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Autore: Kiki S    01/08/2015    1 recensioni
"Inverni dello stesso sangue" è una raccolta composta da cinque racconti, tutti accomunati dagli stessi punti chiave: il rapporto tra le sorelle e le stagioni fredde, le quali fanno da contorno alle singole vicende.
Ogni storia è un piccolo mondo che si snoda attraverso ricerche disperate, sogni coperti di polvere e, a volte, realtà incomprese e afferrate troppo tardi.
Ad accompagnare tutto questo solo il vento, la neve, il gelo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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rSCHELETRO
 
I
 
QUEL SOGNO
 
Sinceramente, Helen lo trovava ridicolo.
Non era altro che uno stupido sogno, eppure, mentre la sua mente dormiente formulava quelle immagini, ne era spaventata a morte.
Però non ne aveva più paura al risveglio. Che cosa c'era da temere? Solo un bambino o una donnicciola avrebbero potuto tremare di fronte a una tale assurdità. Si trattava solo di un sogno, punto.
A dirla tutta, Helen credeva che fosse addirittura divertente. Le erano sempre piaciuti i film horror e tutto ciò che comportavano. Ovviamente, riferendosi a ciò che comportavano per gli altri (incubi, paura a restare al buio), perché lei non aveva mai sperimentato dati fenomeni.
E l'avvenimento del suo sogno poteva facilmente catalogarsi come una scena di quel genere di pellicole.
Era così forte il terrore mentre si avvicinava.
In poche parole, Helen sognava uno scheletro. Era uno scheletro orribile, questo doveva ammetterlo anche da sveglia, perché alle ossa aveva attaccati dei disgustosi brandelli di pelle cascante, ma fino a questo punto non poteva dire che ci fosse niente di atroce.
Era appena iniziato il mese di settembre, quando l'aveva visto per la prima volta. Non ricordava esattamente il giorno (o meglio, la notte) in cui era apparso, ma non credeva facesse poi troppa differenza.
Ricordava di aver riso come una matta dopo essersi svegliata, in quella prima occasione.
Non poteva credere di aver fatto un sogno tanto strano e, soprattutto, tanto stupido. Ma la sua ilarità del risveglio non coincideva affatto con ciò che provava mentre non era cosciente. Orrore. Terrore. Raccapriccio. Disgusto. Pazzia. Era questo che sentiva, quando lo scheletro si avvicinava a lei.
Ma non era per lo scheletro.
Non era nemmeno perché le andava incontro.
Era per come si muoveva.
 
Il luogo non è definito, non sembra altro che un lungo corridoio semi-buio. Helen ne è al centro, anche se, considerando che non ne vede né l'inizio né la fine, non può dirlo con certezza. Si trova a metà del tratto che appare alla sua vista, che di sicuro però non è l'unico.
Lo sente. Avverte che lo spazio è molto più ampio.
Lo scheletro arriva quasi subito, senza darle il tempo di domandarsi dove si trovi.
Le appare di fronte, da quel punto che per lei è l'inizio del corridoio.
E si muove.
Si muove.
Helen trova incredibile la velocità a cui l'orrore può svilupparsi in un animo fino a quel momento apatico.
Lo scheletro non sembra avere molta forza, ciondola. Un braccio d'ossa appoggiato contro la parete, come per sospingersi, l'altro pendente verso il suolo. Trascina i piedi privi di carne sul pavimento, quasi senza sollevarli. A tratti, il teschio gli ricade sullo sterno di colpo, per poi rialzarsi un attimo dopo. E quelle orbite vuote la guardano e la cercano.
Helen urla e inizia a correre. Non è da lei scappare; trova un millesimo di secondo per rendersene conto anche se dorme, ma in questo caso non può proprio farne a  meno.
Corre velocemente, e non si stupisce del fatto che il corridoio sembri infinito.
È invece stupita dalla distanza tra lei e lo scheletro, che continua a diminuire. Non è rapido, la sua andatura è traballante e incerta, come può esserle così vicino? Eppure lo è sempre di più.
Helen, di tanto in tanto, mentre continua a correre, si volta a guardarlo. Lo scheletro prosegue nella sua tetra camminata e nei suoi movimenti agghiaccianti come in un rituale: un braccio contro il muro, l'altro rivolto al pavimento. Trascina i piedi. Il cranio continua a ricadergli in avanti.
Oddio. Oddio. Oddio. È questo  che Helen pensa in quel momento. Ma perché si muove in quel modo? Non potrebbe semplicemente correrle dietro?
Il corridoio continua a estendersi all'infinito, lo scheletro accorcia sempre più le distanze.
Poi all'improvviso le è addosso. Ha sentito le sua dita afferrarla (prova un brivido tremendo nel venirvi a contatto, per via di quei brandelli di pelle attaccati alle ossa). Helen si ritrova a terra, lo scheletro a ricoprire il suo corpo.
Ma non sarebbe corretto dire che questo l'abbia buttata a terra. Sembra le sia caduto addosso.
E ora è lì che giace.
Immobile.
E Helen grida sotto il suo peso
.
*
 
Helen rise a crepapelle anche dopo il secondo risveglio, persino a seguito del terzo e del quarto, ma al quinto smise di farlo. Perché quello stupido scheletro tornava tutte le notti? Cominciava a provare una strana sensazione: una sorta di inquietudine, anche se non ancora così definita. Era strano, tutto qui, ma la sua mente cominciava a ribellarsi e a domandarsi che cosa ci fosse sotto.
Sicuramente doveva esserci una spiegazione logica, e Helen decise che l'avrebbe trovata.
Non era il tipo da lasciarsi intimidire nemmeno nella vita reale, figurarsi per un sogno. Helen non sarebbe mai rimasta con le mani in mano nella speranza che arrivasse il principino a salvarla, anche perché, di sicuro, non c'era nulla da cui dover scappare davvero.
Non rideva più quando raggiungeva lo stato di veglia, ma quello scheletro che le faceva visita con ricorrenza la intrigava e incuriosiva.
Se doveva esserci un significato recondito, o forse inconscio, lei l'avrebbe portato alla luce.
Poteva essere anche un'ottima occasione per conoscere meglio se stessa. Le verità esplodono nei sogni.
Iniziò a informarsi verso l'ultima settimana del mese.
Oramai non pensava ad altro.
 
