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Autore: Rei_    26/07/2015    7 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Il lunedì successivo, Nicolò si svegliò più presto del solito. Si mise seduto, passandosi una mano sugli occhi stanchi e sui capelli arruffati, poi buttò un occhio alla sveglia. Sei in punto.
Il pensiero lo condusse subito a ciò che lo aspettava. Desiderò solo ributtarsi sul cuscino per non affrontare quel fatidico momento, ma poi si convinse che prima lo faceva, prima avrebbe evitato il peggio. Tirò fuori dal guardaroba un paio di jeans, optando per un abbigliamento meno formale del solito. Prese le solite scarpe in tela marrone e le indossò. Abbottonò la camicia bianca in fretta, sistemandosi bene il colletto. Infine, prese la giacca più usata che aveva, l'unica del suo guardaroba che lo faceva sembrare un po' meno parlamentare e un po' più se stesso.
Fece una lunga colazione pensando a tutti i dettagli delle sue scuse. Sarebbe passato casualmente dal corridoio dove c’era l’ufficio di Martino, camminando avanti e indietro finché non lo avrebbe incrociato. A quel punto gli avrebbe chiesto se avesse un minuto e lo avrebbe condotto fuori con la scusa della sigaretta, in modo da poter parlare lontano dal campo di orecchie indiscrete. Sarebbe bastato dirgli che gli dispiaceva, che quel giorno era nervoso e stressato per la votazione, che faceva fatica a reggere la tensione di essere da poco parlamentare e capogruppo e altre stronzate del genere. Se si fosse mostrato dispiaciuto, Martino non poteva che perdonarlo, e a quel punto era salvo. Avrebbe finito il tutto velocemente, così da dover sopportare il meno possibile l’imbarazzo dell’umiliazione.
Uscì di casa e inforcò la moto, pronto per la sua sfida più grande.
 
 
*
 
 
Aveva passato quel weekend principalmente a leggere e cucinare. Poi, però, non si era sentito di mangiare e aveva congelato quasi
 
tutto, prendendosi mentalmente l'impegno di invitare Thomas per smaltire tutta la roba.
Michele percorse la strada per Montecitorio con aria assente, come se ci fosse qualcun altro a muovere il suo corpo e lui stesse solo osservando dall’esterno. Era così sovrappensiero che neanche si accorse di aver chiamato l’ascensore per salire al suo ufficio, al posto di prendere le scale come al solito. La paura non fece in tempo a trattenerlo dall’entrare dentro quella scatola chiusa, e Michele non si accorse nemmeno che un’altra persona stava entrando dietro di lui.
I loro sguardi si incrociarono per un breve, brevissimo istante, ma tanto bastò perché il più giovane sussultasse.
«Secondo o terzo?» chiese Andreani con voce pacata, come se nulla fosse, come se con lui ci fosse una qualsiasi altra persona.
«Terzo» rispose Michele, cercando di imitare il tono indifferente mentre dentro di sé tutte le paure avevano iniziato a ribollire insieme. Provò a concentrarsi su qualsiasi cosa che non fossero le pareti strette dell'ascensore. Si era ritrovato esattamente dietro Andreani, e fu molto grato che lui non fosse girato nella sua direzione. Aveva una giacca vecchia e un paio di jeans, in un accostamento con le scarpe piuttosto trasandato. Michele si fissò su quei particolari a debita distanza, così da far passare il più velocemente possibile quei secondi che lo distanziavano dalla libertà.
La luce del secondo piano si illuminò quasi subito, ma quella del terzo continuò a lampeggiare per un tempo troppo lungo. Andreani schiacciò di nuovo un paio di volte il tasto, ma Michele percepì chiaramente che l'ascensore aveva rallentato, fino ad essere praticamente fermo tra i due piani.
«Ma che ha sto affare?» sbuffò il capogruppo del Fronte, premendo contemporaneamente tutti i tasti del pannello.
Michele vide chiaramente la luce interna dare due lampeggi. Scacciò subito dalla sua mente l'immagine del peggio. Era solo una malfunzione, solo questo e nient'altro.
Si avvicinò al pannello anche lui e schiacciò il tasto d'emergenza un paio di volte. Si sentì chiaramente un suono acuto, ma non successe nulla.
 
