Í donare la vita Í
tredicesima
notte
«Cazzo», Enea strinse il parapetto fra le dita
mentre gli ultimi resti del pranzo abbandonava per sempre il suo stomaco.
Il battello era in viaggio da otto ore, e lui
non aveva fatto altro se non vomitare da quando era partito.
Sospirò inspirando profondamente, scostandosi
indietro i pochi ciuffi che gli ricadevano scomposti sul viso mentre Hellionor si stiracchiava con la valigia in mano,
preparandosi ad attraccare.
«Sai, non è poi così male viaggiare per mare»
commentò mentre lui chiudeva gli occhi, lasciando che l’aria gli accarezzasse
il viso. Non capiva come fosse passata da “Non ho mai preso una nave in vita
mia” a “Secondo te è possibile che questa nave affondi?” per poi ormeggiare a
Liverpool e prendere il battello per Balbriggan,
scoprendo la bellezza, a dire di Enea inesistente, dello stare in mezzo al
mare, ondeggiando avanti e indietro.
«Parla per te, ti prego» brontolò qualche attimo
prima che un altro conato gli schiudesse le labbra, domandandosi perché
quell’imbecille di Komui avesse scelto proprio lui
per accompagnare Hellionor nella sua prima missione.
La ragazza sorrise, poggiandosi al parapetto
accanto a lui, di schiena, «Ti hanno mandato qui per dimagrire, suppongo»
scherzò, riferendosi al fatto che era dalla Francia che vomitava, facendo
eccezione della notte che avevano trascorso in Inghilterra, prima di partire
nuovamente.
«Fanculo» fu l’unica
cosa che riuscì a mormorarle mentre un fischio coprì le sue parole, annunciando
che stavano per attraccare.
Rimase fermò lì, immobile, lo sguardo rivolto
all’acqua mentre il battello si fermava, e quando Hellionor
lo chiamò gridando un «Muoviti!» inspirò profondamente, preparandosi a fare i
sette metri che lo separavano dalla passerella.
Gli girava la testa, e sapeva che la nausea ci
avrebbe messo un po’ a passare, ma doveva assolutamente poggiare i piedi su
qualcosa di stabile, quindi strisciò fino al molo con la valigia in mano, in
mezzo al via vai di marinai e barche.
Si guardò attorno cercando il Finder che avrebbe dovuto accompagnarli a Slane, dove era stata evidenziata un’attività soprannaturale
che Komui non si era degnato di spiegargli nei
dettagli. «Il bestiame del posto sparisce misteriosamente» si era limitato a
dirgli, «I contadini pensano che sia opera del diavolo» e poi Reever era passato a portagli una serie di documenti, il
Supervisore aveva iniziato a fingere di parlare al telefono, e il tutto si era
trasformato in un teatrino tragicomico a cui Enea aveva preferito non assistere.
«Dobbiamo cercare Rebecca» si impegnò a parlare
senza vomitare, poggiandosi ad un traliccio il legno, «Così magari ci dicono
che cosa sta succedendo in questo posto», non era sicuro di riuscire a
camminare, non ancora almeno, aveva delle vertigini terribili.
Hellionor faceva dondolare la valigia avanti indietro, «Chi è Rebecca?»
chiese alzando lo sguardo verso di lui – ogni volta che la guardava non
riusciva a non fissare il pentacolo che le sporcava la guancia. Gli succedeva
anche con la Mammoletta, era una cosa che non
riusciva a controllare.
«Lei è Rebecca» spiegò Enea, mentre una donna
dai capelli neri gli veniva incontro nell’uniforme da Finder.
«Signori Esorcisti» li salutò con un sorriso, ed
Enea recuperò la valigia, mentre Hellionor si
domandava che cosa avesse spinto una donna tanto giovane a unirsi all’Ordine
Oscuro. A morire. Era una cosa che non riusciva a concepire,
i Finder non erano esorcisti, non erano stati scelti,
nessuno li aveva appositamente creati o plasmati per combattere in quella
guerra, eppure ce n’erano tantissimi.
«Ciao Rebecca» il tono di Enea le fece intuire
che probabilmente già si conoscevano, «Lei è Hellionor»
aggiunse poi, indicandola con un cenno del capo, «È appena arrivata» il modo in
cui doveva sempre sottolinearlo la infastidiva.
Nuova arrivata. Suonava come
“Fai schifo, ma non è colpa tua, è perché sei nuova”.
«Sì, sono nuova» gli fece il
verso guardandolo male, «Piacere di conoscerti, Rebecca».
