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Autore: Licoride    07/08/2015    0 recensioni
È una storia d’amore? Sì, lo ammetto e non mi aspetto certo che sia nuova, l’amore è lo stesso da mille secoli, non sarò io a cambiarlo, io posso solo raccontarlo. Ed è quello che proverò a fare, vi parlerò di Amore sullo sfondo di Venezia, fra le calli nebbiose e riflessi della laguna. Lei bella da far male, lui vittima del fuoco che ne ha cambiato per sempre il volto. Ma questo è il mondo reale, e non c’è nessun bacio della Bella che trasformi la Bestia in principe.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Vattene!”
 
 
 
Quel giorno il tempo era meno clemente, del resto non ci si poteva certo aspettare un’estate eterna, ma è sempre dura vedere il sole cedere il passo alla fredda nebbia veneziana, sa di sconfitta. Soprattutto quando, come quel giorno, è tanto fitta e densa da cadere come pioggia e bagnarti le ossa e l’anima. Beatrice era stata tentata di restare all’asciutto in casa, ma il fascino per quel giardino decadente l’aveva spinta a infilarsi la giacca e uscire. Niente corsa, con quell’umidità si sarebbe presa un raffreddore di sicuro, solo una lenta passeggiata fra le calli sino al suo angolo. E così aveva fatto, sedendosi sotto il glicine che iniziava rapidamente a spogliarsi. Fra poco solo l’edera avrebbe offerto riparo, così tirò su il cappuccio per coprire i lunghi capelli. Era fin troppo facile creare la storia in quel luogo, era come se le sussurrasse all’orecchio la sua storia, un eco di quei tempi ormai polvere che continuava a vivere nelle sue pietre. China sui fogli, scriveva rapida, la matita che grattava senza fermarsi e un lieve sorriso sulle labbra rosa. Perfetto, così era perfetto.
 
