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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    26/07/2015    1 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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15.



"Voglio lasciarmi andare, 
voglio farmi catturare, 
rinunciare ai miei punti di riferimento, 
sgusciar fuori dalla persona che sono, 
abbandonarmi tutto alle spalle, come un serpente che si libera della sua vecchia pelle"



 
Maggio iniziò col sole e un tepore meraviglioso. La neve era ormai sciolta e la natura si stava risvegliando negli angoli verdi della città.

“Quindi, parlando di cose serie, cosa succede tra te e Cult?”

Alison le stava davanti, erano sedute ad un tavolino di Starbucks, in quella mattina tiepida e soleggiata. A Joan andò di traverso il caffè e iniziò a tossire.

“Ma…Cioè…A cosa ti riferisci?”

“Oh, avanti, non sono mica nata ieri! Le occhiatine, lui che ti presta la giacca…C’è qualcosa che bolle in pentola!”

Joan sbuffò, ma si arrese presto al fatto che Alison avesse capito tutto, così le raccontò del bacio, del fatto che l’avesse ignorata per giorni e della serata del ricevimento. Alla fine le aveva anche raccontato di David, del perché aveva lasciato Washington e finalmente sentì di avere un’amica, una vera. Non che a Washington non avesse amici, ma nessuno a cui fosse particolarmente legata…Erano più conoscenti, che amici.

Alison era ormai un’amica. Si erano viste molte volte e parlavano di tutto, ma era la prima volta che andavano sul personale.

“Se vuoi la mia opinione, Cult a te tiene molto è solo che non è abituato a legarsi alle persone…E’ così legato a Duck e Steve solo perché si conoscono da una vita e perché insieme ne hanno passate tante”.

Joan si passò una mano tra i capelli e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

“Sono stata con Steve per anni, e nonostante sapessi che mi amava non poteva far a meno di aiutare Cult, sempre e comunque e io non me la sono sentita di avercela con lui…E’ un bravo ragazzo e ama Austin più della sua vita, ma certe persone sono legate indissolubilmente e io ho dovuto accettarlo. Cult è una persona complicata, lo conosco da anni e ad oggi non posso dire di conoscerlo veramente”.

“Diciamo che complicato è riduttivo”.

Alison rise, sorseggiando il cappuccino.

“Mandalo al diavolo se se lo merita, ma sappi che è una bella persona, in grado di dare molto!”

“A volte penso che in lui ci siano due persone, una scontrosa e una premurosa e quando esce la sua parte migliore, quella peggiore prende il sopravvento per proteggerlo”.

“E’ uno che ha sofferto molto…”

Joan sembrò interessata a quel discorso, ma come temeva, Alison non aggiunse altro, mordendosi il labbro per essersi lasciata sfuggire un po’ troppo.

“…Comunque non ho ancora un lavoro…” Disse Joan per spezzare il silenzio.

“Oh, Joan, mi dispiace così tanto. Ti sei trasferita qui sicura di un lavoro e ora non ce l’hai più…Il mondo è ingiusto”.

Mise il broncio come una bambina e Joan si lasciò scappare una risata.

“Ho anche cercato lavori che non c’entrano nulla con la psicologia, ma niente…Apparentemente sono troppo qualificata per fare la commessa o qualsiasi altro lavoro”.

“Vedrai che troverai qualcosa, insomma, tu sei una donna bella e intelligente e vedrai che troverai il lavoro giusto!”

Joan adorava il suo ottimismo. Era così incoraggiante che avrebbe creduto a qualsiasi cose le avesse detto. Alison era la persona che avrebbe voluto essere. Ottimista e sempre di buon umore. Era una bella persona e passare il tempo con lei le faceva dimenticare qualsiasi problema.

Alison tirò fuori il telefono per controllare l’ora.

“Oh accidenti, devo già andare al lavoro. Che noia”. Sbuffò sonoramente buttando giù l’ultimo sorso di cappuccino e si alzò sorridendo a Joan. “Ci vediamo presto, magari domani faccio un salto al Moring Glory, fammi sapere se ci sei, così ci vediamo”.