La donna le sorrise chinando il capo, «Anche per
me è un piacere, Il Supervisore mi ha già spiegato tutto» disse, come a volerla
rassicurare, e poi si guardò attorno,
«Ma adesso venite, se non partiamo subito arriveremo a notte fonda!» affermò
incominciando a incamminarsi, assicurandosi che loro la stessero seguendo.
Le piccole stradine attraversavano i prati e i
campi di un verde brillante che lei non aveva mai visto, era come camminare in
mezzo ad un mare di fondi di bottiglia, rilucevano al sole, scintillanti,
mentre Enea accanto a lei sembrava mantenere l’equilibrio a stento.
Forse era per colpa del viaggio, probabilmente
vomitare così tanto non gli aveva fatto tanto bene.
«Entro sei ore saremo al villaggio» Rebecca
aveva la voce di una madre, Hellionor riusciva a
pensare solo a questo ogni volta che lei apriva bocca. Era così che se la
ricordava: affettuosa e dolce. «Le pecore stanno sparendo ad una velocità
impressionante, e i cani da pastore pure» spiegò continuando a camminare, «Gli
allevatori sono disperati, pensano che sia opera del diavolo» aggiunse, ed Enea
finalmente si decise a dire qualcosa.
«Forse non hanno tutti i torti» commentò, e
Rebecca ricambiò il suo sguardo, tornando poi a parlare.
«Pensano che il demonio sia racchiuso in una
pecora nera, un pover’uomo l’ha trovata vicino al fiume e l’ha accolta nel suo
gregge, da quella notte sono iniziate le misteriose sparizioni. Il suo branco è
stato il primo a scomparire, e la pecora nera continua ad aggirarsi in quel villagio», era quasi inquietante sentirla raccontare quelle
cose, ma almeno era stata più esaustiva del Supervisore.
* * *
Camminavano da più di quattro ore, ormai. Hellionor sospirò, sciogliendosi i capelli mentre faceva
dondolare la valigia nella mancina, iniziando poi a canticchiare.
«Perché l’Innocence
dovrebbe uccidere delle pecore?» domandò, cercando di instaurare una
conversazione con qualcuno, dato che erano caduti nel silenzio più totale. Enea
non sembrava ancora disposto a parlarle, forse stava ancora male per il mal di mare… o forse se l’era presa per le battute e le frecciatine
che gli aveva lanciato durante il tragitto. Senza contare le domande che gli
aveva fatto con una frequenza piuttosto assillante. Aumentò il passo,
affiancando Rebecca.
«Tu cosa dici?» le chiese, allungandosi verso di
lei, come per palesarsi.
Osservò la donna guardare verso il cielo,
macchiato qua e là da soffici nuvole grigiastre, presagio di pioggia, «Beh, non
saprei» iniziò, raccogliendo i capelli neri all’interno del cappuccio, «L’Innocence si manifesta in un sacco di forme» continuò,
girandosi verso Hellionor, «Dovrebbero averti dato un
fascicolo sulle missioni precedentemente svolte, no? Qualcosa per farti
prendere confidenza con questi fenomeni e l’Innocence…».
Hellionor annuì, sentendosi rossa in viso, «Certo, certo! Ma ero così
stanca ultimamente che non l’ho proprio aperto…»,
ridacchiò, grattandosi la nuca. Non ricordava nemmeno dove li avesse lanciati,
quei fascicoli. Rallentò, fino ad andare in coda al gruppo, vergognandosi della
propria ignoranza in materia, e della propria ignoranza in generale. Non era il
momento di lamentarsi, però. Si schiarì la gola, raddrizzando la schiena per
cercare di riprendere un certo contegno.
Non voleva pensare a Rebecca che tornava all’Ordine e raccontava di quella
«povera sbadata nuova esorcista» che non faceva altro che fare domande stupide.
«Enea» disse, chiamando il compagno.
Enea, solo ora si rendeva conto di quanto fosse musicale il
suo nome. Aveva qualcosa nella cadenza delle lettere che le ricordava il
portoghese – era felice di poterlo sentire uscire dalle proprie labbra. Non
aspettò nemmeno un segno d’assenso da parte del ragazzo che decise di
proseguire con la sua domanda, «Quante missioni hai fatto da quanto sei all’Ordine?».
