non c’era nessuno che potesse tenere il mio passo, che potesse diventare abbastanza forte da camminare al mio fianco, da sostenermi in battaglia e diventare davvero sangue del mio sangue. Non avrei mai potuto toccare una donna senza il timore di desiderarne la morte, né abbracciare un figlio senza il rischio di frantumargli le ossa nel mio abbraccio. E allora che senso aveva vivere? Morsi ancora, con più forza, lasciando che le punte dei canini trovassero la loro via attraverso la carne ruvida delle mie braccia.
-Smettila, abominio! -, commentò qualcuno. Un ragazzino biondo con dei profondi occhi colore dell’ebano. Lo attaccai senza nemmeno pensarci, scattando come un predatore e ringhiando come un animale. Ma poco prima di riuscire ad afferrargli il collo, il mio mento sbattè rovinosamente contro il pavimento e mi ritrovai lungo disteso sul linoleum. Mi voltai, pronto a lottare, e vidi Achileos che mi tratteneva per un piede, nonostante stessi calciando come una bestia indomita.
-Dei benedetti, scusami, ragazzo-, mi pregò e, detto questo, mi colpì alla testa con l’impugnatura della sua katana. Vidi tutto nero, poi i suoni si smorzarono. Collassai, ma rimasi sveglio, cosciente e mezzo morto.
Perché non mi lasciavano dormire?

 

 

Mi svegliai. Mi ero nuovamente addormentato con il viso nella zuppa del refettorio. Gli altri soldati non avevano osato svegliarmi e ora mi ritrovavo i capelli inzuppati di brodo.
-Vado a fare una doccia-, annunciai atono, alzandomi con un immenso sforzo. Mano a mano che crescevo, il mio corpo aveva cominciato ad abituarsi alla continua sofferenza e ormai non ci facevo più caso. Quello che ancora mi urtava, invece, erano i commenti della gente e i loro bisbigli sommessi. Mi allontanai il più in fretta possibile, trascinando i piedi, e salutando i pochi volti che ancora mi concedevano il saluto.
Feci una doccia gelida. Svolsi con cura tutte le bende che mi ricoprivano braccia, gambe e persino il busto. Là sotto c’era un macello incredibile che mi disgustava ogni giorno di più. Vomitai nel lavandino, percependo un tremendo dolore al basso ventre. Accarezzai la pelle appena sotto l’ombelico, soffermandomi sulle piccole cicatrici delle siringhe. Poi sospirai, tirando un pugno allo specchio. I frammenti scivolarono a terra, cangianti, ferendomi le mani e le gambe.
Diciassette anni e nessuna probabilità di avere figli. Upokrates diceva che un soldato era molto più efficiente se non aveva distrazioni, ma avendo già provato, senza troppo successi, a privarmi del cibo e del sonno, ora non gli rimaneva altro che attentare alla mia virilità. Speravo che anche in quel caso le sue sperimentazioni fallissero miseramente.
Allontanai con i piedi quel pattume di vetri e mi infilai nella doccia, curvando la schiena per godermi la sensazione di freschezza sul dorso. Mi ripulii in fretta e furia, senza pensare ad alcunché. Lasciai che le lacrime mi scorressero lungo gli zigomi sempre più magri, e semplicemente finsi che fossero acqua.

 

 
Attaccavo con cattiveria. Non miravo a disarmare i miei avversari come chiedevano gli allenatori: io miravo a distruggerli. Annientarli. Non mi importava di sentire le loro urla, né di essere colpito. La sensazione di fare del male era troppo appagante.
-Basta. Cambio-.
Mi allontanai dal mio avversario, riverso a terra con il naso sanguinante, e mi sedetti sugli spalti della palestra. Sciolsi i capelli e li tamponai con l’asciugamano.
-Stai esagerando-.
Deimos. Perché dovevo trovarmelo sempre accanto? Perché semplicemente non poteva sparire?
-Non mi interessa-.
-E cosa sono quelle cose appese al tuo labbro? -.
Quasi senza pensarci sfiorai gli anellini appesi metallici appesi blandamente al mio viso. Non so perché li avessi fatti, ma mi ricordavano un po’ i canini dei lupi.
-Piercing-, risposi soprappensiero, mentre osservavo i miei compagni allenarsi. Era evidente come loro fossero un branco male assortito eppure estremamente funzionale. Ognuno di loro aveva un ruolo da ricoprire ed ognuno di loro era indispensabile ai compagni. E poi, e poi c’ero io. Quello diverso, quello alto il doppio degli altri ragazzi, quello violento che spesso come un cane infedele si rivoltava contro la sua stessa famiglia. Quello che non accettava le regole, ma che si sottometteva al padrone, scodinzolando come un cucciolo. Quello che piangeva solo quando non c’era nessuno nei paraggi, ma che non faceva nulla per nascondere i segni delle violenze che subiva. Qual era il mio posto in quel branco?
-Ehi! -.
Mi riscossi, quasi senza volerlo, quando vidi il braccio di Deimos agitarsi nell’aria. Stava salutando una ragazza dai corti capelli biondi che correva nella nostra direzione. Non ricordavo chi fosse, ma il suo viso mi era noto. Si fermò proprio di fronte a noi, bevendo dell’acqua fresca dalla fontanella ai piedi degli spalti.
-Come stai, Estya? -, domandò Deimos, dandomi un leggero colpetto con il gomito. Sollevai gli occhi al cielo e, senza dire nulla, cominciai a spruzzare sulle nocche il cerotto liquido. Non volevo coltivare quel genere di amicizie. Erano sterili e improduttive.
-Oh alla grande, ragazzi! Che sudata. Tu come stai, Fobos? -.
Sollevai lo sguardo infastidito, ma risposi comunque cortesemente alla sua domanda, forse con un pizzico di ironia.
-Alla grande-.
La giovane fece una smorfia di disappunto, arrampicandosi lungo i gradoni e sedendosi proprio di fianco a me. Il suo braccio toccò il mio, e a me venne la nausea.

 

 

Quella donna era diversa da qualunque altra creatura avessi mai visto. Era minuta e fragile; avrei potuto spazzarla via con un dito, eppure in qualche modo era più combattiva di un alligatore. Se ne stava seduta di fronte a me, con gli enormi occhi colore del miele che mi fissavano indispettiti.
Avevamo gli stessi occhi, la stessa sfumatura guerrafondaia in fondo alla retina, la stessa reticenza nel contare sugli altri.
Non avevo mai desiderato veramente una donna; le avevo sempre avvicinate per convenienza. Eppure nel guardare quella ragazza tremare di fronte a me, collegata a mille elettrodi e con i capelli scuri a coprirle il seno, non potevo fare altro che volerla.
Finsi indifferenza e cominciai a farle una serie di domande.
Lei rispondeva con quel suo tono di voce sprezzante, lanciandomi occhiatacce e nascondendosi il più possibile ai miei occhi. L’avevo trattata male, e persino traumatizzata forse. Allora perché non cedeva? Perché continuava a sfidarmi con gli occhi?
Decisamente non era una del branco. Era un lupo come me e i suoi occhi giallo lucente ne erano la prova. Forse questa Custode, Astreya, poteva diventare il compagno che Deimos o chiunque altro non ero riuscito ad essere. Poteva essere l’unica donna ad attrarmi psicologicamente e l’unica a essere abbastanza forte da stare al mio passo. O forse ero ammattito.

   
 
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