Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |      
Autore: Nike93    25/01/2009    4 recensioni
Lui si chiama Tom, suona la chitarra e non ha mai chiesto alla vita più di quanto non abbia già.
Lei si chiama Eva, è alta un metro e cinquanta, studia psicologia ma assomiglia a un cartone animato in miniatura.
Potrebbe chiamarsi "Spaccato di vita", ma forse non lo è poi davvero. O forse lo diventerà presto.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
[ Soundtrack: Indaco dagli occhi del cielo - Zucchero]

Nel complesso eravamo felici, io ed Eva.
Anzi no. Quel “nel complesso” sa di conclusioni tirate a caso, di un “tutto sommato” dove quel tutto non è altro che una serie di avvenimenti spiacevoli. E nel mio caso, beh, non posso affatto dire che sia andata così.
In effetti, non saprei neanche da dove cominciare a raccontare. Perché, fondamentalmente, non ci sarebbe nulla da raccontare, se escludiamo la mia “semplice” vita di chitarrista dei Tokio Hotel e la presenza di una persona che ha cambiato un qualcosa, in me, a cui non so ancora dare un nome.
In fin dei conti Eva è arrivata nella mia vita quasi per caso. Certo, fin da allora avrei dovuto capire che tipo fosse.
Aveva scelto un periodo particolare per piombarmi davanti, confondendomi le idee e facendomi sentire come ipnotizzato. Io e Bill, mio fratello, eravamo appena usciti da un periodo difficile. Haylie, la sua ragazza, era morta da quasi un anno e lui aveva appena ricominciato a vivere. Io ero tornato ad Amburgo dopo essere stato via per tre anni, e poi vi fu tutta una sequenza di avvenimenti che sicuramente pochi avranno voglia di sentirsi raccontare. I Tokio Hotel avevano rivisto la luce dopo mesi e mesi di silenzio, entrambi avevamo imparato a riconoscere e apprezzare il gusto di una vita che non era poi così lontana come credevamo.
Mi ero messo a lavorare in un bar, ci credereste? Sì, è ridicolo. Ma ai miei occhi lo diventa un po’ meno se penso che è stato proprio grazie a quel lavoro che io ed Eva ci siamo conosciuti. O meglio, che Eva è comparsa davanti a me come una stella cadente, sconvolgendo la mia vita fin dai primi minuti della nostra conoscenza.
No, non fraintendetemi. Niente romanticismi: mi sconvolse nel vero senso della parola. Era una giornata di temporale e l’unico motivo per cui lei entrò nel bar in cui lavoravo era la disperata ricerca di qualcosa per asciugarsi, perché di lì a poco avrebbe dovuto raggiungere non so chi ad un appuntamento che si preannunciava già un disastro. Poi fu tutto molto confuso: le lanciai il mio grembiule, lei ringraziò con la sua vocetta acuta, si asciugò alla meno peggio e poi sparì portandoselo dietro.
Il dopo, beh, è piuttosto banale e potete benissimo immaginarlo. Tornò un paio di giorni dopo per rendermi il grembiule e da lì cominciammo a parlare.
Ebbi la certezza che fosse una tipa completamente in aria. Prima di tutto, non conosceva i Tokio Hotel. E questa fu una delle ragioni per cui mi trovai quasi subito attratto da lei. Il “periodo difficile” volgeva al termine, ma io avvertivo ancora il bisogno di sentirmi apprezzato per quello che ero e non per quella che era la mia fama.
Per altri versi, però, non era assolutamente “in aria”. Studiava psicologia, particolare che mi sconvolse date le sue sembianze da cartone animato in miniatura. Era piccola, la cima della sua testa raggiungeva a malapena le mie spalle. I suoi occhi azzurri e il suo sorriso smagliante spiccavano sulla pelle resa forse troppo chiara dal contrasto con una massa di riccioli neri. Anche se, certo, il primo particolare che notai era quello che negli anni sarebbe diventato uno dei motivi della mia malcelata gelosia: a competere con la statura rasente il metro e cinquanta c’era un vasto assortimento di curve non poco invitanti, che facevano dimenticare per un attimo il suo viso di bambina.