Le sembrava di aver chiesto qualcosa di
vagamente intelligente. Era sicura di non aver ricevuto nessun documento riguardo
agli esorcisti dell’Ordine Oscuro e, nonostante fossero in viaggio da una vita,
Enea non aveva parlato più di tanto di se stesso. Aumentò il passo per
affiancarlo e lo osservò mentre la squadrava come se fosse un gattino randagio
sporco di resina e terra. Prima che lui potesse risponderle, una goccia di
pioggia le finì sul naso, facendola storcere le labbra.
«Più avanti c’è Drogheda»
informò Rebecca, riparandosi ulteriormente sotto il cappuccio, «È a qualche
chilometro da Slane, ma l’Ordine
ha prenotato tre stanze in una locanda nel caso ci dovessimo fermare» informò.
«Aumentiamo il passo, allora» sentenziò Enea,
lasciando la domanda di Hellionor senza risposta.
* * *
Hellionor si sfregò i capelli nell’asciugamano, pettinandoli poi con le
dita. Non aveva molta voglia di sciogliere tutti i nodi, anche se sapeva che
lasciarli là era la cosa più sbagliata da fare in quel momento. Si fece forza,
sedendosi sul letto, afferrando le ciocche una per una e facendole passare tra
i denti larghi del legno intagliato.
Era la sua prima missione e aveva preso un
acquazzone da paura. Se non si raffreddava era un miracolo. Ricordava gli
insulti di Enea in un inglese esageratamente stretto che lei non riuscì a
capire – quei suoni sembravano messi in un ordine casuale e la facevano
sorridere anche in quel momento.
Doveva abituarsi a tutto quel lusso. Di certo
non si aspettava di entrare in una città sconosciuta e trovare una stanza tutta
sua munita anche di vasca che, in meno di mezz’ora, era già piena di acqua
calda e sapone.
Finì di pettinarsi, stendendosi poi sul letto
morbido e caldo, giocando con le punte rovinate dei suoi capelli. Da quando era
lì, aveva già visto un po’ di persone con il suo stesso colore dei capelli e le
stesse lentiggini sul collo, naso e spalle. Tuttavia non riusciva a sentirsi a
casa, e la cosa la frustrava un po’. Sua madre era irlandese, certo, ma lei di
irlandese non aveva nulla se non la pelle inclina alle scottature e quei
capelli color carota.
Si girò a pancia in giù, abbracciando uno dei
due cuscini, affondando la testa su quello che non aveva arpionato. C’era una
sensazione strana che le stringeva il petto, un dolore come di mancanza. Un
vuoto che non riusciva né a colmare né a spiegarsi.
Aveva avuto quello che voleva: entrare
nell’Ordine Oscuro, con il più nobile dei titoli… era
un’esorcista! Ma non poteva non pensare al volto di Komui quando parlava con lei, così lontano dai racconti che
Lavi aveva condiviso con lei, o da quello che aveva sentito dal telefono con
Enea durante tutto il tragitto. Non era pentita della sua scelta, ma iniziava a
pensare che, forse, avrebbe dovuto rifletterci di più.
«Beh, ormai è fatta» si consolò, mettendosi a
sedere. Infilò le scarpe comode e si pettinò i capelli umidi all’indietro,
aprendo poi la porta. Rebecca l’aveva avvisata di scendere per un pasto caldo
davanti al fuoco appena era pronta, e lei di certo non se lo sarebbe fatto
scappare.
Inoltre, aveva assolutamente voglia di scoprire
qualcosa in più su Enea. All’orfanotrofio, i pranzi e le cene erano i momenti
della condivisione: ognuno raccontava qualcosa sulla propria giornata e se
c’era un problema, insieme si cercava una soluzione.
Scese le scale senza fare rumore, arrivando ad
una piccola saletta composta da divanetti scuri e un grande camino acceso. Enea
stava seduto su una poltrona e mangiava qualcosa da una ciotola fumante.
Non sapeva perché, ma aveva l’impressione che lui
avesse molto da dire.
Hellionor si sedette davanti ad Enea, sistemandosi la maglia, «Che cosa hai
preso?» gli chiese mentre lui immergeva il cucchiaio nel liquido di un tenue
arancio, alzando poi lo sguardo verso di lei.
«Zuppa di carote» le rispose semplicemente,
riprendendo poi a mangiare mentre l’uomo della Locanda che li aveva accolti si
avvicinava a lei, portandole la sua zuppa di rapa e maiale. Lo ringraziò con un
sorriso prendendo il piatto fra le mani, ancora disorientata da tutte queste
premure che le riservavano. Incominciò a mangiare, osservando con la coda
dell’occhio l’uomo che attizzava il fuoco nel camino.