La fitta che anche la sera prima gli aveva trafitto la gamba, non aveva dato tregua tutta la notte, rendendogli impossibile il sonno. La mattina era arrivata fin troppo tardi per un insonne, così si era alzato all’alba, nervoso e insofferente. Annalia sarebbe tornata solo nel pomeriggio, finita la spesa, così fino allora sarebbe stato solo che con se stesso, una compagnia che non aveva mai amato particolarmente.
Vagabondò da una stanza all’altra per tutta la mattina, un’anima in pena, un fantasma dannato. Sbocconcellò qualcosa a pranzo e si diresse verso la biblioteca.
Si bloccò quando notò che la donna aveva lasciato aperte le imposte che davano sul retro, verso i resti di quello che un tempo era il giardino. Un impeto di rabbia salì dal petto, facendogli dilatare le narici e stringere i pugni. Era illogico, nessuno avrebbe potuto vederlo, ma è la natura stessa della paura essere irrazionale. Aprì le finestre e afferrate le imposte le chiuse con un tonfo secco, assordante fra le mura mute del parco.
Rapido aprì anche la seconda finestra, sporgendosi all’esterno rabbioso per bloccarsi all’istante. Non era possibile.
Una figura si stagliava a pochi metri da lui, fra i rami secchi e le statue sbeccate. I capelli scendevano liberi fino alla vita sottile, morbide onde castane. La bocca socchiusa, il respiro soffocato e quegli occhi grandi, spalancati, terrorizzati. Lei. Cosa ci faceva lei li? Lo aveva visto, aveva visto il suo volto sfigurato e ne era terrorizzata.  Non avrebbe mai dovuto vederlo nessuno doveva!
“Vattene.” Dalle labbra uscì un bisbiglio ruvido, come la gola bruciata. Lei indietreggiò di qualche passo, senza staccare gli occhi da lui. Quegli occhi così belli, deformati dalla paura.
 “VATTENE!” Urlò con quanto fiato avesse in un doloroso ruggito.
Lei si voltò di scatto, raccolse una borsa che rapida si mise in spalla, corse verso il muro. Inciampò, qualcosa cadde ma non si voltò, si arrampicò sull’albero e sparì oltre il muro.
Solo quando non la vide più tornò a respirare, anche se l'aria in gola era una lama rovente. L’aveva spaventata disgustata, pietrificata con il suo aspetto. Perché l’aveva visto? Com’era possibile che fosse nel suo giardino? Perché tra tutte le persone del mondo proprio lei aveva visto il mostro che era diventato? Non doveva succedere, non proprio con lei! Non sarebbe mai più passata di lì e lui non l’avrebbe più vista, ne era certo. Una delle poche cose belle del mondo che gli restava sarebbe scomparsa, ed era solo colpa sua.
Stava per chiudere il balcone quando si ricordò di averle visto cadere qualcosa. Varcò la soglia della porta che dava sul parco e mosse alcuni passi sulle pietre che lo lastricavano. Quand’era stata l’ultima volta che era uscito? Era passato tanto tempo che non lo ricordava più, così tanto che quel parco, il suo parco, ora gli appariva estraneo, nemico.
L’attraversò lentamente, furtivo, sentendosi un intruso finché notò una cosa marrone a terra. Si chinò, incurante delle lamentele che dal ginocchio salivano fino all’anca, e lo raccolse. Era una cartella pesante, sembrava di pelle. Un cordoncino gli girava attorno un paio di volte, chiudendolo con un fiocco. Lo svolse curioso e quando l’aprì una cascata di fogli si riversò a terra, spargendosi tutt’attorno ai suoi piedi. Un’imprecazione gli sfuggì mentre li raccoglieva rapido, maledicendosi per la sua goffaggine. Erano un insieme confuso di pagine stampate piene di appunti, altre invece scritte a mano in una grafia sottile, leggermente inclinata e a suo modo elegante, ricordava quelle lettere di inizio novecento che si trovano nei libri di scuola.
All’inizio pensò si trattasse di appunti di una studentessa, Venezia era piena di universitari, ma leggendo qualche frase qua e la capì che non erano appunti, ma una storia. Quello era un libro, o almeno lo sarebbe stato alla fine.
“Una scrittrice.” Sussurrò a se stesso, sedendosi sulla stessa panca su cui lei era pochi minuti fa, tentando di rimettere in ordine i fogli che grazi al cielo erano numerati. Pensò che quell’incidente doveva essere frequente anche a lei per aver adottato quell’accortezza, questo lo fece involontariamente sorridere.
Trovata la prima pagina ne lesse qualche riga, sentendosi però subito in colpa. Era una cosa sua, un’opera per di più incompleta e aveva sentito parlare di quando gli artisti fossero gelosi delle loro creazioni, figuriamoci di una su cui ancora stavano lavorando.
Fece per chiudere, ma in fin dei conti, pensò, probabilmente non l’avrebbe più vista. Era tutta roba che sicuramente teneva salvata in un computer e certo non sarebbe tornata per lui. Continuò a leggere, nonostante la difficoltà nel mettere insieme i pezzi. A mano a mano che procedeva, ebbe come la sensazione che fosse lei a leggerle quelle parole, immaginò la sua voce raccontare solo a lui quella storia. Era come poterla conoscere attraverso il mondo che aveva creato con quelle parole, lei era in ogni personaggio, ogni dialogo, quella era lei frantumata in mille sfaccettature. Non si accorse del rientro di Annalia, né del sole che una volta sceso aveva lasciato il freddo libero di scivolare sulla laguna.
Rientrò quando non c’era più abbastanza luce, ma solo per continuare seduto sulla poltrona di broccato nello studio. La donna lo osservava di sottecchi ogni volta che passava davanti alla porta, prima tutto il giorno fuori e adesso steso su quella poltrona senza mai distogliere gli occhi da quelle scartoffie che aveva con sé… ma che accidente sarà? Si chiedeva curiosa tendendo di sbirciare mentre fingeva di spolverare.
Quando finì l’ultima pagina restò qualche minuto immobile, gli occhi glaciali persi oltre la parete tappezzata, Dio solo sa rivolti verso quali pensieri.
“Possiamo cenare Anna?” Chiese improvvisamente, cogliendola di sorpresa con un sussulto.
“ C-certo, dammi solo dieci minuti.” Corse in cucina sentendosi colta in fallo.
Non era niente male quel libro. Doveva essere corretto e ridefinito in alcuni punti, ma del resto era quello che stava facendo prima che lui la spaventasse a quel modo. Idiota.
Cenò in silenzio, ripensando a quelle pagine, alle parole. Era brava, sul serio, aveva il dono di saper usare le parole come un pennello. Se solo non l’avesse fatta scappare…
 