II
 
 OSSESSIONE
 
Helen ne era certa, fare lo stesso sogno ricorrente per due mesi interi, tutte le sante notti, non era indice di qualcosa di buono. Non andava bene per niente. Per quanto al risveglio smettesse di avere paura, quell'apparizione onirica doveva avere un significato, e doveva trattarsi di qualcosa di importante.
Non credeva a niente di sovrannaturale, quelle erano solo idiozie; non pensava certo che la morte le fosse alle calcagna, ma forse quello scheletro stava tentando di dirle qualcosa. Qualcosa su di lei, poco ma sicuro.
Aveva iniziato spulciando sul web le interpretazioni dei sogni. Benissimo, si era detta leggendo certe frasi fantasiose, non si sentiva smarrita, angosciata, né aveva bisogno di meditare.
Meditare era uno di quei termini che, nel suo vocabolario personale, restavano più che altro a prendere polvere. Solitamente Helen preferiva agire, per questo intendeva specializzarsi in medicina d'emergenza.
Non poteva dire di aver concluso alcun ciclo di vita, di aver esaurito un sentimento (piuttosto tendeva a non lasciarsi mai coinvolgere da essi), niente diminuzione di energia psichica o fisica, ancor meno avrebbe potuto ammettere come motivazione il crollo delle proprie speranze e ambizioni. Le ambizioni seguitavano a crescere in lei, e con molta forza. Non era una sprovveduta e non aveva intenzione di lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Non l'aveva mai fatto.
Se poi si arrivava a parlare di inconsce paure di malattie o di morte, proprio si era fuori strada. D'accordo che studiava malattie dalla mattina alla sera, ma l'ipocondria non rientrava proprio nei suoi piani.
Era anche vero, però, che utilizzare la parola studiare, in quel periodo, forse non era appropriato. Fino a due mesi prima (ebbene sì, si era dedicata allo studio anche durante le vacanze estive) era sempre sui libri, spinta dalla necessità di soddisfare le proprie ambizioni, ora invece le cose erano cambiate.
Aveva sempre la testa altrove, e non si concentrava più così tanto sull'università come prima. Aveva anche saltato diverse lezioni, cosa che non era mai avvenuta prima. E che non era affatto edificante all'inizio del nuovo anno accademico.
Aveva anche iniziato a distaccarsi dagli amici. Dalla famiglia l'aveva fatto da un po', dato che non aveva mai sopportato di vivere con i propri genitori. Si era fatta forza fino a quando anche Sarah era rimasta a casa, ma dopo il suo trasferimento a New York avvenuto due anni prima, non aveva più retto. Preferiva il dormitorio dell'università, sebbene non la entusiasmasse l'idea di una compagna di stanza. Ma era sempre meglio delle continue lagne e inutili preoccupazioni di sua madre della serie a che ora torni?
A Helen piaceva la libertà, anche perché non aveva bisogno della balia ventiquattro ore su ventiquattro. Lei era responsabile, e sapeva badare a se stessa.
Solitamente si sforzava di chiamare mammina e papino giusto una volta ogni settimana; da quando era iniziata la sua ossessione per lo scheletro del sogno, invece, era sempre stata la madre a mettersi in contatto con lei. Forse però non avevano notato troppo la differenza: Helen era distaccata con i genitori, ma in fondo lo era sempre stata.
Non valeva lo stesso per Sarah, ma in quel momento non le importava più di tanto. Quando avesse risolto quella faccenda avrebbe senz'altro avuto tempo per la sorella maggiore, che era tornata in città verso metà settembre. Era quasi novembre, eppure non l'aveva ancora incontrata. Si erano sentite qualche volta, ma Helen era stata rapida a concludere ogni telefonata. Persino a quel suo messaggio le aveva risposto con la prima frase che le era venuta in mente; a dire il vero non ricordava nemmeno di che cosa sua sorella stesse parlando, ma in quel frangente non se l'era nemmeno domandato. Anche se, dal tono che si captava dalla parole scritte da Sarah, doveva trattarsi di qualcosa di molto importante per lei. Qualcosa di cui Helen avrebbe dovuto essere al corrente, qualcosa di cui Sarah le aveva certamente parlato, ma lei era così presa dalla sua ossessione che l'aveva dimenticato. E non era da lei dimenticarsi di Sarah. Le voleva bene, anzi, la adorava, ma non poteva assolutamente distrarsi dall'immagine nel suo incubo. Non è cosa da tutti sognare la stessa cosa (scheletro o meno) per due mesi consecutivi, ogni notte. Helen continuava a ripetersi che non andava bene per niente.
Non era mai stata coinvolta tanto da qualcosa in vita sua, lei che da sempre era così controllata.
Ma il suo controllo ormai stava svanendo, e forse era questo a intimorirla di più. In fondo non si poteva avere paura di uno stupido scheletro.
Era la piovosa mattina del ventinove ottobre, e Helen si trovava in biblioteca; ma non a quella dell'università. Lì non voleva farsi vedere in quello stato, né aveva voglia di ritrovarsi tra quelle mura. Aveva bisogno di stare in un luogo che non la condizionasse  e, soprattutto, dove nessuno la conoscesse.
Era seduta al tavolo da sola. A dire il vero c'era ben poca affluenza al centro quella mattina, eppure Helen si sentiva come se mille sguardi fossero puntati su di lei, accompagnati da altrettante mani bramose tese in sua direzione. Era come sentirsi in trappola, braccata. Si spaventò realizzando che doveva essere quello l'effetto che provoca l'ossessione, di qualunque natura essa sia.
Deglutì per calmarsi, ma il tentativo sembrò non sortire un grande effetto. Era agitata, detestava ammetterlo, eppure lo era davvero.
Davanti a lei, appoggiato sul tavolo, un volume aperto con una grande immagine disegnata: ovviamente, si trattava dell'immagine di uno scheletro. Helen aveva già letto i paragrafi a esso relativi almeno una cinquantina di volte (parlavano della figura dello scheletro nella cultura gotica) senza riuscire a raccapezzarsi, e ormai ci aveva rinunciato. Piuttosto le faceva impressione il foglio che teneva a lato del libro aperto. Quel foglio su cui lei stessa stava piegata, tracciandovi a matita una copia del disegno che aveva guardato tanto a lungo.
Che cosa avrebbe fatto con quella riproduzione di uno stupido scheletro? Si ritrovò a domandarsi se alla fine ne avrebbe fatte copie a non finire, per poi appenderle al muro della sua stanza, come una brava malata mentale. Era terrorizzata da quel che stava diventando, perché lentamente andava tramutandosi in ciò che aveva sempre odiato. Ma aveva anche una terribile paura di addormentarsi, e di continuare a rivivere il proprio incubo.
Improvvisamente il cellulare trillò nella sua tasca, riportandola alla realtà. Da questo si accorse di essere sulla buona strada per dire addio alla propria stabilità mentale. Non era più presente: aveva lasciato attiva la suoneria del telefono, benché fosse espressamente vietato farlo in biblioteca.
Helen era sempre stata molto ligia al rispetto di questo genere di regole, ma probabilmente era troppo immersa nei suoi pensieri infestati dallo scheletro, per fare caso all'avviso posto in lettere maiuscole e cubitali all'ingresso della struttura.
Sospirando nel tentativo di non pensarci estrasse il cellulare dalla tasca. Il messaggio era di Sarah: Quando ci vediamo? Le domandava. Helen sbuffò più per il senso di colpa che per la stizza. Presto. Ora sono troppo impegnata con lo studio. Ti chiamo io appena posso. Le rispose. Lo fece il più velocemente possibile per non soffermarsi a pensare su quello che stava facendo. Si rese conto che quello era il primo periodo della sua vita in cui avesse mentito a sua sorella, e questo era un altro inequivocabile segno della sua ansia crescente. Le cose non andavano bene per niente. Neanche un po'.
Come fu svelta a scrivere il messaggio, lo fu altrettanto nel ricacciarsi il cellulare in tasca. Con espressione stanca e spossata fissò ora l'immagine dello scheletro riportata sul libro di fronte a sé, ora quella che lei stessa aveva tracciato sul foglio di carta, totalmente identica. Helen era sempre stata molto dotata nel disegno. Lo scheletro come simbolo di morte. Sussurrò una flebile voce nella sua testa. Helen sorrise tra sé e sé per l'assurdità della cosa: fino a due giorni prima aveva trovato ridicola quell'idea, né l'aveva presa in considerazione. Ma quella mattina, per la prima volta, quella possibilità la spaventò. E per una come lei, in fondo, spaventarsi era una cosa che faceva sorridere.
Improvvisamente si domandò se avrebbe avuto il tempo di incontrare Sarah prima che le capitasse qualcosa. La morte che l'afferrava nel sogno avrebbe potuto ben presto fare lo stesso nella realtà, in qualsiasi circostanza, in qualsiasi momento. Da sua sorella, il suo pensiero corse subito a cose più irreali e inquietanti: un condannato a morte provava quel che sentiva lei? Forse faceva sogni simili? L'idea le provocò un brivido. Improvvisamente si rese conto di sentirsi soffocare all'interno della biblioteca. Poteva accadere ovunque. Si disse. Anche lì dentro. Bastava che l'enorme libreria dai mille scaffali pieni di testi cedesse e le rovinasse addosso, ed era fatta. Concepì in quell'istante che non si sarebbe sentita al sicuro in nessun luogo e fu per questo che non sopportò più l'angoscia delle quattro mura.
Recuperando in tutta fretta la copia dello scheletro che aveva disegnato, e chiudendo di colpo il volume dov'era raffigurato l'originale, si alzò e corse fuori. Poco le importò della pioggia copiosa e del freddo non indifferente. Come possono interessare certe inezie a una persona ormai prossima alla dipartita? Tremando sia per il freddo che per la paura, Helen si mise a correre. Tra le sue mani, il foglio contenente il disegno si inzuppò a propria volta e ben presto divenne molle, come se fosse sul punto di sciogliersi. Helen lo teneva stretto, anche se ormai si stava disfacendo.
Si guardava intorno con sospetto, pensando che il suo scheletro potesse nascondersi ovunque, pronto a sferrare il suo attacco mortale e a portarla con sé. Sto per morire, mio Dio, sto per morire. Continuava a ripetersi senza riuscire a capire per quale motivo a tale pensiero le venisse da ridere.
Ma in fondo, Helen rideva di questa frase propostale dalla mente perché era certa che fosse vera, e realizzare un simile avvenimento tanto prossimo può portare soltanto alla risata o alle lacrime.
O alla risata tra le lacrime.
In effetti, Helen piangeva mentre rideva, come se improvvisamente le due parti di lei (quella dura e scettica e quella spaventata e ossessionata) fossero venute a contatto causando un'esplosione. Oppure un'enorme confusione. Le componenti di una e dell'altra si erano disfatte e mischiate tra loro, dando luogo a un bel disastro incomprensibile.
Helen attraversò la strada senza guardare. Il semaforo per i pedoni era verde, ma lei aveva sempre creduto che fosse una saggia idea controllare sempre, onde evitare spiacevoli conseguenze a causa di qualche pazzo. Quella volta non lo fece. Solo quando raggiunse il marciapiede opposto si accorse che evitare certi atti di prudenza era un'idea molto, ma molto stupida. Era come scrivere un bell'invito al suo scheletro e inviarglielo su di una preziosa carta da lettere, pregandolo di fare in fretta. Helen si disse che doveva recuperare un po' di lucidità, tentare di tornare in sé. Se davvero era condannata a morire presto, per lo meno non voleva essere lei l'artefice della propria fine, sarebbe stato controproducente. Helen doveva lottare contro la morte, non correre tra le sue braccia.
Scrollandosi di dosso l'acqua piovana e l'inquietudine (almeno con quest'ultima ci provò), riprese a muoversi con maggiore attenzione.
Era mattina, ma il cielo era così grigio di nuvole da rendere particolarmente oscuro l'ambiente circostante. Helen, con la mente sempre più avviata alla distruzione, iniziò a vedere minacce in ogni singolo essere vivente che le passava accanto.
Quando un cane randagio, zuppo a sua volta di pioggia, le fu vicino, lei si accostò al muro impaurita. Non aveva mai avuto paura dei cani prima d'allora, ma aveva creduto che potesse trattarsi di un animale idrofobo e che avrebbe potuto attaccarla. Il cane, invece, passò oltre senza nemmeno guardarla.
E quell'uomo dall'aria cupa che camminava con le mani in tasca? Perché quel cappello nero a coprirgli il viso? Perché quello strano mezzo sorriso disegnato in volto? Poteva essere pericoloso. Magari un serial killer alla ricerca della sua nuova vittima.
E quella donna dall'espressione arrabbiata? Era mora, e forse odiava le bionde come lei. Avrebbe anche potuto farle del male. Di cose inconcepibili per la loro violenza e insensatezza non se ne sentivano forse ogni giorno? Helen, se voleva salvarsi la vita, doveva diffidare di chiunque.
 
