Durante il temporale
-Schiene dritte! Gambe
immobili! Il
periodo di addestramento è quasi terminato, eppure alcuni di
voi non sono
ancora capaci di controllare perfettamente la Manovra. Sarete inutili
perfino
all’interno della Guarnigione! Come potrete proteggere i
civili, se non siete
in grado di badare nemmeno a voi stessi?-.
La voce
dell’Istruttore Shadis
echeggiava nello spiazzo retrostante la mensa. Le centocinquanta
reclute del
104° Reggimento stavano provando nuovamente
l’infernale Meccanismo di Manovra
Tridimensionale in vista delle valutazioni che si sarebbero tenute da
lì ad un
mese. Ai giovani, futuri militari sarebbero state sottoposte prove
teoriche e
pratiche in presenza di esaminatori provenienti direttamente dalla
capitale;
solo alla fine di quei test sarebbero potuti uscire
dall’inferno governato da
Shadis. Uscirne per entrarne in uno ben peggiore, certo: quello della
realtà.
-Cosa
c’è, Springer? Sei stanco?-, domandò
l’Istruttore, avvicinandosi al ragazzo. -Forse la tua amica
Braus ti ha
contagiato con la sua pigrizia?-.
In effetti Connie
era allo stremo,
così come il resto dei suoi compagni: era un pomeriggio di
metà agosto ed il
caldo si era fatto progressivamente più opprimente. Non si
erano viste piogge
dall’inizio di luglio e l’aria era semplicemente
infuocata. Nessun uomo sano di
mente avrebbe costretto i ragazzi ad allenarsi con quel tempo, ma era
risaputo
che Shadis non avesse tutte le rotelle al posto giusto. O almeno questo
è
quello che Sasha aveva detto dopo aver subito l’ultimo
castigo che si era
meritata per aver sottratto un non ben identificato cibo dalle dispense.
Malgrado le
provocazioni, nessuna
delle reclute osò replicare. Tutti sostennero
coraggiosamente la serie di prove
a cui l’Istruttore li sottopose e solo quando il superiore
– osservando
distrattamente il cielo che si stava incupendo a causa di brutte nuvole
scure –
decise di farli smettere poterono andare a riposare.
-Che ognuno di voi
passi alla rimessa
per mettere a posto il proprio Meccanismo!-, abbaiò Shadis,
notando alcuni
ragazzi allontanarsi rapidamente verso i dormitori nella vana speranza
di
recuperare le forze. -Più tardi mi assicurerò che
sia tutto in ordine e giuro
che, se dovesse mancarne anche uno solo, farò saltare la
cena a tutti!-.
Quella minaccia
innescò una strana –
ma prevedibile – reazione in Sasha: i compagni la videro
correre in testa al
gruppo, ben decisa a non farsi sottrarre il pasto che le spettava di
diritto.
Quando gli altri furono di fronte alla rimessa, lei si era
già liberata della
Manovra e se ne stava tornado alla base, stanca, ma felice.
-Shadis ci ha
davvero distrutti-,
sussurrò qualcuno. -Ma cos’altro pretende?-.
-Non vedo
l’ora di affrontare gli
esami. Qualsiasi cosa succeda, l’importante è
andarsene da qui il più lontano
possibile-.
-Scommetto che ci
tratta così male
perché anche lui, alla nostra età, si
è trovato in difficoltà-.
-Magari
è finito a fare l’Istruttore
proprio perché non aveva grandi capacità!-.
Ci fu uno scoppio
di risa, ma
l’ilarità durò poco: l’uomo
tornò alla carica, stavolta tenendo dietro di sé
due collaboratori che trasportavano una cassa di legno evidentemente
molto
pesante.
-Mi serve un
volontario-, disse
Shadis, facendosi largo tra le reclute. -Un volontario che riponga con
cura il
contenuto di questa-.
Indicò
il grosso contenitore che i due
militari avevano poggiato a terra, proprio accanto alla porta della
rimessa.
Aspettò qualche secondo per dare a qualcuno
l’opportunità di candidarsi per
svolgere quell’incarico, ma sapeva già che nessuno
si sarebbe fatto avanti. Non
con quel caldo. Non dopo aver trascorso l’intera mattinata e
buona parte del
pomeriggio alle prese con gli allenamenti.
-Nessuno, eh?
Bene-, disse,
sfregandosi le mani. Scrutò con la severità di un
falco il folto gruppo di
ragazzi e alla fine sentenziò: -Ackerman!-.
Intorno alla
giovane si creò uno
spazio vuoto; rimase in silenzio, mentre teneva gli occhi di tutti
incollati
addosso, e si limitò ad eseguire il saluto militare,
disponendosi ad eseguire
gli ordini.
-Occupatene tu-,
concluse Shadis. -Chi
non ha ancora messo via il Meccanismo si dia una mossa e torni nei
dormitori!-,
aggiunse, voltandosi e andandosene seguito a ruota dai due uomini che
lo
avevano accompagnato.
Le reclute non se
lo fecero ripetere di
nuovo. La folla si disperse poco alla volta e presto lo spiazzo adibito
all’addestramento fu vuoto. Tra gli ultimi ad allontanarsi ci
furono anche Eren
e Armin, che salutarono Mikasa lasciandola alle incombenze affidatele.