«Siamo... fermi?» chiese in un sussurro, senza riuscire a mantenere un tono indifferente.
«A quanto pare. Ma che cazzo! Non li controllano mai sti affari?» sbuffò Andreani, iniziando a girare in tondo nella piccola cabina. L'istante dopo, la luce interna lampeggiò di nuovo, oscurando e illuminando lo spazio ad un ritmo sempre più rado.
Michele la fissava, trattenendo il fiato. “Ti prego, non spegnerti, ti prego!” Poi, il buio totale invase l'intero spazio.
Il giovane deputato appoggiò la schiena alla parete dietro di sé, respirando piano. Le mani percorsero il metallo freddo, come per trovarne un punto di fuga. Sentiva il respiro iniziare a mancargli. No, non poteva succedergli questo. Non lì dentro, e soprattutto non con quell’uomo!
«Tutto bene?»
Nel sentire quella voce rivolta a lui provò subito l'impulso di allontanarsi il più possibile. La sua schiena si schiacciò ancora di più contro la parete, strisciandoci addosso fino a farlo arrivare allo spigolo. Le ginocchia cedettero e Michele restò a terra, nell’angolo.
«Che succede? Sei caduto?»
La voce nemica era più vicina, insieme alla sua sagoma buia. Michele la distingueva a malapena. Le palpebre si stavano appiccicando agli occhi per tutto il sudore freddo che gli stava uscendo da ogni poro.
«Sto bene».
Aveva parlato davvero? O aveva solo immaginato di farlo? Non lo sapeva, ma nel momento in cui provò a rimettersi in piedi sentì la testa fare numerose giravolte su se stessa, e l'istante dopo il suo corpo intero si trovò avvolto dentro il freddo del metallo. Tremò d’istinto per la differenza di temperatura con il corpo, ma poco dopo anche quella sensazione svanì, abbandonandolo ad un dolce torpore.
«Ehi! Cazzo, svegliati!»
Dopo l'ennesimo strattone, riprese lentamente coscienza. Fu sollevato di vedere una luce colpire i suoi occhi, ma era solo un debole led di emergenza, che a fatica rischiarava l'ambiente.
 
Qualcosa dietro la nuca gli stava provocando un dolore acuto. Ci portò istintivamente la mano, che si trovò immediatamente a contatto con un liquido caldo.
«Non muoverti».
Andreani stava armeggiando attorno alla sua borsa, e poco dopo gli appoggiò un fazzoletto all'orecchio sinistro. Solo in quel momento Michele realizzò che stava perdendo sangue.
Andreani lo stava guardando, ma lui restò ostinatamente con lo sguardo fisso verso il basso. Dopo un po' di tempo sentì il suo tocco sull'orecchio. Controllava che il sangue si fosse fermato, ma nonostante avesse intuito la sua intenzione si scostò istintivamente.
«Tranquillo, si è fermato».
Il capogruppo del Fronte gli tolse il fazzoletto, ormai completamente rosso per il sangue, per dargliene un altro pulito.
«Non c’è campo qua dentro per chiamare, ma ho scritto a Chiarelli con il wi-fi della Camera. Stanno arrivando a tirarci fuori».
Michele lo ascoltava a malapena mentre faceva scorrere freneticamente lo sguardo su tutte e quattro le pareti, da cima a fondo e in ogni angolo, alla ricerca di uno spazio aperto dove potesse passare l’aria. Provò a fare due respiri profondi, cercando di convincersi che di ossigeno ce n'era abbastanza, ma per qualche motivo gli sembrava che l'aria fosse d'un tratto diventata pesante e irrespirabile. La luce d'emergenza diede un altro lampeggio preoccupante, e immediatamente il suo viso si imperlò di altro sudore freddo. Strinse forte entrambi i pugni, cercando di controllare l'ansia crescente.
«Ehi, tutto bene?»
Michele si asciugò il sudore con la manica della giacca. Il respiro gli era diventato eccessivamente affannoso, per quanto tentasse in ogni modo di ridurlo al silenzio. Mai avrebbe voluto mostrare la sua paura più profonda davanti a quell’uomo. Al terrore di essere chiuso dentro un posto stretto e buio si aggiungeva la pesante umiliazione di mostrarsi debole con la persona che, solo qualche giorno fa, lo aveva trattato come una nullità.
«Sei claustrofobico per caso?»
 
