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Autore: Manu_Green8    28/07/2015    2 recensioni
Il college era la nuova esperienza di lei, da vivere e da gustare. Il pugilato professionistico quella di lui. Un anno era passato in fretta e i due ragazzi si sentivano più uniti che mai. Ma cosa accadrà quando si insinuerà la lontananza? O quando incontreranno persone nuove e ne riemergeranno dal passato?
L'avventura di Melanie e Chad continua, anche se non tutto sarà facile. Ce la faranno anche sta volta? Questo è tutto da scoprire...
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Salve, cari lettori! Vi ricordate di me? Forse sì, o forse no. Sono già passati diversi mesi dall'ultima volta che ho scritto una storia e finalmente sono ricomparsa proprio con il sequel di "Un battito d'ali... un battito del cuore". Con questo non vi obbligo di certo a leggere la storia precedente, ma vi invito comunque a farlo, considerando i riferimenti all'interno di tutta la fanfiction.
Non mi dilungo oltre! Fatemi sapere cosa ne pensate! Buona lettura :D
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[STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA: MI SCUSO PER IL DISAGIO]
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un battito d'ali.. un battito del cuore'
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Pov Rachel
La prima cosa che feci quella mattina quando mi svegliai, non fu di aprire gli occhi, ma di allungare il braccio per cercare il contatto con Dave.
I giorni passavano e la nostra stanza diventava sempre più fredda, tanto che la mattina amavo coccolarmi  con il mio ragazzo e godermi il calore rimasto sotto le coperte.
Quella volta però, la prima cosa che sentii fu il vuoto accanto a me. E proprio questo mi fece aprire gli occhi immediatamente.
Mi guardai intorno nella stanza: vuota.
Scacciai le coperte e mi alzai in piedi, senza curarmi dell’aria fredda che mi colpì i piedi nudi, facendomi rabbrividire.
“Dave?” chiesi, entrando nella cucina collegata al salotto. Del mio ragazzo neanche l’ombra. Dove diavolo era finito?
“Dave?” ripetei, mentre l’ansia mi investiva.
E poi sentii la sua voce che proveniva dal bagno. Erano borbottii confusi che uscivano dalla porta socchiusa. Aggrottai le sopracciglia e mi diressi verso l’ultima stanza del nostro appartamento, in cui non avevo ancora guardato. Afferrai la maniglia e aprii la porta. La vista che mi ritrovai davanti mi lasciò più sbalordita di quanto non fossi già.
Dave era inginocchiato davanti al water con la tavoletta abbassata. Su di esso, diventato a tutti gli effetti un tavolo o una scrivania, aveva un taccuino su cui scriveva con una matita, mentre bofonchiava parole tra sé e sé.
“Dave? Ma che stai facendo?” gli chiesi, restando sulla soglia.
Lui non si voltò nemmeno a guardarmi.  “Solo un attimo” disse, sollevando la mano libera verso di me.
Aggrottai le sopracciglia e camminai verso di lui, mettendomi dietro al ragazzo e sbirciando da dietro la sua schiena. Non avevo mai visto quel quaderno che aveva davanti: i fogli non erano bianchi, né avevano righe o quadri, ma ogni pagina aveva la stampa di un campo da basket, con tutte le sue linee e i cerchi. E Dave stava disegnando in esso numeri e frecce.
“Ripeto: che diavolo stai facendo?” chiesi, confusa.
“No. No. Il due deve tagliare qui. E il quattro deve bloccare, mentre il cinque rolla” disse, facendo un’enorme x sulla metà campo che stava utilizzando e ribaltando il quaderno per ricominciare a scrivere.
Sbuffai e misi una mano sotto al suo mento, tirando la sua testa indietro per farmi guardare. Lui emise un piccolo verso frustrato, ma smise di scrivere e mi guardò obbligatoriamente negli occhi. “Buongiorno” gli dissi.
“No, non lo è!” affermò lui, spalancando gli occhi.
“Da quanto tempo sei sveglio?” chiesi, guardando le borse sotto ai suoi occhi verdi.
Lui rise istericamente. “Da un po’. Ma ho preso il caffè. È tutto ok” disse, cercando di divincolarsi dalla mia presa, ma non glielo permisi.
“No. Non è tutto ok. Sei impazzito per caso?” gli chiesi, guardandolo male.
“No. Ma sono troppi” disse, divincolandosi e tornando a scrivere.
Sospirai. “Troppi cosa?” chiesi inginocchiandomi accanto a lui.
“Abbiamo troppi schemi di gioco, in attacco, in difesa. E io li ho memorizzati soltanto in qualche settimana. Oggi si gioca. E io li devo ricordare” e iniziò a contare con le dita: “Corna, pollice, due, basso, alto…” e poi gli tappai la bocca con la mano.
“Alt” dissi, mentre lui mi guardava con gli occhi spalancati. “Fammi capire: tu sei sveglio da non so quanto tempo perché dovevi ripassare i vostri schemi di gioco il giorno della prima partita?”.