-Ci vediamo a
cena-, le dissero in
coro, guardandola ancora un istante prima di dirigersi definitivamente
verso la
base. La ragazza, dal canto suo, sospirò e attese che i
pochi compagni
rimanenti abbandonassero la rimessa.
-Le nostre Manovre
sono al loro
posto-, sentì qualcuno dire all’interno.
-Usciamo?-.
-Andate pure. La
mia mi sta dando non
pochi problemi da stamattina-.
-Perché
non lo dici a Shadis? Te ne
procurerà un’altra-.
-Ma sei pazzo?
Andare a parlare con
quell’uomo? Non ci penso proprio! Magari tra due o tre
giorni, sperando che per
allora abbia fatto pace con il cervello-.
-Jean, se
l’attrezzatura è difettosa
bisogna informare immediatamente i superiori. Non ricordi le lezioni
teoriche?-.
-Sei sempre il
primo della classe, eh,
Marco?-.
-Sei odioso quando
usi quel tono
ironico-, disse con disprezzo una terza voce, che Mikasa riconobbe
essere
quella di Connie. -E adesso torniamocene ai dormitori, non ce la faccio
più-.
-A dopo-.
Springer e Bodt
uscirono all’aria
aperta, ben contenti di essere giunti al termine di quella estenuante
giornata.
Vedendo Mikasa a pochi passi dalla porta della rimessa, la salutarono
con un
cenno della testa e alla ragazza non sfuggì un sorrisetto
furbo che Connie
aveva provato a nascondere. Marco, invece, le era sembrato cordiale
come al
solito. L’unica differenza che rinvenne guardando velocemente
il suo viso riguardava
le lentiggini, che sembravano essere state assorbite dal rossore
propagato
sulle guance a causa del caldo.
La giovane
sospirò: sapeva
perfettamente chi era rimasto a farle compagnia. Che la cosa fosse
casuale o
meno, a lei non interessava: voleva solo sbrigarsi ad adempiere al
compito che
Shadis aveva scelto per lei. Dunque, dopo aver inspirato profondamente,
entrò
nella rimessa, adocchiando nell’ombra Jean.
-Allenamento duro
oggi, eh?-, fece il
compagno, che stava ancora armeggiando con la Manovra.
Mikasa non lo
degnò di risposta. Lui e
Eren avevano battibeccato di nuovo quella mattina e la ragazza non
voleva
rivolgergli la parola. Solo se i due avessero imparato a discutere
pacificamente sarebbe stata più morbida nei loro confronti.
-Con questo caldo,
poi... Però sono in
arrivo grosse nuvole nere. Vedrai, pioverà prima di sera-.
Ma
perché continuava a parlare? Solo
per dare fiato alla bocca? Non si rendeva conto che lei non aveva
alcuna voglia
di chiacchierare?
Mikasa
rovistò sul ripiano di una
mensola addossata alla parete e trovò un palanchino con cui
forzare la cassa.
Varcò di nuovo la soglia e fu all’esterno,
inginocchiandosi per incastrare la
sbarra tra le assi del contenitore, poi si rialzò e fece
leva con tutto il suo
peso. Una volta scardinata, la cassa rivelò delle bombole
per il gas con cui si
alimentava la Manovra Tridimensionale.
Al solo pensiero di
doverle trasferire
nella rimessa, la ragazza sentì le ginocchia cigolare e la
schiena gridare, ma
cercò di infondersi coraggio e portare a termine
quell’ingrato compito. Ne
afferrò due e rientrò, sentendo gli occhi di Jean
seguire ogni suo movimento.
-Ti serve aiuto con
le altre
bombole?-, le domandò, guardando i rifornimenti lasciati
all'esterno.
-No, grazie. Se hai
finito, puoi anche
andare-, Mikasa si limitò a replicare con voce tagliente.
-Saranno almeno una
ventina! Sei la
più forte del Reggimento, ma questo non vuol dire che tu non
abbia bisogno di
una mano-.
Jean
uscì e a sua volta si caricò tra
le braccia due bombole, rientrando poco dopo per depositarle con
attenzione
accanto alle altre che la compagna aveva già riposto.
Mikasa, dal canto suo,
fece lo stesso, senza fiatare per tutta la durata dell'operazione.
-E questa
è l'ultima-, annunciò lui,
poggiando a terra il ventesimo contenitore. -Speriamo che Shadis ne sia
soddisfatto-, aggiunse, detergendosi il sudore dalla fronte.
-Non
potrà lamentarsene. Sono in
ordine, proprio come aveva richiesto-.
-Già. Ma
avrebbe potuto anche dividere
l’incarico tra più persone, invece che affidarlo
solo a te-.
Mikasa fece
spallucce. Non era la
prima volta che le impartivano compiti pesanti, ma nessuno vi aveva mai
prestato attenzione. Anzi, Eren ne era stato addirittura invidioso: era
riuscito
a dirle che “evidentemente l’Istruttore doveva
nutrire una smisurata fiducia
nei suoi confronti”, cosa per cui lui “sarebbe
stato disposto a pagare qualsiasi
prezzo”. Insomma, doveva ritenersi fortunata. Eppure la sua
schiena non era
molto d’accordo con quell’affermazione.
