Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: Melian    26/07/2015    0 recensioni
"«Questo è il Grande Segreto della nostra razza», concluse gravemente Demetrius quando Sanakht non volle più continuare a parlare." Qual è il Grande Segreto che si cela a proposito dei Vampiri? Cos'è accaduto quando Alphonse è sparito, subito dopo aver detto addio ad Alexandra? Riuscirà a ricongiungersi a lei? E come potrà Alexandra seguirne le tracce, se non con l'aiuto dei Vampiri più antichi che Alphonse ha potuto conoscere durante la sua lunga esistenza? In un'avventura che catapulta Alphonse e tutti i suoi amici fino ad Alessandria d'Egitto, finalmente il duca di Benavia potrà svelare il mistero che a lungo aveva inseguito.
[Sequel di "Letter to Alexandra" e "L'Eco del Sangue"]
Genere: Avventura, Dark, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 1 - VIOLATE

 

 

 

“Sono nata a Roma, quando Cesare era nel pieno della sua ascesa. E vidi Roma cambiare nelle mani di quell'uomo che si struggeva dal desiderio di uguagliare Alessandro Magno, conquistatore di gloria imperitura a soli trent'anni.
Non guardarmi con quegli occhi colmi di meraviglia, Alexandra, ti prego.

Lo so, sono vecchia nel Sangue più di quanto, probabilmente, persino Alphonse abbia mai sospettato. Non gli ho mai parlato in questo modo del mio passato: lo faccio con te, in modo che tu comprenda che non devi considerarmi una nemica, ma una donna che ha avuto il tuo stesso anelito alla vita e alla libertà.
Crebbi allo stesso modo di qualsiasi altra ragazza di famiglia aristocratica: mio padre era un Senatore, mia madre invece una patrizia originaria di Napoli; entrambi tenevano al buon nome della famiglia e all'idea di farmi sposare ad un uomo ricco e potente che potesse portarci lustro.
Non c'è molto da dire sulla mia educazione e sulla mia infanzia, perché non accadde nulla di emozionante. Ricordo, inoltre, davvero molto poco di quei giorni passati tra le arieggiate stanze della domusi e i cortili dove troneggiava l'impluviumii, circondato da colonne rastremate di marmo. Mi insegnarono a leggere e scrivere, far di conto, suonare e danzare, nonché a tessere e cantare. Ricordo anche che adoravo leggere le poesie e le tragedie greche e che mio padre aveva scelto uno dei migliori insegnati ateniesi perché imparassi la lingua dell'Ellade.
Fecero di tutto per preservare la mia virtù fino al giorno del matrimonio stabilito con un uomo più vecchio di me di vent'anni che portava il nome di Marcello e conduceva una vita agiata: era il proprietario di numerose botteghe e sedeva in Senato al fianco del mio genitore.
Mi sposai, dunque, a soli quindici anni: la mia vita passò dalle mani di un uomo a quelle di un altro come se fossi una merce e lo sposalizio null'altro che un mero contratto d'affari.
A quel tempo, le donne non erano molto diverse dai sesterzi che potevano passare di borsa in borsa con facilità disarmante a seconda della convenienza del momento.
L'esistenza delle fanciulle romane ruotava attorno agli interessi degli uomini: fidanzarsi, sposarsi, divorziare e ancora risposarsi a seconda degli interessi della propria gensiii, della politica e degli interessi, della legge di turno da approvare o far affossare in Senato. Una vita di abnegazione al volere altrui, per poi restare in ombra in un angolo, ritagliandosi lo spazio appena sufficiente per essere consapevoli d'esistere, di possedere una propria volontà e propri desideri.
Allora le aristocratiche avevano smesso di cardare la lana e attendere i mariti chiusi nelle proprie stanze: se non potevano essere davvero libere, erano divenute libertine. Gli amanti e gli incontri clandestini che si succedevano si perdonavano; le scappatelle e le avventure di cui i mariti venivano a conoscenza erano taciuti come non fossero mai accaduti e i costumi morigerati divenivano solo un orpello da sfoggiare per ravvivare le apparenze in società.
Comunque, il marito che mi era stato imposto era desideroso di poter avere figli maschi a cui poter lasciare le proprie ricchezze e di sfoggiare una donna giovane, casta e morigerata, nei ricevimenti che organizzava nella nostra sfarzosa domus.
Se ero felice? Naturalmente non lo ero, ma il mio ruolo mi imponeva di essere la sposa devota, come prima ero stata la figlia ubbidiente. Mi accontentavo di dirigere i lavori domestici, assegnando ai servi i compiti giornalieri, presiedendo alla preparazione dei pasti e alla filatura della lana, venerando i Lariiv nella loro nicchia nell'atrio della casa.
Ero troppo intelligente – e forse, per mio padre, questo era particolarmente esecrabile – per non comprendere quale fosse il mio ruolo e cosa gli altri si aspettassero da me: dovevo essere la custode di quegli affari che avrebbero garantito al mio genitore e ai miei fratelli ampio appoggio in Senato, una presenza discreta che doveva fare gli interessi della sua gens. Ed ero troppo intelligente anche per non soffrire di questo.
Aspettai con ansia di restare incinta, ma non accadde. Passai giorni prostrata, piangendo al pensiero di essere ripudiata e finire in disgrazia. Tuttavia, Marcello mi sorprese: venne a consolarmi, scostandomi i capelli sfuggiti all'elaborata acconciatura e asciugandomi le lacrime. Non mi disse nulla, rimase semplicemente ad osservarmi in silenzio e mi strinse a sé.
Era un romano pragmatico e senza scrupoli quando si trattava di affari, un ospite eccezionale nei convivi quando intratteneva gli invitati distesi sui triclini e offriva il miglior vino speziato della nostra cantina. Eppure, quell'uomo che avevo sempre considerato duro e implacabile, si era dimostrato capace di essere un marito gentile. Forse, nonostante tutto, provava affetto nei riguardi di quella ragazza che suonava la lira per lui quando tornava dal foro, gli leggeva gli scritti dei filosofi greci e recitava Omero. O, semplicemente, l'alleanza con la mia famiglia gli era troppo utile e comoda per poter essere infranta.
Nei giorni che seguirono non fece più parola di quell'episodio, ma mi spedì assieme alla mia schiava personale a comprare nuove stoffe, gioielli e vasellame, nonché dei preziosi unguenti e trucchi provenienti dall'Egitto. Era chiaro che non voleva divorziare e, quando mi annunciò che avrebbe adottato un talentuoso giovane e lo avrebbe designato come proprio successore, non mi opposi. In cambio, diventai una padrona di casa ancor più diligente e una sposa ancor più premurosa. Lo rispettai sempre, anche quando passava le notti con le sue amanti.
Ci prendevamo cura l'uno dell'altra nel modo discreto e razionale tipico dei romani: senza proclami eclatanti, ma con piccoli gesti pratici e mirati.

