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Autore: little_Grainne    07/08/2015    0 recensioni
Dopo molti anni, una storia per ricominciare a scrivere. Buona lettura!
Dal prologo: "Io mi chiamo Aria, non perché mia mamma si fosse innamorata di Arya Stark durante la gravidanza, come sarebbe poi inesorabilmente successo a me facendomi un po’ meno odiare il mio nome, ma come diminutivo di Arianna, quella poveraccia abbandonata da Teseo dopo averlo giusto salvato dal Minotauro. A ben pensarci, mia mamma doveva essere una veggente. Perché pure io sono stata abbandonata, illusa e con il cuore spezzato, da un affascinante Teseo che di dolce aveva solo gli occhi. Sì, chiamiamolo Teseo il traditore, quello che si è preso l’Arianna dolce e fiduciosa per lasciarla nel più bello dell’esplosione dell’amore perché spaventato dalla forza di quel sentimento.
Dopo di lui, io sono diventata semplicemente Aria. Più leggera, più disincantata, più cinica, ma decisamente più forte. "
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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LA TENTAZIONE

(little_grainne)

 

CAPITOLO 3 – A VOLTE RITORNANO

-I tuoi capelli invece sono rimasti uguali.

Tommaso smise di ridere a fatica e mi guardò con il sorriso che ancora gli aleggiava sugli occhi.

Pietrificata, una mano sulla porta dell’ambulatorio e l’altra sulla schiena della mia paziente – sono una modella – mi resi conto di non poter assolutamente comportami come la mia mente stava disperatamente implorando.

Fuggire.

Ma io non ero Arianna. E, in quel momento, non ero nemmeno Aria.

-Vada dalle infermiere in accettazione e aspetti la carta di dimissioni. Noi ci rivediamo per il controllo. Arrivederci.

Lì, io ero la dottoressa Nobili. E restavo professionale, anche quando il mio primo amore mi ricapitava davanti nel posto meno adatto, nel momento più sbagliato. Non che ci fosse un momento giusto. Anzi, a ben pensare, quel momento non doveva proprio capitare.

La ragazza guardò dubbiosa prima me, che me ne stavo ferma con un sorriso di circostanza stampato in viso, ovviamente falso, e poi Tommaso, ancora con quel sorriso divertito ospitato nella fossetta della guancia destra, e decise che non valevamo più la sua attenzione.

-Arrivederci dottoressa, grazie.

Presi un respiro profondo, più dentro la mia testa che attraverso i miei polmoni, e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al sedere sodo e sculettante della mia prima paziente della giornata che si allontanava – sì, un sedere del genere serviva per il suo lavoro – mi voltai di nuovo verso il mio Teseo personale.

A volte ritornano, diceva Stephen King. E in quei casi, l’unica cosa da fare era fingersi morto. Tipo con gli orsi. Sì, mi sarei stesa per terra - metaforicamente parlando, eravamo al Pronto Soccorso e il mio corpo avrebbe toccato quel linoleum solo se fosse improvvisamente comparso Jamie Fraser, con conseguente svenimento da parte della sottoscritta – ed avrei anestetizzato qualsiasi pensiero non razionale pur di riuscire a concludere nel minore tempo possibile quel ricongiungimento. Miravo alla puntata di C’è posta per te più corta mai registrata.

Tommaso era cambiato molto nell’aspetto. Non sembrava più una gru.

-Stai pensando che non sembro più una gru, vero?

Caratterialmente, invece, era rimasto lo stesso. Empatico a livelli inquietanti.

Io, però, ero cambiata. Non abbassavo più gli occhi e, decisamente, arrossivo con molta difficoltà.

-Sì, direi che il tuo corpo ha ritrovato la proporzione perduta. – Allungai una mano, più per porre simbolicamente un muro tra i nostri corpi che per cortesia, e aspettai che me la stringesse. – Sono lieta di rivederti.

Lieta. Il massimo della cortesia, e della impersonalità. Erano passati sedici anni dall’ultima volta che ci eravamo visti ed ora eravamo due estranei. Volevo pensare che fossimo due estranei. Dovevo pensarlo.

Anche se lui aveva appena dimostrato di saper leggere ancora i miei pensieri – ma solo perché, per la sorpresa di trovarmelo lì davanti, avevo abbassato la guardia.

Anche se mi sentivo come se avessi una pistola puntata alla tempia e dovessi prestare la massima attenzione nel muovermi per non rischiare di rimanerci secca, lì, sullo stesso linoleum dovrei avrei preferito fare il morto per la fortuita comparsa di un Grizzly – ma solo perché, per la sorpresa di trovarmelo lì davanti, avevo abbassato la guardia.

Solo.

Tommaso guardò il mio braccio teso, vidi i suoi occhi salire dalla piccola mano bianca con le unghie corte senza smalto, su verso la manica del camice, fino a raggiungere il mio viso. Non sorrideva più, ora. Non riusciva a leggermi.

Ed io, non più accecata dal sole che nasceva dalla sua risata, potei finalmente guardarlo meglio, quel mio primo amore. No, non mio. Arianna non aveva mai veramente posseduto Teseo. Ed io non avevo mai veramente raggiunto l’essenza di Tommaso. Di sicuro avevo goduto della sua assenza, però.

Per prima cosa notai la barba. Quel qualcosa di selvaggio che era rappresentato una volta dai capelli, ora si notava in quella folta barba scura. Curata, appena un po’ troppo lunga per sembrare troppo ordinata, sicuramente morbida. Teoricamente morbida. Io di certo non avrei fatto nulla per accertarmi di quell’idea – anche se la mano che gli tendevo parve riempirsi di un silenzioso formicolio al pensiero di come dovesse essere, ora, accarezzargli il volto.