*
 
-Oddio, Helen, ma sei fradicia! Che ti è successo?- le domandò Gloria, la sua compagna di stanza, quando la vide varcare la soglia ed entrare in camera. Gloria era seduta al tavolo della zona condivisibile della stanza, i libri aperti davanti.
-Non ho ... non ho l'ombrello- balbettò Helen smarrita. Il mondo intorno a lei aveva assunto da qualche ora un aspetto ampiamente irreale; questo forse era a causa della sua ossessione, oppure della possibile febbre che la stava invadendo. D'altro canto, aveva camminato sotto la pioggia fino al tardo pomeriggio.
-Questo lo vedo- riprese Gloria perplessa e preoccupata. Si era alzata in piedi, aveva afferrato una coperta dal piccolo divano e si stava avvicinando a Helen per porgliela sulle spalle. Quando l'amica le fu vicina, Helen si ritrasse d'istinto, intimorita. Non poteva fidarsi di nessuno. Non doveva.
Anche Gloria si spaventò, ma solo per la reazione incomprensibile dell'altra.
-Helen, devi ...- tentò di cominciare, ma l'altra corse via, diretta verso la propria stanza privata, dove c'era il suo letto.
-No, lasciami! Lasciami!- urlò -Io devo...io vado a dormire- continuò sconvolta. Tentò di aprire la porta che divideva la zona comune dall'altra, ma le tremava la mano tanto che non riuscì ad afferrare il pomello. Gloria l'afferrò allora per le spalle, e Helen gridò. L'altra sobbalzò, ma non lasciò la presa.
-Helen devi toglierti questi vestiti bagnati, asciugarti, prendere un farmaco, e solo dopo andare a letto. Ma non puoi fare niente di tutto ciò, da sola- Gloria era tesa e visibilmente preoccupata. E perplessa.
-No ... io ... no- biascicò Helen, e sentì di morire di paura quando vide la compagna di stanza aprire la porta della sua stanza, sfilare la chiave dall'interno (Helen non chiudeva mai a chiave la camera, tranne quando dormiva e non voleva essere disturbata), richiudere la porta e bloccare la serratura da fuori.
-Ora penso io a te- fece Gloria decisa. Helen tremò a quelle parole. Forse la sua compagna di stanza era invidiosa dei suoi voti, della sua intraprendenza e dei suoi successi sia universitari che non (a Helen andava sempre tutto bene, era sempre brava in tutto). Forse aveva strane idee.
Non la sentì nemmeno quando sussurrò -Che cosa diavolo ti è preso in questo periodo? Stai andando fuori di testa-.
Helen pensava soltanto a quello che Gloria avrebbe potuto farle, e non erano pensieri piacevoli. Ma stava male e, alla fine, benché spaventata a morte, si lasciò condurre dall'amica verso la sua zona privata di stanza, sicura che lo scheletro l'avrebbe raggiunta a breve. Tremava come una foglia quando Gloria iniziò ad aiutarla a spogliarsi.
 
