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Autore: Jo_The Ripper    29/07/2015    2 recensioni
Raccolta di one shot slegate tra di loro, che abbracciano vari generi, situazioni e tematiche (nonché what if e possibile caratterizzazione OOC dei personaggi), scritte per lo più sotto impulsi ed ispirazioni del momento.
1. Dead man walking: “Si sentiva un cacciatore d'oro all'inferno, alla ricerca della vena fortunata.”
2. Once upon a dream: “Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è ombra.”
3. Cold blooded (2° classificata al contest Film e telefilm: dimmi qual è il tuo): “Sono l’unico uomo a cui non potrai mettere un guinzaglio.”
4. Gluttony: “Tutto comincia con un capriccio.”
5. The sound of silence: “Mi sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in frantumi.”
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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[One shot seconda classificata al contest: “Film e telefilm: dimmi qual è il tuo” di Aturiel. Sherlock Holmes e Irene Adler; missing moment della 2x01 – A scandal in Belgravia]

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Cold blooded


There’s one thing you must understand
You can’t trust a cold blooded
Can’t trust a cold blooded
Can’t trust a cold blooded
Woman (man)
The Pretty Reckless – Cold blooded

Sherlock non sapeva esattamente ciò che l’aveva spinto a farlo. Era stata una decisione dettata dall’impulso e lui non si era mai considerato un impulsivo.
Lo avevano definito in tanti modi, ma così, nemmeno una volta. Questo almeno a quanto ricordava. Se l’avevano fatto, le parole non dovevano nemmeno aver varcato la sua soglia dell’attenzione, scartate ed etichettate preventivamente come inutili e superflue.
Nel dubbio, però, rettificò mentalmente la cosa, dicendosi che quella era stata una decisione ragionevolmente impulsiva, basata quindi su un’analisi mirata di location, nemico e vittima. Questa definizione soddisfece il suo ego, troppo orgoglioso per ammettere che le motivazioni erano da inquadrare in quella che era la grande, orripilante, sconosciuta e scriteriata sfera dei sentimenti.
Giunse le mani e vi appoggiò su il mento, in quella che era la sua caratteristica posa da oculato e freddo pensatore.
Forse era stato tutto frutto dell’intrigante scontro di menti in cui si era ritrovato, una danza fatta di giochi di potere, occhiate penetranti e studio delle più impercettibili espressioni della mimica facciale.
Quella che combatteva contro di lei era una guerra di ingegno e astuzia, elementi che sembravano essersi radicati nella loro indole fino ad avvilupparsi alla doppia elica del DNA.
Non era stato difficile tenere Mycroft all’oscuro delle sue intenzioni; per lui quella donna era solo l’ennesima seccatura governativa da rimuovere alla stregua di un fastidioso dente del giudizio.
Sogghignò pensando che quella donna, con le sue esaustive richieste dopo la faccenda del cellulare impenetrabile, era riuscita a far dimagrire il volto segreto del governo inglese qualche etto. Ma adesso che la questione era stata archiviata, per suo fratello non era diventata altro che un misero granello di polvere nell’aria.
Un cipiglio gli corrugò la fronte, mentre la sua mente ricreava l’immagine di Mycroft seduto tronfio sull’elegante poltrona del Diogene’s Club, intento a sorseggiare un qualche liquore costoso. Sicuramente doveva aver pensato che terroristi pakistani gli avevano risparmiato un sacco di fatica con il loro intervento.
“Lento, incapace e goffo Mycroft.”
Voltò il capo verso sinistra, osservando la donna che sedeva composta accanto a lui. Le mani intrecciate in grembo recavano ancora qualche escoriazione, non vi era nemmeno più traccia del vistoso smalto rosso che usava per la manicure.
Teneva la testa rilassata contro lo schienale, i capelli raccolti in una bassa coda laterale. Si girò a guardarlo, un sorriso sottile a incresparle le labbra.