Nonostante la mia famiglia vedesse in malo modo il fatto che non riuscissi a concepire e che mi reputassero un fallimento, non osteggiarono il mio matrimonio fin tanto che esso portava un buon tornaconto anche a loro.
I miei fratelli e le mie sorelle, invece, avevano avuto molti figli e io adoravo viziare i miei nipoti e giocare con loro. Mio padre si chiedeva spesso cosa avesse fatto di male perché gli Dei lo avessero punito con una figlia sterile, si tormentava all'idea di un divorzio che avrebbe gettato discredito sulla nostra gens. Così, mi guardava sempre con sospetto, come se fossi colpevole di un efferato delitto. I suoi occhi inquisitori e la smorfia di disapprovazione impressa sulla sua bocca furono il marchio della sua ingombrante presenza, fino alla sua morte.


Sentivo, tuttavia, un vuoto inesplicabile. Non potevo dire di essere davvero soddisfatta, nonostante l'agiatezza in cui vivevo e la rassicurazione dell'affetto di Marcello. Mancava qualcosa che non aveva né nome, né volto.
È strano come possa mancare in modo così potente qualcosa di cui non si conosce nemmeno l'esistenza, vero?
La mia inquietudine non passava con gli anni, anzi si acuiva. Sentivo che il mio corpo si trasformava, lo avvertivo come mai prima d'ora e – per la prima volta – scoprì il conturbante desiderio di comprendere di quali sensazioni fosse capace, di quanta passione potesse farsi carico.
Soffocai quel pensiero, quella scintilla, turbata. Cercai di non pensare a quanto avessi bisogno di provare l'amore autentico di un uomo che mi desiderava e che poteva farmi conoscere l'apice di ogni delizia. Provai a scacciare l'idea di quanto mi sarebbe piaciuto giacere sfinita dopo un selvaggio amplesso, di sentire mani forti avvolgermi i seni e labbra serrate sui capezzoli turgidi. Affogavo la mia sete da sola, quando mi rigiravo nel mio letto in piena notte e facevo vagare le mani sul mio stesso corpo, tremendamente consapevole di ogni più minuto scampolo di pelle e dei brividi che le mie stesse dita mi provocavano.
Marcello non poteva fare nulla per me, da quel punto di vista. Erano passati cinque anni da quando mi ero sposata e a vent'anni desideravo conoscere l'amore e la passione. Tuttavia, il senso di lealtà nei riguardi di mio marito e la gratitudine che provavo per il fatto che non mi avesse scacciata, mi impediva di cercare l'amore autentico e di soddisfare il mio appetito per la vita. Ero giovane, ma detestavo l'idea di tradire l'uomo con cui dividevo il tetto e che mi consentiva di vivere come una vera matrona.
Il mio dissidio non durò molto. Marcello morì nell'autunno del sesto anno di sposalizio e mi lasciò a vivere la mia vita come una donna libera. Non c'era più nessuno che potesse impedirmi di condurre l'esistenza nel modo in cui desideravo. Il mio figliastro, inoltre, non mi procurò alcuna preoccupazione, troppo occupato ad amministrare la sua eredità: trovammo un ottimo accordo e io rimasi nella domus di famiglia, vivendo di rendita.

