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Autore: Tielyannawen    30/07/2015    4 recensioni
Sotto il cielo di Arda accade a volte che alcuni cammini si incontrino, legando indissolubilmente destini altrimenti separati.
Dal testo:
«Tu non dovresti essere qui... perché sei tornato indietro?», chiese con un filo di voce, lottando per non lasciarsi avvolgere dalle ombre.
«Perché non potevo abbandonarti. Tu ci hai mostrato la via quando la credevamo perduta e hai lasciato la tua casa, rischiando la vita per salvarci. È ora di pagare il nostro debito».

Dicono che la storia sia fatta da eventi straordinari, ma a volte sono proprio le piccole cose quelle di cui dobbiamo serbare ricordo.
Queste pagine ne sono memoria... perché in fondo tutti cerchiamo la nostra strada nel mondo.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bilbo, Elfi, Gandalf, Nani, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Guardando la luna

Il 26 aprile dell’anno 2941 della Terza Era fu ricordato dai giardinieri della Contea come un mercoledì particolarmente sereno, perfetto per preparare orti e serre all’arrivo dell’estate. Eppure fu dopo il tramonto che accaddero alcune cose che avrebbero cambiato il corso della storia della Terra di Mezzo e di certi suoi abitanti in particolare.
 

*****
 

Alagos pascolava tranquillo nel suo recinto, guardando la luna che lentamente iniziava a comparire nel cielo.
Una brezza gentile agitava la sua criniera corvina e voci cristalline riempivano l’aria con melodie di tempi lontani. Pace. Aveva corso a lungo prima di arrivare in quel luogo incantato, dove l’acqua era dolce e l’erba verde come mai l’aveva vista. Lì aveva trovato ciò che cercava.
Un lieve sospiro giunse alle sue orecchie. Non era più solo. Costeggiò lo steccato fino a trovarsi davanti al Mezzelfo. Di rado qualcuno si avvicinava e in fondo lo stallone preferiva così. Studiò il visitatore da una certa distanza. Non conosceva il suo nome, ma sapeva di avere di fronte colui che governava su quella terra. Ne percepiva il potere; un potere benigno, eppure così colmo d’angoscia.
«So che non le farai del male», sussurrò il Signore di Imladris, «ma la porterai lontana da me. E il mio cuore piange all’idea di perderla».
Nessun nome fu pronunciato, ma ad Alagos non fu necessario per capire a chi si stesse riferendo. Entrambi tenevano a quella fanciulla dal cuore cortese e il cavallo sperò che egli fosse in grado di leggere nei suoi occhi quei pensieri che non aveva altro modo di esprimere: “Io la proteggerò, affinché possa tornare e vivere felice”.
Un sorriso impercettibile si aprì sul volto del Signore di Imladris ed Alagos seppe che aveva compreso. Vide il suo sguardo scintillare e udì la sua voce levarsi chiara: «Hai la mia benedizione Alagos, erede di Felarof [1]! Nai tielyar nauvar laicai az hwesta nauva canalyesse [2]!».
Mentre parlava venti forti e impetuosi li avvolsero. Il mondo correva attorno a loro e al cavallo parve di vedere brillare una stella azzurra. Poi tutto sparì e fu come se il Mezzelfo non fosse mai stato lì.

 

Elrond si fermò davanti all’ingresso dell’Erbario [3], guardando la luna attraverso le vetrate.
Amava Imladris, soprattutto di notte, quando poteva camminare non visto e osservare con orgoglio ciò che aveva creato. Il suo desiderio di costruire un rifugio per tutti coloro che cercavano riparo dall’Ombra si era avverato e, anche se per molti anni la Terra di Mezzo aveva vissuto in pace, le porte della sua casa continuavano a restare aperte.
Oltrepassò un arco ed entrò. Mazzi di erbe e fiori scendevano dal soffitto e lungo le pareti riposavano file di vasi di vetro, cullati dal suono di una piccola fontana. Al centro della stanza, china su un tavolo di pietra, stava Helan. Dei suoi figli, lei era l’unica ad essersi interessata allo studio delle piante fin da bambina ed ora portava al fianco la borsa con le rune degli erboristi.
Si soffermò a osservarla mentre sminuzzava una manciata di foglie con movimenti rapidi, le mani rese agili e precise da secoli di pratica; le stesse mani che si erano tese verso di lui chiedendo aiuto e protezione, quando era ancora in fasce. Sorrise a quel ricordo e iniziò a parlare: «Queste pareti hanno sentito la tua mancanza negli ultimi tempi». “Ed anche io”, pensò il Mezzelfo.
« Conosci Elladan ed Elrohir, sono incontentabili. I loro allenamenti mi hanno tenuto molto impegnata. Ma quando posso mi piace tornare qui. Ho sempre creduto che fosse un luogo speciale», gli rispose Helan sollevando la testa e c’era gioia nel suo sguardo.
«Cosa stai preparando?». Non aveva bisogno di chiedere, riconosceva quei rami, ma lo fece comunque.
«Foglie e fiori di biancospino [4], per favorire il sonno. Vuoi aiutarmi?».
Avevano molto da dirsi, ma per quella notte si limitarono a lavorare fianco a fianco, in silenzio. Un padre e una figlia grati dell’affetto che li univa.