Stupida, si ripeté per la millesima volta, stupida fifona suggestionabile. Colpa di quel giardino barocco, della nebbia spettrale, della sua mente suggestionabile… Che diavolo aveva pensato fosse? Un fantasma? Andiamo Beatrice, si rimproverò, ti sei comportata come una bambina. Una donna adulta si sarebbe scusata e se ne sarebbe andata in un modo più consono, certo non arrampicandosi su un albero per saltare il muro! Sciocca.
A sua discolpa, tuttavia, doveva ammettere che l’uomo apparso alla finestra non era certo una visione, come dire, piacevole. E la sua voce poi, un brivido gelido le aveva attraversato la schiena, e non era colpa della nebbia.
Dopo aver fatto un centinaio di metri di corsa, abbastanza da allontanarsi dalla casa spettrale e calmare i pensieri, aveva assunto un per nulla calmo passo di marcia fino a casa, non senza essersi voltata almeno una decina di volte, divisa fra la tentazione di tornare indietro e quella di trovare finalmente rifugio sotto una doccia calda.
Alla fina aveva vinto la doccia, e fu solo quando sentì finalmente l’acqua bollente scorrere sulla pelle nuda e sciogliere la tensione, che si concesse di ripensare a lui. Che cosa poteva aver ridotto quell’uomo così? Non sarebbe neppure stata capace di dargli un’età, d'altronde era troppo impegnata a restare pietrificata. Con uno sbuffo si voltò, facendo scorrere l’acqua sui lunghi capelli che le accarezzavano la vita.
Era come se il fuoco gli avesse divorato una parte del volto, forse anche il corpo. E lei era scappata via. Che razza di figura di… beh, rifletté uscendo dalla doccia e infilandosi l’accappatoio, tanto non mi vedrà certo mai più. Non aveva alcuna intenzione di tornare lì, per quanto il suo cuore piangesse quell’abbandono prematuro, avrebbe trovato un altro luogo da cui lasciarsi ispirare. Forse.
Avvolse la chioma in un asciugamano, mise una moca sul fornello e recuperò la borsa da terra, dove l’aveva lanciata appena entrata, ancora scossa. Mise il computer in carica, il blocco degli appunti sulla scrivania e…merda! Rovesciò la borsa sul pavimento, facendo rotolare ovunque penne, matite, evidenziatori e un mucchio di cianfrusaglie, ma la cartella non c’era.
Frugò in ogni cassetto, ribaltò il divano e il letto, mentre la moca gorgogliava impaziente, straripando e spargendo il profumo del caffè nella stanza. No, non poteva averlo perso, no.
Si bloccò in mezzo al caos, colpita dell’intuizione e sconfitta dalla sua evidenza. Le era caduto nel giardino. Dannazione. Si lasciò cadere sul divano, dimentica del caffè e dei capelli bagnati. Dannazione. Lasciarlo lì era impensabile, il quella cartella c’era il lavoro di settimane, non poteva certo rinunciarvi. Era inevitabile. Tornare lì, bussare, ingoiare la vergogna e riprenderlo. Dannazione.
Sulla finestra iniziarono e ticchettare alcune gocce di pioggia, che presto diventarono sempre più numerose fino a trasformarsi in un temporale senza lampi ma percosso dal gelido vento che porta via definitivamente le spoglie dell’estate andata, annunciando il tanto rinviato quanto inevitabile inverno.
“Perfetto, domani sarà una bella giornata di merda.” Mormorò “Per non parlare di stasera.” Concluse guardandosi intorno e sfidando la moca straripata che aveva macchiato il fornello a fare un volo nel canale sotto le finestre.
“Meglio che dia una sistemata, ci manca solo una scenata di Sara.” Non fece a finire la frase che sentì la porta aprirsi.
“Ma che cazzo è successo?!” Troppo tardi.
 
   
 
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