III
 
 INCONTRO CON L'OCCULTO
 
Ovviamente, Gloria non le fece alcunché. Si limitò ad aiutarla a svestirsi, le prestò degli indumenti caldi e puliti, le mise addosso una coperta, le diede del paracetamolo e le preparò una camomilla. Infine la fece stendere sul proprio letto e lasciò che si addormentasse.
Come sempre, Helen sognò nuovamente lo scheletro.
Passò tre giorni con la febbre, al termine dei quali ringraziò la sua compagna di stanza e si scusò con lei per il comportamento assurdo che aveva adottato quella prima sera. Le disse che aveva ricevuto una brutta notizia a proposito della famiglia, che per questo motivo era sconvolta ed era rimasta tutto il giorno sotto la pioggia, prendendosi l'influenza. Gloria sembrò capire e non le pose troppe domande. Le chiese soltanto se la questione in famiglia si fosse risolta o se fosse tanto grave. Helen aveva risposto che andava meglio, anche se al primo momento aveva temuto fosse qualcosa di peggio. Gloria si rassicurò alle sue parole. Helen era certa di averle dato un bello spavento con la sua scenetta da pazza, ma ora aveva soltanto fretta di togliersi di torno la sua apprensione. Doveva cavarsela da sola in quella situazione, e nessuno doveva essere coinvolto.
Solo dopo quei tre giorni aveva visto la risposta di Sarah al suo messaggio. Va bene. Le diceva concisa. Forse c'era rimasta male, anzi, sicuramente. E aveva tutte le sue buone ragioni perché così fosse, ma Helen aveva altre priorità al momento.
Si era resa conto di quanto fosse stata stupida e impulsiva nel credere che chiunque potesse star tramando per farle del male; in quel modo avrebbe soltanto finito per procurarsene da sola. E poi non era un pensiero plausibile.
Non che lo fosse quello che le era saltato in mente a seguito del suo primo risveglio senza febbre. Lo scheletro le si presentava ogni notte, senza tregua, e se l'interpretazione dei sogni non l'aveva aiutata, e lo stesso era valso per tutte le altre ricerche, forse doveva affidarsi a qualcuno.
Qualcuno esperto a proposito dell'occulto.
Helen aveva sempre riso di certe cose, trovandole patetiche oltre che assurde e comiche, ma aveva deciso di tentare il tutto per tutto per scoprire che cosa l'affliggesse nel profondo.
Non poteva credere di avere davvero la morte alle calcagna, sarebbe stata una soluzione troppo semplice. E inaccettabile.
Helen voleva continuare a vivere, e anche liberarsi della sua ossessione. Voleva tornare a essere la persona audace e forte di sempre.
Aveva trovato quel contatto su internet. Sogni ricorrenti? Ossessioni? Paura di perdere il controllo? E' arrivato il momento di incontrare Madame Luna Calante. Tutto troverà senso tra i misteri dell'occulto. Helen non aveva potuto crederci quando si era vista prendere un blocco di carta e segnarvi sopra numero di telefono e indirizzo. Sulla sua scrivania, c'era anche il foglio compromesso dalla pioggia sul quale aveva tracciato una riproduzione dello scheletro. Gloria l'aveva riposto nella sua stanza dopo averla messa a letto, tre giorni prima e, a giudicare da com'era piegato, non l'aveva aperto. Helen l'aveva fatto in quel momento: la carta si era bucata in più punti per via del bagnato e un angolo era andato perduto, ma per il resto il foglio era integro. Soprattutto, lo era il disegno. Lo scheletro era ancora perfetto, i tratti della grafite erano rimasti come appena fatti. Helen si era domandata se non potesse trattarsi di un segno.
Subito il giorno seguente aveva telefonato al numero di Madame Luna Calante e aveva preso un appuntamento con lei per la settimana successiva. La voce che le aveva risposto al telefono era calma e pacata, vellutata e soave, eppure le aveva dato i brividi. Quando quell'incubo fosse finito, probabilmente ci avrebbe riso su, come era solita fare normalmente.
Per tutta la settimana, lo scheletro aveva continuato a infestare le sue notti. Di giorno, invece, non faceva altro che pensare al suo prossimo incontro con la chiromante. Immaginava una figura vestita di nero, oppure di rosso, dalle lunghe unghie smaltate (anch'esse degli stessi colori del probabile abito) e dagli occhi penetranti. Si domandava che cosa avrebbe provato in sua presenza, se finalmente qualcosa sarebbe venuto alla luce. Nel contempo, però, si malediceva anche, perché non poteva credere di essere giunta a prendere in considerazione il sovrannaturale; lei che non ci aveva mai creduto. Eppure, la vita può riservare infinite sorprese, a seconda dei casi.
Si ripromise di non giudicare più nessuno a prescindere dalle sue idee formulate a mente fredda, perché quando si è sotto pressione, tutto assume diverse forme. E uno scheletro che tornava tutte le notti, non era una forma rassicurante.
Comunque fosse, durante quell'ultima settimana, si era sforzata di riprendere a frequentare le lezioni. Non che vi prestasse troppa attenzione; generalmente fingeva di prendere appunti e di seguire la spiegazione, ma almeno la sua presenza non avrebbe fatto sorgere strani sospetti tra i compagni di corso o i professori. Quando fosse arrivato il momento di sostenere un esame, ci avrebbe pensato.
In quei giorni aveva ricevuto un paio di telefonate da parte di sua madre, preoccupata ma rassegnata per il fatto di non sentirla mai. Helen si era sforzata di rassicurarla perché non le desse noia. Non voleva assolutamente che sua madre si accorgesse che c'era qualcosa che non andava, altrimenti sarebbe stata finita. Le aveva promesso che appena avesse potuto sarebbe tornata a casa. Al contrario non aveva più avuto notizie di Sarah e, per questo, era stata segretamente grata a sua sorella. Quando fosse stato tutto passato sarebbe tornata da lei; ma quello non era il momento.
Infine, il giorno prestabilito per l'incontro con la cartomante giunse. Helen si armò di coraggio e di fede e raggiunse il suo covo; o il suo ufficio, come lo chiamava Madame Luna Calante, dandosi così un'aria più professionale. Helen dovette attraversare buona parte della città per raggiungerlo; sui mezzi pubblici era arrivata a provare un tale stato d'angoscia che non riusciva assolutamente a restare ferma e seduta. Aveva addirittura notato qualcuno che la guardava basito, mentre lei continuava a sospirare e a spostare il peso nervosamente da una gamba all'altra, passandosi anche continuamente una mano tra i capelli. A tratti si mordeva anche le unghie e le pellicine.
Doveva ammettere con se stessa di aver definitivamente dato l'addio al suo autocontrollo, e la sensazione non era piacevole. Si diceva soltanto che voleva che quell'incubo finisse, comunque dovesse andare. Era stufa di provare quell'ansia.
Infine, nonostante il viaggio fino a destinazione le fosse sembrato infinito, raggiunse l'ufficio di Madame Luna Calante.
Aveva immaginato un luogo dall'aspetto molto più esoterico e sinistro, e invece si stupì dell'aria quasi naturale che si respirava in quella stanza. Il luogo si trovava al secondo piano di un palazzo vecchio, ma non fatiscente, e la sala d'attesa poteva addirittura dirsi accogliente. Le luci soffuse erano rilassanti, l'odore d'incenso piacevole e non soffocante. Non erano presenti strani simboli dal dubbio significato, ma soltanto delle poltrone in simil velluto viola e un basso tavolino con degli opuscoli sul tema dell'occulto sparsi su di esso. Le pesanti tende rosse erano chiuse, ma questo non era un particolare che infastidisse Helen. Anche perché, al contrario, la luce del sole avrebbe compromesso l'atmosfera creata da quella artificiale, flebile e avvolgente.
Per ingannare il tempo, Helen sollevò dalla superficie del tavolo uno degli opuscoli. Il suo titolo era Il potere segreto della mente. Una frase del genere non solo un tempo non l'avrebbe mai impressionata, ma l'avrebbe anche spinta ad accartocciare l'opuscolo e a lanciarselo alle spalle. Invece quella volta lesse tutto dall'inizio alla fine, e con molto interesse. Fu proprio quando raggiunse l'ultima frase che, come se fosse stata spinta da un tempismo che andasse oltre la semplice casualità, Madame Luna Calante la chiamò. Helen cacciò nella borsa l'opuscolo e si alzò in piedi.
Madame Luna Calante aprì la porta del suo studio e la invitò a entrare. L'odore d'incenso si fece più forte quando Helen oltrepassò la porta. Eppure se ne sentiva avvolta.
Su invito della chiromante, Helen si sedette al tavolo rotondo coperto da una lunga tovaglia verde, che recava su di sé tre candele accese e un mazzo di carte per i tarocchi voltate al contrario. Sul retro delle carte era raffigurato un rovo che formava dei circoli intorno a un sole e a una luna.
Helen si impose di ritrovare la compostezza (e con essa la dignità) e restò immobile a osservare Madame Luna Calante mentre questa prendeva posto di fronte a lei, sedendosi con grazia. Al contrario di ciò che aveva pensato, la chiromante non era vestita né di nero né di rosso, ma di azzurro, e le sue unghie erano candide. I capelli erano di un biondo leggermente più scuro di quello di Helen. Gli occhi scuri erano sicuramente penetranti, ma non suggestivi. 
La chiromante sorrise a Helen come per incoraggiarla. Helen si sentiva fuori posto in quel luogo che non aveva mai fatto per lei, ma si disse che, una volta per tutte, doveva trovare un senso a quel che stava succedendo per non uscire pazza.
Con un sospiro, rispose al sorriso di Madame Luna Calante.
-Eccoci, cara- cominciò questa dando riprova della sua voce soave e carezzevole -parlami del problema che ti affligge, vedrai che insieme troveremo un significato e niente sarà più così buio- proseguì sporgendosi sul tavolo e prendendo tra le sue una delle mani che Helen aveva appoggiato al bordo del tavolo. Così Helen si fece forza, e le raccontò del suo sogno che ricorreva da due mesi. Era la prima volta che ne parlava con qualcuno ad alta voce e, se da un lato l'affare la faceva sentire a disagio, dall'altro le diede un certo senso di serenità, perché era come liberarsi poco a poco di un enorme peso.
La chiromante ascoltò attentamente senza scomporsi e ogni tanto annuiva. Si espresse soltanto quando Helen terminò il suo racconto: -Non preoccuparti, cara- le disse in tono amichevole -la situazione è difficile e misteriosa, ma noi saremo in grado di districarla e farvi sopra luce. Ora consultiamo le carte- e, mentre lo affermava, prese in mano i tarocchi e iniziò a mischiarli tra di loro.
Helen si domandò per quale motivo Madame Luna Calante parlasse sempre al plurale, quasi lavorasse con qualcun altro, oppure come se anche lei fosse implicata nelle arti occulte tanto da dover avere la sua parte nella scoperta dell'arcano.
Helen voleva soltanto che le fosse detto da dove venisse quello scheletro e che cosa volesse, non diventare un'esperta di stregoneria o di qualunque altra cosa fosse.
Convincendosi a non pensarci osservò Madame Luna Calante estrarre la prima carta dal mazzo.
Il Carro. Lesse Helen. E la scritta era rivolta verso di lei, questo significava che la carta era al rovescio. Non conosceva granché di tarocchi, per l'appunto aveva sempre trovato stupide e patetiche certe cose, ma per sentito dire sapeva che alcune carte, se pescate al contrario, potevano assumere significati negativi. Helen osservò la cartomante con sguardo interrogativo. Il volto di quest'ultima non tradiva la minima emozione.
-Che significa?- domandò la ragazza tentando di apparire tranquilla. A dire la verità, però, non lo era affatto.
-Il Carro rovesciato non deve preoccuparti, cara- iniziò serena Madame Luna Calante -il suo significato è negativo, ma non c'è motivo di temere-. Helen la guardò senza capire. Da un lato provò l'impulso di andarsene e lasciare a metà quella seduta, che tanto le era estranea, ma non riusciva per niente ad alzarsi dalla sedia, né a staccare gli occhi dalla carta raffigurante il Carro.
-Questa carta mostra semplicemente la difficoltà di superare una situazione complessa, unita alla perdita del controllo- spiegò la chiromante -il tuo sogno ricorrente ti ha fatto perdere i tuoi punti fermi, ti ha messo in difficoltà, portandoti in un modo troppo oscuro per te- continuò. Helen annuì, sicura di aver compreso dove volesse arrivare.
-Ma il Carro ci sta anche dicendo che questa situazione va affrontata, anche se non sarà facile- e, detto questo, la donna in abito azzurro estrasse un'altra carta dal mazzo.
Ancora una volta questa era rovesciata, infatti Helen ne lesse il nome sul fondo che le si mostrava proprio sotto il naso. Rappresentava un vecchio che reggeva con una mano una lanterna e con l'altra un lungo bastone. Si chiamava L'Eremita.
-Anche questa è negativa?- chiese Helen, che cominciava a divenire insofferente e apprensiva. Le sembrava che quella seduta si stesse svolgendo troppo lentamente e, soprattutto, che non avrebbe portato a niente.
-Può darsi, cara-.
Quel cara stava cominciando a darle sui nervi.
-Questa carta è una chiara continuazione di quella che ci si è mostrata in precedenza. Il loro significato è ancora vago, ma tutto indica che dovrai affrontare delle prove, e che non sarà facile trovare una soluzione, potrebbe volerci del tempo, e tu dovrai avere pazienza e perseveranza- ancora una volta, il tono di Madame Luna Calante era molto pacato e leggero, quasi apatico.
Helen stava cominciando a perdere la pazienza, ma sopportò. Uscirono altre tre carte dopo il Carro e l'Eremita, il cui significato le era sempre oscuro, ma tentò di star dietro alle spiegazioni dell'esperta. Si trattò di quella del Matto, che si mostrò per il verso giusto, e che, stando all'interpretazione di Madame Luna Calante, stava a significare che avrebbe dovuto affrontare gli avvenimenti per quello che erano, con più leggerezza e serenità. La carta indicava chiaramente che tutto si sarebbe potuto risolvere, stava soltanto a Helen scegliere la via giusta per far fronte alle difficoltà.
Seguì L'appeso, che indicava il prossimo arrivo di avvenimenti importanti, e poi la Luna. Anche questa carta fu estratta dal verso giusto, ma pareva che, in questo caso, la sua positività subisse dei danni anziché esserne esente. La Luna diritta indicava una realtà falsa, sotto la quale scavare per raggiungere la verità, che avrebbe potuto non essere rosea, e crearle delle difficoltà. Inoltre, la Luna indicava palesemente anche l'illusione e la notte, luoghi onirici e irreali dove probabilmente questa verità risiedeva.
La chiromante disse a Helen che si accingeva quindi a estrasse l'ultima carta dal mazzo. Helen non si sorprese, ma sobbalzò comunque, quando le fu mostrata la carta della Morte. Non tanto per quella parola, che però lesse sottosopra (indice che la carta era uscita dritta), ma per la figura. Gli scheletri avevano iniziato a starle veramente odiosi, e non ne sopportava più la visione. Le sembrava che la perseguitassero.
-La carta della Morte?- domandò fingendosi sorpresa. -Significa mutamento. Qualcosa di nuovo sta sorgendo all'orizzonte, cara. E dovrai impegnarti per analizzarlo e affrontarlo- fu la vaga risposta di Madame Luna Calante.
A Helen la cosa proprio non andava giù. No, non funzionava.
-Non mi sembra che le carte siano molto precise, io vorrei capire l'origine del mio sogno ricorrente, non perdermi in un mucchio di frasi assurde sui cambiamenti e sui carri capovolti. Insomma, sto cercando di venirne a capo, non di finire più confusa di prima- esclamò con stizza, e quasi si alzò in piedi.
Madame Luna Calante le intimò tranquillamente di tornare a sedersi, di rilassarsi, promettendole che le avrebbe spiegato ogni cosa. Helen fece un profondo respiro e si impose si riprendere il controllo. Solo per cinque minuti, se non fosse saltato fuori nulla di utile se ne sarebbe andata e, perché no, avrebbe potuto fare un po' di casino nello studio della chiromante per lasciare un segno del suo infuriato passaggio.
-Quindi?- sbottò impaziente.
-Le carte sono misteriose, è vero, ma analizzandole la situazione si fa molto più cristallina, cara-.
Chiunque, da quel momento in avanti, l'avesse chiamata cara sarebbe certamente incorso nella sua ira.
Helen sollevò le sopracciglia come a voler incitare la chiromante a proseguire.
-Dovrai lottare. C'è qualcosa che ti insegue. Non per farti del male, ma per rivelarti un segreto, o per mostrarti una via che, da sola, non riesci a prendere in considerazione- Helen si rilassò a quelle parole, e cominciò anche a ritrovare l'interesse per la questione.
-È  il potere della tua mente che agisce e, si sa, la mente è molto più forte quando dormiamo- proseguì Madame Luna Calante. Helen ricordò l'opuscolo che aveva infilato nella borsa, intitolato appunto Il potere segreto della mente.
-E dove posso incontrare questo qualcosa che mi insegue? Come faccio a trovarlo?-
-Si nasconde nella notte. Devi andargli incontro da sveglia, e sarà lui a guidarti. Segui gli indizi del tuo sogno e lo troverai. Purtroppo non vedo altro-.
Helen immagazzinò quelle parole.
Cinque minuti dopo stava già lasciando lo studio di Madame Luna Calante, lanciando un'ultima occhiata alla carta della Morte ancora posata sul tavolo. Lo scheletro del suo sogno, lo scheletro che, forse, la cercava per rivelarle qualcosa.
Aveva già preso la sua decisione quando salutò la chiromante, e non si pentiva di avervi fatto visita.
 