-Non era
necessario. Grazie per
l’aiuto, comunque-, si trovò a borbottare la
ragazza, osservando le bombole
messe in fila.
-Figurati.
È stato un piacere-.
Mikasa si
voltò a guardarlo: Jean
stava sorridendo. Di solito non sprecava tempo ad elargire sorrisi,
anzi; le
uniche volte in cui glielo aveva visto fare corrispondevano a momenti
in cui si
trovava insieme ai compagni con cui aveva legato di più.
Oppure in presenza di
Eren, ma più che sorrisi quelli erano veri e propri ghigni
ironici.
-Cosa…?-.
Un leggero
ticchettio aveva catturato
l’attenzione della ragazza, che tese l’orecchio per
ascoltare meglio.
-Che ti avevo
detto? Sta cominciando a
piovere-, notò Jean, gettando un’occhiata oltre la
stretta finestrella della
rimessa. -Sarà meglio rientrare, prima che scoppi il vero
temporale-.
La compagna non
poteva essere più d’accordo:
le nuvole si erano avvicinate rapidamente, coprendo la porzione di
cielo che
sovrastava l’accampamento. Sganciò il Meccanismo
di Manovra Tridimensionale, obbedendo
alle disposizioni dell’Istruttore, e lo poggiò su
una mensola di un grande
scaffale a parete, accanto a quelli delle altre reclute; la stessa cosa
fece
Jean, che non era ancora riuscito a vincere la battaglia con il proprio.
-Accidenti!-, lo
sentì imprecare.
-Che
c’è?-.
Mikasa si era
già indirizzata verso la
porta, ma la voce del ragazzo l’aveva fatta girare di scatto.
-Si è
incastrato!-, esclamò lui. -Qui,
dietro alla schiena-.
La giovane gli si
avvicinò. Nell’ombra
calata sulla rimessa cercò di osservare il Meccanismo.
-Hai girato la
fibbia al contrario-,
constatò. -Prova a compiere il movimento opposto-.
-Se ci fossi
riuscito, lo avrei già
fatto-, replicò Jean.
-Fammi dare
un’occhiata, allora-.
Avvicinò
il viso all’intreccio di
acciaio e cuoio, strizzando gli occhi: l’oscurità
che ammantava il magazzino
non la aiutava a sciogliere quell’intrico e Mikasa
sbuffò.
-Vieni alla luce,
per favore-, gli
disse, -così vedrò meglio-.
-No, aspetta! Penso
di avercela…-.
La porta della
casupola sbatté di
colpo. Il forte vento che si era alzato ululava contro le pareti,
soffiando e
spazzando via ogni cosa.
-No, non ce
l’hai fatta-, sbottò la
ragazza, vedendo il compagno dimenarsi inutilmente. -Ascoltami
e…-.
-…per
nulla affidabili! Credevo che
Ackerman fosse un elemento migliore, ma si sarà fatta
prendere anche lei dalla
stanchezza. Ha perfino lasciato la cassa qui fuori!-.
Mikasa e Jean
rimasero zitti e
immobili: avevano immediatamente riconosciuto la voce di Shadis, venuto
a
controllare che ogni cosa fosse stata eseguita secondo le istruzioni da
lui
delineate. Credettero che l’uomo sarebbe entrato da un
momento all’altro,
continuando a borbottare tra sé e sé, ma si
sbagliarono: sentirono il secco
rumore del legno sbattere contro la porta e, subito dopo, i passi
dell’Istruttore che si allontanavano nella direzione opposta.
-Non dirmi
che…-, iniziò a dire Jean,
subito interrotto dalla compagna.
Mikasa si
lanciò contro la porta e
provò ad aprirla: niente. Tentò una seconda
volta: nulla. Prese una breve
rincorsa e diede una spallata: non si mosse foglia.
-Ci ha chiusi
dentro!-, esclamò,
spalancando gli occhi. -Non si è accorto che eravamo qui!-.
-Deve averla
sprangata con il paletto
esterno-, puntualizzò Jean, affiancando la ragazza e
toccando il legno
dell’entrata. -È inutile provare a sfondarla. Ti
sei fatta male?-, le chiese,
accorgendosi che si stava sfregando il braccio.
-No… Ma
dobbiamo trovare una
soluzione-.
-Questo
è certo. Io, però, non mi
allarmerei troppo-.
Il giovane
indietreggiò, avvicinandosi
alla finestra e lasciando aderire la schiena alla parete. Aveva
un’espressione
fin troppo rilassata e questo non rassicurò Mikasa.
-Ah, davvero? E
perché?-.
-Marco e Connie
sanno che siamo qui,
così come Eren e Armin. Quando non ci vedranno rientrare,
avvertiranno Shadis e
lui verrà a prenderci-.
-Sembri fiducioso-.
-Lo sono-.
-Buon per te, ma io
non ho alcuna
intenzione di rimanere qui dentro un minuto di più. Basta,
proviamo a uscire-.
-E come? Dalla
finestra?-.
Jean
indicò con il pollice la luce che
trapelava dai piccoli vetri polverosi alla sua destra e in un secondo
Mikasa
gli fu accanto.
-Cosa stai
facendo?-, le domandò.
