Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amor31    26/07/2015    4 recensioni
Quando arriva la tempesta, non rimane altro che mettersi al riparo.
Loro due, però, avevano involontariamente scelto il peggior rifugio del mondo.
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- Missing Moment dei tempi dell'addestramento -
*Scritta per il Jeankasa Summer Weekend: Temporale estivo*
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jean Kirshtein, Keith Shadis, Mikasa Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Durante il temporale

 

-Schiene dritte! Gambe immobili! Il periodo di addestramento è quasi terminato, eppure alcuni di voi non sono ancora capaci di controllare perfettamente la Manovra. Sarete inutili perfino all’interno della Guarnigione! Come potrete proteggere i civili, se non siete in grado di badare nemmeno a voi stessi?-.
La voce dell’Istruttore Shadis echeggiava nello spiazzo retrostante la mensa. Le centocinquanta reclute del 104° Reggimento stavano provando nuovamente l’infernale Meccanismo di Manovra Tridimensionale in vista delle valutazioni che si sarebbero tenute da lì ad un mese. Ai giovani, futuri militari sarebbero state sottoposte prove teoriche e pratiche in presenza di esaminatori provenienti direttamente dalla capitale; solo alla fine di quei test sarebbero potuti uscire dall’inferno governato da Shadis. Uscirne per entrarne in uno ben peggiore, certo: quello della realtà.
-Cosa c’è, Springer? Sei stanco?-, domandò l’Istruttore, avvicinandosi al ragazzo. -Forse la tua amica Braus ti ha contagiato con la sua pigrizia?-.
In effetti Connie era allo stremo, così come il resto dei suoi compagni: era un pomeriggio di metà agosto ed il caldo si era fatto progressivamente più opprimente. Non si erano viste piogge dall’inizio di luglio e l’aria era semplicemente infuocata. Nessun uomo sano di mente avrebbe costretto i ragazzi ad allenarsi con quel tempo, ma era risaputo che Shadis non avesse tutte le rotelle al posto giusto. O almeno questo è quello che Sasha aveva detto dopo aver subito l’ultimo castigo che si era meritata per aver sottratto un non ben identificato cibo dalle dispense.
Malgrado le provocazioni, nessuna delle reclute osò replicare. Tutti sostennero coraggiosamente la serie di prove a cui l’Istruttore li sottopose e solo quando il superiore – osservando distrattamente il cielo che si stava incupendo a causa di brutte nuvole scure – decise di farli smettere poterono andare a riposare.
-Che ognuno di voi passi alla rimessa per mettere a posto il proprio Meccanismo!-, abbaiò Shadis, notando alcuni ragazzi allontanarsi rapidamente verso i dormitori nella vana speranza di recuperare le forze. -Più tardi mi assicurerò che sia tutto in ordine e giuro che, se dovesse mancarne anche uno solo, farò saltare la cena a tutti!-.
Quella minaccia innescò una strana – ma prevedibile – reazione in Sasha: i compagni la videro correre in testa al gruppo, ben decisa a non farsi sottrarre il pasto che le spettava di diritto. Quando gli altri furono di fronte alla rimessa, lei si era già liberata della Manovra e se ne stava tornado alla base, stanca, ma felice.
-Shadis ci ha davvero distrutti-, sussurrò qualcuno. -Ma cos’altro pretende?-.
-Non vedo l’ora di affrontare gli esami. Qualsiasi cosa succeda, l’importante è andarsene da qui il più lontano possibile-.
-Scommetto che ci tratta così male perché anche lui, alla nostra età, si è trovato in difficoltà-.
-Magari è finito a fare l’Istruttore proprio perché non aveva grandi capacità!-.
Ci fu uno scoppio di risa, ma l’ilarità durò poco: l’uomo tornò alla carica, stavolta tenendo dietro di sé due collaboratori che trasportavano una cassa di legno evidentemente molto pesante.
-Mi serve un volontario-, disse Shadis, facendosi largo tra le reclute. -Un volontario che riponga con cura il contenuto di questa-.
Indicò il grosso contenitore che i due militari avevano poggiato a terra, proprio accanto alla porta della rimessa. Aspettò qualche secondo per dare a qualcuno l’opportunità di candidarsi per svolgere quell’incarico, ma sapeva già che nessuno si sarebbe fatto avanti. Non con quel caldo. Non dopo aver trascorso l’intera mattinata e buona parte del pomeriggio alle prese con gli allenamenti.
-Nessuno, eh? Bene-, disse, sfregandosi le mani. Scrutò con la severità di un falco il folto gruppo di ragazzi e alla fine sentenziò: -Ackerman!-.
Intorno alla giovane si creò uno spazio vuoto; rimase in silenzio, mentre teneva gli occhi di tutti incollati addosso, e si limitò ad eseguire il saluto militare, disponendosi ad eseguire gli ordini.
-Occupatene tu-, concluse Shadis. -Chi non ha ancora messo via il Meccanismo si dia una mossa e torni nei dormitori!-, aggiunse, voltandosi e andandosene seguito a ruota dai due uomini che lo avevano accompagnato.
