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Autore: DonnaEliza    03/08/2015    7 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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Succede in questo modo:
Qualcuno ti ammazza.
Quando ti risvegli, sei veramente molto incazzato.

Mi scuso per il francesismo, non è veramente da me: nel corso degli anni mi sono liberato di molte abitudini futili come imprecare o seguire le mode. Tuttavia, trovo ugualmente che ci siano alcuni stati d’animo che necessitano del turpiloquio, per essere evocati con l’efficacia necessaria.
Così, quando vi svegliate in un vicolo puzzolente con gli abiti impregnati dell’acqua putrida dei canali di scolo e dell’urina stantia dei molti passanti bisognosi di vuotare la vescica che sono passati di lì; quando realizzate con limpidezza raggelante che avete la carotide schiacciata e tastate il filo da pesca che ancora vi stringe il collo; quando vi alzate barcollando e notate, a pochi piedi da voi, il vostro portafogli vuoto e il vostro sguardo è attratto dal barbaglio della luce di un lampione, catturato dalla catena del vostro orologio da taschino che penzola, tronca, dal vostro panciotto; quando riconducete il tutto all’improvviso tramestio che avete sentito alle vostre spalle poco prima (ma era davvero poco? Non lo potete sapere, non lo saprete per anni); quando, per farla breve, capite di essere stati strangolati da un borsaiolo e che siete morti, morti, morti, allora non siete furibondi, né indignati e nemmeno folli di rabbia: siete semplicemente, precisamente incazzati.
Una delle costanti è che capirete subito di essere morti: la sensazione è pressappoco la stessa che si prova quando ci si addormenta ascoltando della musica e, una volta terminato il disco, ci si sveglia di soprassalto a causa del silenzio improvviso. Vi renderete conto che una grande, continua, sotterranea attività all’interno del vostro corpo è del tutto cessata, come una fabbrica chiusa da poco: sentite ancora i macchinari ronzare in dissolvenza, mentre il loro moto interno rallenta fino a fermarsi. Sovrappensiero, vi sembrerà quasi di sentire il chiacchiericcio degli operai, il rumore dei loro passi e il calore dei loro corpi tracciare scie lungo i percorsi abituali all’interno dello stabilimento, ma non v’ingannerete, non ci proverete nemmeno: il vostro corpo è disabitato, silenzioso. Nelle ore a venire potrà riservarvi ancora qualche  sorpresa, perlopiù sgradevole: il cuore darà qualche balzo, scoordinato e privo di ritmo; i muscoli avranno contrazioni involontarie, impacciando il controllo che vi imponete per muovervi con naturalezza; probabilmente la vostra vescica si sarà già vuotata un’ora fa, quindi a quel riguardo vi troverete tutt’al più a dover fronteggiare un po’ di fastidio per i pantaloni umidi. Ad ogni modo, non è questo ciò che occuperà la vostra mente in queste prime ore: c’è un’altra cosa, un nuovo tipo di spinta biologica verso (per colmo d’ironia) la sopravvivenza che riempirà e dominerà ogni vostra percezione e guiderà le vostre mosse fino alla sua soddisfazione. Non potrete gestirla o rifiutarla in alcun modo. Non ho ancora capito se sia un bene o meno.
Saprete come trovare il vostro uomo, quello che vi ha assassinato. Un invisibile pilota automatico vi darà la pista e voi la seguirete, senza sapere se a guidarvi saranno gli occhi, il naso o chissà cos’altro. Partirete e basta, di buon passo, a testa bassa e per qualche motivo non darete mai nell’occhio. Per questa volta, solo stavolta, non dovrete preoccuparvi di niente: tutto andrà liscio. Localizzerete il bersaglio mettendoci senza fallo il lasso di tempo ideale per trovarlo da solo e portare a termine la vostra missione senza essere disturbati. Lo raggiungerete e lo sbranerete, e questo è quanto. Non vi si allungheranno i canini, non avrete una forza sovrumana, ciononostante ci riuscirete. Lo sgozzerete e schiaccerete la polpa della sua carne contro il palato per bere il sangue, perché già sapete che inghiottire materia solida vi farebbe star male. Lapperete il sangue arterioso finché smetterà di zampillare, e poi avrete finito. Vi ripulirete, puntigliosamente, con i migliori mezzi a vostra disposizione, poi ve ne andrete. Da quel momento in poi, sta a voi; perché ovviamente non riavrete in mano la vostra vita, dal momento che è finita; né avrete il controllo della situazione e tantomeno di voi stessi, visto che non sapete cosa stia succedendo o cosa siate appena diventati; non saprete dove andare, non saprete cosa fare. Tutto quello che vi riguardava è finito: tutto quello che resta, è affar vostro.
Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare.