Sherlock si sentì come un bambino beccato con le mani nel vasetto di marmellata.
“Ti piace quello che vedi, Sherlock?”
Ecco che faceva una delle sue tipiche domande arroganti ed sfacciate. Il detective liquidò la questione con uno sbuffo della mano.
“Niente che non abbia già visto.”
Lei continuò a sorridere in una maniera composta e gentile che, per un attimo, le alleggerì i tratti del viso, stanchi per il lungo viaggio.
“In effetti perché dovrebbe piacerti questa mise insulsa e scialba, quando hai memorie molto più interessanti da richiamare alla mente? Indossavo il mio abito da battaglia quando ci siamo conosciuti, ricordi?”
“Sì, e qualora avessi scambiato le mie deduzioni per un atto di primordiale ammirazione, ci tengo a sottolineare che ci hanno tratto d’impaccio in una situazione poco piacevole.”
Irene rise, una risata argentina e calda che scivolava sulla pelle come una carezza di seta. Gli batté piano una mano sulla spalla.
“Su, fammi passare, devo sgranchirmi le gambe.”
Sherlock si alzò e, quando lei gli passò accanto, non fece nulla per impedire alla sua piccola mano di sfiorargli l’avambraccio, alla ricerca di un sostegno di cui non aveva bisogno.
Questo lui lo sapeva bene, poiché nessuno dei contatti di Irene era lasciato al caso.
Tendeva a toccarlo ogni volta che poteva, doveva mantenere una fisicità, fargli avvertire la sua presenza.
Come se fosse stato possibile riuscire ad ignorarla.
La vide ancheggiare verso lo spazio riservato alle hostess e non fu l’unico a fissarla sottecchi. Alcuni degli uomini d’affari dell’aereo abbassarono leggermente i loro giornali e la squadrarono da sotto le loro costose montature.
Quella donna - no, la donna, corresse immediatamente il suo cervello - aveva un fascino magnetico al quale era difficile sfuggire. Avrebbe potuto sedurre qualsiasi uomo in quella cabina e garantirsi un’esistenza quantomeno agiata fino a quando avesse voluto.
Irene rientrò con in mano due flûte di champagne. Ne porse uno a Sherlock, sfiorandogli le dita in un gesto di calcolata naturalezza.
“Facciamo un brindisi.”
“A cosa dovremmo brindare?”
Lei inclinò leggermente il capo e gli sorrise.
“A noi. Ad una lunga e proficua amicizia.”
Il detective prese un respiro e posò il calice nel portabicchieri.
“Sai bene che dopo averti lasciata negli Stati Uniti ognuno di noi andrà per la sua strada.”
Lei batté le palpebre e lo guardò con un’espressione di scherno.
“Quanta pena che ti sei preso, povero Sherlock! Avresti potuto lasciarmi a Karachi.”
Sherlock allungò le dita e rigirò la base del flûte. Mise su la posa più arrogante, superba e noncurante che conosceva, il tutto per zittirla una volta e per sempre. Non avrebbe tollerato ulteriori domande da parte sua, non quando non desiderava darle una risposta, data l’evidente tendenza della sua accompagnatrice a manipolare con le parole. L’insistenza di Irene sapeva essere intollerabile e snervante quasi quanto quella dei suoi genitori, quando volevano costringerlo a sorbirsi un irritante musical.
“Perché mi hai pregato di salvarti. O hai dimenticato anche questo piccolo particolare?”
Doveva aver colpito il bersaglio perché Irene contrasse leggermente i muscoli del viso e per lui, quel gesto muto, equivalse ad una scenata plateale con un pianto singhiozzante seguito da un accesso di rabbia.
“Allora brinderò al brillante, audace e nobile Sherlock Holmes, salvatore di sventurate damigelle in difficoltà.” Sollevò beffarda il bicchiere e se lo portò alle labbra con fare teatrale.
Sherlock osservò il movimento della sua gola, man mano che il calice veniva vuotato. Si chiese se, per caso, non avesse drogato il suo. Ad una prima analisi, visiva ed olfattiva, non sembrava corretto con qualche sedativo o farmaco, ma la prudenza non era mai troppa.
Fu tentato dal chiederle se necessitava di un altro giro, ma scartò quell’opzione.
In ogni caso non avrebbe bevuto.