Le reclute non se lo fecero ripetere di nuovo. La folla si disperse poco alla volta e presto lo spiazzo adibito all’addestramento fu vuoto. Tra gli ultimi ad allontanarsi ci furono anche Eren e Armin, che salutarono Mikasa lasciandola alle incombenze affidatele.
-Ci vediamo a cena-, le dissero in coro, guardandola ancora un istante prima di dirigersi definitivamente verso la base. La ragazza, dal canto suo, sospirò e attese che i pochi compagni rimanenti abbandonassero la rimessa.
-Le nostre Manovre sono al loro posto-, sentì qualcuno dire all’interno. -Usciamo?-.
-Andate pure. La mia mi sta dando non pochi problemi da stamattina-.
-Perché non lo dici a Shadis? Te ne procurerà un’altra-.
-Ma sei pazzo? Andare a parlare con quell’uomo? Non ci penso proprio! Magari tra due o tre giorni, sperando che per allora abbia fatto pace con il cervello-.
-Jean, se l’attrezzatura è difettosa bisogna informare immediatamente i superiori. Non ricordi le lezioni teoriche?-.
-Sei sempre il primo della classe, eh, Marco?-.
-Sei odioso quando usi quel tono ironico-, disse con disprezzo una terza voce, che Mikasa riconobbe essere quella di Connie. -E adesso torniamocene ai dormitori, non ce la faccio più-.
-A dopo-.
Springer e Bodt uscirono all’aria aperta, ben contenti di essere giunti al termine di quella estenuante giornata. Vedendo Mikasa a pochi passi dalla porta della rimessa, la salutarono con un cenno della testa e alla ragazza non sfuggì un sorrisetto furbo che Connie aveva provato a nascondere. Marco, invece, le era sembrato cordiale come al solito. L’unica differenza che rinvenne guardando velocemente il suo viso riguardava le lentiggini, che sembravano essere state assorbite dal rossore propagato sulle guance a causa del caldo.
La giovane sospirò: sapeva perfettamente chi era rimasto a farle compagnia. Che la cosa fosse casuale o meno, a lei non interessava: voleva solo sbrigarsi ad adempiere al compito che Shadis aveva scelto per lei. Dunque, dopo aver inspirato profondamente, entrò nella rimessa, adocchiando nell’ombra Jean.
-Allenamento duro oggi, eh?-, fece il compagno, che stava ancora armeggiando con la Manovra.
Mikasa non lo degnò di risposta. Lui e Eren avevano battibeccato di nuovo quella mattina e la ragazza non voleva rivolgergli la parola. Solo se i due avessero imparato a discutere pacificamente sarebbe stata più morbida nei loro confronti.
-Con questo caldo, poi... Però sono in arrivo grosse nuvole nere. Vedrai, pioverà prima di sera-.
Ma perché continuava a parlare? Solo per dare fiato alla bocca? Non si rendeva conto che lei non aveva alcuna voglia di chiacchierare?
Mikasa rovistò sul ripiano di una mensola addossata alla parete e trovò un palanchino con cui forzare la cassa. Varcò di nuovo la soglia e fu all’esterno, inginocchiandosi per incastrare la sbarra tra le assi del contenitore, poi si rialzò e fece leva con tutto il suo peso. Una volta scardinata, la cassa rivelò delle bombole per il gas con cui si alimentava la Manovra Tridimensionale.
Al solo pensiero di doverle trasferire nella rimessa, la ragazza sentì le ginocchia cigolare e la schiena gridare, ma cercò di infondersi coraggio e portare a termine quell’ingrato compito. Ne afferrò due e rientrò, sentendo gli occhi di Jean seguire ogni suo movimento.
-Ti serve aiuto con le altre bombole?-, le domandò, guardando i rifornimenti lasciati all'esterno.
-No, grazie. Se hai finito, puoi anche andare-, Mikasa si limitò a replicare con voce tagliente.
-Saranno almeno una ventina! Sei la più forte del Reggimento, ma questo non vuol dire che tu non abbia bisogno di una mano-.
Jean uscì e a sua volta si caricò tra le braccia due bombole, rientrando poco dopo per depositarle con attenzione accanto alle altre che la compagna aveva già riposto. Mikasa, dal canto suo, fece lo stesso, senza fiatare per tutta la durata dell'operazione.
-E questa è l'ultima-, annunciò lui, poggiando a terra il ventesimo contenitore. -Speriamo che Shadis ne sia soddisfatto-, aggiunse, detergendosi il sudore dalla fronte.
-Non potrà lamentarsene. Sono in ordine, proprio come aveva richiesto-.
-Già. Ma avrebbe potuto anche dividere l’incarico tra più persone, invece che affidarlo solo a te-.