La mano di Andreani aveva raggiunto la sua spalla. Provò subito a scrollarla via, ma l’altro la strinse saldamente.
«Perché non mi rispondi e basta? Cazzo, sto solo cercando di darti una mano!» gridò.
«Non sono claustrofobico...» sussurrò lui, infastidito.
Più cercava di riacquistare controllo, più sembrava perderlo del tutto. E maledizione, perché lui doveva stargli così vicino? Perché doveva stringergli così forte la spalla?
«Lasciami! Non mi toccare!» gemette, in preda ad un panico improvviso.
«Non ti tocco! Calmati!»
Michele continuò a muovere lo sguardo attorno a sé, come se fosse in trappola e con gli occhi misurasse le pareti della sua cella.
«Non vi ho fatto niente! Fatemi uscire! FATEMI USCIRE, BASTARDI!»
«Ma che dici? Che ti prende?»
Stava perdendo sensibilità ai muscoli. Lentamente la schiena scivolò lungo la parete dov’era appoggiata, raggiungendo di nuovo il pavimento freddo. Sentì tutta la fatica di riempire i polmoni. Come si faceva a respirare? Avrebbe dovuto essere un riflesso involontario, perché allora era così faticoso?
Il suo cervello era stretto in una morsa. Vide il suo corpo schiacciato tra le pareti, sgonfiato, con ciascun osso che si staccava e schizzava via dal suo posto, e lui che cercava di respirare ma l'aria non c'era, non c'era, non c'era...
«Per favore… per favore, fatemi uscire… non vi ho fatto niente…» Non era più dentro un ascensore. Era dentro uno sgabuzzino buio pesto, e il suo corpo era quello di un bambino, quel bambino troppo piccolo per ribellarsi, per buttare giù a calci la porta, per pensare anche solo di sfuggire a qualunque cosa gli capitasse.
Come odiava quel maledetto bambino. Come avrebbe voluto sfogare tutto quell'odio che negli anni aveva accumulato nel cuore. Togliersi di dosso quella vergogna di non riuscire nemmeno a nascondersi, a soffrire in silenzio e composto, perché dentro di sé sapeva che stava urlando e tremando in modo ridicolo.
 
In quel momento desiderò solo sprofondare nell'oblio, per non vedersi, non sentirsi urlare, non avere pietà di quel bambino così debole, non essere cosciente dell’umiliazione che stava passando. Dopo un tempo che sembrava interminabile, riprese pienamente coscienza. Il suo corpo era freddo a contatto con il pavimento, ma la sua testa era tenuta sollevata da una mano che non era sua.
Andreani lo stava guardando. E anche nel buio riusciva a intuire lo sgomento nascosto nel suo sguardo silenzioso.
Michele mosse la schiena con l'intenzione di tirarsi su, ma quel semplice movimento gli costò uno sforzo immane e fu comunque inutile, perché la mano di Andreani lo trattenne.
«Aspetta, è meglio che non ti muovi. Ho un po’ di acqua».
Gli passò una bottiglia di plastica, e Michele si tirò su quel poco che gli serviva per bere. Sentiva forti battiti premergli contro il petto ma ne percepiva la regolarità, e questo bastò a tranquillizzarlo un po'.
Probabilmente aveva appena dato uno spettacolo ridicolo e pietoso. Immaginò con disgusto Andreani che, una volta uscito, raccontava ciò che era appena successo ai suoi compagni di partito, ridendoci su. Anche se ora lo stava semplicemente guardando, con un’espressione indecifrabile in quel buio.
«Ti senti meglio?» gli chiese.
Michele sentì gli occhi bruciargli. Non si sentiva affatto meglio. Si sentiva stupido, debole, senza difese.
«Sì, un po’» rispose, forzando il tono per farlo sembrare tranquillo.
«Ma che ti salta in testa, eh?» Andreani alzò la voce mentre camminava nella piccola cabina, «prendere l’ascensore sapendo che sei claustrofobico! È completamente da irresponsabile!»
«Lo so» ammise piano, spiazzato di fronte a quell’accusa.
Per diversi minuti nessuno disse una parola, e l’unico rumore furono i passi di Andreani. Quando poi tornò a sedersi, si tolse la giacca e la porse a Michele.
«Cosa?» domandò lui secco, senza nascondere il risentimento nel tono della voce.
«Stai tremando da mezz'ora» tagliò corto Andreani. Michele la accettò senza ringraziare, irritato.
 