Lui annuì con la testa, dato che la mia mano era ancora sulla sua bocca.
“Tu sei tutto scemo” dissi, sollevando gli occhi al cielo. Poi presi il quaderno e mi alzai.
“No! Che fai?” mi chiese, alzandosi in piedi con me.
Uscii dalla stanza con Dave che mi veniva dietro.  “Ridammelo”.
Entrai in camera nostra e misi il quaderno dietro la schiena.
“Guarda l’orologio. Sono le 6,35. Hai ancora quaranta minuti per dormire. Al posto di perdere tempo con degli schemi che sai perfettamente a memoria, scolpiti nella tua bella testa, sfrutta questi minuti per dormire un po’. E non provare a dirmi di no” lui gemette esasperato. “Penso che sia un bene per tutti se tu sia carico, invece che stanco, non ti pare? Quindi, fila a letto, mentre ti preparo una colazione coi fiocchi, sì?” dissi, cercando di essere convincente.
Lui sospirò e senza fiatare si distese. “Quando stasera non saprò uno degli schemi, mi fermerò in mezzo al campo come un idiota e…” brontolò affondando la testa nel cuscino, quando lo interruppi.
“Sì, sì. Potrai dare la colpa a me” dissi, poggiando il quaderno sul suo comodino, senza considerare i rischi. Poi feci per uscire dalla stanza. “Tanto sappiamo entrambi che non succederà, testone!” brontolai, dirigendomi verso la cucina, mentre dal letto non ottenevo alcuna risposta.
 
Uscimmo di casa insieme, come sempre. Dopo un’abbondante colazione e il mio divieto di introdurre altro caffè nel suo sistema, Dave era riuscito a calmarsi.
Aveva fatto rimbombare i Green Day per tutto l’appartamento, senza che potessi oppormi. Sapevo che per tutto il giorno li avrebbe ascoltati. Aveva sempre avuto un rituale tutto suo prima delle partite, a cui nessuno doveva o poteva intromettersi.
E poi dopo essersi infilato la felpa Adidas blu e bianca con il cappuccio, nonostante fosse ormai vecchia, lo avevo trascinato fuori di casa.
Io ero riuscita soltanto ad osservarlo mentre faceva lo psicopatico per casa, mentre mi preparavo per la mia giornata.
Quell’atteggiamento era piuttosto strano per Dave, che era sempre stato eccitato dall’idea di andare in campo. Quell’ansia non avevo proprio idea da dove saltasse fuori.
Per tutto il tragitto verso il college era rimasto in silenzio.
Annuiva di tanto in tanto a ciò che gli riferivo e potevo sentire il suo palmo della mano sudato contro al mio. A tal proposito però non dissi nulla, non volendo rischiare di peggiorare la situazione.
Una volta superata l’entrata di Stanford, una voce femminile chiamò Dave da lontano.
Ci voltammo entrambi in quella direzione e potei vedere una ragazza con una lunga coda di cavallo castana e degli occhi azzurri che stava facendo cenno al mio ragazzo di raggiungerla.
Dave si voltò verso di me. “E’ Lilian” mi spiegò e io annuii.
“Vai” gli dissi, lasciandogli la mano.
Lui mi fece un piccolo sorriso e si sporse per darmi un bacio veloce. “Ci vediamo a pranzo, ok?” mi disse, prima di iniziare a camminare verso una direzione diversa dalla mia.
Guardai per un attimo come la ragazza sorrise a Dave, dandogli un colpetto sulla spalla, ma non riuscivo a vedere l’espressione del mio ragazzo, che adesso mi dava le spalle.
Scossi la testa e dopo aver guardato l’orologio, ripresi a camminare, non volendo arrivare in ritardo.
 
Pov Chad
Una delle cose più brutte che possano capitare la mattina è quella di svegliarsi ugualmente ad un orario indecentemente presto, anche se la tua sveglia è disattivata e la sera prima avevi programmato una lunga dormita per il giorno dopo. Quella era la descrizione esatta di ciò che mi era successo. Quella settimana l’officina sarebbe stata chiusa, dato che Joe aveva deciso di andare a far visita a sua figlia, che si era trasferita con il marito lo scorso anno, in qualche città sconosciuta del Winsconsin. Non si fidava abbastanza da lasciare la sua attività ad un branco di ragazzini quali eravamo i suoi dipendenti (sue esplicite parole).
E così il letto era tornato ad essere per questi giorni il mio migliore amico. Ma non quella mattina, dato che dei piccoli passi che correvano continuamente da dietro la mia porta chiusa, rimbombavano nella mia stanza.