Mikasa fece spallucce. Non era la prima volta che le impartivano compiti pesanti, ma nessuno vi aveva mai prestato attenzione. Anzi, Eren ne era stato addirittura invidioso: era riuscito a dirle che “evidentemente l’Istruttore doveva nutrire una smisurata fiducia nei suoi confronti”, cosa per cui lui “sarebbe stato disposto a pagare qualsiasi prezzo”. Insomma, doveva ritenersi fortunata. Eppure la sua schiena non era molto d’accordo con quell’affermazione.
-Non era necessario. Grazie per l’aiuto, comunque-, si trovò a borbottare la ragazza, osservando le bombole messe in fila.
-Figurati. È stato un piacere-.
Mikasa si voltò a guardarlo: Jean stava sorridendo. Di solito non sprecava tempo ad elargire sorrisi, anzi; le uniche volte in cui glielo aveva visto fare corrispondevano a momenti in cui si trovava insieme ai compagni con cui aveva legato di più. Oppure in presenza di Eren, ma più che sorrisi quelli erano veri e propri ghigni ironici.
-Cosa…?-.
Un leggero ticchettio aveva catturato l’attenzione della ragazza, che tese l’orecchio per ascoltare meglio.
-Che ti avevo detto? Sta cominciando a piovere-, notò Jean, gettando un’occhiata oltre la stretta finestrella della rimessa. -Sarà meglio rientrare, prima che scoppi il vero temporale-.
La compagna non poteva essere più d’accordo: le nuvole si erano avvicinate rapidamente, coprendo la porzione di cielo che sovrastava l’accampamento. Sganciò il Meccanismo di Manovra Tridimensionale, obbedendo alle disposizioni dell’Istruttore, e lo poggiò su una mensola di un grande scaffale a parete, accanto a quelli delle altre reclute; la stessa cosa fece Jean, che non era ancora riuscito a vincere la battaglia con il proprio.
-Accidenti!-, lo sentì imprecare.
-Che c’è?-.
Mikasa si era già indirizzata verso la porta, ma la voce del ragazzo l’aveva fatta girare di scatto.
-Si è incastrato!-, esclamò lui. -Qui, dietro alla schiena-.
La giovane gli si avvicinò. Nell’ombra calata sulla rimessa cercò di osservare il Meccanismo.
-Hai girato la fibbia al contrario-, constatò. -Prova a compiere il movimento opposto-.
-Se ci fossi riuscito, lo avrei già fatto-, replicò Jean.
-Fammi dare un’occhiata, allora-.
Avvicinò il viso all’intreccio di acciaio e cuoio, strizzando gli occhi: l’oscurità che ammantava il magazzino non la aiutava a sciogliere quell’intrico e Mikasa sbuffò.
-Vieni alla luce, per favore-, gli disse, -così vedrò meglio-.
-No, aspetta! Penso di avercela…-.
La porta della casupola sbatté di colpo. Il forte vento che si era alzato ululava contro le pareti, soffiando e spazzando via ogni cosa.
-No, non ce l’hai fatta-, sbottò la ragazza, vedendo il compagno dimenarsi inutilmente. -Ascoltami e…-.
-…per nulla affidabili! Credevo che Ackerman fosse un elemento migliore, ma si sarà fatta prendere anche lei dalla stanchezza. Ha perfino lasciato la cassa qui fuori!-.
Mikasa e Jean rimasero zitti e immobili: avevano immediatamente riconosciuto la voce di Shadis, venuto a controllare che ogni cosa fosse stata eseguita secondo le istruzioni da lui delineate. Credettero che l’uomo sarebbe entrato da un momento all’altro, continuando a borbottare tra sé e sé, ma si sbagliarono: sentirono il secco rumore del legno sbattere contro la porta e, subito dopo, i passi dell’Istruttore che si allontanavano nella direzione opposta.
-Non dirmi che…-, iniziò a dire Jean, subito interrotto dalla compagna.
Mikasa si lanciò contro la porta e provò ad aprirla: niente. Tentò una seconda volta: nulla. Prese una breve rincorsa e diede una spallata: non si mosse foglia.
-Ci ha chiusi dentro!-, esclamò, spalancando gli occhi. -Non si è accorto che eravamo qui!-.
-Deve averla sprangata con il paletto esterno-, puntualizzò Jean, affiancando la ragazza e toccando il legno dell’entrata. -È inutile provare a sfondarla. Ti sei fatta male?-, le chiese, accorgendosi che si stava sfregando il braccio.
-No… Ma dobbiamo trovare una soluzione-.
-Questo è certo. Io, però, non mi allarmerei troppo-.
Il giovane indietreggiò, avvicinandosi alla finestra e lasciando aderire la schiena alla parete. Aveva un’espressione fin troppo rilassata e questo non rassicurò Mikasa.
-Ah, davvero? E perché?-.
-Marco e Connie sanno che siamo qui, così come Eren e Armin. Quando non ci vedranno rientrare, avvertiranno Shadis e lui verrà a prenderci-.
-Sembri fiducioso-.
-Lo sono-.
-Buon per te, ma io non ho alcuna intenzione di rimanere qui dentro un minuto di più. Basta, proviamo a uscire-.