Dunque, studiava psicologia. Le piaceva smontare la testa della gente, mi disse, ma poi teneva i pezzi per sé. Non voleva sedersi su una poltroncina con blocchetto e matita e sputare sentenze, voleva quasi servirsene lei, di quei pezzi. Ripensandoci, non mi stupisco di come Eva e Bill siano potuti diventare amici così in fretta, prima ancora che io e lei ci fidanzassimo.
Prima di tutto, parlavano. Parlavano sempre, ininterrottamente. Una volta, a casa nostra, li avevo visti confabulare in soggiorno, raggomitolati sul divano. Lei era sommersa da un accappatoio azzurro e i suoi capelli gocciolanti erano attorcigliati in un asciugamano, lui parlava senza nemmeno guardarla, le ginocchia raccolte al petto, completamente incurante del divano che continuava a inumidirsi sotto di loro.
Era per questo che veniva così facile parlare con Eva: lei dava semplicemente la sicurezza di voler ascoltare, non di giudicare. E alla fine erano sempre gli altri a chiederle qualche consiglio.
Quando la lunga discussione era finita, Bill era rimasto pensieroso per tutto il pomeriggio e io ne avevo approfittato per prendermi Eva da parte. – Ma… di che avete parlato, esattamente? –
- Sai cos’è il segreto professionale? – mi aveva rimbeccato lei, sorridendo come per prendermi in giro.
- No, cioè… - In quel momento, avevo sperato di non aver dato segni del mio nervosismo. – Insomma, tu giri mezza nuda per casa e lui ti parla come se niente fosse…! – Lei aveva alzato gli occhi al cielo.
- Voleva parlare un po’ e io mi ero appena fatta la doccia. Mica lo faccio per stimolargli l’appetito! –
- Voglio dire, non è normale! – avevo tergiversato. Poi, vergognandomi come non mai, avevo abbassato la voce. – Non è che mi passa all’altra sponda, quello lì? –
La risposta era stata un pizzicotto su un braccio. – Hai sempre la sensibilità di un bulldozer, tu! –
- Beh, è mio fratello – mi ero difeso.
- Mi ha parlato di Haylie – Non ero del tutto sorpreso di quella rivelazione. – Tom, per lui è come se fosse morta quando ne ha parlato con te. Non puoi aspettarti che si riprenda così di botto, non credi? – Non avevo risposto, facendomi meditabondo. Lei mi aveva preso il viso tra le mani e mi aveva guardato sorridendo. – Tesoro, non devi preoccuparti. Sta bene, è solo che il ricordo non è molto felice per lui –
Io le avevo creduto. E alla fine aveva avuto ragione.
Bill stava bene ed era il nostro primo sostenitore.
- Sposatela e sarai a posto per l’eternità – aveva dichiarato. Eva era scoppiata a ridere e gli aveva tirato una gomitata. Tutto era finito lì, non eravamo tornati sull’argomento. A me bastava stare con lei e a lei bastava stare con me, il resto non era poi così importante.
Per me, Eva non è mai stata un mistero, forse perché, quando si arrabbiava, cominciava a borbottare tra sé e sé e alla fine non c’era più niente che io non sapessi. Certo, ogni tanto si lasciava andare ad imprecazioni italiane e io non capivo una parola.
Sì, perché metà del suo sangue era italiano. Era per questo che la sua pronuncia risultava diversa da quella di qualsiasi altro tedesco. Era più morbida, più dolce, meno rigida. Quando, armata di grembiule, si metteva ai fornelli per preparare una delle sue specialità arrivate in diretta dalla penisola, si metteva a canticchiare canzoni di là e io ascoltavo le parole fluire delicate dalle sue labbra. A dire il vero, il più delle volte amava prendere me e legarmi il grembiule intorno alla vita. Deformazione professionale, diceva. Mi aveva incontrato per la prima volta e io ero in grembiule, ora lei non poteva più vivere senza vedermelo addosso. Sarà stata la stessa ragione per cui io adoravo vederla con i capelli bagnati.