Sbuffai e mi alzai. A quel punto la cosa migliore da fare era quella di andare a fare colazione, dato che il mio stomaco protestava. Evitai di guardare i numeri verdi della sveglia sul comodino e mettendomi una maglia al volo uscii dalla mia camera. E proprio in quel momento Evan era uscito correndo dalla sua stanza e aveva appena superato la mia, senza accorgersi che la mia porta si era appena aperta.  Gli andai dietro e prima di scendere le scale lo sentii emettere un verso frustrato e voltarsi di nuovo verso il corridoio, avendo probabilmente scordato qualcosa. Dopotutto aveva continuato a farlo per l’ultimo quarto d’ora.
Io ero così vicino che una volta che Evan si fu girato, gli misi le mani sulle braccia.
Lui emise un urletto spaventato e io lo afferrai, sistemandolo sulla mia spalla.
“Hai finito di correre?” dissi, mentre lui mi urlava di metterlo giù.
Lo ignorai e scesi le scale, mentre Evan batteva le sue mani sulla mia schiena. “Chad! Mettimi giù” protestò, dimenandosi.
“Solo se la pianti di correre. Che cos’è tutta questa agitazione?” dissi, mentre entravo in cucina.
Zia Gracie e Mason, che erano seduti al tavolo della cucina, ci guardarono incuriositi.
Misi Evan su uno degli sgabelli della cucina e lui saltò giù immediatamente. Ridacchiò e corse di nuovo fuori dalla stanza, prima che potessi fermarlo, mentre diceva: “Oggi andiamo allo zoo!”.
Io mi accigliai e guardai mia zia, che stava sorridendo.
“Le maestre li portano in gita allo zoo. È un po’ su di giri” mi spiegò.
“Già, ho notato” dissi, scuotendo la testa e dirigendomi verso la caffettiera adagiata sul fornello. Mi servii e mi sedetti al bancone, sullo stesso sgabello che avevo occupato prima con mio fratello.
Pochi minuti dopo Evan tornò nella stanza con lo zaino sulle spalle e saltellò sul posto, davanti alla porta. “Sono pronto, sono pronto!” ripeté.
Mia zia rise. “Bene, ma adesso siediti, è ancora un po’ presto per andare” disse ad Evan, che si imbronciò.
Poi però prese le chiavi della macchina di Mason sul bancone e gliele portò. “Eddai, zio Mason. Andiamo, andiamo!” disse, cercando di corrompere un altro componente della famiglia.
“Ti vuole accompagnare Chad, tanto non ha altro da fare” disse a quel punto Mason. La mia brioche rimase a mezz’aria e sollevai lo sguardo verso l’altro uomo, confuso.
Mason mi lanciò le chiavi della sua Mustang e io le afferrai al volo, senza parole. E così mio fratello squittì e cambiò soggetto. Venne verso di me e iniziò a tirarmi per il braccio.
“Sei ancora in pigiama! Chad, andiamo, andiamo! Muoviti” mi disse.
Io gemetti frustrato e tappai la bocca di mio fratello con la mano libera.
“Mi fai finire di mangiare?” gli chiesi.
Lui annuì con la testa e io sospirai, lasciandolo andare.
Evan si sedette con le ginocchia sull’altro sgabello e i gomiti sul bancone.
“Avanti. Avanti. Riesci a finirlo con un solo morso” iniziò a incitarmi.
“Va bene, va bene” dissi esasperato, ficcandomi il resto della brioche in bocca e alzandomi da lì.
“Mi vado a cambiare, prima che ti faccio fuori” minacciai mio fratello, che gioì vittorioso, senza curarsi della mia minaccia e venendomi dietro.
Io sospirai e uscii dalla cucina, non prima di incrociare lo sguardo con Mason e mia zia, che mi stavano guardando, mentre cercavano di non ridere. Li fulminai con lo sguardo: maledetti, mi avevano incastrato in pieno.
 
Uscimmo di casa, dopo che mi fui preparato nel mio bagno in camera, mentre mio fratello rimbalzava leggermente sul mio letto. Dove trovasse tutta quella energia di prima mattina, non ne avevo la minima idea.
E così, dopo aver afferrato le giacche e averle indossate, uscii di casa con Evan, una volta salutati i due adulti in cucina.
Vidi la macchina di Mason parcheggiata nel vialetto e mi chiesi come avesse fatto un maestro a comprarsi una macchina del genere.
Era meravigliosa. Per non parlare degli interni. Quella macchina avrebbe potuto guidarsi facilmente da sola. Mi rammaricai del fatto che non me l’avesse mai fatta guidare prima e che mio fratello sembrasse molto più esperto di me, dentro quella macchina. Beh, magari un giorno avrei potuta farmela prestare. Magari quando Melanie sarebbe tornata e avremmo potuto avere di nuovo un’uscita con tutto il rispetto.
Arrivai davanti alla scuola di mio fratello in pochi minuti e non ebbi neanche il bisogno di scendere dalla macchina, dopo essermi fermato davanti al portone. Le maestre erano lì, che aspettavano i bambini.
“Ci vediamo stasera, Chad” mi disse Evan, sporgendosi per darmi un bacio sulla guancia.