-E come? Dalla finestra?-.
Jean indicò con il pollice la luce che trapelava dai piccoli vetri polverosi alla sua destra e in un secondo Mikasa gli fu accanto.
-Cosa stai facendo?-, le domandò.
-Cerco di aprirla-, ribatté lei, provando a forzare il legno. Era una di quelle finestre che si chiudevano facendo scorrere l’anta verso il basso; non le rimaneva che alzarla per ricavare un varco da cui sarebbero usciti, seppur a fatica.
-Non vedi che è bloccata?-, le fece notare Jean, osservando con un sopracciglio sollevato i tentativi della ragazza.
-Potresti anche darmi una mano, no?-, replicò Mikasa, la voce indurita per lo sforzo.
Sbuffando, il compagno si distaccò dal muro e si pose alla sua sinistra, chiedendole gentilmente di fargli spazio. Insieme provarono a sollevare l'anta, ma fu tutto inutile: c'era qualcosa che impediva il libero scorrimento del legno e a una prima occhiata nessuno dei due ragazzi riuscì a capire cosa lo causasse.
-Forse si è ossidato il perno che la tiene agganciata-, ipotizzò Jean. -Sarà impossibile riuscire a...-.
-Riproviamo ancora-.
L'espressione di Mikasa era risoluta e il compagno, sospirando, la assecondò di nuovo. Tentarono per i successivi dieci minuti, ma non ottennero alcun risultato.
-Anche se ce la facessimo, una volta fuori ci bagneremo da capo a piedi. Guarda che tempaccio!-.
-Ma almeno torneremo dagli altri-.
-E?-.
-Niente. Sono sicura che si saranno già accorti della nostra assenza-.
-Mikasa, siamo qui dentro da venti minuti. Dammi retta: ci verranno a cercare quando finirà di piovere. Shadis non permetterà a nessuno di uscire con questa tempesta-.
La ragazza dovette arrendersi all'evidenza: Jean aveva perfettamente ragione. Il temporale estivo si era abbattuto all'improvviso su Trost, cogliendoli totalmente di sorpresa, e avrebbe continuato a imperversare ancora per molto, vista la quantità d'acqua che stava precipitando giù dal cielo. Inoltre, anche se Eren, Armin o qualcun altro dei compagni di Reggimento avesse segnalato la loro assenza, di sicuro Shadis non si sarebbe allarmato troppo: d'altronde, dove potevano mai essere finiti due futuri soldati che fino a trenta minuti prima avevano sostenuto l'allenamento quotidiano insieme ai commilitoni?
-Cosa facciamo, nel frattempo?-.
Quella semplice domanda le sfuggì con naturalezza dalle labbra, ma si pentì di averla formulata appena un istante dopo.
-Non so... Chiacchierare, magari?-.
Jean le rivolse un sorriso incoraggiante mentre riappoggiava la schiena alla parete della rimessa. Mikasa lo fissò a sua volta, indecisa se accogliere o meno quella proposta: l'idea di essere sola con quel ragazzo – tra i tanti che affollavano il campo d'addestramento, tra l'altro! – e di parlare con lui non la allettava particolarmente, ma quali alternative aveva? Restarsene in silenzio ad ascoltare i tuoni del temporale? No, sarebbe stato imbarazzante per entrambi.
-Se vuoi...-.
La risposta vaga che gli aveva fornito sembrò accontentarlo; alla ragazza parve che una scintilla gli avesse illuminato lo sguardo per una frazione di secondo. O forse era stato il riflesso dell'ennesimo fulmine che aveva rischiarato il tetro ambiente della rimessa e che era stato appena seguito dal fragore di un tuono.
-Be’, Mikasa-, disse Jean, spezzando il momentaneo silenzio seguito all'eco del tuono, -perché non inizi tu? Puoi chiedermi qualsiasi cosa-.
-Cosa dovrebbe essere? Una specie di intervista?-.
-Ma sì, mettiamola così-, sorrise di nuovo il compagno. -Una domanda a testa-.
-D’accordo-, sospirò lei, spremendosi le meningi alla ricerca di un quesito che risultasse abbastanza spontaneo. -Lasciami solo pensare...-.
Il ragazzo attese, muto come un pesce. Mikasa lo guardò distrattamente, poi abbassò gli occhi verso terra. Li fece vagare brevemente sul lato opposto della rimessa e infine si decise a parlare: -Perché ti sei arruolato?-.
-Oh, iniziamo subito con domande scottanti, eh?-, scherzò lui; l’attimo successivo le rispose: -Volevo dimostrare a mia madre di sapermela cavare da solo, farle capire che sarei potuto arrivare lontano con le mie forze-.
-Non lo avrei mai detto-, ammise la giovane.
-Davvero?-, Jean rise. -E cosa pensavi?-.
-In realtà, nulla di particolare. Se i miei genitori fossero vivi, non mi verrebbe mai l'idea di entrare nell'esercito-.