IV
 
 NOTTI FREDDE, BUIE, SOLITARIE ... E INSANE
 
Helen quella sera andò a dormire tranquilla.
Sapeva che avrebbe sognato ancora lo scheletro, ma non voleva darsi pensiero. Non quella notte. Aveva preso la sua decisione, e da donna sicura qual era, era certa che l'avrebbe portata fino in fondo, affrontando le sue paure e i suoi demoni pur di venire a conoscenza della verità, ma voleva concedersi un ultima notte di riposo e di pace. Nel sonno avrebbe visto sempre la stessa immagine, ma avrebbe comunque dormito, e questo, prima di cominciare, era l'importante.
La mattina seguente si sentiva pronta, ma non era certamente quello il momento di agire. Perché qualunque cosa rappresentasse quello scheletro, lui viveva nella notte, ed era lì che l'avrebbe incontrato, bastava lasciarsi condurre.
La chiromante a cui si era affidata il giorno precedente le aveva detto di seguire gli indizi che il potere della sua mente le proponeva. Ma a quali segnali poteva affidarsi? Se l'era domandato solo per un secondo, nella stanza dedicata all'occulto. Si era risposta subito.
Tutto ciò che vedesse durante il sonno era un corridoio infinito e uno scheletro che le andava incontro. Lo scheletro. Un simbolo di morte? Era possibile, ma forse non era necessariamente pericoloso. Le carte avevano parlato chiaro, ci sarebbero stati dei cambiamenti. Forse si trattava, per l'appunto, solo di un indizio. Un indizio che le suggerisse dove cercare, dove dirigersi. Perché doveva incontrarlo, di questo ormai era sicura. Lui la stava chiamando, anche se Helen non sapeva per dirle che cosa.
Ed era uno soltanto il luogo che le era venuto in mente per trovarlo; l'unico che, con gli scheletri, potesse avere qualcosa a che fare.
Vi si avventurò la sera appena successiva al suo incontro con Madame Luna Calante
Quel giorno si era sforzata di presentarsi in facoltà e di seguire le lezioni, ma in realtà aveva continuamente pensato a tutt'altro. E aveva riletto più volte quell'opuscolo. Il potere segreto della mente. Helen era sorpresa e attratta dalla vastità di questo potere, e dalle sue capacità.
Sperava soltanto di essere in grado di liberarlo a dovere. Lui era lì con lei, la chiamava, e voleva mostrarle qualcosa.
Aveva portato con sé soltanto una torcia, che aveva nascosto dentro un marsupio che si era legata in vita, per il resto voleva affidarsi soltanto alle forze che la circondavano.
Entrò in quel luogo di morte che era pomeriggio e c’era ancora un po’ di luce. Camminò fingendosi tranquilla e noncurante, con il capo chino e le mani in tasca, e simulò di star cercando il ricordo di una persona a lei cara.
In realtà pensava soltanto a quel che sarebbe capitato quella notte. Lui sarebbe apparso subito? Forse avrebbe dovuto pazientare, così come suggerivano le carte di Madame Luna Calante.
In ogni caso, Helen si ripromise che non si sarebbe data per vinta, non finché il suo scheletro non avesse deciso di uscire finalmente allo scoperto.
E quale luogo migliore per auspicare l’arrivo di un simbolo tanto oscuro, se non il cimitero? Helen si domandò se lo scheletro la stesse già osservando, magari nascosto dietro una delle lapidi.
Trascorse quel pomeriggio come in una sorta d’irrealtà, muovendosi come un’ombra tra le pietre erette per i morti, allontanandosi sempre più dall’uscita. Osservò tanta gente raggiungere le tombe dei propri cari, porvi accanto dei fiori, recitare una preghiera, e poi andarsene.
Helen realizzò che in quel cimitero erano sepolti i suoi nonni, ma non volle andare a far loro visita.
Il suo scopo, quella volta, era un altro, e non c’era niente che importasse di più.
Fu per questo che si accovacciò nelle vicinanze di un mausoleo sperando di non essere vista, quando ormai cominciava a fare buio e i cancelli stavano per essere chiusi. Stava iniziando a fare anche davvero freddo, ma Helen non volle curarsene.
Osservò di soppiatto, raggomitolata su se stessa, il custode che perlustrava la zona per scovare eventuali intrusi, ma lei si era nascosta sufficientemente bene e non fu notata. Quando la luce della torcia dell'addetto si fu allontanata del tutto, Helen accese la sua.
Aveva il respiro accelerato, le mani gelide e il cuore a mille, ma si sentiva abbastanza forte da affrontare le proprie paure. Nel silenzio irreale dei morti, iniziò a puntare la sua unica fonte di luce intorno a sé, in nessun luogo definito.
Davanti, a destra e a sinistra, poi si voltò e illuminò la porzione di cimitero alle sue spalle. Di nuovo a destra e a sinistra.
Niente.
Decisa, scelse di muoversi. Doveva perlustrare ogni angolo: di certo lui l'aspettava, ma non le sarebbe apparso da un momento all'altro come per magia, come faceva nel sogno. Non poteva essere tutto così semplice.
Per quanto si dicesse sicura, il suo passo era leggermente incerto mentre si muoveva. Teneva la torcia bassa, e la spostava da un lato e dall'altro, cercando di far penetrare la sua luce anche negli angoli, senza lasciarsene scappare neanche uno.
Ancora niente.
Helen non si perse d'animo, e proseguì.
Giunse infine improvviso il rumore che la fece sussultare (e quasi gridare). Si riscoprì tremante dopo aver realizzato che si trattava soltanto del gracchiare di un corvo. Non poteva permettersi di spaventarsi per un nonnulla. Si disse cercando di essere severa con se stessa, doveva mantenere il suo sangue freddo. Non che le ci sarebbe voluto poi molto per conseguirlo, pensò con una punta di doloroso sarcasmo, date le basse temperature. D'altro canto, ormai era novembre.
In effetti, le dita che stringevano la torcia iniziavano a dolerle non poco.
Ma Helen sopportò, più perché volesse fu perché doveva farlo. Non si sarebbe data pace fino a quando non avesse trovato la figura che la chiamava.
Ma quella notte non trovò nulla; aveva vagato fino all'alba tra le lapidi, sicura di aver controllato più e più volte tutti gli angoli, ma non aveva avuto successo. Poco male, aveva pensato per incoraggiarsi, sapeva di dover avere pazienza. Fu per questo che tornò la notte seguente.
Ancora una volta portò la sua fedele torcia con sé.
Di nuovo fu certa di aver ispezionato ogni spazio, perfino il più recondito ma, ancora una volta, l'alba giunse senza che dello scheletro avesse trovato traccia.
La terza notte si domandò se stesse cercando la figura giusta; forse l'immagine nel suo sogno era soltanto un simbolo che le indicava dove cercare, ma non doveva aspettarsi davvero un'apparizione del genere. In effetti, per quanto stesse perdendo la propria lucidità, riuscì a comprendere che non sembrava affatto facile che uno scheletro saltasse fuori dal nulla ciondolando sulle proprie ossa. Come invece faceva nel sogno.
Ma sogno e realtà, per quanto correlati, restavano due mondi distinti. Il potere segreto della mente non era semplice da interpretare, per questo doveva sforzarsi di vedere oltre l'immagine fisica che mentre dormiva era tanto nitida.
Eppure era certa di trovarsi nel posto giusto.
Fu per questo che, tremando vistosamente per il freddo (oramai erano tre notti che trascorreva ore all'aperto), iniziò a leggere uno per uno i nomi riportati sulle lapidi. Era alla disperata ricerca di un altro indizio, e da qualche parte doveva saltar fuori.
Anche perché ormai stava impazzendo.
Sussurrava decise imprecazioni tra i denti mentre la sua mano tremante scandagliava i monumenti mortuari che incontrava sulla via.
Tutti nomi vuoti, sconosciuti, freddi e distanti. Incappò nelle tombe dei nonni, ma non vi fece più di tanto caso. Non cercava un membro della sua famiglia, ma qualcosa di oscuro e nascosto. Non sapeva esattamente che cosa stesse cercando, ma era certa che non avrebbe avuto dubbi, qualora la soluzione le si fosse parata davanti agli occhi.
Eppure di questa soluzione, non vi fu nemmeno l'ombra né quella notte, né le tre successive.
Oramai Helen non dormiva da quasi una settimana. Una settimana senza che vedesse lo scheletro. Una settimana senza trovarlo.
Eppure doveva; doveva assolutamente. Lui doveva parlarle.
Stava cominciando a vedere tutto nero anche di giorno. Dopo quella settimana di follia, decise che l'università poteva aspettare per un po', ed essere tralasciata. Non solo non ci pensava, ma non le interessava affatto. Non considerava più lo studio o le sue ambizioni, solo la presenza che la chiamava a sé. Eppure non sapeva più che cosa stesse cercando.
La notte che seguì fu più fredda delle precedenti: non aveva piovuto, ma quel giorno il cielo era rimasto sempre coperto, e una pesante foschia si era abbattuta sulla città rendendo flebile la visibilità. Helen aveva cominciato a vedere storpiati i volti delle persone normali, che sembravano aver assunto le sembianze di spettri inquietanti. Tentò di convincersi che la causa di questo strano fenomeno era la nebbia, e le sue notti insonni sicuramente avevano contribuito, ma dentro di sé cominciava ad avvertire che c'era qualcosa in più.
Forse lo scheletro, quella presenza sinistra che l'aveva guidata fino al cimitero, era entrato in lei senza che Helen avesse avuto modo di accorgersene. Forse, quei cambiamenti di cui avevano parlato i tarocchi, riguardavano proprio questo.
La verità era che Helen non sapeva più che cosa aspettarsi, né che cosa cercare.
Pensava soltanto alla notte, luogo selvaggio e onirico dove lui continuava a nascondersi.
Non aveva più considerato nessuno di quelli che le stavano intorno: né i suoi genitori, né sua sorella, né la compagna di stanza o gli altri amici. Per lei esisteva soltanto il regno dei morti; i vivi sembravano far parte di un altro pianeta.
Quella sera, Helen tremava di freddo già prima di varcare il cancello del cimitero. Tossiva frequentemente e si sentiva stordita, ma non le importava affatto. Dove sei? Continuava a pensare soltanto. Dove sei?
Con la sua fedele torcia stretta nel pugno si avventurò ancora una volta tra i meandri dell'oscurità, nuovamente alla ricerca di ciò che si occultava ai suoi occhi. Si faceva luce da ogni lato, ma allo stesso tempo si addentrava sempre più tra le ombre e ne veniva risucchiata.
-Ho atteso abbastanza, ormai. Fatti vedere!- esclamò stizzita parlando piano e con la voce tremante. Eppure non aveva più paura, perché la follia può portare anche a questo.