-Cerco di aprirla-,
ribatté lei,
provando a forzare il legno. Era una di quelle finestre che si
chiudevano
facendo scorrere l’anta verso il basso; non le rimaneva che
alzarla per
ricavare un varco da cui sarebbero usciti, seppur a fatica.
-Non vedi che
è bloccata?-, le fece
notare Jean, osservando con un sopracciglio sollevato i tentativi della
ragazza.
-Potresti anche
darmi una mano, no?-,
replicò Mikasa, la voce indurita per lo sforzo.
Sbuffando, il
compagno si distaccò dal
muro e si pose alla sua sinistra, chiedendole gentilmente di fargli
spazio.
Insieme provarono a sollevare l'anta, ma fu tutto inutile: c'era
qualcosa che
impediva il libero scorrimento del legno e a una prima occhiata nessuno
dei due
ragazzi riuscì a capire cosa lo causasse.
-Forse si
è ossidato il perno che la
tiene agganciata-, ipotizzò Jean. -Sarà
impossibile riuscire a...-.
-Riproviamo ancora-.
L'espressione di
Mikasa era risoluta e
il compagno, sospirando, la assecondò di nuovo. Tentarono
per i successivi
dieci minuti, ma non ottennero alcun risultato.
-Anche se ce la
facessimo, una volta
fuori ci bagneremo da capo a piedi. Guarda che tempaccio!-.
-Ma almeno
torneremo dagli altri-.
-E?-.
-Niente. Sono
sicura che si saranno
già accorti della nostra assenza-.
-Mikasa, siamo qui
dentro da venti
minuti. Dammi retta: ci verranno a cercare quando finirà di
piovere. Shadis non
permetterà a nessuno di uscire con questa tempesta-.
La ragazza dovette
arrendersi
all'evidenza: Jean aveva perfettamente ragione. Il temporale estivo si
era
abbattuto all'improvviso su Trost, cogliendoli totalmente di sorpresa,
e
avrebbe continuato a imperversare ancora per molto, vista la
quantità d'acqua
che stava precipitando giù dal cielo. Inoltre, anche se
Eren, Armin o qualcun
altro dei compagni di Reggimento avesse segnalato la loro assenza, di
sicuro
Shadis non si sarebbe allarmato troppo: d'altronde, dove potevano mai
essere
finiti due futuri soldati che fino a trenta minuti prima avevano
sostenuto
l'allenamento quotidiano insieme ai commilitoni?
-Cosa facciamo, nel
frattempo?-.
Quella semplice
domanda le sfuggì con
naturalezza dalle labbra, ma si pentì di averla formulata
appena un istante
dopo.
-Non so...
Chiacchierare, magari?-.
Jean le rivolse un
sorriso
incoraggiante mentre riappoggiava la schiena alla parete della rimessa.
Mikasa
lo fissò a sua volta, indecisa se accogliere o meno quella
proposta: l'idea di
essere sola con quel ragazzo – tra i tanti che affollavano il
campo
d'addestramento, tra l'altro! – e di parlare con lui non la
allettava
particolarmente, ma quali alternative aveva? Restarsene in silenzio ad
ascoltare i tuoni del temporale? No, sarebbe stato imbarazzante per
entrambi.
-Se vuoi...-.
La risposta vaga
che gli aveva fornito
sembrò accontentarlo; alla ragazza parve che una scintilla
gli avesse
illuminato lo sguardo per una frazione di secondo. O forse era stato il
riflesso dell'ennesimo fulmine che aveva rischiarato il tetro ambiente
della
rimessa e che era stato appena seguito dal fragore di un tuono.
-Be’,
Mikasa-, disse Jean, spezzando
il momentaneo silenzio seguito all'eco del tuono, -perché
non inizi tu? Puoi
chiedermi qualsiasi cosa-.
-Cosa dovrebbe
essere? Una specie di
intervista?-.
-Ma sì,
mettiamola così-, sorrise di
nuovo il compagno. -Una domanda a testa-.
-D’accordo-,
sospirò lei, spremendosi
le meningi alla ricerca di un quesito che risultasse abbastanza
spontaneo.
-Lasciami solo pensare...-.
Il ragazzo attese,
muto come un pesce.
Mikasa lo guardò distrattamente, poi abbassò gli
occhi verso terra. Li fece
vagare brevemente sul lato opposto della rimessa e infine si decise a
parlare: -Perché
ti sei arruolato?-.
-Oh, iniziamo
subito con domande scottanti,
eh?-, scherzò lui; l’attimo successivo le rispose:
-Volevo dimostrare a mia
madre di sapermela cavare da solo, farle capire che sarei potuto
arrivare
lontano con le mie forze-.
-Non lo avrei mai
detto-, ammise la
giovane.
-Davvero?-, Jean
rise. -E cosa
pensavi?-.
-In
realtà, nulla di particolare. Se i
miei genitori fossero vivi, non mi verrebbe mai l'idea di entrare
nell'esercito-.
Mikasa
notò un barlume di sorpresa
negli occhi del suo interlocutore: evidentemente il ragazzo non si
aspettava
quel tipo di risposta.
-Mi dispiace-,
sussurrò lui,
abbassando lo sguardo a terra. -Non parliamo delle nostre famiglie-.