Mikasa notò un barlume di sorpresa negli occhi del suo interlocutore: evidentemente il ragazzo non si aspettava quel tipo di risposta.
-Mi dispiace-, sussurrò lui, abbassando lo sguardo a terra. -Non parliamo delle nostre famiglie-.
-Sono curiosa, invece-, replicò la giovane. -Che lavoro fanno i tuoi?-.
Jean era a disagio, lo vedeva bene. Esitava a rispondere: probabilmente credeva che lei soffrisse a parlare del suo passato. In parte era così, ma dopotutto erano passati sei anni da allora e nel frattempo aveva assistito ad eventi addirittura peggiori rispetto all'assassinio dei suoi parenti.
-Mio padre gestisce un banco di cambio, qui a Trost-, spiegò il compagno dopo qualche minuto. -Mia madre ha lavorato in una sartoria fino alla mia nascita. Adesso riceve le clienti in casa e se ne occupa su ordinazione-.
Ammutolì di nuovo. Il silenzio era spezzato solo dalle impetuose gocce di pioggia che battevano contro il vetro e dal vento che faceva sussultare perfino la porta della rimessa.
-Se pensi che mi faccia male ricordare la mia famiglia-, gli disse Mikasa, tentando di rassicurarlo, -sbagli di grosso. È... Tutto a posto. Sul serio-.
Ma Jean non sembrava dello stesso avviso. Il rispetto che stava dimostrando nei suoi confronti la colpì non poco.
-Sai... È difficile parlarne-, provò a spiegarsi lui, incrociando le braccia sul petto. -Insomma... Mi sento in colpa, capisci?-.
-E per cosa?-.
-Perché la vita è stata ingiusta con te. Meriti di essere felice-.
Un tuono accompagnò le sue ultime parole, mentre un fulmine squarciava il cielo ed illuminava per un istante l'interno della rimessa. Mikasa tacque.
-Ma passiamo ad argomenti più lievi-, Jean batté le mani.
-Per esempio?-.
-Uhm... Il tuo gioco preferito quando eri bambina?-.
-Le bambole. Mi piaceva cucire dei vestiti per loro-.
-È strano immaginarti in questo modo-, Mikasa vide il sorriso tornare sulle labbra del ragazzo. -Avrei voluto conoscerti allora-.
-E tu come passavi il tempo libero?-, ribaltò la domanda lei.
-Avevo una vera e propria fissazione con le spade di legno. Ho perso il conto di quante ne ho avute. Mia madre le odiava. Avevi altri passatempi?-.
-Coltivare i fiori. Avevamo un giardinetto che ai miei occhi assomigliava ad un piccolo paradiso-.
La sua bocca si distese lievemente al ricordo dei bei giorni andati. Per un secondo la sua testa si riempì di immagini e colori, poi la scosse e formulò la domanda successiva per il compagno: -Il tuo colore preferito?-.
-Il verde. Qual è il piatto della mensa che trovi più insipido?-.
-La minestra. Ma... Credevo che mi avresti chiesto il colore che mi piace di più-.
-Non te l'ho domandato perché ho immaginato quale potesse essere la risposta-.
Con un movimento della testa il ragazzo accennò nella sua direzione e Mikasa capì che si stesse riferendo alla sciarpa. Erano settimane che non la indossava, complice il caldo insopportabile dell'estate, ma ciò non le impedì di arrossire leggermente.
-E questo mi dice che ho fatto centro-, sorrise Jean, notando la sfumatura purpurea delle sue guance. -Dai, tocca a te-.
-Hai fratelli o sorelle?-.
-No, sono figlio unico. Però non mi sarebbe dispiaciuto averne-.
-Perché...?-.
-Eh, no! È il mio turno-, la fermò lui. Si prese un momento per pensare alla domanda successiva e poi continuò: -Come immagini la tua vita alla fine della guerra?-.
Stavano per toccare dei tasti molto dolenti, Mikasa lo sapeva bene. Si disse che forse, fin dal principio, non avrebbe dovuto chiedergli della sua famiglia; forse Jean si era risentito e le aveva sottoposto un quesito dei più difficili e dolorosi, eppure non era del tutto convinta di quella possibilità. La ragazza restò comunque in silenzio per un paio di minuti, riflettendo attentamente: di solito immaginava un futuro in cui lei, Eren e Armin vivevano insieme entro i confini delle Mura, in una casetta in piena campagna. Lì avrebbero coltivato la terra e sarebbero vissuti in pace, lontani dai pericoli e dagli incubi da cui erano stati perseguitati fino a quel momento. Non se la sentì di fornire quella versione. O meglio, non la riferì del tutto.
-Mi piacerebbe avere una casa tutta mia, fuori dalla città. In un piccolo villaggio, magari, oppure verso le montagne. L'importante sarebbe condurre una vita tranquilla e dormire sonni in cui non ci sono ombre ad inseguirti con l'unico scopo di ucciderti. Basterebbe questo-.