 

Helan lasciò vagare i suoi pensieri, guardando la luna lasciare posto all’alba.
Era felice di aver avuto la possibilità di passare del tempo con l’unico padre che avesse mai conosciuto, eppure percepiva che c’era dell’altro, qualcosa che Elrond non le aveva rivelato. Dietro il suo allontanamento doveva esserci una ragione seria, un motivo nascosto dietro un velo che nessuno dei due aveva ancora voluto sollevare. Ma la lunga vita degli Eldar avrebbe concesso loro innumerevoli altre occasioni per chiarirsi e ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto.
E presto o tardi anche il suo spirito inquieto avrebbe trovato la pace. Si sentiva bloccata, in attesa, come un uccello che debba spiccare il volo ma ancora non sappia usare le ali. Per quasi duemila anni aveva vissuto, senza mai allontanarsi da quella vallata, e ora si chiedeva se solo quella sarebbe stata la sua vita. Trascinarsi leggiadra attraverso le stagioni.
Con un sospiro si allontanò dalla finestra e all’improvviso una scossa l’attraversò lasciandola senza fiato. Si accasciò a terra davanti al caminetto, incapace di rialzarsi. Il ciondolo che portava da quando era nata iniziò a pulsare e divenne rovente; malgrado ciò, nessun segno di ustione comparve sulla sua pelle, né sulla mano con cui l’aveva afferrato. Attorno a lei i contorni della sua stanza scomparvero, trasformandosi in un mondo incandescente e sconosciuto. Dal muro di fiamme che la circondava sembrò uscire una voce femminile, remota, eppure familiare, come se l’avesse udita ogni giorno fin dall’infanzia. Le parole che pronunciò avevano il tono di un monito, che continuò ad echeggiare nella mente dell’elfa per diverse ore dopo che si fu svegliata tremante sul pavimento.

“Acque ardenti e cinque artigli d’argento:
questi segni indicheranno il momento
in cui colei che la fiamma accompagna
potrà salvare con la vita il sangue della montagna.
Allora il potere del fuoco si ridesterà
e ciò che perduto era, ritrovato sarà.”

 