 

Iniziai a frequentare gli ambienti mondani, stando attenta a che la mia reputazione non ne venisse macchiata. A quel tempo, infatti, le donne troppo colte e troppo libere erano malviste e condannate aspramente, figurarsi le vedove che si concedevano il lusso di comportarsi in maniera sfacciatamente libera: l'epiteto più lusinghiero che potessero sperare di ricevere era sgualdrina.
Tuttavia non mi importava davvero cosa dicessero di me: desideravo soltanto vivere e riguadagnare il tempo perduto.
Fu così che incontrai Clodia Pulcra, la moglie del proconsole Quinto Cecilio Metello Celere: Lesbia, la musa di Catullo.
Come posso descriverla? Era bella, Clodia, di quella bellezza spregiudicata e pericolosa, affatto convenzionale. Una di quelle donne che si desiderano non per la luce che emana – e in lei non ve n'era alcuna – ma per l'indiscutibile fascino della corruzione e della perdizione a cui s'accompagnano. Era di una beltà pericolosa e ricca di fascino perché, sotto sotto, qualsiasi uomo sapeva che gli avrebbe procurato solo guai e pene; una di quelle donne che ambivano a possedere poiché al tempo stesso repellono e attraggono, in un singolare gioco di contrasti, per provare a se stessi e soprattutto agli altri che potevano domare quella Furia famelica che poteva succhiargli tutto il midollo.
Non era questione solo di aspetto esteriore, capisci? Clodia possedeva il passo elegante e famelico di una pantera: qualsiasi cosa toccava, diveniva sua; qualunque uomo volesse sedurre, cadeva ai suoi piedi; qualsiasi ricchezza ambiva, la conquistava. Possedeva una sconvolgente passione, una di quelle passioni fosche che consumano da dentro come un fuoco. Clodia era pericolosa quanto la rosa dal gambo colmo di spine: chiunque tentava di afferrarla, si ritrova ferito per la sua impudenza, eppure non poteva smetterla di ammirarla e ambire ad annusarne il profumo.
A poco a poco, guardandola muoversi con disinvoltura tra un triclinio e l'altro, sorridendo civettuola all'amante di turno e vestita con opulenza, desiderai imitarla, essere come lei.
«Mia cara», mi disse un giorno in cui eravamo al foro a curiosare tra le stoffe pregiate appena arrivate al mercato, «devi essere desiderabile: chiama l'acconciatrice e lascia che ti arricci i capelli; tieni la fronte scoperta, così da mostrare che non v'è solo una ruga sulla tua bella fronte. E truccati, hai degli occhi meravigliosi: dovresti valorizzarli come meritano. Gli uomini sono creature semplici, in fondo.»
E io bevevo le sue parole come se fosse l'ambrosia degli Dei.
Si sparlava molto di lei, le malelingue affermavano che il rapporto con suo fratello non fosse lecito e che vivessero una relazione incestuosa. Quale che fosse la verità, a me non interessava. Ero travolta dalla sua abbagliante e forte personalità: era una donna che capiva il potere come un uomo e ambiva ad esercitarlo senza un uomo interposto tra sé ed esso, dunque doppiamente pericolosa.
Si era alleata con il fratello e, insieme, erano capaci di trasformare tutto ciò a cui s'accostavano: Publio infiammava la folla con le sue orazioni, tanto che s'era fatto adottare da un plebeo per farsi eleggere Tribuno della Plebe, mentre Clodia seduceva gli uomini che potevano essere utili ai suoi scopi e a quelli del fratello, attraversando i saloni come un grazioso uccellino.
Non possiamo stupirci se Catullo se ne innamorò e ne fece il simulacro del suo desidero, innalzandola alla gloria immortale della sua poesia.
Il loro amore fu un incendio indomabile, fatto di slanci spropositati e di silenzi distruttivi. Io lo vivevo di riflesso e ne avevo paura, temevo quell'eccesso in cui si sprofondavano e che mi strappava un brivido di incertezza e infida invidia.
Si consumarono, quei due. L'amore di quell'artista senza requie, e che Cicerone disprezzava chiamandolo con un sorriso beffardo “poeta nuovo”, era cieco e assoluto, colmo di un furore che non avevo mai veduto prima d'ora in nessun uomo. Provai il desiderio di assaporare una simile venerazione, di essere anch'io la dea di un innamorato tanto intenso.
Ma Catullo, per Clodia, era solo un amante come altri e presto se ne stancò. E vennero allora le notti in cui, ubriaco, Catullo bussava come un forsennato alla porta della domus di Clodia e le lanciava le peggiori invettive, implorandola e piangendo contemporaneamente.
Litigavano e poi non potevano fare a meno l'una dell'altra, abbandonandosi ad amplessi travolgenti e alla più cupa dissolutezza. Una relazione tormentata, una sofferenza che Catullo si propinava ostinatamente come un veleno, strappandosi le carni perché la donna di cui si era innamorato per la sua innata libertà non apprezzava le catene che lui voleva legarle ai polsi.
Non ho mai dimenticato una considerazione lucidissima e spietata che la mia scaltra amica mi dedicò una sera, mentre cenavamo sotto ad un pergolato.