«Stanno arrivando. Non ci vorrà ancora molto, credo» buttò lì il capogruppo del Fronte.
Michele annuì leggermente. Stava provando degli esercizi di respirazione per calmarsi, ma non riusciva lo stesso a fermare i brividi. La conosceva bene quella sensazione. Aveva già vissuto tutto questo. A undici anni, per sei ore o qualcosa di più.
Ma almeno l'altra volta era da solo.
Si sarebbe tolto volentieri quella giacca. L'avrebbe gettata addosso all’altro, dicendogli che poteva tenersela, che di sicuro non gli serviva la sua pietà, ma la verità era che avere quel poco calore sul corpo lo stava facendo sentire meglio. Anche solo avere addosso un
odore diverso dal suo lo aiutava a non concentrarsi sulle pareti strette dell’ascensore.
«Senti» Andreani ruppe il silenzio, «riguardo l’altro giorno… io ero davvero fuori di me. Puoi capirne il motivo, visto ciò che è successo, ma non è una giustificazione. Mi dispiace per quello che ho fatto».
Sembrava che stesse misurando bene le parole. Probabilmente non era sincero, anche se quel tono rammaricato gli era uscito quasi del tutto credibile.
Michele sentì gli occhi bruciargli al solo ricordo, e girò il viso dall’altra parte. Nessuna scusa avrebbe riparato a ciò che era
successo. Anche con tutta la sua volontà, Andreani poteva scusarsi solo dello schiaffo. Per lui era stato solo quello, ma per Michele era un abisso che gli si era riaperto sotto i piedi. Cosa poteva saperne Andreani di tutto ciò che aveva rivissuto in quei giorni?
E poi, quelle scuse erano decisamente false. Era fin troppo evidente il motivo per cui lo stava facendo.
«Puoi stare tranquillo, non ti denuncerò» rispose lapidario Michele. Il silenzio che seguì fu carico di tensione. Evidentemente non si aspettava quel tipo di risposta.
«Non è quello il problema, okay? Mi sto scusando perché è giusto che lo faccia. Io non sono quel tipo di persona».
Questa volta la convinzione nelle sue parole assomigliava a quella dei suoi discorsi in Parlamento, e toccò a Michele non sapere come replicare.
 