Forse erano le sue origini a farle amare così tanto il mare. Così, ogni tanto, salivamo in macchina e io guidavo anche per più di un’ora: per lei era come un regalo. Non importava quanto l’acqua potesse essere fredda o il cielo grigio: lei doveva comunque svuotarsi addosso mezzo tubetto di protezione solare, perché la sua pelle era così chiara che una scottatura non avrebbe esitato a colpirla in un attimo di distrazione.
- Non è giusto, è un insulto alle mie origini! – si lamentava lei, spalmandosi con furia la crema sul viso. Era una cosa che odiava, non ce la faceva proprio a sentirsi tutta appiccicosa per un’intera giornata. Ma per qualche ora al mare, avrebbe fatto questo e altro. – In Italia sono tutti abbronzati, perché io no? –
Poi, quando eravamo lì, lei rideva e tentava di trascinarmi in acqua con sé, incurante delle mie proteste.
- E’ troppo fredda! –
- Su, non fare il vecchietto! Goditi i tuoi trent’anni, finché ce li hai! –
- Dài, ti prego… Non posso riempirmi i capelli di sale! –
Questa era una scusa che accampavo sempre più spesso. Era incredibile ma vero: alla veneranda età di trent’anni, avevo cominciato a stufarmi dei dread che si addicevano molto di più al diciottenne che non ero più. Eva, invece, li adorava.
- Tesoro, non è che potrei… beh, insomma, non credi che sia arrivato il momento di… tagliarmi i capelli? –
- No! No, Tom, ti prego, non puoi farmi questo! –
- Ma sembro… insomma, sono ridicoli alla mia età! –
- Oh, manco avessi cinquant’anni… No, dài, davvero… stai così bene! -
- Sì, un tempo, forse –
- Se ti tagli i capelli ti lascio. Te lo giuro sulle tue chitarre –
Sapevo benissimo che non l’avrebbe fatto. Che, se me li fossi tagliati sul serio, lei avrebbe messo il broncio per un po’ e poi mi avrebbe abbracciato dicendomi che stavo anche meglio con i capelli corti. Ma io continuai a tenermi quei rasta anche se non mi piacevano neanche più così tanto, solo per vederla contenta.
Il fatto era che lei sorrideva sempre e io non potevo immaginare di vederla diversamente. Non era frivola, non era superficiale, semplicemente non riusciva a non sorridere. Anche quando non ne aveva l’intenzione, gli angoli della sua bocca sembravano sempre rivolti all’insù. Era una delle cose di lei che amavo di più. Non avevo idea di come avrei potuto reagire vedendola piangere perché lei non l’aveva mai fatto. Non di fronte a me, perlomeno.
Una cosa che piaceva a lei era raggomitolarsi tra le mie braccia o farsi sollevare come una bambina. Era così piccola e leggera che non facevo il minimo sforzo, anche se lei si lamentava sempre di quei chiletti di troppo tutti concentrati nella pancia. Io la prendevo sempre in giro per la sua altezza, ma lei ne era orgogliosa.
Ogni tanto, dopo aver fatto l’amore, appoggiavo la testa sul suo seno e lei mi stringeva forte. In questo modo, le punte dei suoi piedi mi sfioravano a malapena le cosce, ma non m’importava quanto lei potesse essere piccola: mi piaceva che mi abbracciasse come se volesse in qualche modo proteggermi, sentirsi più grande. Quando invece era lei ad accoccolarsi tra le mie braccia, appoggiava la guancia sul mio petto e restava così per minuti interi, chiudendo gli occhi senza addormentarsi. Le piaceva ascoltare il mio cuore, diceva, e quello accelerava subito i battiti.