*

Trascorsero il resto del viaggio da Karachi in silenzio, fino allo scalo ad Abu Dhabi, dove li attendeva la loro coincidenza per New York.
Sherlock allungò il passaporto all’operatrice del check-in e, con la coda dell’occhio, si assicurò di tenere sotto controllo la donna al suo fianco.
Sarebbe bastato veramente pochissimo perché gli sfuggisse dalle dita come aria.
Fu solo quando l’aereo decollò che il detective riuscì a rilassarsi. Quanto ad Irene, lei era più che tranquilla. Osservava placidamente il panorama sotto di lei, il deserto, la città e poi le nuvole a circondarla. Prese le cuffie e cominciò a vedere un film.
La traversata sarebbe durata più di 20 ore, un tempo davvero lungo per testare la resistenza dei nervi del detective, che già si sentiva erodere dall’interno dal malefico tarlo della noia.
Era come un’auto da corsa che doveva procedere a passo d’uomo: una vera crudeltà per il proprietario ed uno spreco di prestazioni di alta ingegneria.
Tamburellò le dita sulle ginocchia e Dio, quanto avrebbe voluto una sigaretta in quel momento!
Si costrinse a placarsi, trovando rifugio in una delle camere del suo palazzo mentale. Si sedette a gambe incrociate sul parquet di una stanza alla fine di un lungo corridoio, e aprì un baule usurato posto davanti a lui. I vecchi cardini cigolarono quando ne alzò il coperchio, ed uno zaffo di polvere si sollevò riempiendogli i polmoni. Con la mano pescò uno dei fascicoli su alcuni casi irrisolti e prese a studiarlo alacremente.
I suoi pensieri furono interrotti dall’hostess, che si avvicinò a loro con modi affabili per servire la cena.
Una volta che fu andata via, Irene lanciò un’occhiata divertita a Sherlock. Il detective parve perplesso.
“Alla fine siamo riusciti a cenare insieme.” Dichiarò lei semplicemente. Sembrava aspettare quell’occasione da quando erano partiti.
Lui rovistò nel piatto con la forchetta, esaminando i vari ingredienti e reprimendo una strana forma di nausea che gli attanagliava la bocca dello stomaco.
“Contro ogni aspettativa sì, è così.”
“Potresti anche smetterla di mettere il broncio come un ragazzino capriccioso e ammettere che la cosa non ti dispiace.”
“Io non sono un ragazzino capriccioso!” esclamò oltraggiato e si rese subito conto di aver appena commesso una madornale gaffe. Lei sembrò compiacersene e la cosa finì per irritarlo ulteriormente.
“Allora dimostralo.”
Eccola la provocazione, la sfida che il detective attendeva.
Per l’ennesima volta si stavano scontrando su un terreno precario, fatto di botta e risposta. Lei avrebbe cercato di condurlo nell’inesplorato e oscuro territorio dei sentimenti, quella massa abbozzata che giaceva come un cumulo di mobili usurati e anticaglia varia in un punto recondito ed imprecisato del suo palazzo mentale, e lui avrebbe dovuto deviare il discorso su Moriarty, alla ricerca di informazioni sostanziali.
“Dovresti scegliere con più accuratezza gli uomini dai quali pretendere delle dimostrazioni.”
Irene accavallò le gambe e quel gesto attirò su di sé lo sguardo del detective.
“Oh, se ti riferisci a Jim, lui era ben felice di dimostrare.” Il tono basso, quasi gutturale e il lieve dilatarsi delle sue pupille, resero chiaro il concetto a Sherlock.
“Dimostrare qualcosa che ti ha quasi fatta uccidere.”
“Che fortuna aver incontrato te, allora.” Replicò lei mandando giù un sorso di vino. “Non vuoi sapere cosa mi ha spinto a cercare Moriarty?”
Sherlock ghignò, era facile, fin troppo facile.
“Non c’è bisogno che tu me lo dica, è di certo lo stesso motivo per cui lui ha accettato la tua offerta: la noia. Eppure dovevi sapere che non ci avrebbe pensato due volte a liberarsi di te quando non gli saresti stata più utile. La vera domanda, quindi, è cosa lui ha ottenuto da te.”
Irene fece un piccolo applauso.
“Ancora una volta sei stato arguto e pronto, ma mi dispiace deludere le tue aspettative con una banale rivelazione: da me ha ottenuto solo un sano divertimento.”
Un balenio scettico attraversò i limpidi occhi di Sherlock.
“Mi riesce difficile pensare che sia stato solo questo.”
“La parola chiave è proprio questa, Sherlock: pensare.” Il detective assottigliò lo sguardo, conscio che quella donna, grazie ad una risposta sibillina, lo stava sfidando a provare il contrario.
Il fatto poi che non possedeva prove per confutare l’affermazione, lo spazientiva oltre misura.