Era la cena più buona che avesse mangiato fuori
dalle mura dell’Ordine, di questo ne era certa. Non apprezzava particolarmente
il silenzio che la stava accompagnando, però, motivo per cui si schiarì la voce e poi decise
di intavolare una conversazione.
«Non mi hai detto quante missioni hai fatto»
disse, tenendo il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Questa volta non poteva
ignorarla, c’erano solo loro due in quella stanza.
Enea la guardò per una manciata di secondi, «Non
ne ho idea» era sincero, oramai era passato così tanto tempo che aveva perso il
conto, c’erano missioni che nemmeno si ricordava, e altre che per un motivo o
per un altro gli erano rimaste impresse nella mente.
Guardò la ragazza annuire piano e portarsi la
zuppa alle labbra, cercò di immaginarsi perché fosse lì, se aveva abbandonato la
sua famiglia, o se l’Innocence le aveva appena dato
un tetto sulla testa e una vita nuova, esattamente come aveva fatto con lui.
Ci fu un attimo di silenzio, Hellionor
si sistemò meglio sul tessuto scuro della poltrona, e poi gli sorrise «E come
ci sei arrivato all’Ordine?», era una domanda che non sopportava, ogni volta
ripensava a quella notte, a quei corpi che diventano polvere, e a quell’uomo
arrivato all’improvviso che gli aveva offerto di seguirlo, di dare un senso
alla sua vita. Inspirò profondamente, poggiando il piatto sul tavolino in legno
che li separava, «Sono stato trovato dal Generale Winters»
non c’era molto da spiegare, l’Innocence aveva
reagito alla sua presenza, si era semplicemente trovato al momento giusto nel
posto giusto, «Tu?» domandò poi, convinto che non gli importasse davvero, «Ti
hanno trovata la Mammoletta e il Bookman,
no?».
La domanda la fece esitare, lo vide dal modo in
cui il cucchiaio tremò appena fra le sue dita, bloccandosi a qualche centimetro
dalle sue labbra, «Veramente sono stata io a trovare loro» gli rispose, bevendo
poi la zuppa. «Alla fine sapevo di avere l’Innocence,
sapevo dell’esistenza degli esorcisti, e sapevo che avrei dovuto cercarli»
continuò, e la posata tintinnò contro la ceramica, «Ci ho messo degli anni, ma
ce l’ho fatta!» e sorrise.
Non aveva una famiglia. Nessuno si sarebbe mai
volontariamente unito all’Ordine se ne avesse avuta una. Nessuno avrebbe mai
parlato in quel modo se avesse avuto una casa da rimpiangere, una madre e un
padre.
«Congratulazioni» borbottò infilandosi una mano
in tasca, estraendo la tabacchiera per accendersi una sigaretta, sfiorare le
iniziali incise sul bordo della scatoletta
riuscivano sempre a farlo tornare bambino per una manciata di secondi,
inginocchiato sul tappeto della grande biblioteca.
Hellionor gli fece il verso, esattamente come aveva fatto per la maggior
parte del viaggio, e poi si infilò il cucchiaio in bocca, osservandolo mentre
avvicinava il fiammifero alla cicca.
«Non mi hai nemmeno chiesto se mi dà fastidio il
fatto che mi fumassi vicino» gli disse, e lui aspirò una boccata, soffiando il
fumo lontano.
«Nemmeno tu mi hai chiesto se mi dava fastidio
che mangiassi carne davanti al mio naso» ribatté lui, spostando lo sguardo
verso le fiamme del camino. L’aveva quasi rivalutata, si stava quasi dicendo
che non era poi una persona così cattiva. Certo, vagamente insopportabile dato
il suo pessimo senso dell’umorismo, ma non si poteva avere tutto dalla vita e
lui lo sapeva bene.
«E poi non ti sei lamentato quando sono arrivata
con la mia buonissima zuppa di maiale» borbottò lei, finendo
la sua ciotola, appoggiandola poi sul tavolino, liberandosi le braccia e
incrociandole al petto, «E comunque, anche se non ti importa, non mi dà
fastidio che fumi davanti a me, grazie per l’interessamento,
Fiore» gli disse, più acida del solito.
Enea sospirò, un po’ troppo melodrammaticamente
per i gusti di Hellionor. In ogni caso, anche lei
avrebbe fatto in quel modo. «È Fowler» chiarì.
«Lo so, Fiore» continuo
l’altra. Respirando a fondo prima di alzarsi, «Vado a dormire, prima di
rovinare la giornata a Vostra Eccellenza il Conte Fiore» disse plateare, prima di fare un profondo inchino.