*****
 

Dwalin affrettò il passo, guardando la luna fare capolino dietro alla Collina.
Avevano percorso strade secondarie per arrivare fin lì, abbandonando la comodità offerta dalla Grande Via Est. Su questo punto lo stregone era stato categorico e del tutto irremovibile. Temeva che la loro presenza potesse “turbare la quiete della buona gente della Contea”. Queste erano state le sue parole. E così avevano viaggiato separatamente, soli o in piccoli gruppi, per non destare sospetti. Come se un nano con martello da guerra e un paio di asce legate sulla schiena potesse risultare meno minaccioso da solo piuttosto che in compagnia.
Aggrottò la fronte, facendo increspare i tatuaggi che la ricoprivano, e si sporse oltre l’ordinata fila di cancelletti per cercare il marchio. Aveva deciso di tagliare per i campi, attraversando distese di grano e piantagioni di verdure d’ogni sorta. I proprietari non erano parsi molto entusiasti del suo vagabondaggio, ma era bastato uno sguardo e si erano limitati a scrutarlo accigliati, facendo rientrare di corsa mogli e figli in casa.
«Hobbit. A cosa mai potrà servirci non lo capisco davvero. Troppa erba-pipa deve aver dato alla testa a quello stregone», mormorò Dwalin prima di bussare al portoncino verde, su cui spiccava un marchio che emetteva una debole luce celeste. Non si azzardò a tirare la maniglia del campanello, perché pareva decisamente troppo delicata per delle robuste mani abituate a far roteare asce.
Si sentì un tonfo poco prima che la porta venisse aperta da uno hobbit con la testa ricoperta di folti ricci ramati, vivaci occhi chiari e avvolto in una bizzarra vestaglia multicolore. Decisamente non assomigliava a un guerriero.
«Dwalin, al vostro servizio!», disse esibendo controvoglia il suo migliore inchino.
Il padrone di casa restò in silenzio per alcuni istanti, fissandolo sbigottito e con la bocca spalancata. Era lampante che non si aspettava nemmeno lontanamente di veder comparire un nano al suo uscio quella sera. All’improvviso sembrò ritrovare la parola, o quanto meno le buone maniere, e riuscì a farfugliare: «Bilbo Baggins, al vostro. Perdonate la mia sfacciataggine, ci conosciamo per caso?».
«No», rispose secco Dwalin, entrando e lanciando il mantello sul più vicino attaccapanni. Si guardò intorno e annusò l’aria: pesce arrostito e verdure bollite. «Da quale parte è la cena? Lui aveva parlato di tantissimo cibo. Una delle migliori dispense della Contea, almeno così ci ha assicurato».
Lo hobbit aveva ricominciato a balbettare, perciò Dwalin decise di fare affidamento sul suo naso per orientarsi attraverso stanze e corridoi. Trovò con facilità la sala da pranzo e si lasciò cadere pesantemente su una panca, iniziando a rimpinzarsi, incurante dello sguardo allibito del suo ospite. In fondo era stato un lungo viaggio e si sentiva davvero affamato. Inaspettatamente si accorse che quella portata era ottima e dovette ammettere che, almeno in cucina, lo hobbit sapeva il fatto suo. Persino il palato fino di Bombur sarebbe stato d’accordo con lui.
Terminato il pesce agguantò diverse focaccine all’uvetta, senza dimenticare di complimentarsi con il cuoco questa volta.
Il signor Baggins parve riscuotersi all’udire le sue parole e iniziò quello che aveva tutto il tono di sembrare un discorso avvincente, almeno per uno hobbit: «È solo che io non aspettavo ospiti in questi giorni, a parte alcuni chiassosi cugini da parte di mia madre, ma loro non passeranno prima di giugno e… ». L’improvviso suono del campanello lo interruppe e con mille scuse scattò verso l’ingresso.