-Sono curiosa,
invece-, replicò la
giovane. -Che lavoro fanno i tuoi?-.
Jean era a disagio,
lo vedeva bene.
Esitava a rispondere: probabilmente credeva che lei soffrisse a parlare
del suo
passato. In parte era così, ma dopotutto erano passati sei
anni da allora e nel
frattempo aveva assistito ad eventi addirittura peggiori rispetto
all'assassinio dei suoi parenti.
-Mio padre gestisce
un banco di
cambio, qui a Trost-, spiegò il compagno dopo qualche
minuto. -Mia madre ha
lavorato in una sartoria fino alla mia nascita. Adesso riceve le
clienti in
casa e se ne occupa su ordinazione-.
Ammutolì
di nuovo. Il silenzio era
spezzato solo dalle impetuose gocce di pioggia che battevano contro il
vetro e
dal vento che faceva sussultare perfino la porta della rimessa.
-Se pensi che mi
faccia male ricordare
la mia famiglia-, gli disse Mikasa, tentando di rassicurarlo, -sbagli
di
grosso. È... Tutto a posto. Sul serio-.
Ma Jean non
sembrava dello stesso
avviso. Il rispetto che stava dimostrando nei suoi confronti la
colpì non poco.
-Sai...
È difficile parlarne-, provò a
spiegarsi lui, incrociando le braccia sul petto. -Insomma... Mi sento
in colpa,
capisci?-.
-E per cosa?-.
-Perché
la vita è stata ingiusta con
te. Meriti di essere felice-.
Un tuono
accompagnò le sue ultime
parole, mentre un fulmine squarciava il cielo ed illuminava per un
istante
l'interno della rimessa. Mikasa tacque.
-Ma passiamo ad
argomenti più lievi-,
Jean batté le mani.
-Per esempio?-.
-Uhm... Il tuo
gioco preferito quando
eri bambina?-.
-Le bambole. Mi
piaceva cucire dei
vestiti per loro-.
-È
strano immaginarti in questo modo-,
Mikasa vide il sorriso tornare sulle labbra del ragazzo. -Avrei voluto
conoscerti allora-.
-E tu come passavi
il tempo libero?-,
ribaltò la domanda lei.
-Avevo una vera e
propria fissazione
con le spade di legno. Ho perso il conto di quante ne ho avute. Mia
madre le
odiava. Avevi altri passatempi?-.
-Coltivare i fiori.
Avevamo un
giardinetto che ai miei occhi assomigliava ad un piccolo paradiso-.
La sua bocca si
distese lievemente al
ricordo dei bei giorni andati. Per un secondo la sua testa si
riempì di
immagini e colori, poi la scosse e formulò la domanda
successiva per il
compagno: -Il tuo colore preferito?-.
-Il verde. Qual
è il piatto della
mensa che trovi più insipido?-.
-La minestra. Ma...
Credevo che mi
avresti chiesto il colore che mi piace di più-.
-Non te l'ho
domandato perché ho
immaginato quale potesse essere la risposta-.
Con un movimento
della testa il
ragazzo accennò nella sua direzione e Mikasa capì
che si stesse riferendo alla
sciarpa. Erano settimane che non la indossava, complice il caldo
insopportabile
dell'estate, ma ciò non le impedì di arrossire
leggermente.
-E questo mi dice
che ho fatto
centro-, sorrise Jean, notando la sfumatura purpurea delle sue guance.
-Dai,
tocca a te-.
-Hai fratelli o
sorelle?-.
-No, sono figlio
unico. Però non mi
sarebbe dispiaciuto averne-.
-Perché...?-.
-Eh, no!
È il mio turno-, la fermò
lui. Si prese un momento per pensare alla domanda successiva e poi
continuò:
-Come immagini la tua vita alla fine della guerra?-.
Stavano per toccare
dei tasti molto
dolenti, Mikasa lo sapeva bene. Si disse che forse, fin dal principio,
non
avrebbe dovuto chiedergli della sua famiglia; forse Jean si era
risentito e le
aveva sottoposto un quesito dei più difficili e dolorosi,
eppure non era del
tutto convinta di quella possibilità. La ragazza
restò comunque in silenzio per
un paio di minuti, riflettendo attentamente: di solito immaginava un
futuro in
cui lei, Eren e Armin vivevano insieme entro i confini delle Mura, in
una
casetta in piena campagna. Lì avrebbero coltivato la terra e
sarebbero vissuti
in pace, lontani dai pericoli e dagli incubi da cui erano stati
perseguitati
fino a quel momento. Non se la sentì di fornire quella
versione. O meglio, non
la riferì del tutto.
-Mi piacerebbe
avere una casa tutta
mia, fuori dalla città. In un piccolo villaggio, magari,
oppure verso le
montagne. L'importante sarebbe condurre una vita tranquilla e dormire
sonni in
cui non ci sono ombre ad inseguirti con l'unico scopo di ucciderti.
Basterebbe
questo-.
Si accorse che Jean
la stava fissando
con attenzione. Chissà cosa stava pensando? Forse avrebbe
dovuto chiederglielo
direttamente: -Tu, invece? Grandi progetti?-.