“Certo. Io rimango ancora un po’, è la cosa positiva del non avere un lavoro…”

Assunse un’aria imbronciata, ma fingeva. Si sporse verso Alison per schioccarle un bacio sulla guancia.

“Ciao, ci sentiamo presto!”

Joan annuì. “Buon lavoro!”

Rimase lì ancora un po’, a guardare le persone che passeggiavano o quelle che correvano da una parte all’altra. Era una cosa che faceva da sempre, sedersi e osservare gli altri, immaginare cosa pensassero, cosa stessero andando a fare, da chi corressero.

Lo sguardo le cadde su una coppia che camminava mano nella mano. La ragazza non era particolarmente alta e aveva i capelli scuri, mentre lui era alto, i capelli spettinati e corvini che ondeggiavano al vento. Le sorrideva spostandole una ciocca dal viso.

Per un attimo, uno soltanto, immaginò lei e Cult in quella situazione. Non era mai stata amante delle manifestazioni d’affetto di quel tipo. Camminare mano nella mano era una cosa che non aveva mai fatto, neanche quand’era al liceo. Eppure, per un attimo immaginò lei e Cult stretti mano nella mano, a guardare una vetrina.

Scosse la testa, scacciando quel pensiero e tornò a sorseggiare il caffè, che oramai era solo leggermente tiepido.

Con Cult non sarebbe mai stata così, non sarebbe mai successo altro. Si diede della stupida. Forse conoscere qualcuno l’avrebbe aiutata, o forse avrebbe cercato in qualsiasi uomo quegli occhi chiari, quei lineamenti forti e decisi, quelle labbra carnose, che diventavano ancora più belle quando si aprivano in un sorriso.

Si alzò abbandonando gli ultimi sorsi di caffè nel contenitore e iniziò a camminare a passo svelto, sperando che camminare l’aiutasse a non pensare.
 

Prese la metro e poche fermate dopo si ritrovò al Morning Glory. Si ricordava che Steve le aveva detto che sarebbe stato al locale tutto il giorno per i preparativi di una festa di compleanno.

Bussò alla porta producendo un fastidioso suono metallico e si trovò davanti uno Steve sorridente e accaldato.

“Joan, che bello vederti!”

“Ciao, come va? Non avevo nulla da fare e ho pensato di venire ad aiutarti…Spero non ti dispiaccia!”

“Scherzi? Siamo solo io e Angela e siamo indietrissimo! Entra!”

“Potresti aiutare Angela a spostare i divanetti nella saletta? E’ da quella parte”.

Steve le indicò una saletta protetta da delle tende scure poco distante dal bancone.

Joan annuì togliendosi la giacca e posandola sul bancone. Raggiunse Angela dove le aveva indicato Steve e la trovò indaffarata a spostare tavolini e divanetti.

“Ciao Joan, che ci fai qui?”

“Aiuto”. Si mise dall’altra parte del divano e lo spinse, mentre Angela spostava un tavolino basso.

Angela era una ragazza minuta, non molto alta, di origine ispanica. La madre era messicana e il padre americano.

Spostarono tutto ciò che andava spostato e un’ora dopo avevano finito ed erano stremate.

“Oddio, che fatica”. Joan si era tolta anche il maglioncino e si era legata i capelli, che le andavano davanti agli occhi impedendole di vedere.

“Già, dovevano esserci anche gli altri ma Caroline ha la febbre e Marcus è a prendere da mangiare per questa sera.

“Insomma, la mia forza possente vi ha salvato…”

Angela rise di gusto.

“Mi dispiace un po’ lasciare questo locale…”

Joan la guardò, stupita. “Ma come?! Te ne vai?”

“Sì, Steve non te l’ha detto? Vado in Oregon col mio fidanzato”.

“Ah, le cose si fanno serie”.

“Sì, bè, me lo ha chiesto e non ho nulla che mi trattenga qui, quindi mi sono detta: perché no?!”

“Hai fatto bene, cambiare aria è bello! Te lo dice una che ci è passata…”

“Ti ammiro molto, sai…” Le confessò quasi sussurrando.

Joan era sorpresa da quelle parole. Conosceva Angela da poco, ma era una ragazza dolce e gentile, molto riservata ma estremamente disponibile.