«Devi imparare l'arte di ottenere tutto ciò che vuoi dagli uomini, se vuoi sopravvivere in questa foresta selvaggia che è la vita. Devi impararlo non comportandoti come una bambina capricciosa e insicura, ma al contrario lasciandoli credere che siano loro a decidere.»
Mi sorrise, acciuffando un chicco d'uva tra le dita ingioiellate, quando notò il cipiglio pensieroso che si era affacciato sul mio viso.
«Non capisco. Come è possibile riuscirci?»
«Oh, non essere sciocca! Tutto ciò che devi fare è offrire loro la scelta: la scelta fa pensare di detenere la capacità di decidere; in realtà tu non fai altro che far scegliere tra ciò che vuoi. Per esempio desideri passare l'estate fuori Roma? Tutto quello che devi fare è dirgli: “Tesoro, preferisci andare nella baia di Napoli oppure nella campagna dell'Etruriav?”» e mi guardò eloquentemente, sollevando le sottili sopracciglia e sgranando gli occhi espressivi colmi di malizia, «Dunque, lui sceglierà e si sentirà potente per questo; in realtà altro non avrai fatto che ottenere ciò che desideravi comunque. Ora immagina questo applicato a qualsiasi cosa tu possa desiderare e comprenderai quanto grande è il potere che possiamo amministrare, come donne.»
Quel discorso mi rimase dentro, premendo per uscire e ricacciato indietro strenuamente. Temevo e anelavo scoprire quanto brava potessi essere nell'amministrare la potenza del sesso femminile, come quello che era stato delle Dee e della antiche sacerdotesse in tempi remoti.
Il seme in me, comunque, era stato piantato e non avrebbe tardato poi troppo nel dare frutto.
 

Arrivarono ben presto i Vestaliavi.
Mi recavo sempre al tempio di Vesta dove, a piedi scalzi, portavo le offerte alle sacerdotesse e assistevo al rituale dello spegnimento del vecchio fuoco che lasciava il posto a quello nuovo, custodito fino alla festività successiva. Nel tempio non c'era alcuna statua, perché Vesta non poteva essere raffigurata: nessuna effige per la Dea che trovava nella forza e nel calore del fuoco la sua più pura espressione.
La nuova fiamma ardeva senza posa nel cuore del tempio, mentre le Vestali cantavano in cerchio. La superiora dell'ordine reggeva la torcia con cui avrebbe acceso i focolai di tutte le case, rischiarando la notte del segreto della Dea a cui nessun uomo poteva accostarsi.
Io seguivo la processione con un velo bianco calato sui capelli acconciati in modo semplice: una scriminatura centrale e sciolti, ondulati, senza fermagli.
La luce intesa della fiaccola dilagava per le strade: un lungo nastro aranciato che si srotolava a precedere le nostre ombre e le fanciulle consacrate adorne di fiori.
Mi sentivo serena come non lo ero stata da molto e dimentica di tutti i giochi di potere dei patrizi, più simili che mai ad un veleno bevuto a piccole e regolari dosi.
Leggera, camminavo reggendo gigli candidi tra le braccia, mentre il vento faceva frusciare le mie vesti ampie e ariose. Poi, mentre stavo svoltando un angolo, il mio sguardo venne rapito da un'ombra che sgusciava in uno stretto vicolo, saltando sopra il muretto che delimitava un vecchio edificio e scalando il tetto di tegole rosse.
Mi sentivo osservata e rimasi indietro, distaccata rispetto al gruppo che continuava a sfilare in processione. Mi guardai in giro più e più volte, colta da un brivido sottile a metà tra l'allarme e la curiosità. Alla fine, dopo un tempo che mi sembrò infinito, conclusi che non c'era anima viva e mi affrettai a raggiungere le altre donne.
Di colpo, prima che potessi urlare, una mano mi ghermì nel buio e si premette sulla mia bocca. Un cane latrò in lontananza; i canti delle Vestali erano una dolce nenia lontana e i miei gigli caddero per terra, nella polvere, quando annaspai per sfuggire alla cattura. Mi dimenai, scalciai, ma qualcuno mi teneva troppo saldamente e, alla fine, tutto divenne nero, i suoni divennero solo un ronzio distante. Persi i sensi.