Dwalin ne approfittò per appropriarsi di un contenitore di vetro pieno di biscotti che aveva notato su una mensola. Stava giusto svuotando il barattolo quando l’inconfondibile voce di suo fratello Balin lo fece voltare.
«Per la mia barba, sei più basso e più largo di quando abbiamo lasciato le Montagne Blu», scherzò Dwalin stringendo le spalle del fratello.
«Più largo forse, ma non più basso! E sempre abbastanza acuto per entrambi!», ribatté pronto Balin, con un luccichio di divertimento negli occhi.
Si fronteggiarono per un attimo prima di colpirsi affettuosamente. Il sordo suono dello scontro tra le teste dei due figli di Fundin risuonò per tutta Casa Baggins, facendo sussultare lo hobbit che era rimasto ad osservarli impietrito.
«Coraggio fratello mio, aiutami ad ispezionare la dispensa prima che arrivino gli altri», disse Dwalin facendo strada e cercando di non prestare eccessiva attenzione ai versi strozzati che uscirono dalla gola del padrone di casa.
La dispensa era davvero stracolma, degna delle descrizioni di Gandalf, e mentre si aggirava tra gli scaffali Dwalin si chiese come potesse un solo hobbit mangiare così tanto. Il loro viaggio sarebbe durato mesi e di certo non potevano permettersi di trasportare simili quantità di provviste. Allungò la mano verso una forma tonda avvolta da alcune foglie, prima di accorgersi che emanava un odore simile ai piedi di un minatore dopo un’intensa giornata di lavoro. «E questo che cos’è?», esclamò.
«Non saprei dirlo con certezza, però credo che potrebbe essere formaggio», azzardò Balin tenendosi a distanza.
«Ma è tutto blu e per di più pieno di muffa. Ah, meglio buttarlo prima che faccia male a qualcuno», decise Dwalin dopo averlo esaminato. Lo lanciò in un angolo e si diresse verso alcune interessanti botti di birra. «Ahi ahi, vedo che ti sei lanciato vecchio mio», disse vedendo il fratello maggiore raggiungerlo con due boccali tra le mani.
«Suvvia fratello, riempi e non essere tirchio», lo rimbeccò Balin.
Nel frattempo un deciso scampanellio aveva riportato lo hobbit verso la porta e due voci riecheggiarono festose sulle pareti di legno. «Fili e Kili, al vostro servizio!».
“Quei due la dovrebbero smettere con questi coretti”, pensò Dwalin prima di chiamarli. «Fili, Kili, muovetevi e venite qui a darci una mano. Dobbiamo fare un po’ di spazio o non ci entreremo mai tutti quanti», affermò iniziando a dirigere i lavori. Dopo alcuni tentativi e diverse lamentele da parte del padrone di casa, poté dichiararsi soddisfatto.
Il campanello suonò molte altre volte quella sera e finalmente arrivarono anche gli ultimi ritardatari; a quanto pareva, Bombur aveva insistito per fermarsi in tre diverse locande a gustare la tanto rinomata ospitalità hobbit e suo fratello Bofur non era riuscito a impedirglielo. Insieme a loro giunse anche Gandalf, palesemente divertito dallo sguardo frastornato dello hobbit.
«Mio caro Bilbo, quale diamine è il problema?», lo sentì domandare. «Non è da te far attendere degli ospiti affamati. Forza, vai a prendere il pollo freddo e i sottaceti. Ah, e io graderei un bicchiere di buon vino rosso, se non è di troppo disturbo».
Bevvero e mangiarono, cantarono e raccontarono storie, ridendo e scherzando tra loro. Forse stavano facendo troppo chiasso, ma Dwalin pensò che probabilmente era una delle ultime occasioni per essere allegri e che nemmeno il loro principe avrebbe avuto da ridire se si divertivano un po’.
Un colpo secco alla porta fece calare il silenzio nella sala da pranzo.
«Lui è qui», sussurrò lo stregone.