“Sì, insomma, sei venuta qui da sola, senza conoscere nessuno, hai iniziato una nuova vita. Io non so se avrei avuto il coraggio di andarmene se non avessi avuto il
mio fidanzato…” Era lievemente imbarazzata, le guance imporporate più per quella rivelazione che per lo sforzo fatto. “Ci tenevo solo a fartelo sapere, ecco…”

“Grazie, Angela. Sono sicura che ti troverai benissimo in Oregon e sappi che voglio essere invitata al matrimonio!”

Quella conversazione fu interrotta da Steve che si complimentava per la loro velocità. Aveva in mano tovagliolini e piattini, che sistemò su un tavolo dall’altra parte della piccola sala.

“Io faccio una pausa fidanzato”. Disse Angela agitando il telefono che teneva in mano.

Steve stava per andarsene quando Joan lo fermò.

“Steve posso parlarti un attimo?”

“Certo”. Aveva un tono incerto, quasi si aspettasse brutte notizie.

“Senti, Angela mi ha detto che si trasferisce…”

“Sì, pensavo di avertelo detto,ma mi dev’essere sfuggito”.

“Sì, ma non è questo il punto…Io mi chiedevo…Sì, insomma, mi chiedevo se potessi prendere il suo posto”.

Steve rise di gusto, come se avesse detto la barzelletta più divertente del mondo.

“No, scusa, perché ridi? Cos’ho detto di così divertente?!” Chiese Joan un po’ irritata.

“No, niente, è che pensavo scherzassi. Sì, io non ti ci vedo a fare la cameriera, tutto qui…”

“Steve ho bisogno di un lavoro, mi sono laureata col massimo dei voti, penso di essere in grado si fare la cameriera!”

“Non ho detto che non ne saresti in grado, è solo che sei laureata in psicologia, insomma, hai studiato tanto per questo e non voglio che tu ti arrenda…”

Joan sorrise. Steve era sempre gentile e premuroso e lei ormai gli voleva bene.

“Senti…La situazione è questa: sono senza lavoro e nonostante tutti mi rincuorino dicendo che ne troverò presto uno, temo che non sarà così”. Abbassò lo sguardo, intristita. “Hai ragione, ho studiato tanto, mi sono impegnata e sono felice di quello che ho ottenuto, ma le ho provate tutte: studi privati, ospedali, organizzazioni, ho persino contattato i miei professori all’università e nessuno ha bisogno di me…Ho anche cercato un lavoro non attinente con la psicologia e mi è stato detto che una laureata è troppo qualificata”.

Prese la mano di Steve tra le sue, cercando il suo sguardo.

“Sei la mia ultima spiaggia, Steve. Dammi una chance, e se fallirò potrai cacciarmi a calci, non ti chiederò una seconda possibilità!”

Steve sorrise, intenerito.

“Va bene! Incomincia sta sera, ok? Caroline è ammalata e ci sarà un sacco di gente”.

“Davvero?” Lo abbracciò con slancio, rischiando di farlo sbilanciare. “Grazie, Steve!”

“Guarda che non riceverai un trattamento di favore! Presentati alle nove”.

“Ci sarò”.

“Orai vai a casa a riposarti, questa sera lavorerai molto. Ah, ultima cosa: la divisa è composta da camicia bianca e pantaloni scuri, sono sicuro che nel tuo guardaroba enorme hai qualcosa del genere!”

Lei gli fece la linguaccia, poi recuperò la giacca e fece per uscire, ma fu rincorsa da Steve.

“Aspetta Joan, quasi dimenticavo. Ho una busta per te”.

Prese una busta giallognola da sotto il bancone e gliela porse.

“Cos’è?”

“Me l’ha data Cult, mi ha chiesto di dartela perché lui è impegnato”.

Sì, impegnato ad evitarla!
...Anche se, a dire il vero, era più lei quella che controllava dallo spioncino che lui non fosse nei paraggi prima di uscire.

Alzò le spalle e si sedette su uno degli sgabelli per aprirla. Quasi cadde dalla sedia quando vide il contenuto.

