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Autore: vannagio    08/08/2015    6 recensioni
«Salve, questo è il numero di Sam Winchester. Se avete bisogno di aiuto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, sarete richiamati al più presto».
Biiiip.
«Ehm, ciao, mi chiamo Laurel Lance. Non c’è un modo delicato per dirlo, tanto sono sicura che avrai già riconosciuto la mia voce. Sono il corpo che Ruby aveva posseduto sei anni fa. Ho bisogno del tuo... vostro aiuto. Spero che tuo fratello sia ancora vivo. Dio, spero che tu sia ancora vivo. Il numero è attivo, vorrà pur dire qualcosa, no? Ma sto divagando. Vivo a Starling City, California, e sono quasi certa che qui ci sia un caso di tua... vostra competenza. Ieri notte un ragazzo è stato completamente eviscerato. Per favore, richiamami a questo numero».
Biiiip.

[Cross-over con Arrow; storia ambientata durante la seconda stagione di Arrow e la nona stagione di Supernatural]
[Seconda classificata al contest "Lunghe, anzi... lunghissime", indetto da Ili91 sul forum di EFP]
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 3




«La fortuna questa volta non ci accompagna». Il broncio di Felicity era comparso da dietro il tablet. «Nessuna telecamera nei pressi dell’abitazione di Steve Neeson. Siamo punto e a capo».
Dean, che stava rimuginando sulle foto delle vittime, borbottò un “Fantastico” annoiato senza nemmeno sollevare lo sguardo. Tanto per fare qualcosa, cominciò a mettere gli scatti in ordine cronologico secondo la data del decesso: Mike Johnson, Jennifer Amell, Paul Wesley, Alisha Milano e adesso anche Steve Neeson.
Sam e Oliver stavano riguardando le registrazioni in cui Alisha invitava Steve a entrare in casa. Con la fronte corrugata il primo, a braccia conserte il secondo. Avevano stabilito una tacita tregua nelle ostilità dopo il ritrovamento del cadavere. Risolvere il caso veniva prima del loro orgoglio.
«Non ha alcun senso», disse Sam.
«Potrebbe essere una coincidenza», replicò Oliver. «Alisha era una habitué del locale in cui Steve lavorava, non è così assurda come idea. L’assassino potrebbe essere arrivato dopo».
«La registrazione risale a un’ora prima dell’omicidio. Il lasso di tempo è troppo risicato. Continuo a pensare a un mutaforma».
Dean scosse la testa.
«Gli occhi di Steve non brillavano nel video e non ha reagito all’argento».
«Nemmeno quelli dei Leviatani brillano nei video e non è detto che lo Steve che hai interrogato tu sia lo stesso che si vede nella registrazione».
«Ma tu vuoi a tutti i costi che si tratti di un Leviatano, per caso? Un figlio di puttana impossibile da ammazzare è proprio quello che ci serve per risollevarci il morale. Grazie tante, Sam».
«Okay, scusa tanto. Allora facciamo che è... la Fatina Dei Denti. Va meglio così? Ti turba di meno, l’idea?».
Oliver scambiò un’occhiata perplessa con Felicity e poi si schiarì la voce, mettendo fine al battibecco.
«Facciamo finta che Felicity ed io abbiamo capito di cosa parlate e decidiamo la nostra prossima mossa. Ormai mi pare scontato puntualizzare che chiunque o... qualunque cosa stia uccidendo queste persone si muove soltanto di sera. Ciò vuol dire che abbiamo fino a domani per ideare una linea di azione».
Chi aveva dato le redini del comando a Occhio Di Falco? Mentre Sam si faceva carico dell’onere di fare brainstorming con Clint Barton, Dean si chiuse in un mutismo ostile e tornò a fissare le fotografie. Le vittime non avevano nulla in comune nemmeno nell’aspetto fisico, sembravano proprio scelte a caso. Mike era alto e moro, Paul biondo con gli occhi verdi e Steve era un feticista dei baffi. Anche le donne erano diversissime: Jessica aveva i capelli rossi, il naso adunco e una marea di lentiggini, mentre Alisha era una piccoletta dalla pelle olivastra.
«...omicidi simili a Los Angeles, nel ‘99», stava dicendo Sam. «La detective che si occupava del caso si chiama Kate Lockley. Felicity, potresti trovarmi il suo indirizzo?».