“Mi raccomando: fai il bravo, non combinare guai e ascolta le maestre” gli dissi, preoccupato per tutta quell’eccitazione che scorreva nel piccolo corpo di mio fratello per quella uscita allo zoo.
Lui ridacchiò e annuì, aprendo lo sportello che avevo appena sbloccato.
Guardai mio fratello che raggiungeva le maestre e poi si voltava di nuovo per salutarmi con la mano. Vidi la donna mettere una mano sulla spalla di Evan e io sorrisi, salutando a mia volta. Adesso potevo ripartire.
 
Il mio telefono squillò dopo aver parcheggiato davanti casa mia. Lo tenevo ancora tra le mani, in quanto avevo appena messaggiato con Mason riguardo la sua macchina e mi aveva anche permesso di tenerla tutto il giorno, a patto che sarei ritornato anche a prendere mio fratello alla fine della scuola. Beh, per una volta la mia moto poteva anche stare al coperto nel garage di casa nostra. A volte mi capitava di sentire la mancanza di un manubrio rotondo e di un sedile più comodo, nonostante amassi la mia moto con tutto me stesso.
Per di più, una bella macchina non andava mai rifiutata.
Quindi, prima di ripartire e di andare in palestra il mio telefono era suonato.
“Buongiorno, luce dei miei occhi”  risposi, mentre accendevo la radio.
“Giorno, Chad. Cos’è tutto questo amore di prima mattina? Hai fatto qualcosa di cui dovrei preoccuparmi?” fu la risposta di Melanie, dall’altro capo del telefono.
Risi. “Io sono sempre amorevole. E non ho fatto niente. E ti dico di più, piccolo elfo dai capelli rossi: Evan mi ha svegliato, quando avevo programmato una lunga dormita. Poi tu con la tua chiamata sei in ritardo e quindi ho deciso di tradirti” dissi ad una velocità inaudita anche per me.
“Io non sono in ritardo, cretino. Sono puntualissima” fece lei.
Io tossii. “Io ti dico che ti sto tradendo e tu noti soltanto il fatto che ti ho definita ritardataria?”  dissi frustrato.
Lei ridacchiò. “E sentiamo con cosa mi staresti tradendo? Con del cibo?”.
Spalancai la bocca, nonostante lei non potesse vedermi. “Hai mangiato pane e simpatia per colazione, rossa?” le chiesi. “Mi hai ferito” continuai poi, con tono offeso.
“Ok, scusami piccolo. Allora, con chi mi stai tradendo?” disse a quel punto con tono derisorio.
“Con una macchina”.
E lei scoppiò a ridere di gusto.
“Ehi! Guarda che è una macchina con l’iniziale maiuscola. Fa certi lavoretti” dissi, convinto.
“Ok, frena. Adesso è raccapricciante” affermò e anche da lì potevo immaginare la sua faccia.
Io risi. “Sì, hai ragione. Comunque è quella di Mason. Davvero, Mel. Quando deciderai di tornare nell’orribile cittadina di Dover, devi salirci anche tu”.
“D’accordo. Ma che ci fai tu con la macchina di Mason? La tua moto sta bene?” .
Roteai gli occhi. “Ovviamente.  Altrimenti non sarei così di buon umore. Mason mi ha solo preso per un taxista”.
Sentii il respiro di Melanie più affannato, come se avesse accelerato il passo, poi rispose con voce accattivante: “Mmh, un taxista sexy. Io salirei sul tuo taxi molto volentieri”.
Scossi la testa, divertito. “Oh, grazie, babe. Quindi credi che se la mia società pugilistica fallisse, potrei avere un brillante futuro da taxista?”.
Melanie ridacchiò. “Ovviamente. Sexy pugile diventa sexy taxista. Le donna fanno la fila per salire sulla sua macchina gialla” disse in modo plateale, da telecronista. “Mmh? Che ne pensi?”.
Io risi. “Affascinante” risposi.
“Ehi, Chris, Becka” disse poi la mia ragazza e io collegai quei nomi con i suoi nuovi amici, di cui mi aveva molto parlato già tempo addietro.
Poi tornò a rivolgersi a me: “Amore, ci sentiamo stasera, sì? Tra poco dovrò anche andare a lezione. Sto quasi finendo il mio disegno” disse, eccitata.
“Va bene, piccola. Anche se mi piacerebbe ancora sapere cosa hai disegnato” dissi, sbuffando.
“Te lo dirò quando lo finirò” fu la sua risposta, uguale al solito.
Io mi imbronciai automaticamente. Ci avevo provato in tutti i modi, ma lei era sempre stata irremovibile. Continuava a ripetere che se lo avesse detto a qualcuno, avrebbe portato sfortuna.
“Ciao, tesoro. Ti amo” disse, prima di riattaccare, senza lasciarmi il tempo di replicare. Sempre la solita.
Guardai lo schermo del telefono ancora per un attimo, poi lanciai il cellulare sul sedile del passeggero e riattivai la macchina, pronto per raggiungere la palestra.