Si accorse che Jean la stava fissando con attenzione. Chissà cosa stava pensando? Forse avrebbe dovuto chiederglielo direttamente: -Tu, invece? Grandi progetti?-.
-Non molti, a dire il vero. Tutto dipenderà se riuscirò a raggiungere la meta che mi sono prefissato-.
-Sei sempre convinto di unirti alla Gendarmeria?-.
Stavolta il ragazzo non interruppe la sua seconda domanda. Lo vide sospirare e chiudere gli occhi, preso da preoccupazioni che Mikasa poteva solo intuire, e alla fine lo sentì rispondere: -Direi di sì. Non ho alcuna intenzione di morire. E tu? Cosa ne pensi?-.
-Vorrei che anche Eren ragionasse come te-.
All’esterno, la pioggia s’intensificò tutto d’un tratto. Se i due avessero scrutato fuori dalla finestrella, si sarebbero accorti che il retro dello spiazzo assomigliava ormai ad una distesa di fango in cui le pozzanghere non facevano altro che ingrandirsi. Il temporale sembrava non voler accennare a terminare.
-Perché ci tiene così tanto a schierarsi in prima fila? Voglio dire-, si corresse Jean dopo qualche minuto di silenzio, passandosi una mano tra i capelli, -è ammirevole, da parte sua, ma non riesco proprio a capire cosa lo spinga a perseguire un obiettivo che tutti sanno essere irraggiungibile-.
Mikasa inspirò profondamente: il ricordo di quel lontano giorno d'inferno a Shingashina non l'avrebbe mai abbandonata, purtroppo. In quell'orrore aveva perso la sua seconda famiglia, ma Eren...
-Cerca vendetta-, rispose con tono piatto, gli occhi persi nel vuoto. -Questi tre anni passati a Trost sono serviti solo a convincerlo di dover dare il massimo per entrare a far parte del Corpo di Ricognizione-.
-Tu cosa hai deciso di fare?-.
-Non sono riuscita a convincerlo ad unirsi alla Guarnigione-, Mikasa alzò le spalle con aria mesta. -Avevo anche pensato che forse essere selezionati come membri scelti della Gendarmeria avrebbe potuto allettarlo, ma sbagliavo. E allora lo seguirò. Ho una promessa da mantenere-.
L’atmosfera si era fatta pesante di domanda in domanda e la ragazza si chiese quando, di comune accordo, avrebbero deciso di smetterla: quel discorso non stava facendo bene a nessuno dei due.
-Se lui non ci fosse-, si arrischiò a chiedere Jean, -se non ci fosse nessuna parola data a legarti a lui...-.
Mikasa alzò lo sguardo sul giovane: il compagno si stava fissando la punta degli stivali, come se imbarazzato. Lo si intuiva anche dal tono della voce che aveva utilizzato, più basso e esitante. Lei rimase in silenzio.
-Verresti con me?-.
Un fulmine si abbatté lontano e rischiarò la rimessa, illuminando gli occhi stupiti della giovane e l'espressione tesa di Jean. Di lì a poco seguì il rombo del tuono, più intenso di tutti gli altri che lo avevano preceduto.
Mikasa ammutolì: non era quella la domanda che si aspettava. Anzi, era una domanda a cui non avrebbe mai voluto rispondere.
-Neanche io voglio morire-, esalò piano, evitando di replicare direttamente al quesito che le era stato posto. -Ma se vincerò le battaglie che mi aspettano, continuerò comunque a vivere. E allora chissà? Magari ci rincontreremo-.
I loro occhi, abbassati su un punto imprecisato del pavimento, si incontrarono a metà strada e l’uno lesse nello sguardo dell’altra esitazione, un pizzico di smarrimento che si tradusse in un nuovo momento di silenzio. Intanto, fuori di lì, l’intensità della pioggia era diminuita senza che se ne fossero resi conto, anche se le spesse nuvole nere continuavano a rombare di tanto in tanto.
-Magari-, ripeté Jean, le pupille fisse in quelle della compagna e un tono di voce che Mikasa avrebbe definito semplicemente malinconico. Era come se la sua risposta avesse tradito le aspettative del ragazzo e si chiese perché mai, tra le centinaia di persone che affollavano il Reggimento, avesse rivolto quella domanda proprio a lei.
-Riproviamo ad aprire la finestra, dai-, disse di colpo la giovane, provando a cambiare discorso e adducendo come scusa il cessare della pioggia.
-Va bene-.
Si misero di nuovo l’uno accanto all’altra e spinsero con forza l’anta bloccata. Come era successo precedentemente, anche questa volta i primi tre tentativi andarono a vuoto; al quarto, Mikasa si lasciò scappare un’esclamazione di dolore.
-Cos’hai?-, le chiese allarmato Jean, voltandosi ad osservare la compagna che prontamente aveva ritirato entrambe le mani, stringendosele al petto.
-Deve essermi entrata una scheggia di legno nell'indice-, lo informò, strizzando un occhio a causa del fastidio che provava. Tentò di toglierla, ma l’unico risultato che ottenne fu farla affondare ancor di più nella carne.