Le prime ore di quella notte, però, com'era avvenuto fino ad allora, non portarono a niente.
Il suo respiro accelerato si condensava in spesse nuvole di vapore, le dita si ghiacciavano. A dire la verità, non si sentiva più i piedi.
Fu per questo che a un certo punto, stanca, sconvolta, spossata e dolorante, si sedette ai piedi di una lapide. Si strinse le ginocchia al petto nel tentativo di scaldarsi ma, dopo tutto il freddo che le era entrato nelle ossa, procurarsi calore sembrava impossibile.
Piagnucolava tra sé e sé, come non aveva mai fatto prima d'allora. Si dondolava avanti e indietro e la torcia, ancora stretta nella sua mano, faceva correre la sua luce avanti e indietro, come a simulare il movimento di un'altalena.
Un'altalena che oscilli tra la sanità mentale e la follia.
-Fatti vedere, dannazione! Dove sei?- continuava a ripetere Helen sull'orlo delle lacrime. Si sentiva come una bambina piccola molto vicina a sperimentare un attacco di panico. Avrebbe voluto avere con sé qualcosa di morbido da stringere, qualcosa che la facesse sentire più al sicuro e non in trappola, non così sola. Ma c'erano soltanto le sue ginocchia da tenere strette a sé. E improvvisamente Helen si rese conto che queste si erano fatte più magre. Sapeva che avrebbe dovuto provare un senso d'orrore, ma non fu così. Respirando affannosamente, tentando di uscire dal suo stato di irrealtà, si passò la punta delle dita sulle rotule sporgenti. Aveva mangiato pochissimo in quei giorni, giusto il necessario per mantenersi in vita, per il resto, l'appetito le era sempre mancato.
-Sei in me? Mio Dio, sei in me?- si ritrovò a domandare al nulla, in tono lamentoso. Intanto continuava a dondolarsi; la sua torcia continuava il suo gioco di luce a metà tra la vita e il mondo dei pazzi.
-Perché non mi rispondi? Rispondi!- proruppe Helen alzando finalmente la voce. Perché quel mostro l'aveva chiamata tanto insistentemente, se poi non aveva intenzione di uscire allo scoperto? Fu così che crollò. Senza poterne più fare a meno, iniziò a piangere. I suoi erano i singhiozzi spaventati di una bambina che si sia svegliata al buio e voglia la mamma. Ma ormai, Helen viveva soltanto circondata dal buio, compreso quello che le albergava nella mente.
Senza rendersene conto si portò il pollice alle labbra e iniziò a succhiarselo. Una ciocca di capelli biondi le cadde davanti al viso, mostrandosi crespa e appiccicaticcia. Era una settimana che non si lavava i capelli, e il tempo umido di quei giorni glieli stava rovinando.
Ma Helen non se ne curò, come ormai non si curava più di niente. Come ormai non si curava più nemmeno di se stessa.
Continuando a singhiozzare, e sentendosi avvolgere sempre più da una crudele oscurità che, prima d'allora, non le aveva mai fatto paura, Helen continuò a ripetere frasi sconnesse fino all'alba, quando alla fine se ne andò, eludendo ancora una volta i controlli.
Voleva soltanto che lui si mostrasse. Voleva soltanto questo. Perciò non avrebbe demorso.
Infatti tornò la sera successiva, e anche quelle che seguirono. Non trovò mai niente, ma non si diede per vinta. Ricordava che le carte avevano predetto che, scoprire la verità, non sarebbe stato facile.
Oramai erano passate tre settimane dalla sua prima visita al cimitero.
Aveva tentato di rimettersi in sesto, anche se soltanto per piccole cose: mangiava un po' meglio, si faceva regolarmente la doccia, e di giorno cercava di dormire qualche ora (sempre facendo lo stesso sogno), ma non era tornata a frequentare l'università, per quella ci sarebbe stato tempo quando quell'incubo fosse finito. Si premurava anche di evitare scrupolosamente la sua compagna di stanza; infatti, Helen entrava in camera soltanto quando Gloria non c'era e si chiudeva subito dentro. Di solito approfittava dei momenti in cui l'amica si trovava a lezione per tornare a dormire o a rifocillarsi. Aveva trovato dei suoi biglietti sulla scrivania della zona comune. Gloria era preoccupata per lei, ma Helen non si era premurata di risponderle. Non le lasciò nemmeno due righe, tanto per tranquillizzarla.
La sua mente ormai viveva altrove.
E quella notte, dopo tre settimane di follia, aveva deciso che sarebbe riuscita ad abbattere i muri che la separavano da quell'altrove. Sapeva che non avrebbe retto ancora per molto, per questo doveva finire tutto.
Comunque dovesse finire.
Questa volta, si preparò per combattere il freddo. Per fortuna non le era ancora venuta la febbre, ma continuava ad avere quella brutta tosse, e Helen voleva evitare di essere costretta a letto. Dunque indossò i guanti, la sciarpa e un cappello di lana, oltre a un pesante cappotto. Questa volta lasciò in stanza il marsupio e preparò uno zaino, dove inserì la solita torcia (e delle batterie di riserva, prima che la luce l'avesse abbandonata nel bel mezzo della notte), un termos con del caffè caldo e una coperta di plaid.
Helen si sentiva pronta, e più sicura che mai.
Ormai non entrava più al cimitero dall'ingresso principale. Era sicura che, così facendo, avrebbe attirato l'attenzione di uno dei custodi, perché nessuno va a visitare la tomba dei propri cari tutti i santi giorni.
Aveva trovato una sorta di passaggio segreto che consentiva di introdurvisi all'interno trovandosi in uno degli angoli più remoti del vasto spazio, e quello era perfetto per lei.
Così facendo, non fu costretta a recarsi nel solito luogo che custodiva le sue notti già nel tardo pomeriggio. Fu lì solo verso mezzanotte.  
Quella notte non avrebbe ammesso un altro buco nell'acqua; avrebbe dovuto trovarlo.
Non si mise però a cercarlo forsennatamente, come aveva fatto nelle settimane precedenti. Voleva conservare le energie e la serenità; voleva che fosse lui ad andare da lei. Era così che doveva essere.
Perciò si limitò a sedersi ai piedi di una vecchia lapide (era davvero vecchia, la data di morte del malcapitato risaliva al 1916) e, dopo aver estratto il plaid dallo zaino, se lo pose sulle spalle. Tirò fuori anche la torcia, ma per il momento non l'accese.
-Sono qui, mi hai sentito? Sono qui!- fece ad alta voce, ma senza urlare. Voleva che lui, e soltanto lui, la sentisse. -Questa notte non mi sfuggirai- aggiunse poi rivolgendosi più a se stessa, questa volta.
Trascorsero così la prima ora, la seconda e la terza. Finalmente Helen si era decisa a portarsi dietro un orologio dal display luminoso, di modo da non dover essere costretta a riprendere la cognizione del tempo soltanto grazie al sorgere del sole.
Le venne nuovamente voglia di piangere (l'aveva fatto parecchie volte durante le notti già trascorse) quando notò l'ora, e la totale assenza di segnali che ancora le si mostrava alla vista, ma si impose di mantenere la calma. Lui non si sarebbe mai fatto vedere, se lei non fosse stata presente e lucida con la testa.
Fu dopo circa mezzora che sentì quel rumore. Sembrava un suono di passi, ma era attutito da qualcosa. Passi sulle foglie cadute dagli alberi.
In silenzio si alzò e seguì la chiamata. Era certa che fosse giunto il momento, ne era pienamente sicura.
Ovviamente, portò la torcia con sé. Si era tanto abituata all'oscurità di quella notte che, quando l'accese, la luce le fece dolere gli occhi come se d'improvviso le forse apparso davanti il sole di mezzogiorno.
Con passo deciso, proseguì.
A propria volta stava calpestando le foglie cadute dagli alberi, ma questo non la distolse da quel suono che udiva tanto chiaramente e che non sembrava né avvicinarsi né allontanarsi. Era come se fosse lì. Era lì.
Di colpo si fermò sui suoi passi. Girò su se stessa, puntando la torcia in ogni direzione. Niente.
Eppure sentiva calpestare le foglie.
Tentò di calmare il respiro che via via si faceva più veloce, intanto seguitava a girare in tondo, sempre facendo attenzione alla porzione di spazio che illuminava di volta in volta.
Quel suono era così nitido.
Dove sei? Dove sei? Dove sei? Continuava a ripeterlo nella mente, sicura che lui potesse sentirla. E la sua voce mentale a tratti sovrastava, e a tratti veniva sovrastata, da quel rumore di foglie.
Stava ancora girando su se stessa, quando si accorse che stava immaginando tutto, che quel suono era solo nella sua testa.
Oh no. No. No. No. Pensò disperata. Non voleva impazzire. Non voleva finire i suoi giorni alla ricerca di uno spettro che non si mostrava.
E forse, il suo scopo era solo quello.
-Se non vuoi farti vedere, allora lasciami in pace, hai capito? Lasciami in pace!- urlò con quanto fiato avesse in corpo. Lo scheletro continuava a infestare i suoi sogni, anche se questi ormai si manifestavano solo di giorno; ma perché le appariva costantemente, se poi non si faceva vedere?
Helen era stanca. Anzi, era esausta.
-Esci subito, maledetto! Oppure vattene dalla mia testa, vattene! Non ho paura di te se è questo che credi. Non ho paura- gridò ancora, e lo fece talmente forte da sentir male alla gola quando lasciò andare l'ultima parola.
Improvvisamente, poi, vide quell'ombra. Si muoveva tra le lapidi di fronte a lei e le andava incontro. E sentì chiaramente che non era lui, non avrebbe potuto esserne più sicura. Puntò la torcia in quella direzione, ma l'ombra scivolò via, sparendo alla sua vista. Poi tornò ancora.
Così Helen fece ciò che faceva sempre nel suo sogno con lo scheletro: scappò.
Non era lui. Non era colui che voleva parlarle. Forse era stata una trappola, lo era stata fin dall'inizio. Che cosa mai le era entrato nella testa?
Questi erano i suoi pensieri mentre correva a perdifiato. Il cuore sembrava esploderle nel petto, ma Helen non smise di correre.
Non stava piangendo, ma in questo caso avrebbe voluto sentirsi stimolata a farlo.
Detestava quell'aridità che giungeva sempre nei momenti sbagliati.
Eppure, nonostante l'assenza di lacrime, Helen stava morendo di paura. Correva al buio più totale, perché nell'istante in cui era stata presa dal panico aveva lasciato cadere a terra la torcia, senza rendersene conto.
L'ombra che la seguiva era dietro di lei, Helen ne sentiva i passi e la presenza. E il respiro.
Un'altra ombra però le apparve all'improvviso davanti, e la ghermì. Helen urlò con quanto fiato avesse in gola.
Anche l'ombra urlava, mentre la scuoteva.
-Helen!- stava dicendo.
 