Le nostre giornate erano fatte di piccoli, stupidi screzi che venivano subito compensati da parole dolci e gesti affettuosi, ma non c’era mai stato un vero litigio, uno di quelli che ti fanno sentire sconfitto e colpevole, quelli che non ti lasciano altro che un dolore sordo al petto e la domanda “è finita?” martellante nel cervello. Non ce ne furono fino a quel giorno.
Lei aveva notato il mio malumore ed era già da una settimana che tentava di cavarmi le parole di bocca. Poi aveva desistito. Eva era una delle poche persone che sapeva come trattarmi quando vedevo tutto nero.
Se avessi seguito il mio istinto, non gliel’avrei detto. Magari le avrei lasciato una lettera quella stessa mattina. Purtroppo non ho mai avuto un buon rapporto con le lettere, così lasciai perdere. E mi trovai costretto ad affrontare quella che non volevo neanche chiamare paura.
- Abbiamo ricevuto un’offerta da una casa discografica in America. Devo trasferirmi lì per un anno –
Mi era uscita così, cruda e fredda, una mattina mentre facevamo colazione insieme. A ripensarci, il mio proverbiale egoismo trasparì anche da quel “devo”. Io devo trasferirmi. Non io, Bill, Gustav e Georg, non noi, non i Tokio Hotel, io devo trasferirmi.
Forse ero arrivato al punto di credere che nel suo piccolo mondo esistessi solo io?
Non ricordo esattamente la sua prima reazione perché non fu quella a spaventarmi. Credo che la tazza di caffellatte le fosse scivolata dalle mani e che lei avesse cominciato a tamponare la tovaglia guardandomi fisso negli occhi. Non me lo ricordo perché io li tenevo puntati a terra.
- …come? – riuscii solo a sentirla mormorare.
In fondo avevo il dovere di spiegarle tutto. Dovevo parlarle dei guai con la Universal, dei pasticci con i contratti, dovevo informarla sui dettagli di quella nuova assunzione. Dovevo dirle che era una storia ormai vecchia per me, che io e i ragazzi lo sapevamo da tre settimane, dovevo dirle che le valige le avevo tirate fuori già due giorni prima. Forse speravo inconsciamente che tutti questi inutili dettagli rendessero le cose più facili.
- Quando? – fu allora la sua seconda, incerta domanda, intrisa del desiderio di rompere il mio silenzio. Magari la risposta a quell’interrogativo sarebbe stata l’unica parola sensata e poi non avremmo parlato più.
- Dopodomani –
Mi rendevo conto che sembrava una storia romanzata, da film drammatico, e può darsi che fosse quello il motivo per cui mi estraniai così facilmente da tutto il resto. Per giorni non avevo fatto che ripetermi che io amavo Eva, che Eva mi amava, che Eva mi capiva e mi avrebbe capito un’altra volta, che magari sarebbe stata triste per un po’ ma che poi le sarebbe tornato il sorriso… Era tutto così scontato, per me?
E difatti la sua reazione mi spaventò. In seguito mi sarei ripetuto che, se gliene avessi parlato prima, mettendo da parte quelle mie stupide e inutili paure, sarebbe stato tutto diverso e lei avrebbe reagito così come avevo immaginato. Invece le mie previsioni si rivelarono del tutto sbagliate.
- Perché non me l’hai detto? Perchè? – gridò, spingendo indietro la sedia e alzandosi di scatto. – Cosa… cosa ti passa per la testa, perché non me ne hai parlato prima? –
Già inebetito da quell’improvviso aumentare del suo tono di voce, non seppi come controbattere. – Io… pensavo solo che… -
- Pensavi? Pensavi cosa? – Era ferma lì, i pugni stretti e gli occhi azzurri spalancati, ma non potrei dire che quegli occhi lanciassero fiamme. Era qualcosa di diverso, di più profondo. Ancora non del tutto ripreso dal mio torpore, mi alzai lentamente in piedi. – E’ uno scherzo. E’ uno scherzo, vero? – Il suo tono sottintendeva di saperlo benissimo, che non era uno scherzo. Ma nascondeva anche una disperata voglia di sbagliarsi.