 

Thorin si fermò in mezzo al sentiero, guardando la luna, silenziosa compagna dei suoi pensieri.
Aveva attraversato la Contea da solo e questa volta aveva cercato di prestare maggiore attenzione ai suoi abitanti, anche se mai l’avrebbe ammesso davanti allo stregone. Piccole finestrelle rotonde si aprivano di tanto in tanto lungo il pendio, illuminando la notte con la calda luce di lampade e caminetti. Attraverso i vetri, Thorin aveva osservato il quieto mondo degli Hobbit, genitori e figli riuniti attorno a un tavolo per cenare insieme.
Sempliciotti, così li aveva definiti discorrendo con Gandalf. Eppure una parte del suo cuore li invidiava, perché nella semplicità di quei volti sorridenti c’era un calore che lui aveva perduto da tempo. Ripensò alla sua famiglia, segnata da così tanto dolore. Suo nonno, brutalmente assassinato, e sua nonna, morta tra le fiamme del drago. Suo padre, disperso da quasi un secolo, e sua madre, muta dal giorno della scomparsa dell’amato marito. Suo fratello, la cui giovane vita era stata spezzata troppo presto, e sua sorella, con lo sguardo vuoto la mattina della loro partenza. E ora lui stesso trascinava i suoi nipoti in un’impresa disperata. Certo i Valar avevano seminato molta sofferenza tra la stirpe di Durin.
Scosse il capo e si chinò ad osservare il suo scudo, seguendo le linee della corteccia che gli aveva salvato la vita.
“Hai forse dimenticato la nostra promessa? Tu sarai il mio coraggio e io sarò la tua difesa. Per sempre”. Il fiero figlio di Thrain sobbalzò. Quella voce, la sua voce. Dopo tanto tempo, lei era ancora lì, al suo fianco. «Hlíf… », sussurrò e una lacrima solcò il suo viso, cadendo sul legno di quercia.
Si guardò intorno, grato di essere solo in quel momento. Una debole luce celeste brillò nel buio, come a volergli fare da guida, e si diresse verso di essa, risalendo la Collina. Avrebbe dovuto trovare una scusa per il suo ritardo, era ormai notte fonda e di certo i suoi compagni lo stavano aspettando. Sollevò la mano e bussò con forza.
«Gandalf, avevi detto che questo posto era facile da raggiungere, eppure ho smarrito la via ben due volte. Non lo avrei trovato affatto se non fosse stato per il marchio sulla porta», disse allo stregone non appena gli ebbe aperto. Non fece in tempo ad aggiungere altro, perché una voce si fece largo tra la schiera di nani che lo avevano circondato per dargli il benvenuto.
«Marchio? È impossibile, la porta è stata ridipinta di un bel verde brillante non più di una settimana fa».
«Certo che c’è, l’ho tracciato io personalmente. E ora Bilbo Baggins permetti che ti presenti il capo della nostra compagnia: Thorin Scudodiquercia», annunciò Gandalf con tono solenne.
A quelle parole tutti si fecero da parte e Thorin fu finalmente in grado di scorgere il padrone di casa, che si fissava i piedi con imbarazzo e con il fin troppo evidente desiderio di vederli scomparire seduta stante. «Dunque questo è l’audace hobbit. Ditemi, signor Baggins, avete combattuto a lungo? Ascia o spada, qual è l’arma che preferite?», chiese bruscamente.
«Come prego? Beh, sono piuttosto bravo a tirar castagne se proprio volete saperlo, ma non vedo come possa essere rilevante», balbettò lo hobbit colto alla sprovvista.
«Lo immaginavo. Assomiglia più a un droghiere che a uno scassinatore», borbottò Thorin in direzione dello stregone. C’era gentilezza nell’animo del loro ospite e per un attimo era riuscito a scorgere un accenno di orgoglio nei suoi occhi chiari. Ma questo non era sufficiente. Non aveva bisogno di una vita in più di cui dover essere responsabile.
Si sedettero nella penombra della sala da pranzo e Gandalf chiese che fosse fatta un po’ più di luce, in modo da poter spiegare il suo piano segreto e temerario. Con grande teatralità estrasse un involto dalle pieghe dei suoi abiti grigi e quando lo svolse il chiarore della lampada ne mostrò il contenuto: una mappa ingiallita e una grossa chiave.
«Come mai simili oggetti erano nelle tue mani?», mormorò Thorin. Non osò aggiungere altro, nel timore di lasciar trasparire il turbamento che la vista di tali cimeli gli aveva causato. Erano indubbiamente di fattura nanica. Fece scorrere il dito sui segni scuri, tracciati con decisione sulla pergamena e trattenne il respiro sfiorando le rune che indicavano il nome di suo nonno.
«Mi sono stati consegnati da tuo padre prima della battaglia di Azanulbizar, per sicurezza. Appartengono a te ora e mi auguro che ne farai un uso saggio», disse Gandalf con gentilezza. «E adesso parliamo di strategia. Come ben sapete la porta principale della Montagna Solitaria è sigillata, ma abbiamo avuto fortuna. Le rune in questa mappa indicano la presenza di un passaggio segreto che conduce alle sale inferiori».