 

Quando mi svegliai, ero nuda.
Non riuscivo a capire dove mi trovassi, sapevo solo che – fuori da quella stanza immersa in una densa penombra – non si udiva alcun suono, quasi fossi nell'anticamera dell'Ade, pronta per essere traghettata lungo lo Stige. Eppure, nonostante tutto, il mio giaciglio era un soffice materasso di fiori e la dolce fragranza delle rose bianche mi saturava i sensi: potevo strusciare il polpaccio contro quel letto di petali, allungare le braccia e immergere le dita in quella selva odorosa.
In verità, mi accorsi di essere libera di scendere dal letto e persino di fuggire; eppure non lo feci. La sensazione di panico e di claustrofobia che mi aveva attanagliata nei primi istanti dopo il risveglio, a poco a poco svanì e mi accorsi che i miei occhi si stavano lentamente abituando al buio.
In quel luogo, ad essere sincera, mi sentivo libera. In quel silenzio riuscivo a sentire la voce dei miei pensieri come mai avevo potuto prima di allora nella rumorosa Roma.

Mentre mi ero già abituata alla mia solitudine e alla mia strana prigionia, sentii distintamente lo sfrigolare di stoppini e l'odore acre del fumo: si accesero diverse candele che sbozzarono il profilo severo di pesanti mobili di legno e di un teschio animale poggiato distrattamente in un angolo, a mo' di arredo.
Il mio cuore prese a battere all'impazzata e temetti che potesse davvero balzarmi dal petto: mi sentivo di nuovo osservata, ma non riuscivo a vedere il volto del mio rapitore. Più frugavo gli angoli bui della stanza, più la mia vista si confondeva e mi sembrava di sprofondare in un'illusione.
«Non sarai ma più nuda di così, ai miei occhi.»
Quella voce... quella voce non la dimenticherò mai, nemmeno quando saranno trascorsi altri due millenni. Aveva qualcosa di ultraterreno, di poetico e di struggente, di così dolce e al contempo triste che pareva contenere ogni sentimento umano.
«Vuoi essere libera? Davvero libera?»
Non seppi cosa rispondere. Mi sentivo nuda, di una nudità che trascendeva l'assenza di vesti: ero spogliata in un modo più intimo e viscerale, privata del velo che occultava la mia anima a quegli occhi che mi spiavano incessantemente. Mi sta frugando dentro senza riguardo, persino con un fosco divertimento. Stava giocando con la mia mente, i miei sensi e il mio istinto di sopravvivenza, quell'istinto caparbio che cerca, in ogni modo e luogo, di tenerci a galla.
Non riuscivo a parlare: avevo la gola così secca che mi sembrò impossibile anche respirare. Ero inerme, completamente vinta da quello sguardo che non riuscivo ad individuare, ma che mi teneva inchiodata contro il letto. E, all'improvviso, quel giaciglio mi sembrò il letto di una morta, i fiori l'ultimo omaggio per una defunta prima di consegnarla alla terra.
«Non puoi nascondermi i tuoi pensieri più reconditi: riesco a leggere il fiume delle tue emozioni come se fossero i disegni di un bambino. Dunque, io ti offro la libertà che cerchi: la libertà di essere te stessa, senza artifici, senza repressioni, senza convenzioni. Null'altro che la scelta tra l'essere una preda o un predatore».
«Perché proprio io?», chiesi con una voce che non riconobbi come mia, a metà tra l'atterrito e lo speranzoso.
«Perché, in potenza, sei una predatrice. E sei sola: non hai più nulla da perdere», fu la risposta cinica e pratica che mi giunse, assieme al refolo di una risata sommessa e cupa.
Lentamente, come se l'oscurità si contraesse e si espandesse di nuovo, si materializzò una figura ai piedi del letto. Non capivo se si fosse avvicinata camminando o fosse stata vomitata dal buio. Non ne vidi il volto: chiunque fosse, si divertiva a restare occultato grazie a chissà quale abilità soprannaturale. Quando si avvicinò, le fiammelle delle candele tremarono e si spensero, il fumo si sollevò il larghe, pigre spirali fino a formare un sipario ondeggiante attraverso cui sbucò la sua mano rapace. Mi stava offrendo il palmo.