V
 
SCHELETRO
 
Corre velocemente, e non si stupisce del fatto che il corridoio sembri infinito.
È invece stupita dalla distanza tra lei e lo scheletro, che continua a diminuire. Non è rapido, la sua andatura è traballante e incerta, come può esserle così vicino? Eppure lo è sempre di più.
Helen, di tanto in tanto, mentre continua a correre, si volta a guardarlo. Lo scheletro prosegue nella sua tetra camminata e nei suoi movimenti agghiaccianti come in un rituale: un braccio contro il muro, l'altro rivolto al pavimento. Trascina i piedi. Il cranio continua a ricadergli in avanti.
Oddio. Oddio. Oddio. E' questo che Helen pensa in quel momento. Ma perché si muove in quel modo? Non potrebbe semplicemente correrle dietro?
Il corridoio continua a estendersi all'infinito, lo scheletro accorcia sempre più le distanze.
Poi all'improvviso le è addosso. Ha sentito le sua dita afferrarla (prova un brivido tremendo nel venirvi a contatto, per via di quei brandelli di pelle attaccati alle ossa). Helen si ritrova a terra, lo scheletro a ricoprire il suo corpo.
Ma non sarebbe corretto dire che questo l'abbia buttata a terra. Sembra le sia caduto addosso.
E ora è lì che giace.
Immobile.
E Helen grida sotto il suo peso.
 
*
Helen quella volta faticò a svegliarsi. Sforzava gli occhi affinché si aprissero, ma questi non volevano saperne. Intanto, continuava a vedere nella mente la stessa immagine, ripetuta senza sosta. E in più sentiva quello strano rumore.
Nel sonno, Helen non riusciva a capire da dove provenisse, né quale fosse la sua natura. Era un suono strano, gutturale, e sembrava mostrare sofferenza. Eppure non lo riconosceva. Era forse lo scheletro a emetterlo? A dirla tutta, le sembrava di no. Ma in fondo Helen era così occupata a sfuggirgli da non volerci fare troppo caso.
Infine, dopo che lo scheletro le fu caduto addosso per l'ennesima volta, Helen riuscì a raggiungere la veglia. Fu come aver appena ripreso a respirare e, mentre lo faceva, le dolse il petto.
Tossì con forza, e il dolore si intensificò.
Si tirò a sedere emettendo un lamento e premendosi la mano al petto, poi si sforzò di respirare a fondo per calmarsi.
Ci mise qualche istante a mettere a fuoco la stanza, a capire dove si trovasse. Si stupì nel rendersi conto di essere a casa dei suoi genitori, ma dopo qualche minuto iniziò a ricordare: il cimitero, il suono di foglie calpestate che era certa di aver sentito, ma che in realtà aveva solo immaginato, l'ombra che la inseguiva, quella che l'aveva afferrata parandosi davanti a lei.
Iniziava a dare un volto a tutto ciò.
Era ancora confusa, eppure d'un tratto si accorse che quel rumore, quello che sentiva nel sogno e che non capiva da dove nascesse, non era stato solo il frutto della sua immaginazione. Era reale, palpabile, e aveva una provenienza precisa.
Si alzò lentamente. Le girava un po' la testa, e fu per questo che al primo momento si sostenne alla parete, ma si riprese presto.
Tossì di nuovo, e ancora una volta si lamentò per il dolore scaturito dal petto.
Incurante del proprio stato di salute, Helen iniziò a muoversi a piedi nudi verso l'origine del suono; intanto rivedeva nella testa, con più chiarezza, quant'era accaduto quella notte. Aveva davvero immaginato il suono di foglie calpestate che si era ostinata a voler seguire, ma non era stato lo stesso per le ombre che avevano preso a inseguirla. Solo che non erano davvero ombre, solo persone che si muovevano al buio. Quando aveva puntato la luce della torcia verso l'uomo dal quale aveva cominciato subito a scappare, le era sembrato che l'ombra scivolasse via, ma non era così: in realtà era stata lei a distogliere la luce dalla figura, perché questa si era riflessa su qualcosa di metallico, e le aveva provocato dolore agli occhi. Ora capiva che si trattava di un agente di polizia e che, ovviamente, si trovava lì per lei.
L'ombra che invece l'aveva afferrata e aveva urlato il suo nome altri non era che suo padre. Suo padre, che doveva aver chiamato la polizia per andare a cercarla. Helen suppose che la famiglia fosse stata avvertita della sua assenza dall'università, e forse erano saltate fuori le sue continue visite al cimitero dalla testimonianza di qualcuno che l'aveva notata.
Stava di fatto che oramai era a casa, e non c'era più speranza di trovare lo scheletro. I genitori non le avrebbero mai permesso di andarsene in giro indisturbata la notte e anzi, Helen dubitava che l'avrebbero lasciata tornare al dormitorio dell'università.
Mentre pensava a tutto ciò, si avvicinò sempre più alla fonte del suono che, ne era sempre più certa, non stava immaginando; c'era soltanto la porta del bagno a dividerla da esso.
E Helen l'aprì.
Sbatté le palpebre più volte e inizialmente faticò a riconoscere quella figura inginocchiata di fronte alla tazza. Quella figura, che emetteva il suono di chi stia rimettendo.
Aveva il viso ricoperto dai capelli biondi, le dita si serravano ad artiglio sulla tavoletta del wc, l'addome seguitava a contrarsi. Indossava soltanto una canottiera e delle culottes.
A Helen corse un brivido profondo lungo la schiena, talmente intenso che quasi le attanagliò il cervello.
-Sarah- esclamò senza quasi sentire la propria voce.
Sarah alzò lo sguardo verso la sorella e le puntò addosso gli occhi. Occhi vuoti, spenti e morenti. Pensò Helen. E non fu l'unico pensiero a balenarle in mente.
Quanto è magra.
Si disse anche.
L'orrore in lei nacque prima che fosse trascorso un solo istante. Senza pensare si fiondò su di lei, la prese per le spalle e, allontanandola dalla tazza, la condusse a sé. Era la sua adorata sorella, ma Helen provò comunque un moto di raccapriccio quando avvertì le ossa sporgenti sotto le dita.
-Sarah, che fai? Che ti succede?- domandò Helen come se non fosse ovvio. Aveva sgranato gli occhi, e le stava venendo da rimettere a propria volta per lo choc.
Sarah si gettò tra le sue braccia; Helen dovette resistere all'impulso di respingerla a causa dell'orrore che la sua magrezza le ispirava.
-Io non volevo mangiare- iniziò Sarah singhiozzando -io non volevo, mi hanno obbligata. Io non posso mangiare- seguitò aggrappandosi alla sorella. Helen chiuse gli occhi e ricambiò la stretta. Le accarezzò i capelli dicendole piano di fare silenzio.
-Io non volevo nemmeno venire qui, stavo bene da sola. Andava tutto bene- proseguì Sarah stringendosi sempre più a Helen.
-Loro non capiscono, non hanno mai capito- concluse in un sussurro, ancora tra le lacrime.
Helen non sapeva dire se fosse il proprio quel cuore che batteva all'impazzata nel suo petto, perché era certa che il suo dovesse essersi per forza fermato.
In quel momento comprendeva tante cose. E ricordò anche il messaggio di Sarah di quel giorno, quando non si era nemmeno domandata di che cosa stesse parlando, e le aveva risposto con la prima frase venutale in mente.
Mi hanno presa. Le scriveva sua sorella, felice, e lei, insensibile e fredda, aveva concluso il tutto con un Sono felice per te. Non ricordava la domanda di Sarah a quell'agenzia di modelle. Era stata tanto indaffarata a cercare il suo scheletro, che aveva dimenticato l'ossessione di sua sorella per la moda. Difatti, a New York, Sarah lavorava come stilista. Ma il suo sogno, fin da bambina, era sempre stato quello di fare la modella.
La magrissima modella.
Aveva speso tanto tempo ed energie a cercare lo scheletro del suo sogno, e solo allora Helen si rendeva conto di averlo trovato, e di averlo avuto sempre così vicino. Helen pianse abbracciata a Sarah perché era stata un'egoista: aveva dato per scontato che lo scheletro nel suo sogno ricorrente avesse a che vedere con lei e con lei soltanto, aveva addirittura consultato una chiromante per scoprire dove cercarlo e, peggio di ogni altra cosa, aveva creduto alle fandonie che quella andava raccontando.
Lo scheletro del sogno voleva chiamarla, era vero, dirle qualcosa di importante, ma non si trattava di ciò che aveva creduto fin dall'inizio.
Era con Sarah che tutto aveva a che fare, era lei che le domandava aiuto.
E ora, a Helen non restava altro se non le sue lacrime e una sorella anoressica.
Si stupì soltanto di pensare una cosa. Una cosa che non avrebbe dovuto venirle nemmeno in mente: Sarah, cosi magra, faceva davvero impressione. Ma sembrava avere ben poco a che fare con lo scheletro che Helen aveva sognato per tre mesi consecutivi.
 