-Non molti, a dire
il vero. Tutto
dipenderà se riuscirò a raggiungere la meta che
mi sono prefissato-.
-Sei sempre
convinto di unirti alla
Gendarmeria?-.
Stavolta il ragazzo
non interruppe la
sua seconda domanda. Lo vide sospirare e chiudere gli occhi, preso da
preoccupazioni che Mikasa poteva solo intuire, e alla fine lo
sentì rispondere:
-Direi di sì. Non ho alcuna intenzione di morire. E tu? Cosa
ne pensi?-.
-Vorrei che anche
Eren ragionasse come
te-.
All’esterno,
la pioggia s’intensificò
tutto d’un tratto. Se i due avessero scrutato fuori dalla
finestrella, si
sarebbero accorti che il retro dello spiazzo assomigliava ormai ad una
distesa
di fango in cui le pozzanghere non facevano altro che ingrandirsi. Il
temporale
sembrava non voler accennare a terminare.
-Perché
ci tiene così tanto a
schierarsi in prima fila? Voglio dire-, si corresse Jean dopo qualche
minuto di
silenzio, passandosi una mano tra i capelli, -è ammirevole,
da parte sua, ma
non riesco proprio a capire cosa lo spinga a perseguire un obiettivo
che tutti
sanno essere irraggiungibile-.
Mikasa
inspirò profondamente: il
ricordo di quel lontano giorno d'inferno a Shingashina non l'avrebbe
mai
abbandonata, purtroppo. In quell'orrore aveva perso la sua seconda
famiglia, ma
Eren...
-Cerca vendetta-,
rispose con tono
piatto, gli occhi persi nel vuoto. -Questi tre anni passati a Trost
sono
serviti solo a convincerlo di dover dare il massimo per entrare a far
parte del
Corpo di Ricognizione-.
-Tu cosa hai deciso
di fare?-.
-Non sono riuscita
a convincerlo ad
unirsi alla Guarnigione-, Mikasa alzò le spalle con aria
mesta. -Avevo anche pensato
che forse essere selezionati come membri scelti della Gendarmeria
avrebbe
potuto allettarlo, ma sbagliavo. E allora lo seguirò. Ho una
promessa da
mantenere-.
L’atmosfera
si era fatta pesante di
domanda in domanda e la ragazza si chiese quando, di comune accordo,
avrebbero
deciso di smetterla: quel discorso non stava facendo bene a nessuno dei
due.
-Se lui non ci
fosse-, si arrischiò a
chiedere Jean, -se non ci fosse nessuna parola data a legarti a lui...-.
Mikasa
alzò lo sguardo sul giovane: il
compagno si stava fissando la punta degli stivali, come se imbarazzato.
Lo si
intuiva anche dal tono della voce che aveva utilizzato, più
basso e esitante.
Lei rimase in silenzio.
-Verresti con me?-.
Un fulmine si
abbatté lontano e
rischiarò la rimessa, illuminando gli occhi stupiti della
giovane e
l'espressione tesa di Jean. Di lì a poco seguì il
rombo del tuono, più intenso
di tutti gli altri che lo avevano preceduto.
Mikasa
ammutolì: non era quella la
domanda che si aspettava. Anzi, era una domanda a cui non avrebbe mai
voluto
rispondere.
-Neanche io voglio
morire-, esalò
piano, evitando di replicare direttamente al quesito che le era stato
posto.
-Ma se vincerò le battaglie che mi aspettano,
continuerò comunque a vivere. E
allora chissà? Magari ci rincontreremo-.
I loro occhi,
abbassati su un punto
imprecisato del pavimento, si incontrarono a metà strada e
l’uno lesse nello
sguardo dell’altra esitazione, un pizzico di smarrimento che
si tradusse in un
nuovo momento di silenzio. Intanto, fuori di lì,
l’intensità della pioggia era
diminuita senza che se ne fossero resi conto, anche se le spesse nuvole
nere
continuavano a rombare di tanto in tanto.
-Magari-,
ripeté Jean, le pupille fisse in quelle della compagna e un
tono di voce che
Mikasa avrebbe definito semplicemente malinconico. Era come se la sua
risposta
avesse tradito le aspettative del ragazzo e si chiese perché
mai, tra le
centinaia di persone che affollavano il Reggimento, avesse rivolto
quella
domanda proprio a lei.
-Riproviamo ad
aprire la finestra,
dai-, disse di colpo la giovane, provando a cambiare discorso e
adducendo come
scusa il cessare della pioggia.
-Va bene-.
Si misero di nuovo
l’uno accanto
all’altra e spinsero con forza l’anta bloccata.
Come era successo precedentemente,
anche questa volta i primi tre tentativi andarono a vuoto; al quarto,
Mikasa si
lasciò scappare un’esclamazione di dolore.
-Cos’hai?-,
le chiese allarmato Jean,
voltandosi ad osservare la compagna che prontamente aveva ritirato
entrambe le
mani, stringendosele al petto.
-Deve essermi
entrata una scheggia di
legno nell'indice-,
lo
informò,
strizzando un occhio a causa del fastidio che provava. Tentò
di toglierla, ma
l’unico risultato che ottenne fu farla affondare ancor di
più nella carne.