 
Prodromi
 
Naturalmente, non siamo vampiri: le differenze sono molte di più dei tratti che ci accomunano, tuttavia il termine era e rimane ugualmente il più calzante tra quelli a disposizione. Inoltre non c’era dubbio, nel 1912, che tutto eccitasse la fantasia in cerca di nuovi mostri: Dracula era stato pubblicato meno di cinque anni prima, seguito quasi a ruota dalla serie di omicidi di Jack lo Squartatore. Lo stuolo di romanzetti morbosi e crimini di solo minor successo che ammiccavano da ogni angolo di strada facevano sì che il cittadino medio sentisse il bisogno di portarsi la mano al collo ogni volta che metteva il naso fuori di casa.
Per inciso, non ho mai conosciuto il fantomatico Jack, almeno che io sappia, né ho mai elaborato congetture circa la sua natura, sia perché l’essere umano medio è perfettamente portato all’eccidio senza bisogno di svicolare dalla normalità genetica sia perché, comprensibilmente, nei miei primi anni dans ma certaine condition mi sono tenuto attentamente lontano dalla scena sociale. D’altro canto, sono quasi sicuro che anche Jack lo Squartatore facesse lo stesso.

Non fu difficile: il termine non ritrae per nulla quel tipo di esperienza. “Difficile” è qualcosa che ci separa da una meta che è in vista, o quantomeno immaginabile. Io invece non avevo idea dello scopo da raggiungere; a cosa aspirare, quale immagine interiore dipingere nella mia mente cui dare il nome di “tranquillità”. Che cosa potevo permettermi di desiderare, e con che mezzi raggiungerlo?
Ero stato un adulto, con una casa il cui mutuo riuscivo a pagare puntualmente e un lavoro rispettabile che, pur senza collocarmi nelle classi elevate, almeno mi elevava al di sopra degli operai e dei miserabili che brulicavano per le strade. Avevo una moglie e due figlie, la maggiore delle quali si affacciava alla pubertà; mi vedevo avviato verso un sereno sentiero pianeggiante, con preoccupazioni proporzionate al volume della mia esistenza: modeste, dignitose.
Invece ero morto, e nessun volo d’angeli si era accollato la mia anima immortale. Passai la mia prima notte barcollando per i vicoli meno in vista, tastandomi la gola senza sosta, incredulo al tocco del solco lasciato dallo strangolamento e fermandomi ad ogni fontanella per lavarmi il viso e le mani ancora e ancora, controllando lo stato dei miei vestiti alla luce dei lampioni a gas; la camicia e il panciotto erano irrimediabilmente lordi di sangue, ma avevo lasciato il cappotto sbottonato quando mi ero incamminato verso casa quella sera, quindi tenendolo chiuso potevo occultare alla meglio il macello che indossavo.
Quando riuscii a recuperare il controllo di me stesso, mi sedetti a fare il punto della situazione: al mio assassino avevo ripreso il mio orologio e, per soprammercato, tutto il contante che portava con sé. Più di ogni cosa, avrei voluto tornare a casa; agognavo il bozzolo rassicurante delle coperte del mio letto, ma non mi sarei azzardato a farmi vedere neanche dalla cameriera prima di aver potuto controllare di persona che aspetto avessi.
Ero stato aggredito sulla strada che percorrevo verso casa tornando dal mio lavoro d’insegnante in una piccola scuola nel quartiere industriale; i cancelli chiudevano alle nove, ma le lezioni terminavano alle sei. A quel punto dell’anno, a quell’ora era già buio. Quando mi ero ripreso l’orologio, erano quasi le due; per strada si aggiravano le due principali categorie di nottambuli: esponenti della piccola criminalità e gaudenti che usufruivano dei servizi della prima categoria. A pensarci adesso, era molto probabile che il mio aspetto non fosse troppo diverso da quello di molti di loro.
L’unica opzione che avevo, per trovare un riparo e scoprire che cosa ero diventato, era prendere una stanza, una qualunque, in uno degli innumerevoli pub che costellavano le vie. Buona parte di essi fungeva anche da affittacamere, chi più chi meno sottobanco, ma tutti comunque a buon mercato. Sentivo che sarebbe stato prudente rivolgermi a un ricovero sufficientemente malfamato perché il mio aspetto passasse inosservato. Conoscevo quartieri peggiori di quello in cui mi trovavo, dove avrei potuto dirigermi verso bettole rinomatamente deplorevoli, ma non volevo rischiare che le mie precauzioni mi si rivoltassero contro e che qualcuno, vedendomi con una pessima cera, pensasse bene di completare l’opera e assalirmi nella mia stanza. In tutta onestà, non avevo idea di come si sarebbe potuta sviluppare una seconda situazione di questo genere nella medesima notte.
Mi diressi alla svelta nel primo ingresso illuminato da lanterne a gas che trovai, tenendomi nella parte più buia dei vicoli. Alzai il bavero, chiusi il cappotto e composi sul mio viso l’espressione meno interessante che mi riuscì di ideare. Funzionò: il proprietario al bancone aveva da tempo imparato ad ignorare un campionario di umanità ben più pittoresco di me, e prestò attenzione solo al denaro che gli posi sul bancone. Mi consegnò una chiave e una candela, e mi indirizzò alla mia stanza.