*
 
Il giorno peggiore della vita di Helen, fu quello della morte di Sarah.
Dopo quella notte in cui la trovò in bagno a rimettere quel poco che i genitori l'avevano obbligata a mangiare, aveva deciso di prendersi cura di lei. Aveva anche lasciato definitivamente l'università per starle accanto a tempo pieno.
Il giorno successivo aveva appreso da sua madre che lei e suo padre non erano mai riusciti a mettersi in contatto con Sarah da quanto era tornata in città, quasi tre mesi prima e che, se quella notte era a casa con loro, era soltanto perché erano stati contattati dall'ospedale in cui la ragazza era stata ricoverata in seguito a uno svenimento.
Sarah era diventata anoressica, non ci vollero esami per dimostrarlo, ma era maggiorenne, per cui non firmò il consenso al ricovero in ospedale e se ne andò contro il parere del medico. Era così debole, però, che i genitori non faticarono a condurla a casa con loro.
Quella sera l'avevano forzata a mangiare qualcosa, ma lo stomaco di Sarah, ormai abituato all'inattività, non aveva retto.
Helen aveva pianto più e più volte quand'era da sola, chiedendosi perché non avesse riflettuto, perché non avesse capito prima quanto il potere segreto della sua mente stesse tentando di riferirle.
Da quella notte in poi, Helen non sognò più lo scheletro.
Helen soffriva tantissimo per Sarah, ma era anche in collera con lei. Come aveva potuto ridursi in quello stato solo per far piacere agli occhi altrui? Se solo sua sorella fosse stata abbastanza forte da reggere, Helen l'avrebbe certamente presa a schiaffi.
Invece, quando si trovava da sola con lei, non faceva altro che sussurrarle dolci parole d'incoraggiamento e accarezzarle la fronte. Quel senso di raccapriccio nei suoi confronti, però, cresceva ogni giorno di più. Helen lo scacciò più e più volte, costringendolo nel luogo più nascosto e più profondo di sé. Sarah era sua sorella, e benché il suo stato le ispirasse ribrezzo, Helen era convinta di doverle restare accanto.
Un’infinità di volte aveva sfogliato quei giornali e quei cataloghi dove Sarah posava come modella, con i suoi occhi morti e la pelle che le si attaccava sempre di più alle ossa.
Helen l’aveva fatto aggredita da lacrime di rabbia.
Poi giunse quel giorno, e Helen perse definitivamente la ragione. E il controllo.
Aveva fatto di tutto affinché Sarah si riprendesse e tornasse a mettere su peso, ma ogni tentativo di ristabilirla era inutile. Sarah non collaborava, sembrava non attendesse altro che la morte.
E la morte giunse ai primi del mese di maggio.
Helen era appena uscita dal bagno quando vide Sarah sulla soglia della propria camera. Aveva un braccio appoggiato contro la parete, come per sostenersi, l'altro pendeva verso il suolo. Respirava a fatica; anzi, si disse Helen, forse non respirava affatto.
Sarah era più abominevole che mai: ormai era pelle e ossa. Un semplice scheletro con la pelle addosso.
E fu in quell'istante che Helen lo riconobbe.
Non appena Sarah iniziò a strisciare i piedi per raggiungerla, Helen strillò e iniziò a correre.
Lei e Sarah erano da sole in casa quel giorno, e Helen avrebbe tanto voluto che non fosse così. Per la prima volta nella sua vita, Helen avrebbe voluto non essere sola.
Sarah le andava incontro imperterrita; benché faticasse a tenersi in piedi, si avvicinava sempre di più. Helen si domandò se le sue gambe le stessero obbedendo a dovere, perché, nonostante tutto, non correva velocemente quanto avrebbe voluto.
E poi, improvvisamente, Helen si voltò a guardare Sarah e la sua tetra camminata di morte verso di lei: la testa a tratti le ricadeva sullo sterno, come se il collo non fosse in grado di sostenerne il peso. Trascinava i piedi. Si sosteneva al muro con un braccio.
Helen non faceva quel sogno da mesi, ma d'un tratto fu come se questo non l'avesse mai abbandonata.
Ora capiva perché, quelle notti ormai lontane, provava tutto quel terrore.
Fece appena in tempo a pensare che meritava tutto quello, per non essersi accorta di quanto stesse accadendo a sua sorella, quando inciampò, rovinando a terra. Sarah le fu subito addosso e le crollò sopra, forse ormai incapace di mantenersi in piedi.
Helen iniziò a urlare fin dal primo momento in cui avvertì il suo peso schiacciarle il corpo. Nonostante fosse leggera, non riuscì a togliersela di dosso; sentiva che Sarah la teneva ferma a terra, e si stringeva a lei con quel poco di forza che le restava.
Helen restò così, urlante, e sentì quella forza venire sempre meno, così come il respiro già flebile di Sarah.
I suoi genitori la trovarono un'ora dopo, con la sorella morta distesa addosso.
Helen urlava ancora.
 
 
**
Due righe di spiegazione a proposito di questa storia: "Scheletro" è stata ispirata da un cartellone pubblicitario rappresentante la settimana della moda di un paio di anni fa. Su di esso erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, parevano avere tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare quelli degli altri, di occhi.
Così questa sensazione è finita in un racconto, ingarbugliata con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto tra le sorelle.
Questo vuole essere una sorta di testo di denuncia e  porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna.
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui?
Non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non si capirà che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica.
O molte altre ancora.
tellone pubblicitario che infestava Milano più di un anno fa, durante quella diavolo di settimana della moda. Ricordo che erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, secondo me avevano tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare q
Due righe di spiegazione a proposito di questa storia: "Scheletro" è stata ispirata, fondamentalemente, da un orrendo cartellone pubblicitario che infestava Milano più di un anno fa, durante quella diavolo di settimana della moda. Ricordo che erano raffigurate cinque diverse modelle le quali, però, secondo me avevano tutte un aspetto comune: gli occhi; quegli occhi che sembravano morti e quasi facevano impressione. Occhi vuoti di chi vive solo per accontentare quelli degli altri, di occhi. 
Ed ecco che in qualche modo mi sono decisa a riportare questa mia sensazione in un racconto, ingarbugliando tutto ciò con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto delle sorelle che, come si sa, mi è particolarmente caro. O, per lo meno, sono portata naturalemente a trattarlo. 
Insomma, questo voleva essere una sorta di testo di denuncia e, ancora una volta, vuole porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna. 
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui? Quante come Helen, che non si accorgono di quel che accade accanto a loro finché non è troppo tardi? 
In fondo penso che non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non ci si sveglierà, capendo che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica. O molte altre ancora. 
uelli degli altri, di occhi. 
Ed ecco che in qualche modo mi sono decisa a riportare questa mia sensazione in un racconto, ingarbugliando tutto ciò con la trovata pseudo-horror dello scheletro come apparizione onirica e con il tema del rapporto delle sorelle che, come si sa, mi è particolarmente caro. O, per lo meno, sono portata naturalemente a trattarlo. 
Insomma, questo voleva essere una sorta di testo di denuncia e, ancora una volta, vuole porre una particolare attenzione sul ruolo e condizione della donna. 
Quante ce ne sono di ragazze come Sarah, la cui più grande aspirazione è fondamentalmente quella di uccidersi pur di far piacere agli sguardi altrui? Quante come Helen, che non si accorgono di quel che accade accanto a loro finché non è troppo tardi? 
In fondo penso che non si arriverà mai alla parità dei sessi fino a che si vedranno in giro immagini di questo genere, fino a che non ci si sveglierà, capendo che si deve essere se stesse e non quello che gli altri vogliono che la donna sia e rappresenti, sia essa la figura della "mamma in stile Mulino Bianco" o quella, appunto, della modella anoressica. O molte altre ancora. 
   
 
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