Pov Melanie
Dopo aver riattaccato con Chad, mi voltai direttamente verso i due ragazzi, che mi guardavano con espressioni divertite.
“Il tuo boy?” mi chiese Becka, facendo finta di baciare qualcuno davanti a sé.
Io roteai gli occhi e annuii.
Chris ridacchiò. “Io non ci credo che il tuo ragazzo sia un pugile famoso. Sarà il frutto della tua immaginazione?”. A volte mi chiedevo come diavolo facesse a pensare quelle cose. Era un ragazzo strano.
“Beh, non è così famoso. Però esiste e se vuoi posso fartelo vedere” dissi, mentre Becka diceva: “Non starlo a sentire. È solo geloso. Però qui vogliamo vederlo tutti questo pugile”.
“Io non sono geloso” disse Chris, mentre io cercavo una foto di Chad con i guantoni. La trovai abbastanza velocemente nel telefono e lo passai ai due.
Chris spalancò la bocca. “Oh mio dio. Adesso sì che sono geloso. Ma è… wow! Come facciamo a sapere che non è un modello preso da internet?”.
“Ma quanto sei cretino?” chiese Becka, sconvolta per la fantasia di Chris.
Io sbuffai, fingendomi offesa, ma in realtà divertita. “Guarda” e con il dito cambiai foto. Sullo schermo ne apparve una di me, seduta sulle gambe di Chad, che aveva le braccia intorno alla mia vita; entrambi stavamo guardando l’obbiettivo.
“Aww. Quanto siete carini!” disse Becka a quel punto.
“Hai ragione. Sono proprio due piccoli piccioncini” concordò il ragazzo.
“Ora andiamo?” dissi, riappropriandomi del cellulare e incitandoli a camminare di nuovo, dopo esserci fermati nel bel mezzo della strada.
“Okay, okay. Andiamo” fece Chris. 
Riprendemmo a camminare quando improvvisamente Becka affermò: “Vi immaginate Melanie che ogni mattina parla al telefono, ma dall’altra parte non c’è nessuno?”.
“Sarebbe una pazza” disse Chris, ridendo.
E a quel punto non riuscii più a trattenermi dal ridere nemmeno io e non potei fare a meno di pensare che i pazzi erano proprio i due amici che avevo trovato in quel posto.
 
Ero completamente immersa nel mio mondo. Avevo una cuffietta nell’orecchio destro e le matite colorate sparse per il tavolo, mentre il rosso era nelle mie mani. L’insegnante stessa diceva che la musica poteva essere fonte di ispirazione e di concentrazione e ce la lasciava sentire mentre lavoravamo, a patto di non disturbare. Non che qualcuno disturbasse o chiacchierasse. Quel lavoro era carico di agonismo, essendo una competizione e nessuno sembrava degnarsi di uno sguardo, cercando di realizzare l’opera migliore.
Stavo definendo lo sfondo quando l’insegnante si fermò proprio davanti a me, osservando ciò che stavo facendo.
“Disegno?” chiese a bassa voce e io alzai lo sguardo su di lei, annuendo.
Non disse altro, ma sorrise in modo enigmatico e passò oltre.
Quando l’ora finì, la signora Farren, la nostra professoressa ci annunciò che il giorno dopo sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro e quindi avremo anche avuto del tempo in più per le ultime rifiniture, poi avremmo dovuto consegnare i nostri lavori.
Sistemai tutto dentro la borsa e guardai un’ultima volta il mio disegno. Sembrava un disegno alquanto macabro e irreale, ma rappresentava un periodo della mia vita che con quelle parole veniva descritto perfettamente. Così doveva essere. Sorrisi e lo rimisi al sicuro nella custodia, seguendo gli altri ragazzi e uscendo dall’aula.

Pov Dave
“Sei nervoso”.
“No!” risposi per l’ennesima volta a Lilian che stava camminando accanto a me.
“E invece sì, sei nervoso” ripeté con un sorrisetto divertito.
Io sbuffai. Era da quando mi ero separato da Rachel che continuava a ripeterlo. Aveva iniziato con una domanda, subito dopo avermi chiesto qualcosa sulla mia ragazza, ma poi si era trasformata in affermazione.
E la mia risposta era sempre negativa. Ok, forse ero nervoso. Forse avevo dormito poco per riguardare gli schemi. Forse avevo continuato ad analizzare il tutto durante il tragitto verso il college. Forse ero dannatamente nervoso perché quel pomeriggio avremmo avuto la prima partita del campionato contro un college di cui non avevo mai sentito parlare, con una squadra del tutto nuova per me e in cui avevo avuto poco tempo per integrarmi. Entrare a far parte di una squadra già formata non era un’impresa facile, nonostante i miei compagni e l’allenatrice mi guardassero con ammirazione e cercassero di aiutarmi in qualsiasi modo.
Soprattutto Lilian si era avvicinata a me sempre di più e spesso ci ritrovavamo ad andare insieme verso le nostre lezioni.