Inspirò ritmicamente il profumo della giacca. Non riuscì a ricordare l’ultima volta che aveva avuto così vicino un odore estraneo.
Chiuse gli occhi per cercare di rilassarsi, ma ad occhi chiusi il buio era ancora più opprimente. Tenendoli aperti, però, sentiva le pareti strette della cabina bloccargli il respiro. Non sapendo cosa fare li tenne semichiusi, alzando e abbassando le palpebre al ritmo del respiro. Con la coda nell'occhio, notò Andreani di fianco a sé.
Guardava un punto fisso e non diceva una parola.
«Senti... tu vedi un condotto d'aria o qualcosa di simile?» chiese il giovane, esitando.
Andreani passò l'occhio sulle pareti.
«No…»
Michele lo vide alzarsi in piedi per controllare negli angoli e poi rivolgergli uno sguardo preoccupato. Ogni volta gli sembrava che quegli occhi verdi lo guardassero dentro.
«Hai paura che finisca l'aria?»
«No».
Cercò di sembrare sicuro almeno a parole, ma il tremito delle sue gambe e le pupille traballanti parlavano da sole. Quanto era stupido, non era neanche capace di mentire.
Andreani si sedette di fronte a lui, serio.
«Prova a fare come ti dico. Chiudi gli occhi, inspira forte ed espira lentamente».
Michele non lo fece. Lo guardò mostrando tutta la sua incertezza sul dubbio che volesse solo umiliarlo di nuovo.
Andreani sembrò non capire il suo sguardo.
«Ti aiuterà, dico davvero. Chiudi gli occhi, respira come ti ho detto e immagina un posto che ti è familiare».
Michele eseguì. Il profumo della giacca gli entrava nelle narici a fiotti, ad ogni respiro. Cercò di concentrarsi su quello, portando la sua mente da tutt'altra parte.
Immaginò il mare. Da bambino amava andare in barca con suo zio. Gli piaceva credere di arrivare in terre lontanissime e scoprire popoli nuovi, magari in qualche isola che nessuno ancora conosceva. A volte giocava con le reti da pesca, impigliandosi dentro. La cosa più bella però era avere in mano la vela e sentire il vento che faceva muovere la barca lontano, veloce veloce…
La sua testa iniziò a vagare da sola per paesaggi indefiniti, nel sole cocente d’estate. Era da solo nella sua barca a vela, eppure si sentiva così protetto. Il profumo era fresco, l’aria leggera, sapeva che niente poteva fargli del male.
Fu risvegliato dalle porte dell'ascensore che si erano riaperte al terzo piano, facendo entrare finalmente la luce.
«Onorevoli? State bene?»
C'era un commesso della Camera davanti a loro, con un’aria apprensiva dipinta in faccia.
«Il mio collega ha picchiato la testa, è meglio che vada in infermeria» rispose Andreani, mentre si alzava in piedi.
Michele cercò di tirarsi su, a fatica. Si era addormentato con il viso sopra il colletto della giacca di Andreani. Se la tolse dalle spalle, come se d'improvviso avesse iniziato a scottare, rimettendosi in piedi di scatto.
«No, sto bene, non è niente».
Restituì la giacca al proprietario con un grazie quasi sussurrato. Andreani se la rimise addosso senza fare commenti. In quel momento lo stava fissando con due occhi verdi penetranti. Michele distolse lo sguardo e indugiò sul corridoio ampio e sulla luce che entrava dalle finestre, lasciando che entrasse anche dentro di lui. Finalmente poteva tornare a respirare.
«Venga, la accompagno in infermeria» si offrì il commesso. Michele lo seguì controvoglia. In quel momento desiderava solo uscire da quello spazio chiuso e respirare quanta più aria possibile. L’infermiere gli disinfettò la ferita e il giovane non perse un altro minuto. Per la prima volta ignorò i suoi impegni da parlamentare e chiamò un taxi per farsi portare al parco di Villa Borghese.
Camminò per tutta la giornata, traendo conforto dal rumore leggero della natura, infine tornò a casa sua.
Si distese sul letto, respirando profondamente.
Era rimasto chiuso dentro un ascensore, al buio, per più di un’ora.

E lui, la notte, dormiva con porta e la finestra aperte. Quando era parecchio nervoso, lasciava anche accesa l'abat-jour. Aveva gli incubi. Da quando era stato chiuso in quello sgabuzzino non aveva più preso nessun tipo di ascensore, e non entrava mai in una camera prima di aver controllato le vie di fuga. Eppure…
Chiuse gli occhi per un attimo e bevve un sorso di tè alla vaniglia. Il sapore dolce della bevanda assorbì ogni suo pensiero, e gli sembrò che quel buio delle sue palpebre chiuse, per la prima volta dopo sedici anni, aveva smesso di fargli paura.
   
 
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