Non sprecherò parole a descrivere la camera da letto di una stamberga: non ci vuole molta immaginazione per mettere insieme un’immagine di disadorno squallore. A me interessava solo che avesse uno specchio, e per fortuna questo coronava il treppiede con brocca e catino incluso nel prezzo della stanza, sorprendentemente rifornito di acqua pulita.
Spesi diverso tempo a fissare il mio riflesso. Chi di voi ha visto un cadavere conosce la straniante impressione che dà la vista di quello che è a tutti gli effetti un essere umano, eppure totalmente svuotato di ogni traccia di umanità. Un corpo morto è come la custodia vuota di qualcuno: nient’altro che pelle, ossa e imbottitura, e la sostanza di questi elementi s’impone alla vista, tanto che si fatica a ricomporre i singoli componenti di un volto in qualcosa di rassicurante come una fisionomia. Io vedevo, per la prima volta, il mio naso; la mia bocca dalle labbra carnose, ma perennemente contratte in una linea severa; la linea spigolosa dei miei zigomi; l’attaccatura dei miei capelli. La grana della mia pelle. Il tono preciso di celeste dei miei occhi. Il viso che riconoscevo come mio, però, non c’era più: un cadavere mi fissava, mirabilmente immobile, non disturbato dall’andirivieni del respiro. La pelle era grigiastra, tirata alle tempie, livida sulle labbra; le orbite spiccavano, non troppo scure però sicuramente infossate, rannicchiate ai lati del naso innaturalmente affilato. Mi accorsi che non battevo le palpebre e le cornee si facevano opache; la mia vista non ne risentiva, ma negli anni ho imparato a ristabilire un ritmo regolare nell’ammiccare, per mantenere gli occhi idratati. Sul bianco della sclera facevano capolino dal contorno dell’occhio larghe macchie rosso scuro; tirando di lato la pelle potevo vederle per intero. Aprii la bocca: palato, gengive, lingua… tutto era cianotico, violaceo. A guardar bene, c’erano petecchie anche lì. E nelle narici.
Per strano che suoni a dirlo adesso, l’insieme non era particolarmente repellente: non avevo l’aspetto di un mostro. Ad un’occhiata superficiale, potevo passare per un qualunque individuo ammalato. Certo, iosapevo di essere un morto che cammina, ma sapevo anche che l’uomo della strada non avrebbe preso in considerazione quest’ipotesi, incrociandomi per caso. Lo shock del mio aspetto era tutto per me; qualcun altro avrebbe dovuto guardarmi davvero a lungo, prima di ammettere coscientemente che cosa lo mettesse a disagio.
Il vero problema era il collo.
Il solco del filo da pesca era netto, preciso e profondo, e girava tutt’intorno al mio collo. Avevo l’aspetto di una di quelle bambole con uno snodo all’altezza della gola per permettere l’articolazione della testa; in più, c’erano i lividi. Un fregio sgraziato purpureo e violaceo incorniciava la linea di strozzo, con chiazze e venature che ricordavano il marmo. Mi accorsi allora che il pomo d’adamo era schiacciato e pesto. Presi dell’acqua nelle mani a coppa e tentai d’inghiottire: ci riuscivo, anche se con difficoltà e questo mi ricordò che qualche ora prima mi ero effettivamente nutrito. Invidio profondamente le persone che hanno goduto di amnesia a seguito di un evento traumatico. Quando mi ripresi dalle vertigini e dai conati, passai senza ulteriore indugio a nuovi  test: tirare il fiato, cercare di urinare, spogliarmi completamente per esaminare il resto del corpo. Suppongo di aver voluto andare fino in fondo tutto in una volta, scoprire il più possibile finché ero già così sconvolto. Non so cosa credessi di ricavare da un simile comportamento: in fin dei conti, non avevo alcun piano per il futuro verso cui concentrare la mia attenzione una volta superato il mio sgomento. Cionondimeno, mi scoprivo uomo d’azione. O, cosa assai più probabile, avevo il terrore di fermarmi a pensare.
Inevitabilmente, ad ogni modo, finii d'inventariarmi. Scoprii che potevo respirare volendo, ma producevo uno sgradevole rantolo, e l’aria entrava sibilando nei miei polmoni attraverso nuovi percorsi creati dallo schiacciamento della trachea. Fu talmente fastidioso che passai diverso tempo a camminare per la stanza scrollando le membra per liberarmi dalla sensazione. A quel punto mi liberai dei vestiti per controllare la scioltezza delle articolazioni e lo sguardo mi cadde su una serie di lividure che  avevo nella metà destra del corpo, su cui avevo giaciuto nel lasso di tempo in cui ero stato effettivamente morto. Tastarle portò alla scoperta che non mi dolevano; quindi mi diedi un pizzicotto e mi strappai qualche capello: parimenti niente dolore. Corsi e saltellai, mi produssi in tutti gli esercizi ginnici che mi vennero in mente, solo per arrendermi all’evidenza che non sudavo, non mi sentivo stanco e nemmeno accaldato. Quando, infine, mi lasciai cadere sul letto, dovetti accorgermi che non sentivo neppure freddo.
Seduto sul materasso logoro, riflettevo inconcludentemente. Che cos’ero, dunque? Un cadavere, sotto tutti i punti di vista. Fuorché il particolare non trascurabile di essere innegabilmente sveglio e cosciente. Alcune parti di me funzionavano a dovere – la scorza esterna, per così dire: vista, tatto, i cinque sensi, insomma; tutto ciò che era all’interno, invece, era risolutamente fermo, congelato nell’istante della dipartita. Il mio aspetto era quello di un cadavere tutto sommato fresco; potevo somigliare ad un tisico, o ad un assiderato. Anche il mio odore era cambiato, lievemente stagnante senza ancora essere puzzo. Potevo passare per vivo.