Quella mattina però lo studio avrebbe potuto aspettare e noi giocatori eravamo giustificati. Così in quel momento la nostra meta era proprio la palestra.
“Continui a rosicchiarti l’unghia del pollice. Non lo avevi mai fatto prima. Ergo, sei nervoso” ripeté lei.
Mi resi conto soltanto allora che effettivamente avevo la mano in bocca e con una smorfia la tolsi in fretta. “Perché non diventi psicologa?” chiesi, roteando gli occhi, ma senza guardarla.
“Beh, il mio intento è proprio quello” disse e io spalancai gli occhi. “E tu sei nervoso”.
Gemetti frustrato e mi voltai a guardarla. “Ok. Sono nervoso. Adesso smettila di ricordarmelo, grazie” ammisi, passandomi una mano tra i capelli.
“E’ normale. Ma non devi, vedrai che…” la interruppi, puntandole un dito contro.
“Non provarci nemmeno. Non dirlo!” dissi, mentre varcavamo la soglia della palestra.
E nello stesso momento un braccio si posò sulle mie spalle.
“Lili, smetti di importunare il ragazzo” disse Gordon, senza lasciarmi andare, ma osservando Lilian.
“Gordon. Io non lo sto importunando. E’ solo nervoso” disse poi, abbassando la voce, come se non volesse che la sentissi.
“Davvero? Gli hai detto che non deve?”.
“Ragazzi! Io vi sento. Grazie, Lilian. E sto bene, Gordon, figurati” dissi, cercando di riottenere la mia dignità e scrollandomi di dosso il braccio del ragazzo.
I due si guardarono e risero, mentre io sospiravo e acceleravo il passo per raggiungere il parquet.

Pov Lilian
Ero seduta sulla poltrona dello studio di Johan, mentre la donna in questione camminava per la stanza.
“Perché siete tutti così nervosi?” le chiesi, giocando con il laccio della mia felpa.
“L’essere nervosi non è per forza sbagliato o dannoso, Lili. E io sono soltanto elettrizzata, che è un sentimento alquanto diverso” affermò lei, tornando a sedersi dietro alla sua scrivania.
“Ok, ma lui è nervoso”.
“E tu sei un’ottima osservatrice. È per questo che ti ho chiesto di tenermelo d’occhio, no?” fece lei.
Io scrollai le spalle e lei continuò: “E poi è normale. Soltanto i presuntuosi come Marshall non sono nervosi prima della loro partita di debutto in una nuova squadra” e sorrise maleficamente.
“Non essere cattiva con lui. Non è un pessimo giocatore dopotutto” la ammonii.
“Oh, piccola Lilian. Lo sai che non sarei mai cattiva con un giocatore. Sono consapevole che anche Marshall abbia delle capacità, altrimenti non farebbe parte di voi, no? Anche se il nostro Dave…”.
La interruppi: “Sì, sì, il ragazzo prodigio e bla bla bla. Lo so”.
“Sono così curiosa di vedere la sua risposta sul campo. Non so se te l’ho detto, ma penso che abbia qualcosa di speciale” disse e io scossi la testa.
“E un po’ come te” continuò.
Aggrottai un sopracciglio. “Avete la stessa luce. Lo vedo. Non sottovalutarlo, mia cara” terminò.
“Non lo faccio. Assolutamente. E sono curiosa di vedere tanto quanto te. Ma se avesse risvolti negativi? Stamattina era teso come una corda di violino” dissi.
“A quel punto ci penseremo. Adesso bisogna soltanto stare a guardare. Fidati di me, Lilian. Fidati di me”.

Pov Chad
Sentivo i miei pettorali contrarsi sotto al peso del bilanciere, mentre Ryan mi guardava, seduto sulla panca accanto alla mia.
Era nei suoi minuti di riposo, mentre io ero nel pieno della mia serie.
Lo lasciavo parlare, mentre respiravo e tiravo su e poi giù quei pesi da 60 kili su ogni lato.
Alla fine dell’esercizio lo rimisi al posto, mettendomi a sedere. Mentre mi massaggiavo la spalla, Ryan mi elencava le città in cui tra due settimane saremmo dovuti andare, grazie all’inizio del campionato.
“Se dovessimo passare la prima fase, andremo fin dall’altra parte dello stato. Ti rendi conto?” mi disse, esaltato.
“Dall’altra parte, quanto?” chiesi curioso.
“Dall’altra parte abbastanza per poterti riabbracciare la rossa” mi disse, con un ghigno.
“Dici sul serio?”.
Lui annuì e io mi lasciai sfuggire un sorriso. “Motivo in più per arrivare alla seconda fase” dissi e Ryan annuì. E poi toccai un punto della spalla indolenzita e storsi la bocca, involontariamente.
“Cos’era?” Ryan, ovviamente, se ne era accorto subito.
“Niente” dissi, togliendo la mano da lì.