-Aspetta-, la fermò lui, afferrandole dolcemente la mano destra e poggiandola sul suo palmo sinistro. -Lascia fare a me-.
Strinse la falange, aumentando poco alla volta l'intensità della presa, e riuscì a far emergere una parte della scheggia. Una volta scoperta, estrasse con precisione chirurgica il segmento legnoso e lasciò uscire una goccia di sangue dal dito della compagna, tamponandolo con la manica della propria camicia.
-Ti sporcherai-, lo ammonì Mikasa, provando ad impedirgli di passare la stoffa sulla parte dolente.
-Avrei comunque dovuto lavarla-, ribatté lui, terminando la pulizia. -Va meglio?-.
La ragazza annuì con un cenno del capo.
-Ti avevo detto che sarebbe stato inutile provare a sbloccarla. È incastrata. Dovevi per forza farti male, eh?-.
Jean teneva ancora la mano della compagna stretta tra le proprie. Per lunghi secondi rimasero in silenzio, ascoltando il suono ovattato delle ultime gocce di pioggia che scivolavano lungo il tetto della rimessa per cadere definitivamente a terra, ed entrambi mantennero gli occhi immobili sull'unione di quelle mani.
Mikasa cominciava a sentirsi a disagio: di colpo il suo respiro si era fatto irregolare e si era accordato al battito del suo cuore, insolitamente agitato. Per un attimo pensò che le cose non sarebbero potute andare peggio di così, ma poi il ragazzo che aveva di fronte riuscì a stupirla ancora: iniziò ad accarezzarle pian piano il palmo della mano, sfiorando teneramente i suoi polpastrelli con i propri. Fu una sensazione strana: Mikasa si sentì attraversata da un brivido che la scosse da capo a piedi e si domandò cosa stesse pensando – o provando – in quello stesso momento il suo compagno di Reggimento.
-Non voglio perderti-, sussurrò Jean, spezzando la quiete. -Se davvero hai deciso di entrare nel Corpo di Ricognizione, non voglio sprecare un solo momento senza di te-.
Fu un istante: nell'attimo in cui Mikasa tentava di metabolizzare quanto detto dal giovane, lui si portò le sue dita alla bocca e se le premette contro le labbra, baciando con devozione la sua pelle ferita e indurita dagli allenamenti a cui si sottoponeva giorno dopo giorno. Chiuse gli occhi e la ragazza fece istintivamente la stessa cosa: le parve che in quel modo il suo braccio – e il resto del corpo, a dire il vero – fosse attraversato da un'energia così intensa da farle perdere la percezione del tempo e del luogo in cui si trovava. Era qualcosa di nuovo e del tutto strano, eppure, nonostante l'imbarazzo, non sottrasse la mano dalla presa del compagno.
Quando Jean lasciò scivolare via le dita della ragazza, entrambi dischiusero le palpebre nello stesso momento e si guardarono, stravolti: nessuno dei due riusciva a credere a ciò che era appena successo. Il minuto che seguì si dilatò oltre i confini dell’immaginabile e pian piano le loro guance si velarono di un rossore che sarebbe stato impossibile ignorare.
-Indossi ancora il Meccanismo-, articolò con voce secca Mikasa, chiedendosi dove avesse trovato la forza di pronunciare quelle parole. -Devo sciogliere il nodo-.
La ragazza si mosse a scatti, fermandosi dietro di Jean. Portò le mani alla Manovra e, pur sentendole tremare, provò con tutta se stessa a compiere movimenti fluidi, come per dissimulare l’imbarazzo che ancora la stava scuotendo. Il compagno, dal canto suo, restò muto, ascoltando il cigolio dell’acciaio e lo strofinio delle fibbie di cuoio.
-Puoi toglierlo liberamente, adesso-, comunicò Mikasa, arretrando di un passo.
Jean sganciò il Meccanismo e si voltò verso di lei. Nei suoi occhi c’era un bagliore nuovo e la sua bocca, serrata fino ad un attimo prima, si rilassò, sciogliendosi in un altro, piccolo sorriso: -Grazie-.
Tenendo nella mano sinistra la Manovra, tese la destra, avvicinandola al viso della compagna. La ragazza, impietrita sul posto, percepiva l’incombere di quelle dita sulla sua guancia e ad ogni millimetro che Jean guadagnava sentiva il cuore tuonare esattamente come il temporale appena passato.
“Non lasciarglielo fare”, pensò in una frazione di secondo. “È sbagliato. Non cedere. Ma la sua pelle è così calda…”.
-Ackerman! Kirschtein! Siete qui dentro?-.
Sulla porta vennero assestati tre colpi decisi, mentre la profonda voce di Shadis perforava loro i timpani dall’esterno.
-Ci ha…-.
Ritirata la mano nel momento in cui l’Istruttore aveva malamente bussato, Jean non fece in tempo a terminare la frase. Il loro superiore, infatti, tolto il paletto che aveva bloccato l’uscita, spalancò la porta con una furia tale che entrambi i ragazzi ebbero paura che l’avesse scardinata.