Lo afferrai senza pensarci su, spinta dall'onda di tutti i desideri che avevo sempre rinchiuso in un angolo del cuore nel tentativo di zittirli: quelle aspirazioni mi spingevano a compiere una pazzia, a fare una scelta scellerata di cui non capivo alcuna implicazione e non intuivo la conclusione.
Fu allora che mi prese. Mi strinse la mano nella sua, fredda e forte, mentre con l'altra risalì la china del mio corpo, sfiorandomi in punta di dita i piedi, le gambe, il ventre e i seni, fino al collo. Rabbrividivo di sconcerto e di piacere ogni volta che mi sfiorava e mi graffiava con le unghie affilate come rasoi. Fu una girandola di sensazioni indescrivibili, di cui ho ancora un ricordo confuso: dove le sue unghie abradevano e incidevano, arrivavano le sue labbra e la sua lingua a portare refrigerio e delizia. Quelle sensazioni sconosciute, veicolate dal sangue che imperlava la mia pelle ad ogni taglio, furono le più intense che abbia mai provato da viva. Quell'uomo senza volto e senza identità solcava il mio corpo come nessun mortale aveva mai potuto, strappandomi un godimento che avevo agognato troppo a lungo da sola.
Abbracciai il suo capo quando si chinò tra le mie gambe e morse il punto delicato in cui la femorale affiorava gonfia e pulsante. Il dolore che si irradiò da quella ferita mi strappò un urlo e il desiderio di fuggire, ma durò che per un battito di ciglia: il sangue fluiva tra me e lui come il macabro filo delle Parche e il piacere che si irradiava in ogni nervo del mio corpo fu paralizzante e scandaloso. Lo lasciai fare, senza domandarmi che razza di creatura fosse: semplicemente avevo smesso di pensare e pormi domande.
Quando fui troppo debole per donargli altro sangue e persino il rossore delle mie guance era scomparso, l'ansito che mi sfuggì dalle labbra fu il segnale che lo indusse a cauterizzare l'emorragia.
Il mio Caronte mi guardò con occhi rossi e vivaci, colmi di un desiderio febbrile.
Io, invece, mi sentivo solo terribilmente debole e il languore con cui mi abbandonavo ammiccava al sonno della morte.
«Adesso inizia il tuo viaggio», mi sussurrò dolcemente e con l'unghia del pollice si procurò un taglio profondo sulla gola.
Un sangue scuro, quasi nero, e denso si raggrumò su quella ferita e io lo fissai a lungo, assettata, con le labbra secche.
Il Vampiro mi sollevò e mi premette contro di sé, il capo contro il suo collo, la bocca contro quella ferita grondante. E bevvi, bevvi con una lentezza estenuante, sporcandomi la bocca e il mento di quel liquido ferruginoso e sublime. Ad ogni sorso, tremavo. Lui mi teneva ostinatamente contro quella fonte e io, gli occhi spalancati e folli, mi aggrappavo a lui con una forza che non sospettavo di possedere, con una voracità tutta nuova.
E mi morse ancora, aprendo una nuova via d'uscita per il mio sangue. Chiuse il cerchio: bevevamo la nostra linfa come fosse stata la coppa nuziale e fummo uniti per sempre come sposi, in un rito che solo dopo compresi fosse il Dono Oscuro, il Battesimo del Sangue.
Non so quanto quell'antico rituale fosse durato: forse pochi momenti, forse ore. So solo che fui troppo esausta del torrente di immagini che il Vampiro mi introdusse con violenza nella mente, ma ancora troppo assetata del suo prelibato nettare oscuro. Si staccò da me e mi lasciò sul mio letto funebre, facendosi scorrere i miei capelli tra le dita.
«Adesso morirai, ma sarà solo la tua parte umana che se ne andrà. Dovrai affrontarlo da sola e solo così, se sopravviverai alla rinascita, avrai la vera forza per camminare nella notte.»
«Naevius!» lo chiamai per la prima volta con il suo nome, quel nome che mi aveva donato nel flusso dei suoi ricordi affastellati nella mia testa e che minacciavano di farla scoppiare.
Non mi rispose, ma sollevò il coperchio di marmo e mi chiuse dentro quel letto che altro non era che un sarcofago.
Mi lasciò sola, ingurgitato dal buio, ad affrontare la morte umana, mentre urlavo di dolore e graffiavo il coperchio con le ultime forze. Il mio cuore non aveva mai battuto l'ultimo colpo, ma il dolore che provai durante la trasformazione era quello di una madre che mette al mondo una creatura: dal mio ventre sterile, partorì me stessa.