Fu la reazione che ebbe quando mi avvicinai e la sfiorai appena con la punta delle dita, a spaventarmi. Mi schiaffeggiò via la mano con violenza, una violenza che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere contenuta in un metro e cinquanta. – Perchè? – gridò ancora, così forte da farmi credere che in un batter d’occhio le sarebbe andata via la voce. – Perché non me l’hai detto, perché? Cos’hai risolto? Cosa ti costava? Cosa ti costava dirmelo?
- Eva, io… - mormorai, impotente. In quegli anni, non l’avevo quasi mai chiamata per nome.
- Sei cattivo! – urlò lei, stringendo i pugni ancora più forte. Poi me li ritrovai addosso, quei pugni, mentre lei mi colpiva alle braccia e alle spalle senza neanche vedermi. Non ricordo esattamente se mi fece male, male a livello fisico, intendo. Avevo solo paura di vederla abbandonarsi e scoppiare in singhiozzi. – Sei cattivo, non te ne frega niente, niente! Ti odio! –
Continuò a gridare sferrandomi pugni dove le capitava, ma non pianse.
In un impeto come di sopravvivenza, le afferrai i polsi, bloccandola. – Ti prego, non… -
- Vattene! – mi gridò in risposta. – Vattene adesso! –
Il resto sarebbe inutile raccontarlo. Fu solo uno strazio.
Feci come mi aveva detto lei, me ne andai subito. Una parte di me sperava ancora che Eva mi corresse incontro e mi trattenesse, ma non accadde. Fu lei ad uscire per prima, dopo essersi vestita in fretta e furia. Poi preparai i bagagli il più velocemente possibile e andai da Bill.
Lui cominciò a chiedermi qualcosa, io nicchiavo, lui insisteva, poi gli urlai un disperato “Lasciami in pace!” e uscii sbattendo la porta, le valige ancora accatastate all’ingresso. Quando tornai, non ci preoccupammo neanche di recitare la nostra piccola commedia. Non andava tutto bene e io non ero disposto a fingere. Per un attimo i ruoli si erano invertiti, ora non ero io quello pronto a consolare. Ma non volevo neanche essere consolato.
I dodici mesi che trascorsi in America costituiscono un intervallo ben poco interessante, a meno che non siate più interessati agli sviluppi della mia, anzi, della nostra carriera. Bill non mi chiese più nulla al riguardo e io non mi feci avanti. Trascorremmo un anno “all-Tokio Hotel” e non permettemmo a niente e a nessuno di intromettersi. Il mio cellulare era quasi sempre spento, non ricevetti chiamate o sms o lettere. Non da Eva.
Potrei parlare di quel periodo, del nostro soggiorno e della nostra nuova –anche se provvisoria- casa, ma questo non è un romanzo e dovrei saltare subito alle conclusioni. La realtà è che quello che successe dopo, quello che per voi non sarà altro che un avvenimento quasi legato agli ultimi che ho raccontato, per me fu come se fosse separato da tre o quattro anni dal resto.
Il ritorno cominciammo a programmarlo con almeno un mese di anticipo. Per un anno mi ero completamente levato dalla testa quel pensiero e quasi faticai a rendermi conto che non sapevo effettivamente dove avrei dormito a partire dalla nostra prima notte post-America.
Cominciai a sentire uno strano senso di estraneità già dopo essere sceso dalla scaletta dell’aereo. Il rapporto che avevo con gli aerei era più o meno uguale a quello che avevo con le lettere: significavano guai. Avevo sopportato l’inspiegabile inquietudine di Bill durante l’intero tragitto (dunque per un tempo spropositato, nonostante mio fratello avesse passato un paio d’ore ronfando allegramente) e, pur sentendomi un po’ colpevole, volevo solo togliermelo di torno almeno per qualche minuto.