“Dov’era?” continuò.
“La spalla” dissi. Tanto non l’avrebbe fatta finita fino a quando non glielo avessi detto.
Si alzò e venne verso di me. “Fa male?” chiese e vidi che stava cercando di non farsi prendere dal panico. Dopotutto mancavano solo due settimane all’inizio della nostra annata.
“Sarà solo un nervo accavallato” dissi, cercando di liquidare la questione.
“Fa vedere, idiota” disse, mettendomi una mano sulla spalla. “Per cosa avrei studiato io, altrimenti?” mi chiese e a me venne da ridere.
“E’ difficile immaginarti studiare, lo sai?”.
“Lo so, ma l’ho fatto. E quando diventerò troppo vecchio per combattere diventerò il tuo fisioterapista che fa miracoli” iniziò a toccarmi la spalla e trovò il punto esatto in pochi secondi.
Io ridacchiai, mentre lui continuava: “Dio, hai tutti i muscoli tesi. Possibile che tu non riesca a rilassarti un attimo?” mi chiese, mentre massaggiava quel punto, facendomi emettere un verso di apprezzamento, misto a dolore.
“Possibilissimo” risposi.
“Dovresti rilassarti di più”.
“Hai ragione” dissi, mentre continuava a trattare il mio muscolo.
“Potrei portarti in un centro relax eccezionale” continuò, pensando a chissà quale ricordo correlato.
“Suona come un appuntamento”.
“Coglione” mi insultò, facendomi ridere.
“Bene, a quanto vedo la tua cotta per me si sta attenuando” dissi, mentre mi lasciava andare.
“Fatto. Adesso vado a farmi la doccia. Vuoi venire?” mi chiese, sollevando le sopracciglia e muovendole.
“O forse no” dissi, scuotendo la testa e toccando il punto che aveva sciolto in diversi minuti. Dio, le sue mani erano davvero magiche.
“Vado a prendere la mia roba e ti raggiungo. Comincia ad andare” gli dissi.
Lui sorrise divertito e annuì, prima di scomparire verso gli spogliatoi.
Andai nell’altra sala, quella del ring, collegata all’ingresso e raccattai le mie cose, che avevo lasciato in giro.
“Chad”. Mi bloccai di colpo, mentre ero abbassato per prendere da terra la mia sacca.
Sembravano essere passati secoli da quando avevo sentito quella voce.
Mi voltai di scatto e osservai la ragazza che avevo davanti: i capelli biondi le ricadevano sulle spalle e i suoi occhi erano più chiari di quanto ricordassi.
“Cosa vuoi?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
“Mi fa davvero piacere vederti” e mi sorrise.
“Che cosa vuoi, Sarah? O come diavolo ti fai chiamare adesso”.
“Juliet. Il secondo nome può sempre tornare utile” disse, con un mezzo sorriso.
“Perché sei tornata?” le chiesi. L’unico sentimento che provavo nei confronti di quella ragazza era la rabbia. Non volevo che rientrasse nella mia vita, né tanto meno in quella di Ryan.
“Perché stai usando il tuo secondo nome? Cosa vuoi da Ryan?” chiesi, quando lei non mi rispose.
“Lascia fuori Ryan” mi rispose.
“No. Ryan è il mio migliore amico. Prova a fargli del male... ” dissi, mentre il senso di protezione verso quell’amico che era come un fratello per me, mi nasceva dentro.
“Ci sono cose che non sai, Chad” mi disse, facendomi arrabbiare ancora di più.
 Stavo per ribattere quando: “Juliet! Chad!”. Mi voltai verso Ryan, che con i capelli ancora bagnati adesso stava venendo verso di noi.
“Ryan” disse Sarah o Juliet o come diavolo dovessi chiamarla, con un sorriso amorevole.
Il mio amico si affiancò alla ragazza.
“Ow, vi siete conosciuti senza di me?” chiese, mettendo il broncio.
Mi veniva quasi da ridere per la verità nelle parole di Ryan.
“Già. Mentre ti aspettavo io e Chad stavamo facendo due chiacchiere” disse la bionda.
Guardai Ryan e osservai il suo sorriso. Potevo vedere come guardava quella ragazza e potevo sentirmi male solo per quello. Quella ragazza ai miei occhi aveva un cartello in testa con la scritta Pericolo, di quelli che stanno in autostrada.
Non che mi avesse mai fatto nulla di male. Poteva anche essere un angelo dal paradiso, ma nel profondo sapevo che mi aveva ferito anni prima. Se n’era andata senza darmi alcuna spiegazione. Erano passati anni senza che sapessi nulla di lei e adesso era tornata in città. Perché? Perché tra tutti i ragazzi della città si era avvicinata al mio migliore amico?
E cosa avrei dovuto dire a Ryan? Non potevo dirgli cose sulla sua quasi ragazza, quando potevano essere benissimo castelli in aria.
E così fu la mia scelta migliore: “Devo andare a lavarmi” dissi, guardando Ryan.