«Si può sapere che problemi hai tu?»,
evidentemente, Enea era sull’orlo di un esaurimento nervoso. Forse lavorava troppo… aveva bisogno di una vacanza!
«Sei tu quello che non riesce a socializzare,
Enea» disse lei, sorridendogli, prima di fare dietrofront e ritornare verso
camera propria, ringraziando i locandieri per la cena.
* * *
Considerato i giorni che aveva passato a
camminare, le due ore e mezza che la separavano da Slane
non le sembravano così drammatiche. D’accordo: Enea sembrava ancora essere
arrabbiato con lei per aver urtato la sua sensibilità con la sua zuppa di rape
e maiale.
«Non gli piace la carne» le spiegò Rebecca,
«Credo che gli dia fastidio anche il suo odore. Ma il pesce lo mangia…» informò, osservando le spalle dell’esorcista,
dritte e larghe, come se fosse sempre all’erta e pronto all’azione.
«A tutti piace il pesce!» rispose l’altra,
sorridendo. «Ma secondo te mi odia?» domandò poi, a voce più bassa. Più lo
guardava, più si rendeva conto di non averlo visto durante la sua festa di
benvenuto. Un po’ le dispiaceva, a dire
il vero – le avevano raccontato che «Mammoletta» era
il soprannome che un certo Yu Kanda
aveva dato ad Allen… se lo usava anche lui, forse era
amico di Kanda. E se Kanda
era così scontroso come lo descrivevano, allora davvero non riusciva a spiegarsi
il perché lei non andasse bene per entrare nella sfera privatissima del Conte
Fiore. Un po’ cinica lo era anche lei, no?
Rebecca sorrise, spostandosi i capelli su una
spalla, «No, no» la rassicurò con un mezzo sorriso, «È molto serio e
concentrato durante il lavoro, tutto qui».
«Capito…» borbottò,
ritornando in silenzio. Non riusciva a capire come Enea potesse essere sempre
così teso, come potesse dedicare tutta la sua vita e tutta la sua persona per
una causa che, forse, era già persa in partenza. Tuttavia, anche lei era lì – e
come lui aveva donato la sua esistenza all’Ordine Oscuro.
Non è un gioco. La voce del
vecchio Bookman le ritornava in testa come una
preghiera, un’avvertenza. Forse stava dimenticando qualcosa di estremamente
importante di tutto quel puzzle di cui lei faceva parte. Alzò gli occhi al
cielo, sotto allo strato di nuvole, la distesa azzurra era ancora uguale a quella
che vedeva in Portogallo. Rimaneva immutato negli anni mentre loro crescevano e
morivano, esattamente come i fiori.
Pensò a Dio. A come restava sempre uguale mentre
loro – le sue creature – continuavano a morire,
afflosciandosi a terra senza più vita. Tutti quei soldati di Dio sarebbero
spariti senza lasciare traccia del loro cammino e la pioggia avrebbe lavato via
il loro sangue. Forse era per questo che Enea era così
serio: sapeva che sarebbe morto, un giorno, e che in nome di
quella morte gloriosa aveva rinunciato ad una famiglia, alle feste, alla bella
vita e all’amore. Sorrise, spostandosi un ciuffo di capelli dal viso,
osservando ancora quelle spalle dritte avanzare verso l’ennesimo campo di
battaglia.
Lei non era come lui. Non era pronta a morire
per qualcosa che, forse, nemmeno esisteva. Eppure sapeva che la sua vita
sarebbe stata assorbita dalla terra, il suo corpo bruciato e la sua persona
dimenticata. Si era imposta di andare avanti verso quella strada con un mezzo
sorriso e quel dolore nel suo cuore di vetro che si mangiava ogni cosa,
lentamente.
* * *
«Allora ci vediamo all’alba» Hellionor
provò ad alzare gli angoli delle labbra, tentando una smorfia amichevole. Enea,
dal canto suo, le aveva risposto con un mezzo sorriso stanco e un «buonanotte»
biascicato con la sigaretta in bocca.
Le cose sembravano migliorate. Hellionor entrò in stanza, chiudendosi la porta alle spalle
con un sospiro. Fare il giro del villaggio e chiedere ai suoi abitanti della
sparizione delle pecore era stato più difficile del previsto. Solo un pastore
aveva avuto il buon cuore di parlare con loro e spiegare la situazione…
in tutti i casi non avevano scoperto niente di più di quello che sapevano già,
e la cosa li aveva demoralizzati.