Alla notizia dell’esistenza di un’altra via d’entrata i nani iniziarono a rumoreggiare con entusiasmo, subito frenato dalle parole di Balin: «Se riusciamo a trovarlo. Le porte dei nani sono invisibili una volta chiuse, a meno che non se ne conosca l’esatta posizione e il meccanismo».
«Concordo con te mio caro Balin. La risposta giace nascosta da qualche parte in questa mappa e io purtroppo non ho la capacità di trovarla, ma esistono altri nella Terra di Mezzo che possiedono le conoscenze per farlo», rispose lo stregone.
Thorin si accigliò. Conosceva poco della vita e delle amicizie di Gandalf, ma era certo di sapere a quale genere di aiuto si stava riferendo. Non avrebbe permesso che mani elfiche si avvicinassero ai doni che erano giunti fino a lui attraverso tante tribolazioni.
«È rischioso, ma possiamo farcela!», esclamò Fili, alzandosi e stringendo la spalla del fratello. «Ora finalmente capisco perché ci serve uno scassinatore!».
Tutti gli sguardi si spostarono sul padrone di casa, che indietreggiò lentamente, agitando le mani e assicurando di non aver mai rubato nulla in vita sua. Urla e polemiche esplosero e Thorin si rivolse furibondo verso lo stregone, ma prima di poter aprir bocca udì un colpo secco e tutte le luci si offuscarono, immergendo la stanza nell’oscurità.
«Se dico che Bilbo Baggins è uno scassinatore, allora uno scassinatore è, o lo sarà al momento opportuno. Ha da offrire più di quanto voi non possiate indovinare e assai più di quanto egli stesso immagini. Mi auguro sinceramente che possiate tutti sopravvivere a questa impresa per ringraziarmi». Come era accaduto sulle Montagne Blu, la voce di Gandalf li colpì come un tuono. Il suo volto era quasi irriconoscibile, illuminato dal bagliore sprigionato dal suo bastone. Quando la luce tornò nessuno aveva voglia di parlare e molti volti erano corrucciati.
«Permetti una parola?», domandò Thorin, facendo cenno a Gandalf di seguirlo nel corridoio. «Questa tua idea è completamente assurda», sibilò non appena si furono allontanati, «e l’ho capito non appena ho visto quello hobbit tremante all’ingresso. Sei stato molto astuto a non menzionare la mappa e la chiave prima che arrivassimo nella Contea, ma sono un nano e non è facile imbrogliarmi. Non conosco le tue intenzioni, ma sono sicuro che hai ben altri scopi oltre quello di aiutarmi».
«Hai perfettamente ragione, non ti aiuterei affatto se questo non coincidesse con propositi più ampi», gli rispose candidamente Gandalf. «Ti ricordo però che sei stato tu a chiedere il mio consiglio, Thorin Scudodiquercia, e io ho elaborato un piano la cui riuscita è legata alla presenza di Bilbo. Non ho altre parole per convincerti. Posso solo dirti che non concedo il mio affetto o la mia stima con facilità, ma nutro una profonda simpatia per lo hobbit e gli auguro ogni bene. Trattalo con rispetto e godrai della mia amicizia fino alla fine dei tuoi giorni».
Thorin rimase in silenzio per riflettere. I nani prendevano in grande considerazione la devozione e la lealtà verso gli amici, perciò fu il calore dei sentimenti espressi dallo stregone a convincerlo: «Molto bene. Se vorrà partire, allora faremo a modo tuo. Sappi però che non garantisco la sua sicurezza e che non sarò responsabile del suo destino».
«Capisco e mi trovo d’accordo con te. Il destino di Bilbo Baggins non è nelle nostre mani», confermò lo stregone. Il suo sguardo si intristì e vagò lontano, dove il nano non poteva seguirlo.
Ritornarono verso la sala da pranzo e Thorin dovette reprimere un sorriso all’udire un chiaro rumore di metallo, segno che Gandalf aveva urtato contro il lampadario. Con sua grande sorpresa incrociò lo sguardo dello hobbit, che stava sghignazzando per lo stesso motivo. L’ilarità del padrone di casa non durò però a lungo, perché una volta iniziato a leggere il contratto impallidì e, complici la loquacità di Bofur e la scrupolosità di Balin, si accasciò a terra con un grido.
«A quanto pare abbiamo perso il nostro scassinatore», mormorò Balin scuotendo la lunga barba bianca.
«Forse è meglio così», replicò Gloin, «perché non mi pare proprio che abbia la stoffa dello scassinatore. Un urlo del genere al momento sbagliato potrebbe farci uccidere tutti».
«E raggiungere la Montagna Solitaria non è un viaggetto per persone ammodo, che non sanno combattere né provvedere a loro stesse», aggiunse secco Dwalin.
«Beh io non ho paura di affrontare Smaug», dichiarò con voce tremula il giovane Ori, meritandosi una fulminea occhiata di rimprovero da parte di Dori.
Ripresero a discutere e nessuno prestò più molta attenzione allo hobbit steso sul pavimento; solo Bofur con l’aiuto di suo cugino Bifur si alzò per spostare il padrone di casa su una poltrona in salotto, probabilmente spinto dal senso di colpa per averlo scioccato con le sue funeste descrizioni.