Lui annuì: “Sappi che un giorno di questi ti rapiremo per un’uscita. Dopotutto dobbiamo festeggiare l’inizio della stagione”.
Presi la sacca che era rimasta a terra, mentre Sarah diceva: “E’ stato un piacere, Chad”.
Mi sforzai di sorridere e voltai le spalle. Ryan poteva anche considerarmi maleducato, ma per me incontrarla non era stato affatto un piacere.

Pov Dave
Gli spalti pieni di gente, Rachel tra gli spalti, il riscaldamento pre-partita, l’ansia, il brivido lungo la schiena al suono della sirena. Tutto quello mi era mancato. Dopo mesi era la sensazione più bella di tutte poter tornare in campo.
Il nervosismo che si era impossessato di me per tutto il giorno era sparito. Da quando avevo iniziato ad ascoltare i Green Day un paio d’ore prima della partita per la precisione.
Nello spogliatoio era sorto il caos e riuscì a calmarsi soltanto quando Johan era entrata per il suo discorso – alquanto solenne e d’incoraggiamento in onore della nostra prima partita.
Le sue parole riuscivano a metterti una calma inaudita, ma allo stesso tempo ti caricavano molto. E poi riusciva a domare undici frenetici ragazzi – e una ragazza – da sola.
Era sicuramente una donna che andava ammirata, senza alcuna esitazione.
E adesso mancavano solo pochi secondi all’inizio della partita. Era strano trovarsi di nuovo in panchina per la prima parte della partita, ma era giusto così. Le cose dovevano andare così.
E vidi come il nostro quintetto fosse formato da Peter, Lilian, Tyler, Jack e Gordon. E come giocassero contro una squadra discreta, ma alquanto inferiore alla nostra, tanto da riuscire ad andare in vantaggio già dopo i primi dieci minuti della partita.
Durante la prima partita il tuo occhio è attento a qualsiasi cosa: come l’allenatrice urli e detti ordini ai tuoi compagni, come mandi i suoi giocatori al cambio, come si muovono i tuoi avversari, come interagiscono i tuoi nuovi compagni. E più resti in panchina, più la voglia di giocare e l’eccitazione scorrono nelle tue vene.
Fino a quando il tuo nome viene pronunciato dal tuo allenatore. Quel semplice “Carter” pronunciato da Johan che ti fa alzare in piedi e che ti fa martellare il cuore in gola.
Quando la confusione della palestra e del pubblico ti assale. Quando le ossa vibrano, realizzando che stanno per tornare sul pitturato e le gambe non riescono a stare ferme.
Quando pensi che il cubo su cui sei seduto non possa essere più scomodo di colì, ma in realtà sei solo tu che vuoi entrare in campo e afferrare il pallone.
“Entri al posto di Jack” mi disse Johan, in piedi accanto a me.
Io annuii e poi lei si sporse verso di me: “Non pensare alle conseguenze. Se lo fai, inevitabilmente, pensi a un risultato negativo. Gioca e basta” mi sussurrò.
Mi voltai a guardarla: mi sorrise, prima di tornare a guardare il campo.
Ripensai alle sue parole e mi accorsi solo allora che aveva appena citato Jordan.
Entrambi non potevano che avere dannatamente ragione.
E con il sorriso sulle labbra, sentii il fischio dell’arbitro che aveva fermato il gioco.
E ti alzi in piedi automaticamente, ti aggiusti la maglia nei pantaloncini istintivamente e dai il cinque al tuo compagno che sta tornando in panchina.
Alzi lo sguardo e ti ripeti che sei pronto.
Si comincia.




Angolo dell'autrice: Ehilààà!! Come va la vita, gente?
Ebbene, ecco il nuovo capitolo :3 ci ho messo più del previsto perché ho avuto un po' di problemi (mentali) sull'ordine degli eventi. Ma adesso eccolo qui. 
I commenti, come al solito, li lascio a voi.
Dico soltanto che, lo so, lo so che Melanie è molto trascurata per adesso. Perdonatemi. Nel prossimo capitolo cercherò di rimediare.
Ah, volevo anche dire che finalmente è iniziato il campionato di Dave. Ok, io sono una cestista, ma non aspettatevi descrizioni dettagliate delle sue partite. Mi chiederete: perché?
Beh, perché in realtà ho un'altra storia sul basket pronta nella mia testa e quindi quanto a descrizioni cestistiche mi cimenterò in quell'occasione.
Ora proprio a questo proposito: ho un dilemma esistenziale.
E se vi dicessi: ho già un paio di capitoletti pronti anche di quella storia? Secondo voi - vi prego aiutatemi! - dovrei iniziare a pubblicare anche quello o finisco prima questa qui?
Ringrazio in anticipo chiunque mi dovesse rispondere. E ovviamente i miei usuali e anche nuovi lettori. E chi commenta la mia storia. Grazie!
A presto! x
-Manu

 
  
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