Miracolosamente, il mio desiderio fu subito esaudito: propinandomi una scusa a dir poco improbabile, Bill riuscì a mandarmi avanti al ritiro bagagli. Non ricordo esattamente cosa disse perché sul momento non m’importava, volevo semplicemente starmene solo in mezzo a un mare di gente sconosciuta.
Riuscii persino a ignorare la folla di giornalisti e fotografi già appostati dietro le porte scorrevoli, sicuramente curiosi per quella mia comparsa solitaria. Mentre aspettavo che arrivassero le valige, sbirciai più volte oltre quelle porte, e per un attimo mi parve persino di vedere Eva mescolata in quella gran folla. Ma era chiaramente impossibile.
Decisi di non aspettare gli altri, afferrai i miei bagagli e, dopo aver tirato un profondo respiro, mi avventurai in mezzo alla bolgia. Riuscii a malapena a scansare fan, giornalisti e poveri malcapitati, ma, non appena mi tirai fuori dall’occhio del ciclone, posai le valige a terra e ripresi a respirare normalmente.
- Tom! –
Sul momento, non realizzai del tutto che quel richiamo fosse rivolto a me. Sentii solo una voce, quella voce, a pochi metri di distanza, sommersa da almeno altre cento, ma la percepii più forte e chiara che mai.
Forse l’allucinazione si era ripetuta. Come spiegare altrimenti il fatto che vedessi Eva in piedi a una decina di metri da me e che avessi persino sentito la sua voce? Sbattei le palpebre, convinto che così sarebbe sparita, ma subito dopo la vidi agitare esitante un braccio verso di me.
Non sorrideva, non saltellava come quando, in passato, ero tornato da viaggi di una o due settimane, se ne stava semplicemente lì e sembrava che non avesse il coraggio di avvicinarsi.
- Eva… - sussurrai, così piano da riuscire a malapena a sentirmi io stesso. In seguito avrei pensato che quella fosse stata come una sorta di molla: lei non mi sentì, ma lesse il proprio nome sulle mie labbra, e fu a quel punto che cominciò a correre per poi quasi schiantarmisi addosso.
Deglutii. Un minuto prima ero convinto di aver avuto una visione e ora quella stessa visione mi stava abbracciando come se volesse trattenermi per sempre. La misi a fuoco. Si era tagliata i capelli, che ora le sfioravano a stento l’incavo tra il collo e la spalla, mi stringeva forte all’altezza della vita e, con il viso premuto sul mio petto… piangeva a dirotto, singhiozzava come non l’avevo mai vista fare. Le mie dita le sfiorarono i capelli con esitazione, ma lei continuò a piangere incontrollatamente.
- Oh, Tom, sei qui… - balbettava confusamente, stringendomi sempre più forte. Posai le mani sulle sue guance, allontanandola di poco da me per poterla guardare in faccia. Non era cambiata quasi per niente.
- Come facevi a sapere che sarei tornato oggi? – pronunciai a fatica, senza lasciare il suo viso.
- M-me l’ha detto Bill – farfugliò lei, cercando di asciugarsi gli occhi. – Ci… ci siamo tenuti in contatto per tutto questo tempo e… - Fu incapace di continuare, perché le sue guance furono di nuovo rigate da un fiume di lacrime e le parole le morirono in gola. Avvolsi le braccia intorno alla sua vita e la sollevai, stringendola a me. Lei mi cinse il collo con le braccia e prese a singhiozzare violentemente contro la mia spalla, tremando dalla testa ai piedi.
- Ehi… - mormorai, accarezzandole i capelli. Era strano come mi rendessi improvvisamente conto di quanto mi fosse mancata e che, contemporaneamente, mi comportassi come se l’avessi lasciata giusto la settimana prima. – Stai tranquilla, sono qui – Eva si separò da me e si lasciò sfuggire un altro singulto, poi, con mani tremanti, si aggrappò alle mie spalle e mi sfiorò le labbra con un bacio incerto, un bacio umido e salato di tutte le lacrime che aveva versato. E improvvisamente capii perché Bill era stato inquieto per tutto il viaggio, capii perché mi aveva mandato avanti, capii che aveva captato i miei pensieri, come sempre, e che era riuscito ad esaudire il mio desiderio “impossibile”.