Soldi. Molti soldi.

Li contò velocemente. Mille dollari, in banconote di piccolo taglio.

Non capiva. Decisamente non capiva.

“Scusa Steve, tu sai cosa vogliano dire questi?”

Gli sventolò sotto il naso i soldi, mentre lui era intento a sistemare dei bicchieri. Steve alzò le spalle, distogliendo lo sguardo.

Sapeva più di quanto volesse dire.

“Steve, guarda che non me ne vado finchè non ti decidi a dirmi perché Cult mi vuole dare mille dollari”.

“Oh d’accordo”. Disse sbuffando. “Sono per Pavlov”.

“Ah, bene, quindi vengo pagata per fare l’accompagnatrice…Di male in peggio!”

Steve scosse violentemente la testa. “Ma no…Pavlov ha voluto noi solo perché c’eri tu, e quindi Cult ha ritenuto opportuno darti una parte del guadagno”.

“Io non li voglio i suoi soldi”.

“Tecnicamente sono di Pavlov, non suoi...”

Joan lo fulminò con lo sguardo.

“Steve non sono in vena di battute. Posso sapere dov’è Cult ora?”

“Io non saprei, potrebbe essere ovunque per quanto ne so…”

Era un’altra bugia…Steve era trasparente e non sapeva mentire.

Joan scese violentemente dallo sgabello.

“Ora tu mi dirai dov’è il tuo amichetto e non ho bisogno di minacciarti perché so che mi vuoi bene e che mi dirai dove diamine è!”

Steve sembrava combattuto, ma poi si rassegnò. “A casa…”

“Grazie, sei un amico! Ci vediamo questa sera, alle otto, hai detto?” Era una sorta di domanda retorica, perché quando finì di porla era ormai già sulla porta.

“Alle nove”. Le urlò lui per essere sicuro lo sentisse anche da fuori.

 
Arrivò al 4B quasi un’ora dopo. Suonò il campanello incessantemente.

Da dietro la porta di sentivano strani rumori, ma lei continuò a tenere  l’indice sul campanello, imperterrita.

“Ma che diamine, un po’ di pazienza! Neanche gli sbirri sono così rompicoglio…”

Ma non finì la frase, perché quando si trovò di fronte Joan era stupito. L’aveva evitata per giorni, seguendo il consiglio di Steve, ma ora che ce l’aveva davanti, i capelli legati in una coda morbida e la giacca tenuta aperta, si rese conto di quanto gli fosse mancata.

Si fece da parte e Joan non aspettò neanche che la invitasse a entrare. Si piazzò al centro del piccolo salotto e tirò fuori la busta dalla borsa.

Le era venuto un infarto ogni volta che qualcuno l’aveva urtata per strada e in metro aveva tenuto la borsa così stretta sotto il braccio che aveva i muscoli doloranti.

“Questi cosa sono?”

“Soldi, ragazzina, cosa vuoi che siano, patatine fritte?!” Ghignò, come suo solito, ma lei non aveva voglia di scherzare.

“Non sono qui per scherzare”.

Lui la ignorò, andando in cucina per versarsi del whisky nonostante l’ora. Le indicò la bottiglia, in un tacito invito a servirsi, ma questa volta fu lei a ignorare lui.

“Non voglio i tuoi soldi”. Disse sbattendo la busta sul tavolo. Era aperta e, di conseguenza, alcune banconote uscirono e si sparsero sul tavolo.

“Non sono miei, sono di Pavlov”.

Dio, ma lui e Steve ragionavano insieme?!

“Sì, questa l’ho già sentita, ma non mi interessa chi li abbia prelevati. Non li voglio neanche se sono del presidente Obama”.

“Pavlov ha accettato di lavorare con noi solo se ci fossi stata anche tu. Se tu non avessi accettato , noi non avremmo visto una lira, quindi ti spetta una parte. Accettala e falla finita di fare l’orgogliosa!”

“Io non faccio l’orgogliosa, vi ho aiutato perché mi faceva piacere rivedere Dimitri”. Urlò . “Non sono un’accompagnatrice!