In quel caso, non rimaneva che andare per i
pascoli e cercare l’Innocence. Si tolse la casacca
della divisa, tirandosi le maniche della maglia fino ai gomiti. Seduta vicino
al camino, riusciva a vedere le cicatrici che le decoravano le braccia e le
mani tingersi di un dorato prezioso, in contrasto con il pallido della sua
pelle.
Era la parte della sua vita che odiava di più.
Sospirò, afferrando dal piccolo borsello attaccato alla cintura la versione
ridotta di un pugnale, grande quando una lama da barbiere. Non avrebbe mai
voluto fare una cosa del genere davanti ad Enea o Rebecca – in realtà, non
avrebbe voluto fare una cosa del genere davanti a nessuno.
La mano le tremava ancora, oscillava di qualche
millimetro a destra e a sinistra fino a quando la punta del ferro non le
sfiorava la linea della vita, incidendola e colorandola di rosso. Il sangue
caldo si infiltrava in tutte le pieghe della sua mano e le sfiorava la pelle
come la carezza premurosa di un fantasma.
Si concentrò, ascoltando il suo cuore battere
più velocemente e quella punta di ferro martellare. Era un brivido freddo che
le attraversava il braccio e raggiungeva la punta delle due dita. Il cremisi si
cristallizzò lentamente in piccoli diamanti rossi che, sotto gli occhi stanchi e
le palpebre socchiuse di lei, si fondevano. Si sentiva stanca per il viaggio e
per la ricerche, desiderò il letto con tutta sé stessa mentre il suo sangue
prendeva vita tra le sue dita.
Si fasciò la mano mentre la ferita iniziava a
bruciare e farle male. Con la destra, appoggiò la lancia vicino al muro,
osservandone il bastone liscio e levigato, quasi lucido, fatto con il proprio
sangue.
Si stese sul letto e chiuse gli occhi.
Bisognava donare la vita all’Ordine Oscuro.
Lei donava il suo stesso sangue.
* * *
Enea si tolse la casacca dell’uniforme sedendosi
sul letto, osservando la sua Innocence abbandonata
sul comodino. I due occhi gialli, incastonati poco sopra il manico delle due
sciabole gemelle, sembravano fissarlo, chiedendo di essere liberati.
Sospirò, stendendosi, cercando di capire che
diavolo stesse succedendo in quel posto carico di superstizioni stupide, dove
il loro arrivo era bastato per far sì che la gente si richiudesse nelle loro
case. Chiuse gli occhi, gli spifferi d’aria s’infiltravano da qualche parte,
accarezzandogli il viso e le braccia scoperte dalla maglia nera che indossava.
Aveva bisogno di dormire, lui come Hellionor, e ripartire da capo il mattino dopo, con calma,
cercando di estrapolare gentilmente altre informazioni utili.
D’un tratto un guaito squarciò il silenzio che
lo avvolgeva: i cani abbaiavano e ringhiavano mentre i belati del gregge gli
facevano da sottofondo, attenuandosi velocemente.
Si vestì in fretta, recuperò le sue armi e spalancò
la finestra, deciso ad uscire da lì il più in fretta possibile.
Ma quando atterrò nel fango, davanti all’entrata
della locanda, non c’era più niente. Solo il silenzio.
† Note
d’Autrici; do you wanna see
my Mugen?
Insomma, a Hellionor tocca la sua
prima missione.
Abbiamo deciso di portarla in Irlanda con Enea, facendole
attraversare tre città (il porto, Drogheda e poi Slane) in compagnia del Conte Fiore, in modo da poter
parlare abbastanza di entrambi, dato che sono due dei tre OC di questa storia. E… beh, non abbiamo molto altro da dire.
Già nel capitolo precedente abbiamo chiarito alcune cose su
questa storia, ovvero che è stata scritta e ideata prima che si venissero a
conoscenza di “cose” come, in questo caso particolare, l’Innocence
Cristallo. In tutti i casi, ci sono delle peculiarità che rendono l’Innocence di Hellionor
diversa dalla forma cristallo che si percepiranno nel corso della storia.
Ricordiamo che tredicesima notte fa
riferimento al tempo che Hellionor sta passando all’Ordine
e non è la numerazione del capitolo, non siamo impazzite.
Ci risentiamo per il 14 agosto e ringraziamo chiunque stia
seguendo la storia in segreto ♥
E buon compleanno Marian~
papavero radioattivo