- Scusami – mormorò, la voce ancora instabile, tra un bacio e l’altro. – Scusami, scusami, scusami –
La misi giù lentamente, accarezzandole il viso e cercando di sorridere. Era difficile quando ero io quello che doveva scusarsi. Gli occhi azzurri di Eva sembrarono colmarsi contemporaneamente di speranza e di paura.
- Andiamo a casa? – proposi a mezza voce. Mi sembrava quasi di approfittare di lei e dei suoi sensi di colpa, ma, quando pronunciai quelle parole, le sue labbra accennarono un sorriso.
Uscimmo dall’aeroporto senza dire una parola, le mani intrecciate insieme come se avessimo paura di perderci di nuovo. C’era come una sorta di tensione tra noi, un filo invisibile che ancora non si era spezzato. Eva teneva lo sguardo basso e sulle sue guance spiccavano le tracce lasciate dalle lacrime. Anche la prima parte del tragitto in auto fu silenziosa. Guidavo io, mentre lei fissava un punto imprecisato fuori dal finestrino. Improvvisamente, però, sentii tutto il peso di quel silenzio.
- Stai bene – le dissi, accennando ai suoi capelli. Lei sorrise impacciata, attorcigliando un ricciolo tra le dita.
- Non è vero – rispose, scuotendo la testa come se l’avessi presa in giro. – Fanno schifo, ma pazienza. Ho pensato a tutte le volte che mi hai chiesto di tagliarti i capelli e… - S’interruppe di colpo, fissandomi con imbarazzo. – Credevo che l’avresti fatto, alla fine –
- Non sono così terribili… Forse mi piacciono ancora, nonostante tutto –
Ci aggrappammo a dialoghi banali, quasi di circostanza, pur di non stare in silenzio. Avevo paura che Eva mi chiedesse di quei dodici mesi, di come avessi vissuto in America. Avevo paura di doverle dire che avevo pensato a lei in continuazione ma che avevo cercato di non farlo più, avevo paura di doverle raccontare di tutte le ragazze che erano transitate nel mio letto e delle storie serie che non c’erano mai state. Ma lei non mi chiese nulla e, quando parcheggiai nel garage sotto casa, sentii come se il cuore mi si fosse gonfiato tutto d’un colpo. Istintivamente, mi voltai verso di lei e posai una mano sul suo ginocchio, già pronto a tirare fuori tutte quelle parole che avevo paura di pronunciare. – Eva, io… -
Forse non voleva sentirle, o forse era un modo per farmi capire che non ero costretto a pronunciarle, ma lei mi prese il viso tra le mani e mi baciò per la seconda volta, più a lungo e con più convinzione. Ancora mezzo intontito, non trovai niente di meglio da fare che ricambiare il bacio, seppur con una certa debolezza, e sfiorarle un fianco con la mano. Quando Eva si staccò da me, per un attimo mi parve di vedermi riflesso nei suoi limpidi occhi azzurri. – Ti amo – disse soltanto, accarezzandomi i capelli. – Ti ho aspettato per un anno intero, amore, non m’importa niente del resto –
La tirai a me, imprigionandole la testa con una mano e stringendole la vita con il braccio libero, e la baciai con foga, quasi con disperazione, sentendo già delle piccole gocce di sudore scivolarmi giù dalle tempie. Eva si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa, si aggrappò alle mie spalle, scivolò in avanti, mi sollevò la maglia e mi accarezzò tremando mentre tiravo giù la zip della sua felpa per far scivolare una mano lungo la sua schiena calda. Maledicendo l’automobile sprovvista di sedili reclinabili, le sollevai una gamba perché con essa scavalcasse le mie e venisse a trovarsi seduta sulle mie ginocchia, mentre l’altra mano restava affondata tra i suoi capelli morbidi, più morbidi di qualsiasi cosa avessi toccato in quell’ultimo anno.