-Che diamine ci fate nella rimessa, eh?-, esclamò l’uomo, avanzando a grandi passi e spostando lo sguardo inferocito dall’uno all’altra.
-Signore, stavamo solo eseguendo gli ordini-, rispose con prontezza Jean. -Io ho messo a posto il mio Meccanismo e Mikasa si è occupata delle bombole del gas come le era stato richiesto. Il temporale ci ha colti alla sprovvista e proprio quando stavamo per andarcene, lei è tonato indietro e ha sbarrato la porta-.
-Questo perché la porta doveva essere richiusa ermeticamente per una questione di sicurezza, Kirschtein. E, soprattutto, voi non sareste dovuti essere ancora qui-.
-Ci dispiace, signore-, si scusarono in coro i due soldati, abbassando la testa in segno di pentimento.
-Ackerman-, la chiamò Shadis, dopo aver brevemente osservato la contrizione dei ragazzi.
Mikasa rialzò il viso e guardò dritto davanti a sé, le proprie pupille fissate in quelle dell’Istruttore. Attese che l’uomo continuasse ed egli parlò: -Vedo che hai fatto un buon lavoro. Non sbagliavo riguardo la tua efficienza-.
La ragazza mimò il saluto militare e trasse internamente un sospiro di sollievo al pensiero che Shadis non fosse risentito del piccolo inconveniente che lui stesso aveva causato. Rimase ferma e in silenzio, mentre il superiore si rivolgeva a Jean: -In quanto a te, Kirschtein… Non riesco a capire bene perché tu non sia con il resto dei tuoi compagni, ma eviterò di indagare, per adesso. Potete andare-, li congedò, alzando la mano e compiendo un gesto a mezz’aria.
I ragazzi salutarono come si confaceva a due futuri militari e si allontanarono a velocità sostenuta attraverso il campo fangoso, ignari dello sguardo che l’Istruttore aveva posato sulle loro schiene. Giunsero nei pressi della mensa e lì si arrestarono.
-Non è andata poi così male-, rifletté a voce alta Jean. -È strano che sia rimasto così calmo. Non è da lui-.
Indirizzò gli occhi su Mikasa: la giovane aveva assunto un’aria improvvisamente assente e lui fu costretto a chiamarla altre due volte prima di ottenere la sua attenzione.
-Tutto bene?-, le domandò. -Sei molto pallida-.
Fece per tendere di nuovo la mano al suo viso, ma la compagna, sobbalzando, compì un passo indietro e si sottrasse a quel mancato contatto: -È colpa del caldo-, tirò fuori la prima scusa che le venne in mente. In effetti, nonostante la pioggia, l’afa di agosto non si era affievolita, anzi, era ancor più fastidiosa.
Jean abbandonò mollemente il braccio sul proprio fianco, stringendo appena il pugno destro. Voltò la testa e guardò lontano, verso la rimessa che avevano appena abbandonato, poi puntò gli occhi a terra, tra gli stivali ormai sporchi di terra: -Capisco. Sì, deve essere il caldo-, annuì con un tono arreso.
Mikasa si chiese se il giovane avesse creduto alla sua menzogna, ma aveva perfettamente intuito che le cose non stavano così. Non avrebbe saputo definire il suo stato d’animo in quel momento; la sua testa ed il suo cuore erano pieni di emozioni contrastanti e si domandò se per Jean valesse la stessa cosa.
-Grazie di nuovo per l’aiuto con le bombole del gas-, sospirò, liberando la vista dalla lunga frangia scura. -È stato… bello parlare un po’-.
-È quello che spero-.
Il compagno riportò lo sguardo su di lei e Mikasa si domandò se avesse rintracciato nei suoi occhi i segni dell’ansia che la stava divorando. Non lo seppe mai, perché Jean aggiunse solo un “Ci vediamo a cena” che le risultò distaccato, quasi disilluso.
-A dopo-, rispose lei, vedendolo andare via e notando il suo passo farsi più pesante, come se avesse calpestato non fango, ma sabbie  mobili pronte a trascinarlo giù.
A partire da quella sera stessa, i contatti tra i due divennero ancor più sporadici. In realtà finivano sempre con il ritrovarsi fianco a fianco, ma sembrava che scambiarsi anche poche parole fosse un’impresa ben più ardua dell’affrontare gli esami di fine addestramento. Chiunque li avesse osservati dall’esterno sarebbe giunto alla conclusione che Jean e Mikasa si evitavano perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. O forse perché non avevano niente in comune.
Ma la verità era tutt’altra e risiedeva nella paura che entrambi provavano al pensiero di doversi confrontare riguardo le parole e i gesti compiuti nella rimessa involontariamente diventata loro rifugio sul finire di un torrido pomeriggio estivo. E segretamente avrebbero portato vivo nei loro cuori il ricordo di quanto accaduto durante quel temporale.

   
 
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