Irene riprese a mangiare con fredda e calcolata calma. Lui, invece, non aveva minimamente fame, troppo lanciato in una catena elaborata di ragionamenti. Vedeva la risposta davanti a lui, ma quando allungava la mano per afferrarla, questa gli sfuggiva, diventava inconsistente e si ritrovava solo con un pugno di mosche.
Quand’ebbe finito, la donna si tamponò le labbra con un fazzoletto e incrociò le posate nel piatto.
“Su, Sherlock, non dirmi che non mangi perché credi che ti abbia messo una qualche droga anche nel cibo. Sarebbe ridicolo, non trovi?”
“Ma perfettamente nel tuo stile.”
Irene si passo una mano tra i capelli, riavviandoli.
“Mi sogni mai con un frustino in mano, Sherlock? Sogni mai di implorarmi due volte?”
Si fece più vicina ed il detective sostenne impassibile il suo sguardo.
“No.” Rispose lapidario.
“No, e come potresti? Tu non sei mai affamato.” Lei si tirò indietro, sprofondando nella poltrona e mettendo distanza tra di loro. “Oppure non sei affamato di quello che io ho da offrire.” Insinuò con un sorriso malevolo che lui ignorò.
“Non ho bisogno di niente che tu o altri possiate offrirmi.”
“E qui incappi in un errore. Ti ho mai detto cosa ho provato quando ti ho visto la prima volta?” si sporse come un felino, mise la mano sulla sua e gli sfiorò la guancia con il naso, raggiungendo l’orecchio per potervi mormorare la sua confessione. “ Mi hai attratta in un modo che mi ha raggelato il sangue nelle vene. La seduzione che trasmette una mente originale, acuta, intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale; è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un dio.*” Le sfumature della sua voce continuarono a risuonargli nell’orecchio quando la vide scostarsi e fronteggiarlo. I suoi occhi lucidi si appuntarono in quelli di lui con tutta la loro intensità, mentre la piccola mano aumentò la pressione sulla sua. Il suo respiro, lievemente accelerato e dolce di vino, gli solleticò la punta del naso e, nei suoi occhi appannati, poté chiaramente leggere la volontà di chiudere la distanza tra loro e baciarlo. Per un momento il cervello, sfuggendo ad ogni ferrea logica, gli inviò l’ancestrale impulso di assecondarla. Le reazioni innescate nel suo corpo tradivano quell’illusione di controllo che si era addestrato ad avere. Poteva sopprimere un bisogno, farlo languire sotto la superficie, ma non sarebbe mai sparito del tutto. Era come quando aveva bisogno della droga, qualcosa di forte e potente in grado di tonificare la sua mente e, contemporaneamente, di distruggerla. Per quanto si ostinasse a negarlo, era un uomo, con tutti i suoi pro e contro. Sottrasse bruscamente la mano con l’intento preciso di allontanarla da lui.
“Non sono interessato.” Scandì secco ogni parola.
Irene sollevò gli occhi al cielo, occhi che conservavano ancora la loro scintilla seduttrice. Rimaneva pur sempre una donna esperta nell’arte dell’irretire i sensi e lusingare gli animi fino ad ottenere quello che voleva. Non si sarebbe arresa così in fretta e lui lo sapeva.
“Forse ho esagerato.” Affermò lei cominciando ad arrotolarsi una ciocca di capelli attorno al dito. “Non avrei dovuto essere così sfrontata. Non dopo averti preso in prestito i vestiti a Karachi.” Ghignò.
“Questo è un eufemismo. Mi stavi puntando contro la pistola caduta a quel terrorista.”
Irene sorrise e annuì.
“In compenso è stato uno spettacolo molto piacevole. Mi ha dato modo di fantasticare su quanti segni avrei potuto lasciare sulla tua pelle bianca.” Si umettò leggermente le labbra e osservò il detective continuare a studiarla con quella che giudicò essere la sua finta espressione fredda e distaccata.
La razionalità, la fermezza e il rifiuto spietato delle sue avances da parte di Sherlock, sapevano essere un’affilata arma che si insinuava sotto la sua pelle come l’abile bisturi di un chirurgo affermato.
In quel momento acquisì la solida consapevolezza che Holmes era il gioco più grande a cui mai avrebbe rinunciato.
“Atterreremo tra circa 16 ore, ti consiglierei di riposare.” Senza neanche darle modo di replicare, lui si alzò dalla poltrona e si dileguò nell’aereo.
Irene sospirò. Una parte di lei temeva l’arrivo dell’ora in cui si sarebbe dovuta separare dal detective. L’altra parte invece sapeva che, prima o poi, le loro strade si sarebbero incrociate di nuovo.