Ammetto, non senza un leggero imbarazzo, di aver ricercato in me qualcosa di sovrannaturale – non fosse bastata l’evidenza della mia condizione; qualche capacità potenziata, percezioni affinate, questo genere di cose. Speravo forse in un dono, un premio di consolazione per aver perso la vita. Insomma, mi ritrovai a cercare di spostare oggetti con la forza del pensiero, o di levitare. Tutto ciò che ricavai da questi esperimenti fu la puzza di bruciato del mio dito indice quando lo tenni sulla fiamma della candela per qualche secondo e una peculiare sensazione nei muscoli e legamenti delle braccia, che mi avvertiva che sì, probabilmente sarei riuscito a scardinare la porta chiusa a chiave della mia stanza senza avvertire fatica, ma che farlo mi sarebbe probabilmente costato qualche danno interno.
Cos’ero? Un super-uomo, forse, ma di certo vulnerabile quanto un qualunque corpo vivente. Avrei forse potuto correre per ore senza rallentare, ma sui miei piedi si sarebbero aperte piaghe come a chiunque altro – e non ero sicuro che si sarebbero richiuse. Allora, cosa? Un guscio inarrestabile, fu la prima immagine che mi balenò. A tutt’oggi, la ritengo la più efficace. Vuoto e fragile come qualsiasi cosa finta o morta, ma capace di andare avanti fino a consumarsi fisicamente. Non ero sicuro del vantaggio che mi avrebbe portato.
   
 
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