 

Bilbo si rannicchiò sotto le coperte, guardando la luna e pensando sconsolato che gran parte della notte era ormai passata.
Indubbiamente quello era stato il peggior mercoledì della sua vita e di certo l’improvvisa comparsa di Gandalf il giorno precedente avrebbe dovuto metterlo in allarme. Invece l’aveva invitato per un tè, una decisione che ora gli appariva quanto mai inspiegabile.
Per colpa di quello stregone aveva visto barbe, armi, mantelli, attrezzi e ancora armi sfilare nel suo ingresso e riempire i corridoi; un giovane nano biondo gli aveva rovesciato addosso almeno una dozzina di lame, premurandosi di comunicargli che erano appena state affilate. Aveva assistito impotente alla razzia della sua dispensa e a uno spregiudicato gioco di destrezza nanica ai danni del servizio di piatti di sua madre. E non era ancora tutto!
Avevano iniziato a parlare di combattimenti e nobili imprese, riferendosi a lui con termini come “audace” e “scassinatore”. E poi era spuntato il drago. Certo era stato divertente vedere la reazione impacciata di Gandalf quando uno dei nani gli aveva chiesto quanti draghi avesse ucciso in gioventù; aveva iniziato a tossire e sbuffare, fino a quando non era riuscito a cambiare argomento. Ma il divertimento era sfumato in fretta ed era letteralmente svenuto quando aveva finalmente compreso che cosa si aspettavano da lui. Lacerazioni ed eviscerazioni gli sembravano proprio il genere di complicazioni da evitare con grande cura, insieme al rischio di essere incenerito da un drago. Assolutamente no! Non voleva avventure, ma solo starsene tranquillo sulla sua poltrona a fumare la pipa. Lo aveva detto chiaramente allo stregone, dopo essersi ripreso dallo spavento con l’aiuto un goccio di vino.
«Te ne stai tranquillo da fin troppo tempo», aveva sbottato Gandalf infastidito. «Dov’è finito il giovane hobbit che desiderava scoprire cosa ci fosse oltre i confini della Contea? Il mondo è la fuori, non nelle tue mappe né nei tuoi libri».
«Non posso andarmene di punto in bianco. Noi Baggins siamo sempre stati gente perbene e rispettabile. Questo è la mia casa, il posto a cui appartengo. Puoi promettermi che ritornerò?», aveva chiesto Bilbo con un leggero tono di sfida, fissando lo stregone negli occhi.
Gandalf era rimasto in silenzio per qualche istante prima di rispondere: «No. E se farai ritorno non sarai più lo stesso».
«Lo immaginavo. Scusami Gandalf, ma non posso farlo. Hai scelto lo hobbit sbagliato», aveva mormorato tornando a scrutare le fiamme nel caminetto.
Una volta terminata la riunione, i nani si erano alzati e Bilbo aveva dovuto trovare un giaciglio per tutti quanti. Come qualsiasi altro hobbit amava ricevere visite e la sua casa aveva a disposizione diversi letti per gli ospiti che avessero voluto trattenersi per la notte, ma nonostante questo dovette utilizzare anche divani e poltrone per riuscire a sistemare ognuno di loro. Naturalmente aveva riservato le camere migliori per Thorin e Gandalf; la piccola invasione che aveva subito non gli aveva fatto dimenticare le buone regole di cortesia e ospitalità. Inoltre sospettava che l’erede di un reame lontano e uno stregone dai grandi poteri non potessero riposare su panche e sofà.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso però era stata la lavagnetta. Stava finalmente raggiungendo il suo letto, dopo aver distribuito cuscini a chi li chiedeva, quando l’occhio gli cadde sulla lavagnetta che di solito usava per ricordare gli appuntamenti. In bella grafia erano stati segnati gli ordini per la colazione. La prima riga recitava “Thorin: sei uova con prosciutto, fritte, non in camicia” e subito sotto era segnata un’annotazione “Badate cortesemente di non esagerare con la cottura”.
«Questo è davvero troppo! Che vadano in malora tutti questi nani!», aveva sbottato, decidendo seduta stante che non si sarebbe disturbato ad alzarsi all’alba per preparare colazioni.
Fu ripensando a tutto ciò che infine Bilbo si addormentò, infelice e affamato, con canti su tesori e battaglie che gli risuonavano nelle orecchie, provocandogli sogni agitati.
Quando si svegliò il sole era ormai alto nel cielo. La casa era immersa nel silenzio e Bilbo si stupì, perché gli parve vuota e stranamente triste dopo la caotica confusione della sera prima. Ogni cosa era tornata al suo posto, come se nulla di strano o fuori dal comune fosse accaduto. I centrini facevano bella mostra sui tavolini e piatti e posate riposavano nelle credenze. Solo la dispensa, privata di gran parte del suo contenuto, gli ricordava che ciò che era avvenuto non era stato un’allucinazione.
Vagò per le stanze fino a ritrovarsi in salotto. Sulla mensola del caminetto giaceva il dettagliato contratto stilato per la sua collaborazione e accanto ad esso un biglietto, scritto velocemente ma con eleganza. Il testo recitava “All’onoratissimo signor Baggins, salute e salve! Ti ringraziamo per la tua cortese ospitalità. Non ritenendo opportuno disturbare il tuo sonno, abbiamo provveduto di buon’ora a ultimare i preparativi del viaggio. Resteremo in attesa del tuo arrivo presso la locanda Drago Verde di Lungacque, alle undici precise. I tuoi devotissimi, Thorin Scudodiquercia e Compagnia”.
Alzò lo sguardo, trovandosi di fronte i ritratti dei suoi genitori. Erano passati molti anni da quando se ne erano prematuramente andati, ma non passava giorno senza che sentisse la loro mancanza.