*

Spesse nubi coprivano il cielo sopra  New York. L’aereo vi si inoltrò e, dopo una lieve turbolenza, planò atterrando dolcemente sulla pista. Sherlock scese con passo sicuro e scortò Irene al ritiro bagagli. Una volta recuperata la valigia la accompagnò fuori dall’aeroporto.
“E così ci salutiamo qui, Sherlock Holmes.” Fece lei una volta sistemato il suo bagaglio all’interno di un taxi. “È stato un piacere. Un piacere che possiamo sempre approfondire.”
Il detective intrecciò le mani dietro la schiena, assumendo un aspetto impettito ed austero.
“Spero che non crederai ancora che sono interessato a te in alcun modo.”
“Piuttosto pretenziosa come affermazione, non ti pare?”
Sherlock la fissò intensamente e, quando si mosse, sembrò che una statua prendesse vita. Le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio, come aveva fatto lei in precedenza.
“Sono l’unico uomo a cui non potrai mettere un guinzaglio.” Vide l’espressione di Irene distendersi in un sorriso divertito.
“A questo possiamo sempre rimediare.”
Fu il turno di Sherlock di sorridere impercettibilmente. “Addio, Irene Adler.”
“Arrivederci, Sherlock Holmes.”
Entrò nell’auto e, mentre stava per dire all’uomo l’indirizzo a cui il detective le aveva detto di recarsi, si voltò nella sua direzione. Voleva farlo tornare a Londra con un ultimo regalo.
“Comunque Moriarty voleva che dimostrassi che tu hai dei sentimenti. Ed il fatto di essermi venuto a salvare ne è stata la prova lampante. Quindi attento a ciò che provi, Sherlock. Non fare in modo che possa essere usato contro le persone che contano di più per te. Arrivederci!” Irene disse l’indirizzo ed il taxi partì alla volta della metropoli.
Sherlock rimase fermo sul marciapiede, con lo sguardo fisso in direzione dell’auto inghiottita dal traffico, per un tempo che parve lunghissimo. Stette lì, con gli occhi sgranati, la mascella contratta ed i pugni serrati.
Era una trappola, una maledetta trappola e lui c’era finito in pieno.
Moriarty non aveva solo sfruttato Irene ed i suoi segreti, ma anche il rapporto che aveva instaurato con lui per ottenere ancora più informazioni.
Se Mycroft l’avesse scoperto l’avrebbe sicuramente deriso fino alla fine dei suoi giorni. Come poteva essersi fatto raggirare in quel modo?
Una volta salito sull’ennesimo aereo che l’avrebbe ricondotto a casa, esaminò la faccenda a mente calma. Forse Irene gli aveva fornito un indizio fondamentale: Moriarty non era a conoscenza di tutte le persone di cui Sherlock si fidava.
Questo era un vantaggio enorme, che sarebbe potuto tornare utile alla prima occasione. Sherlock sorrise.
La sua contromossa era appena cominciata.

*

Al ritorno a casa fu facile omettere la verità con John. Dapprima aveva ingannato Mycroft facendogli credere che Irene fosse morta, poi aveva realizzato fedelmente la bugia che suo fratello gli avrebbe raccontato, ossia la protezione testimoni in America. In piedi, davanti alla finestra del 221B, sotto il suono della pioggia battente, Sherlock si rigirava tra le mani il cellulare di Irene, soddisfatto del suo operato. Con delicatezza aprì un cassetto e lo ripose all’interno. Pensare a lei, a quella donna, gli procurava una sensazione piacevole, nonostante l’avesse manipolato a dovere.
Era riuscita a farlo essere esattamente dove voleva, e a portarlo sulla strada che voleva percorresse.
Aveva progettato tutto, contando sul fatto che lui, ormai stuzzicato dalla sua personalità, decidesse di salvarla. Non era certo una donna da sottovalutare.
“La donna… la donna.” Ripeté mentre fuori la pioggia continuava a scrosciare.
Sorrise e diede le spalle alla finestra ritornando verso la cucina.
Aveva un esperimento da terminare.

***
- “La seduzione che trasmette una mente originale, acuta, intuitiva e brillante non è epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, è abissale, intima, viscerale; è come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale, senza essere un dio.” Cit. Paola Melone

Dopo svariati secoli, eccomi di ritorno in questo fandom *parte il pernacchio*. Che dire, ho ritrovato la mia musa grazie al contest di cui sopra, a questa intervista a Steven Moffat che mi ha linkato un’amica, e alla fine della sessione estiva d’esami. Non avrei mai pensato di scrivere qualcosa su Irene Adler, personaggio complesso ma al contempo molto affascinante, che si diverte a stuzzicare Sherlock come più le aggrada. Spero inoltre di aver saputo rendere bene questi due personaggi, per quanto la stesura sia stata scorrevole (‘na volta tanto), il tarlo del dubbio dell’IC mi tormenta, anche se a volte mi chiedo come si possano mantenere sempre IC personaggi così pieni di sfaccettature.
Bene, dopo lo sproloquio mi auguro che la storia sia piaciuta e spero di rivedervi su questi schermi.
Intanto buone vacanze a tutti!
  
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