I capelli non erano più quel groviglio impazzito di ricci crespi, ma se ne stavano ordinatamente raccolti in un codino corto sulla nuca e, soprattutto, partivano da un’attaccatura sulla fronte molto più alta di quanto io ricordassi.

Era armoniosa quella ripartizione di volumi e peli sul suo viso, pensai, non senza una punta di nostalgia per il cespuglio da folle ormai defunto.

Gli occhi erano rimasti invece quelli che ricordavo. Scuri, profondi, belli. Così dolci, mi sembravano. La dolcezza di una dose letale di sonnifero.

Non scesi con lo sguardo ad indagare oltre il suo viso, perché quello già mi era bastato per capire che il ragazzo scomposto di sedici anni non c’era più. Ora Tommaso appariva oggettivamente bello, intrigante come sanno esserlo solo gli uomini di carnagione scura, con la barba di alcuni giorni ed i capelli più lunghi del normalmente concesso. Un pirata con gli occhi di fuoco ed il sorriso più brillante del sole.

Un sole oscurato da una nube di perplessità, davanti alla mia mano tesa.

-Anch’io sono felice di vederti, Arianna.

Mi strinse la mano, con una forza volutamente misurata, ed io in un attimo acquisii consapevolezza di tutto il suo corpo, quel corpo che non avevo voluto guardare, ma che ora sentivo nella sua interezza palpitare intensamente in quella mano calda, grande. Tommaso non aveva perso nulla del suo tono muscolare asciutto e scattante di atleta, mentre io avevo sbagliato. Di nuovo. Non mi ero ricordata di quanto calore potessero sprigionare quelle belle mani grandi, quelle mani che rappresentavano un corpo ancora più caldo e ancora più pericoloso.

Abbassai gli occhi sulle nostre mani strette in un segno di saluto formale, che di formale non aveva niente – le nostre pelli si erano riconosciute, bruciavano come tizzoni – quindi risollevai gli occhi sui suoi. E vidi che avevo perso, quel primo combattimento.

Lui sorrideva di nuovo.

Ma io non ero più Arianna e se la cortese dottoressa Nobili non era stata sufficiente a proteggermi – come avevo potuto essere così ingenua? – allora gli avrei presentato Aria.

Aria era leggera, Aria non aveva paura.

Aria attaccava, per difendersi.

Utilizzando le nostre mani come perno, la attirai verso di me, faticando non poco dato la sua stazza ben piantata a terra – non sei una gru, ma un cavolo di orso con il codino! – e lo abbracciai per dargli i due classici baci sulle guance.

Fu strano, quasi più strano dello stringersi la mano come due estranei, ma soprattutto fu inaspettato. Lo avevo spiazzato, capii sentendo il suo corpo irrigidirsi e non ricambiare la stretta. Questo non l’aveva previsto. Tommaso non conosceva Aria. Non sapeva che Aria non aveva paura.

Mi staccai da lui con la stessa velocità con cui lo avevo stretto, non per mostrare fretta, ma per mostrargli indifferenza.  Ti tocco, ti sento, ti guardo…ma non hai potere su di me.

Zittii l’angoscia che mi serrava la bocca dello stomaco, feci sprofondare il desiderio di sentire ancora quel corpo stretto al mio – era solo memoria fisica di qualcosa che già avevo sperimentato, una reazione naturale, un riflesso involontario – e impedii ai miei occhi troppo chiari di rivelare una qualsiasi di quelle emozioni.

Mi ero preparata per anni a quell’incontro.

Gli sorrisi, indulgente, in piedi davanti a lui in quel corridoio dove in pochi minuti si erano consumate due battaglie di volontà, e vidi la consapevolezza prendere forma nel suo sguardo non più aperto e divertito.

Ora conosceva anche lui Aria.

-Era troppo strano darsi la mano, scusami, ma sai com’è…la forza dell’abitudine. Spero tu stia bene – stava anche troppo bene – e sono felice di averti visto, però sono costretta a salutarti già. Mi aspettano in reparto. Ciao, ci si vede.

-Ah, sì, certo…ciao, buon lavoro, Arianna. Ci si vede.

Attacca, tramortisci, ma poi scappa.

Avevo parlato lentamente, guardandolo negli occhi con la mia migliore espressione di tranquilla nonchalance, ed ora mi ero girata per andare a prendere l’ascensore in fondo al corridoio.

Non l’avevo lasciato parlare, non gli avevo chiesto perché fosse lì in ospedale, non avevo voluto sapere nulla della sua vita. Ero stata gentile, cortese e fintamente calorosa, ma avevo fatto ben intendere che quei sedici anni c’erano tutti a dividerci e che lui non aveva nessun potere di condizionare il mio comportamento. Eravamo due estranei.

Questo era quello che mi dicevo mentre entravo nel mio studio e prendevo le cartelle cliniche posate sulla mia scrivania, pronta a fare il giro di visite pre-operatorie, ma com’è logico che sia, il mio corpo mi mostrò ciò che la mia mente rifiutava. Sotto il camice, ero sudata come se fossi stata fuori tutta la mattina con 40°C.  Ipersudorazione per l’adrenalina innescata dall’incontro inaspettato e conseguente reazione di fuga.

Mi sedetti pesantemente sulla sedia, posai nuovamente le cartelle cliniche, chiusi gli occhi e appoggiai la fronte sui palmi sudati e freddi.

Ero stremata come se avessi corsi una maratona e dovevo calmarmi se volevo operare quel giorno. Soprattutto, dovevo accettare il fatto che Tommaso, ancora, mi faceva sentire una sedicenne.

Cazzo, quella era un elisir di giovinezza di cui proprio non avevo bisogno.

  
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