 “Ti sevo ricordare che sei senza lavoro e quei soldi ti servono o da grande donna di mondo hai trovato un pozzo di petrolio sotto il pavimento?”

Lei sbuffò stizzita. Era sfiancante litigare con lui. Ma le era mancato. Tanto.

“Non sono affari tuoi come mi mantengo, di certo non accetterò i tuoi soldi”.

“Ah quindi è questo il punto…Se i soldi te i avesse dati Dimitri li avresti accettati,..”

“Cosa stai insinuando, Cult?”

Lui alzò le spalle. Era geloso, ma non l’avrebbe mai ammesso. Era dannatamente geloso perché Pavlov aveva potuto ballare e ridere con lei, mentre lui aveva dovuto allontanarla, e odiava il fatto che fosse solo colpa sua e del suo caratteraccio.

“Non insinuo niente”.

“Ottimo, perché non ne hai alcun diritto”. Si era avvicinata senza rendersene conto e quando lui alzò il braccio per buttar giù l’ultimo sorso di whisky, fu inondata dal suo
profumo.

Indietreggiò d’istinto, incapace di stargli troppo vicino, e gli voltò le spalle. Di fronte alla cucina c’era la camera da letto e lei non potè fare a meno di dare un’occhiata. Il letto era completamente disfatto, le lenzuola erano per terra e un cuscino giaceva abbandonato ai piedi del comodino.

Ecco perché aveva i capelli così scompigliati, ecco perché aveva quel viso così rilassato e gli occhi lucidi. Aveva appena fatto sesso. In quel letto. Pochi minuti prima che lei arrivasse. Un conato di vomito le impedì di respirare per un secondo, ma poi tornò in se.

Non avrebbe permesso a un uomo di ferirla. Dio, quanto si sentiva stupida! Nemmeno una ragazzina avrebbe avuto una reazione simile…

Si slegò i capelli, improvvisamente tutto le dava fastidio.

“Tutto bene?”

La sua voce era vicina, calda e avvolgente. Lei si limitò ad annuire, incapace di parlare.

Quando si voltò se lo trovò troppo vicino e indietreggiò di alcuni passi. Lui capì che non voleva la sua vicinanza.

Si avvicinò al tavolo e raccolse la banconote, rimettendole nella busta. Gliela porse tenendola per un lato, volendo evitare ogni qualsiasi contatto.

“Prendili”. Spinse la busta contro il suo braccio. “Per favore”.

Joan voleva uscire da quell’appartamento e sapeva che l’unico modo era accettare quel denaro, quindi prese la busta e se ne andò, senza dire una parola.
 

Alle otto e mezza era già al Morning Glory. Aveva passato fuori il resto della giornata. Sapere che Cult era dall’altra parte del pianerottolo le aveva reso impossibile restare in casa, perciò era entrata nell’appartamento solo per lasciare i soldi e prendere una camicetta bianca e un paio di jeans scuri. Se li era cacciati in borsa, sicura che sarebbe rientrata a casa solo la notte.

Aveva vagato per la città. Era il lato positivo del non avere un lavoro. Aveva scoperto luoghi meravigliosi, posti poco turistici, locali pieni di fascino e scorci da fotografare. In quelle settimane aveva riempito la galleria del telefono di foto di New York.

“Sei in anticipo!” Steve la accolse con un grande sorriso, mentre Angela rientrava nel locale col telefono in mano.

“Joan, che bello che lavoreremo insieme anche se solo per pochi giorni!”

Avevano chiacchierato per un po’, mentre Steve le spiegava come funzionava.

“Dunque, apriamo alle nove e mezza e chiudiamo alle tre dal lunedì al giovedì, mentre venerdì, sabato e domenica chiudiamo alle quattro”.

Joan non si sarebbe adattata facilmente a lavorare di notte e dormire di giorno. Lei adorava svegliarsi presto, fare colazione con calma leggendo il giornale o controllando le mail. Non si sarebbe adeguata facilmente a quella nuova vita, ma non lo diede a vedere.

“Perfetto, sono nata per vivere di notte!”

“Ottimo. Servire ai tavoli non è difficile, non preoccuparti. Prendi le ordinazioni, me le consegni e le porti al tavolo. Lineare”.