 

2902 T.E. – HOBBIVILLE
Era una tranquilla mattina d’estate e il giovane Bilbo stava armeggiando vicino all’ingresso per far entrare mele e albicocche nel suo zaino, già occupato da una generosa porzione di pane e formaggio. All’improvviso una voce squillante lo fece sobbalzare.
«Cosa stai facendo Bilbo?».
«Niente mamma!», urlò in risposta Bilbo, facendo scivolare lo zaino dietro la poltrona più vicina e nascondendo dietro la schiena la rudimentale mappa dei dintorni che si era tanto impegnato a disegnare la sera prima.
Un momento dopo dalla cucina sbucò Belladonna Tuc, con le mani sporche di farina e i capelli scuri raccolti in una crocchia. Era la maggiore nonché la più bella delle figlie del Vecchio Tuc, dal quale aveva ereditato generosità e una certa allegria di spirito.
«Come niente? Fuori c’è una bella giornata di sole e c’è tanto da vedere oltre lo steccato del nostro giardino. Perciò vai figliolo e scopri il mondo! Ma ricordati di rientrare in tempo per la cena, ci sarà la crostata!», disse raccogliendo lo zaino e allungandoglielo con aria complice.
Gli schioccò una bacio sulla fronte e Bilbo uscì dalla porta, allontanandosi di corsa sotto lo sguardo sorridente di sua madre.

 

Bilbo sorrise con affetto, mentre sistemava il ritratto leggermente storto di Belladonna Tuc.
«Ho capito mamma. Tornerò presto te lo prometto!».
Detto questo filò a preparare il suo bagaglio, afferrò il contratto e si precipitò fuori, chiudendosi la porta di casa alle spalle. L’orologio a muro segnava che mancavano solo dieci minuti alle undici. Corse a perdifiato lungo il sentiero, la lunga pergamena che svolazzava dietro di lui come un aquilone, e quasi investì i suoi giardinieri mentre saltava una staccionata.
«Dove correte signor Baggins?», chiese Holman Manoverde con voce strozzata, cercando di sostenere Hamfast che era sbiancato per lo spavento.
«Non posso fermarmi Holman, mi dispiace! È già tardi!», urlò Bilbo in risposta, senza nemmeno voltarsi.
«Tardi? Tardi per cosa?».
«In realtà non ne ho idea! Sto partendo per un’avventura!».



 

NOTE:
[1] Nome del capostipite dei Mearas, in Rohirric significa Molto forte.
[2] In Quenya significa Possano i tuoi sentieri essere verdi e la brezza dietro di te.
[3] Stanza per la lavorazione e la conservazione delle piante medicinali, una sorta di erboristeria.
[4] Il biancospino ha proprietà rilassanti e nel linguaggio dei fiori significa “speranza”.

DATE:
2890 T.E. 22 settembre: nascita di Bilbo Baggins.
2926 T.E : morte di Bungo Baggins.
2934 T.E : morte di Belladonna Tuc.
2941 T.E. 26 aprile: riunione inaspettata a casa di Bilbo Baggins.

   
 
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