Lei si staccò dalla mia bocca con il respiro pesante, guardandomi come non mi aveva mai guardato. Mi sfiorò il torace, lo accarezzò con piccoli movimenti circolari, si chinò in avanti e vi appoggiò l’orecchio, chiudendo gli occhi. Li chiusi anch’io, abbandonandomi sul sedile e schiudendo le labbra in cerca di aria. Li riaprii quando sentii Eva posare un bacio delicato sulla pelle scoperta per poi sorridermi e sfiorarmi il mento.
- Il tuo cuore… - sussurrò, appoggiando il palmo della mano aperta sul mio petto, che continuava ad alzarsi e abbassarsi al ritmo del mio respiro affannoso. – Sento il tuo cuore –
La strinsi in una morsa e ripresi a baciarla rabbiosamente, senza alcuna grazia, quasi divorando le sue labbra mentre sentivo le sue unghie affondarmi nella pelle. E poi, tra parole sussurrate e baci lunghi un’eternità, riuscimmo finalmente a tirarci fuori dalla macchina e salire di corsa a casa, a fare l’amore tra le lenzuola del suo letto, del nostro letto.
Non ho mai dimenticato i sospiri di quella notte, né le sue labbra premute sulle mie fino alla fine, né il suo viso nascosto nel mio collo poco prima che entrambi ci addormentassimo. Sì, quella notte, per la prima volta da un anno, dormii serenamente.
Ricominciai a fare mio il sapore della normalità già la mattina dopo, quando aprii gli occhi e trovai il letto vuoto, come succedeva sempre anche prima. Eva non era mai riuscita a stare ferma troppo a lungo ed era pure piuttosto mattiniera. Evidentemente non aveva sconvolto le sue abitudini.
Quando mi alzai, la trovai in cucina intenta a trafficare con la colazione. La tavola era strapiena, proprio come il giorno in cui le avevo annunciato la mia imminente partenza. Con la differenza che, questa volta… beh, pensai di non poter desiderare di meglio.
Eva mi sorrise e si alzò in punta di piedi per schioccarmi un bacio sulle labbra, poi ci mettemmo a fare colazione insieme e io ritrovai subito tutto il calore che mi era mancato.
- Avrete fatto passi da gigante in America, no? – mi chiese lei con il suo tipico tono curioso e impaziente di bambina e un sorriso più bello che mai. – Bill mi ha detto che il vostro cd è stato un successone. Dài, dimmi com’è stato lavorare lì! –
Capii tante cose mentre iniziavo a raccontare, capii anche da quel suo “dimmi com’è stato lavorare lì”: non mi ci volle molto per realizzare che Eva aveva capito a sua volta, aveva capito tutto. I mesi che avevo trascorso nel silenzio più totale, immerso nel lavoro, le volte in cui non mi ero sfogato con Bill, le notti che avevo passato con ragazze dal nome ignoto pur di portare la mente da un’altra parte. Semplicemente, me lo aveva letto negli occhi. E probabilmente non mi chiese altro proprio perché aveva letto anche tutto il resto: il pentimento, la rabbia e la delusione nei confronti di me stesso, ma anche il sollievo, la ritrovata serenità e la voglia di ricominciare.
Sì, Eva non era cambiata per niente.








NdA: spin-off di "Di pioggia e di sole", anche se non è poi tanto spin-off perchè qui non è tenuto in considerazione il fatto che Eva fosse incinta. Per far funzionare la storia, questo particolare andava eliminato, ma loro sono lì, sono sempre la coppia che amo.
Com'è ovvio, i Tokio Hotel non mi appartengono e con questa storia non intendo dare rappresentazione veritiera della realtà o del carattere di nessuno. Spero solo che abbiate gradito.

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Nike93