-Aspetta-, la
fermò lui, afferrandole
dolcemente la mano destra e poggiandola sul suo palmo sinistro. -Lascia
fare a
me-.
Strinse la falange,
aumentando poco
alla volta l'intensità della presa, e riuscì a
far emergere una parte della
scheggia. Una volta scoperta, estrasse con precisione chirurgica il
segmento
legnoso e lasciò uscire una goccia di sangue dal dito della
compagna,
tamponandolo con la manica della propria camicia.
-Ti sporcherai-, lo
ammonì Mikasa,
provando ad impedirgli di passare la stoffa sulla parte dolente.
-Avrei comunque
dovuto lavarla-,
ribatté lui, terminando la pulizia. -Va meglio?-.
La ragazza
annuì con un cenno del
capo.
-Ti avevo detto che
sarebbe stato inutile
provare a sbloccarla. È incastrata. Dovevi per forza farti
male, eh?-.
Jean teneva ancora
la mano della
compagna stretta tra le proprie. Per lunghi secondi rimasero in
silenzio,
ascoltando il suono ovattato delle ultime gocce di pioggia che
scivolavano
lungo il tetto della rimessa per cadere definitivamente a terra, ed
entrambi
mantennero gli occhi immobili sull'unione di quelle mani.
Mikasa cominciava a
sentirsi a
disagio: di colpo il suo respiro si era fatto irregolare e si era
accordato al
battito del suo cuore, insolitamente agitato. Per un attimo
pensò che le cose
non sarebbero potute andare peggio di così, ma poi il
ragazzo che aveva di
fronte riuscì a stupirla ancora: iniziò ad
accarezzarle pian piano il palmo
della mano, sfiorando teneramente i suoi polpastrelli con i propri. Fu
una
sensazione strana: Mikasa si sentì attraversata da un
brivido che la scosse da
capo a piedi e si domandò cosa stesse pensando – o
provando – in quello stesso
momento il suo compagno di Reggimento.
-Non voglio
perderti-, sussurrò Jean,
spezzando la quiete. -Se davvero hai deciso di entrare nel Corpo di
Ricognizione, non voglio sprecare un solo momento senza di te-.
Fu un istante:
nell'attimo in cui
Mikasa tentava di metabolizzare quanto detto dal giovane, lui si
portò le sue
dita alla bocca e se le premette contro le labbra, baciando con
devozione la
sua pelle ferita e indurita dagli allenamenti a cui si sottoponeva
giorno dopo
giorno. Chiuse gli occhi e la ragazza fece istintivamente la stessa
cosa: le
parve che in quel modo il suo braccio – e il resto del corpo,
a dire il vero –
fosse attraversato da un'energia così intensa da farle
perdere la percezione
del tempo e del luogo in cui si trovava. Era qualcosa di nuovo e del
tutto
strano, eppure, nonostante l'imbarazzo, non sottrasse la mano dalla
presa del
compagno.
Quando Jean
lasciò scivolare via le
dita della ragazza, entrambi dischiusero le palpebre nello stesso
momento e si
guardarono, stravolti: nessuno dei due riusciva a credere a
ciò che era appena
successo. Il minuto che seguì si dilatò oltre i
confini dell’immaginabile e
pian piano le loro guance si velarono di un rossore che sarebbe stato
impossibile ignorare.
-Indossi ancora il
Meccanismo-,
articolò con voce secca Mikasa, chiedendosi dove avesse
trovato la forza di
pronunciare quelle parole. -Devo sciogliere il nodo-.
La ragazza si mosse
a scatti,
fermandosi dietro di Jean. Portò le mani alla Manovra e, pur
sentendole
tremare, provò con tutta se stessa a compiere movimenti
fluidi, come per
dissimulare l’imbarazzo che ancora la stava scuotendo. Il
compagno, dal canto
suo, restò muto, ascoltando il cigolio
dell’acciaio e lo strofinio delle fibbie
di cuoio.
-Puoi toglierlo
liberamente, adesso-,
comunicò Mikasa, arretrando di un passo.
Jean
sganciò il Meccanismo e si voltò
verso di lei. Nei suoi occhi c’era un bagliore nuovo e la sua
bocca, serrata fino
ad un attimo prima, si rilassò, sciogliendosi in un altro,
piccolo sorriso:
-Grazie-.
Tenendo nella mano
sinistra la
Manovra, tese la destra, avvicinandola al viso della compagna. La
ragazza,
impietrita sul posto, percepiva l’incombere di quelle dita
sulla sua guancia e
ad ogni millimetro che Jean guadagnava sentiva il cuore tuonare
esattamente
come il temporale appena passato.
“Non
lasciarglielo fare”, pensò in una
frazione di secondo. “È sbagliato. Non cedere. Ma la sua pelle
è così calda…”.
-Ackerman!
Kirschtein! Siete qui
dentro?-.
Sulla porta vennero
assestati tre
colpi decisi, mentre la profonda voce di Shadis perforava loro i
timpani
dall’esterno.
-Ci ha…-.
Ritirata la mano
nel momento in cui
l’Istruttore aveva malamente bussato, Jean non fece in tempo
a terminare la
frase. Il loro superiore, infatti, tolto il paletto che aveva bloccato
l’uscita, spalancò la porta con una furia tale che
entrambi i ragazzi ebbero
paura che l’avesse scardinata.