“Steve, sta tranquillo, ho passato l’esame di neuroscienze, penso di farcela a portare dei cocktail…”

Steve rise scompigliandole i capelli, cosa che la fece sbuffare rumorosamente.

Dall’entrata secondaria entrò il buttafuori che stava all’ingresso e che Joan aveva capito essere Marcus.

“Marcus, lei è Joan, lavorerà con noi quando Angela andrà via e per ora sostituisce Caroline”.

“Ciao, è un piacere conoscerti!”

Marcus era un bel ragazzo, alto un buon metro e novanta, la carnagione abbronzata, probabilmente artificialmente. Aveva un tatuaggio tribale che gli abbracciava il lato destro del collo, ma non era l’unico, un’ancora spuntava dalla camicia, incisa all’interno del polso.

“Bè, io vado a cambiarmi”. Indossava ancora gli abiti di quella mattina e dato che mancavano pochi minuti all’apertura andò in bagno per sostituire i jeans chiari con quelli neri e la camicia a fiori con quella bianca, un po’ stropicciata per essere stata tutto il pomeriggio nella borsa.

Aveva ancora ai piedi le converse nere. Bè se non altro non doveva indossare i tacchi…

Si guardò nello specchio del bagno, si osservò, si scrutò. Aveva paura, come quel giorno di metà febbraio quando aveva preso l’aereo per New York. Aveva paura ma si sarebbe lasciata andare, avrebbe abbracciato quel nuovo inizio.

Inspirò sonoramente, svuotando poi i polmoni lentamente, come se l’aria che avesse a disposizione fosse limitata, e tornò nella sala. Marcus era sparito, probabilmente era all’entrata, sua postazione, mentre Angela e Steve erano dietro al bancone.

La musica era stata accesa e i primi clienti entravano e alcuni si accomodarono ai tavolini mentre altri al bancone.

“Ok, Angela prende quel tavolo, tu prendi quell’altro”. Steve indicò a Joan il tavolo a cui recarsi e le diede una pacca d’incoraggiamento. “Vai e torna vincitrice”.

E così fece. I ragazzi avevano appena appoggiato la carta con l’elenco dei cocktail.

“Ciao ragazzi, avete già deciso?”

Sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi cercando di nascondere il nervosismo. Non aveva mai fatto quel tipo di lavoro, o meglio…Lo aveva fatto per solo un mese, in una caffetteria vicino al campus.

Si era fissata che voleva un lavoro, più per dimostrare a sua madre che era in grado di mantenersi, almeno in parte, che per altro. Aveva retto un mese, ma poi l’avevano cacciata dopo che aveva risposto a tono a un maschilista retrogrado che faceva discorsi degni di un verme.

“Io prendo una birra media chiara”. Disse un ragazzo moro, probabilmente da poco in età legale per bere.

Joan annotò la sua ordinazione, a cui aggiunse quella dei suoi amici: un cuba libre, un virgin mojito e un cosmopolitan.

Si diresse da Steve vittoriosa.

“Una media chiara, un virgin mojito, un cuba libre e uno dei tuoi fantastici cosmopolitan”.

“Arrivano subito”.

Nel frattempo prese altre ordinazioni e la serata proseguì senza problemi fino alla prima pausa, che si prese attorno all’una.

Il locale era pieno e faceva caldo. Le serviva aria e dato che Angela riusciva a gestire bene la situazione, lei si prese una breve pausa. Uscì e si stiracchiò per bene. Era un lavoro stancante per una che era abituata a far lavorare più il cervello e la lingua che le gambe.

Fu allora che un odore, un profumo familiare, la avvolse facendole venire i brividi.
 
Ehi Ehi Ehi! Salve!
Questo capitolo arriva fresco fresco di domenica, come la Pasqua, l'Angelus in San Pietro e la colazione alle due del pomeriggio!
Come mi era stato fatto notare, nell'ultimo capitolo Joan era un po' giù di tono, ma ora si è ripresa alla grande a mio parere. Voi che dite? La promuoviamo o la rimandiamo a settembre? 
A presto,

xx

 
  
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