 

Non ho intenzione di tediarti con il resoconto dettagliato dei secoli trascorsi fino alle soglie di quest'epoca in cui viviamo, Alexandra. Sarebbe un racconto davvero troppo lungo per il tempo attualmente a nostra disposizione e, in fin dei conti, non hai bisogno di conoscere molto altro di me, per ora.
Basti sapere che, dopo la mia rinascita nel Sangue, lottai con tutta me stessa, con la mia nuova e terribile forza e l'impeto della Sete per potermi liberare di quella tomba. Spezzai il coperchio dopo essermi consumata le unghie e la pelle a forza di graffiarlo e sorsi come una Bevitrice di Sangue, vincendo l'oblio della morte per sempre.
Naevius, intanto, era sparito.
Tornai a casa scarmigliata come una bestia selvatica dopo la prima notte di caccia in cui, come una Furia, uccisi almeno due sfortunati che incontrai per i sobborghi. Mi rinchiusi in casa, terrorizzata dall'arrivo dell'alba e dall'idea che qualcuno dei servi, in pieno giorno, potesse aprire le finestre della mia stanza: mi barricai all'interno del mio appartamento, vinta solo dal sonno che ci cattura quando arriva il giorno.
Non mi presentai in società per un mese abbondante e rifiutai qualsiasi visita, persino quelle di Clodia. Naevius non si fece vivo per tutto il tempo, malgrado riuscissi a sentire la sua presenza furtiva quando uscivo a cercarlo: doveva divertirsi, nel vedermi così sbandata. Ero terrorizzata da me stessa e, allo stesso tempo, mi sentivo forte e libera come mai: nessuno avrebbe mai più potuto decidere per me; non ero più figlia, moglie e matrona romana, ma una predatrice che aveva potere di vita e morte su coloro che incrociava, su qualsiasi uomo avessi voglia di prendere.
Dopo un mese, infine, Naevius si presentò direttamente alla mia domus con un sorriso bonario disegnato sulle labbra sottili. Fu la prima volta in cui riuscì davvero a vederlo in volto: aveva la carnagione olivastra, le palpebre pesanti e una mascella decisa; gli occhi scuri erano accesi da un brillio ferino e autoritario. Tutto, in lui, somigliava al tipico uomo romano d'arme, persino la toga che indossava con disinvoltura e il taglio militare dei capelli.
Mi disse che, siccome ero riuscita a sopravvivere a differenza di molti altri che aveva tentato di trasformare, valeva la pena addestrarmi secondo le antiche tradizione dei Bevitori di Sangue.
Infine, quando fui certa di poter contare su un minimo di autocontrollo, tornai a frequentare i salotti patrizi e feci miei tutti gli insegnamenti di Clodia: abbracciai il suo stile di vita senza alcuna riserva e divenni spregiudicata quanto e forse più di lei. Ma io avevo, dalla mia, la malizia e il fascino del Sangue dei Vampiri, le doti medianiche per circuire chiunque desiderassi e l'assoluta mancanza di scrupoli che soltanto noi possiamo avere, in quanto non siamo limitati da alcuna emozione umana, piuttosto le sublimiamo in qualcosa di più profondo e viscerale.
Fui la donna che avevo sempre desideravo di essere e che Naevius aveva dotato della libertà necessaria e di armi tremende.

 