-Che diamine ci
fate nella rimessa,
eh?-, esclamò l’uomo, avanzando a grandi passi e
spostando lo sguardo
inferocito dall’uno all’altra.
-Signore, stavamo
solo eseguendo gli
ordini-, rispose con prontezza Jean. -Io ho messo a posto il mio
Meccanismo e
Mikasa si è occupata delle bombole del gas come le era stato
richiesto. Il
temporale ci ha colti alla sprovvista e proprio quando stavamo per
andarcene,
lei è tonato indietro e ha sbarrato la porta-.
-Questo
perché la porta doveva essere
richiusa ermeticamente per una questione di sicurezza, Kirschtein. E,
soprattutto,
voi non sareste dovuti essere ancora qui-.
-Ci dispiace,
signore-, si scusarono
in coro i due soldati, abbassando la testa in segno di pentimento.
-Ackerman-, la
chiamò Shadis, dopo
aver brevemente osservato la contrizione dei ragazzi.
Mikasa
rialzò il viso e guardò dritto
davanti a sé, le proprie pupille fissate in quelle
dell’Istruttore. Attese che
l’uomo continuasse ed egli parlò: -Vedo che hai
fatto un buon lavoro. Non
sbagliavo riguardo la tua efficienza-.
La ragazza
mimò il saluto militare e
trasse internamente un sospiro di sollievo al pensiero che Shadis non
fosse
risentito del piccolo inconveniente che lui stesso aveva causato.
Rimase ferma
e in silenzio, mentre il superiore si rivolgeva a Jean: -In quanto a
te,
Kirschtein… Non riesco a capire bene perché tu
non sia con il resto dei tuoi
compagni, ma eviterò di indagare, per
adesso.
Potete andare-, li congedò, alzando la mano e compiendo un
gesto a
mezz’aria.
I ragazzi
salutarono come si confaceva
a due futuri militari e si allontanarono a velocità
sostenuta attraverso il
campo fangoso, ignari dello sguardo che l’Istruttore aveva
posato sulle loro
schiene. Giunsero nei pressi della mensa e lì si arrestarono.
-Non è
andata poi così male-, rifletté
a voce alta Jean. -È strano che sia rimasto così
calmo. Non è da lui-.
Indirizzò
gli occhi su Mikasa: la
giovane aveva assunto un’aria improvvisamente assente e lui
fu costretto a
chiamarla altre due volte prima di ottenere la sua attenzione.
-Tutto bene?-, le
domandò. -Sei molto
pallida-.
Fece per tendere di
nuovo la mano al
suo viso, ma la compagna, sobbalzando, compì un passo
indietro e si sottrasse a
quel mancato contatto: -È colpa del caldo-, tirò
fuori la prima scusa che le
venne in mente. In effetti, nonostante la pioggia, l’afa di
agosto non si era
affievolita, anzi, era ancor più fastidiosa.
Jean
abbandonò mollemente il braccio
sul proprio fianco, stringendo appena il pugno destro. Voltò
la testa e guardò
lontano, verso la rimessa che avevano appena abbandonato, poi
puntò gli occhi a
terra, tra gli stivali ormai sporchi di terra: -Capisco. Sì,
deve essere il
caldo-, annuì con un tono arreso.
Mikasa si chiese se
il giovane avesse
creduto alla sua menzogna, ma aveva perfettamente intuito che le cose
non
stavano così. Non avrebbe saputo definire il suo stato
d’animo in quel momento;
la sua testa ed il suo cuore erano pieni di emozioni contrastanti e si
domandò
se per Jean valesse la stessa cosa.
-Grazie di nuovo
per l’aiuto con le
bombole del gas-, sospirò, liberando la vista dalla lunga
frangia scura. -È
stato… bello parlare un po’-.
-È
quello che spero-.
Il compagno
riportò lo sguardo su di
lei e Mikasa si domandò se avesse rintracciato nei suoi
occhi i segni
dell’ansia che la stava divorando. Non lo seppe mai,
perché Jean aggiunse solo
un “Ci vediamo a cena” che le risultò
distaccato, quasi disilluso.
-A dopo-, rispose
lei, vedendolo
andare via e notando il suo passo farsi più pesante, come se
avesse calpestato
non fango, ma sabbie mobili pronte a
trascinarlo giù.
A partire da quella
sera stessa, i
contatti tra i due divennero ancor più sporadici. In
realtà finivano sempre con
il ritrovarsi fianco a fianco, ma sembrava che scambiarsi anche poche
parole
fosse un’impresa ben più ardua
dell’affrontare gli esami di fine addestramento.
Chiunque li avesse osservati dall’esterno sarebbe giunto alla
conclusione che
Jean e Mikasa si evitavano perché, in fondo, non avevano
nulla da dirsi. O
forse perché non avevano niente in comune.
Ma la
verità era tutt’altra e
risiedeva nella paura che entrambi provavano al pensiero di doversi
confrontare
riguardo le parole e i gesti compiuti nella rimessa involontariamente
diventata
loro rifugio sul finire di un torrido pomeriggio estivo. E segretamente
avrebbero portato vivo nei loro cuori il ricordo di quanto accaduto
durante
quel temporale.