I miei lunghi anni sono stati fonte di insegnamento, come anche di tormento e di profondo appagamento.
Ho visitato un'infinità di provincie romane, fermandomi nelle città più belle, dalla Spagna alla Bretagna, passando per l'Egitto e le isole del mar Egeo, fino a Bisanzio ed Antiochia.
Quando Roma decadeva, io fiorivo e vedevo la rovina del mondo che tutti pensavano sarebbe rimasto sempre uguale. Naevius non resistette al triste destino che aveva travolto la nostra amata città e una notte, dopo avermi consegnato i suoi ultimi insegnamenti e le sue ricchezze, attese l'alba passeggiando per l'antico foro, consumandosi come una torcia nel trionfo del sole che si levava indifferente. In un certo senso, comprendevo il motivo del suo gesto: anche io pensavo che, dopo la caduta di Roma, nulla avesse più senso e che il mondo fosse destinato a soccombere nell'ignoranza e nelle guerre. Così, in quei giorni in cui mi ritirai in un lungo torpore e sognai i fasti di un'epoca che non sarebbe più tornata.
Eppure mi svegliai. Quando l'ondata dei Goti e dei Visigoti si placò e, al posto delle magnifiche domus in marmo bianco, sorsero castelli. L'Urbe non era più il centro del mondo e le sue genti, dal sangue mischiato a quello dei barbari che l'avevano incendiata, non avevano memoria dell'epoca gloriosa della Repubblica.
Ho attraversato il Medioevo e la sua cupezza solo per vedere la dolcezza dei colori e delle forme di Giotto, per ascoltare l'eco delle gesta di Artù e dei suoi cavalieri dalla Bretagna e l'ascesa dell'impero carolingio. E ho dormito, viaggiando continuamente, in mausolei e sarcofagi nelle catacombe cristiane o tra le rovine degli antichi templi pagani, persino nei modesti cimiteri dimenticati nelle periferie dei paesini sperduti.
Decisi di riaffacciarmi completamente al mondo quando in Italia nacquero i Comuni e le Repubbliche Marinare. Ho sempre vissuto come una dama raffinata, poiché altra esistenza non ho conosciuto e non saprei concepire. Dunque ho amato lo sfarzo della Venezia dei Dogi e l'intrigo alla corte dei Papi a Roma, nonché i bei marmi di Ravenna.
Negli anni ho comprato ricche magioni dove ho dato le feste più interessanti, come facevo con Clodia negli anni della nostra perduta giovinezza. Vi radunavo mortali e Vampiri che avevo conosciuto nei miei viaggi, donne fameliche e uomini senza scrupoli con il dono innato al vizio e alla depravazione, ma anche dotati di una vasta cultura e di solido potere. Mi sono sempre assicurata di questo abbinamento, nei miei conoscenti: potere e intelligenza, poiché è ciò che rende una creatura affascinante e degna di essere piegata da quelli come noi.
A quei consessi, io svelavo il segreto della mia eterna giovinezza, certa che preservassero il segreto: troppo affari in ballo, troppo da perdere per poter fare rivelazioni tanto scottanti ad estranei.
Dal piccolo nucleo di fidi che erano all'inizio, divennero un nutrito consesso di letterati e artisti, avidi uomini d'affari e cupidi amanti di cui facevo da mecenate.
Ho cercato, semplicemente, di far rivivere i salotti patrizi in ricche magioni ornate dalle stoffe e dalle statue dell'epoca antica: la Roma mia e di Clodia riviveva in quegli incontri.
Fu così che conobbi Alphonse: ad una semplice, banale festa.
Era il 1400, il secolo dell'Umanesimo, e Alphonse era la quintessenza di quell'epoca: l'uomo al centro del mondo, artefice del proprio destino. Era spregiudicato e libero, senza freni e quasi senza morale... se non una tutta sua, declinata per assecondare i suoi vizi e i suoi desideri. Era colto, affascinante e divertente, loquace e intelligente, ironico e tagliente: un ragazzo magnetico, un po' troppo collerico in certi frangenti e troppo disilluso per i suoi giovani anni, ma colmo di una passione che cercava solo di essere alimentata e incanalata per poter esplodere in meraviglie.
Mi invaghii di lui e lo legai a me, attraverso il Sangue, ma non ne feci mai uno schiavo della mia volontà, non gli imposi mai un comando: lasciai che vivesse il Legame nella sua pienezza, assaporandone il dolce giogo e anelando l'ora dei nostri incontri segreti.
Fu una passione travolgente, fu la passione per cui avevo ammirato la relazione di Clodia e del suo poeta: Alphonse è stato il mio Catullo. Non c'è altro modo per descrivere con pochi, efficaci pennellate il senso della nostra storia. Tra tutti gli uomini che ho conquistato e legato a me, lui è stato l'eletto, il mio orgoglio e il mio diletto figlio. Come lui ha trovato te, io trovai lui.
Tutto ciò che devi sapere del giorno in cui ha ricevuto il Dono Oscuro te lo ha raccontato lui stesso, eppure mi permetto di aggiungere qualche particolare. Scelsi il giorno del suo genetliaco in modo tale che coincidesse con la sua seconda rinascita volutamente, anche se non gli confidai la mia intenzione. Diede la sua festa sotto mio consiglio, in modo che godesse – per l'ultima volta – di tutto ciò che l'umanità potesse offrirgli. Lo avevo addestrato a lungo per quel momento, temprato nella mente e nel corpo in modo che potesse affrontare la transizione anche se non ne era cosciente. Gli avevo sussurrato, nel sommesso e segreto linguaggio del Sangue Oscuro, tutti i segreti che il suo cuore potesse concepire.
Così, rinacque, figlio del mio desiderio e della mia volontà.


Adesso, però, sento che l'alba è vicina. Smettiamo di parlare del passato, bambina mia.
Vieni qui, vicino a me. Sì, così, stringiti a me e sarai al sicuro: quando ci sveglieremo, saremo solo a metà del nostro viaggio.










__________________________________________

Note:

 

iDomus - per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Domus

iiImpluvium – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Impluvium

iiiGens- per approndimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Gens

vEtruria – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Etruria

viVestalia – per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Vestalia

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: Melian