Non aveva nemmeno finito di formulare la richiesta che si era già messa al lavoro.
«Sarà un gioco da ragazzi!».
«Vuoi andare a Los Angeles?», chiese Oliver.
Sam annuì.
«É l’unica pista che abbiamo. Sempre meglio di scrutare la folla in cerca di un tizio biondo con gli occhi verdi, no?».
Dean sgranò gli occhi. Tizio biondo con gli occhi verdi? Prese la foto di Paul Wesley fissandola come se avesse visto un fantasma.
«Ragazzi?».
Tre paia di occhi si posarono su di lui. Dean voltò lo scatto verso di loro.
«La barista aveva detto di aver visto Jennifer Amell flirtare con un uomo biondo con gli occhi verdi. Non vi sembra che Paul Wesley corrisponda alla descrizione?».
Felicity inclinò la testa di lato, come un cocker.
«Quindi adesso abbiamo ben due coppie di vittime che sono uscite insieme? Che cosa vorrebbe dire?».
«E perché né Paul né Steve si sono fatti avanti dopo aver scoperto che la persona con cui erano stati era morta?», chiese Oliver.
Dean diede un pugno al tavolo.
«Quel bastardo coi baffetti! “Non so proprio come dirglielo, Agente. Non ho notato nulla di strano”. E intanto si era fatto un giro di giostra con Alisha».
Sam roteò gli occhi.
«Non vorrei essere ripetitivo, ma la Fatina Dei Denti è ancora l’ipotesi più probabile. C’è poco da rimuginarci su comunque, la soluzione migliore è fare due chiacchiere con la Detective Lockley».
Felicity sventolò un post-it in aria con un tempismo perfetto.
«A proposito, ho l’indirizzo che mi avevi chiesto. Più qualche informazione bonus. La Detective non è più una detective dal 2001. Adesso è proprietaria di un negozio di antiquariato. Mi sono permessa di reperire anche l’indirizzo del negozio».
Sam le rivolse un sorriso riconoscente, mentre prendeva il post-it che lei gli stava porgendo da sopra il tavolo.
«Grazie, Felicity».
«Bene», disse Oliver alzandosi in piedi. «Non c’è più molto che possiamo fare per stanotte». Diede un’occhiata alla patacca d’oro che portava al polso. «Forse dovrei dire stamattina». Si rivolse a Sam. «Quando pensi di partire?».
«Voglio dormire almeno un paio d’ore, è un viaggio di cinque ore e mezza».
Oliver annuì, lo sguardo risoluto del condottiero.
«Bene, abbiamo tutti bisogno di riposare. Ci aggiorniamo dopo la partenza di Sam».
Mezz’ora più tardi, Oliver e Felicity avevano lasciato il motel. Dean era già sotto le coperte, quando Sam uscì dal bagno. Aspettò che si fosse sdraiato nel suo letto.
«Sicuro di voler andare da solo a Los Angeles?», gli chiese.
Sam si voltò su un fianco, dandogli le spalle.
«Qualcuno deve rimanere qui a tenere d’occhio la situazione».
«Ci sono IT Girl e Occhio Di Falco. Una collaborazione tra squadre serve a questo, no?».
«Intendevo qualcuno di esperto nel settore».
Spense la luce dell’abat-jour sul comodino e non aggiunse altro. Dean sospirò.
«D’accordo, come vuoi tu».


Domenica

Quando la sveglia suonò, alle sei e trenta del mattino, Laurel era già sveglia da mezz’ora. La spense con un colpo secco e rimase immobile nel letto a fissare il lampadario. Da quando aveva perso il lavoro, non aveva ancora cambiato l’ora in cui far scattare l’allarme. Spostarla in avanti e alzarsi in tarda mattinata avrebbero reso tutto più reale, invece svegliarsi di buon’ora le dava l’illusione di non stare buttando via la sua vita poltrendo. Si teneva impegnata il più possibile, facendo pulizie, consultando gli annunci di lavoro, andando a correre nel parco, uscendo con Sara o col padre. Andava bene qualsiasi cosa, pur di non cedere all’ozio. L’ozio portava cattivi pensieri e i cattivi pensieri portavano a una bottiglia di vino. Senza il lavoro, i giorni della settimana erano tutti uguali: si svegliava, faceva cose, pranzava, faceva cose, andava a un incontro degli alcolisti anonimi, cenava e andava a dormire. Il concetto di fine settimana o di lunedì non esisteva più, c’era solo un unico giorno che si ripeteva all’infinito, come nel film Groundhog Day con Bill Murray ma meno divertente. L’arrivo dei fratelli Winchester e unirsi a Sam nelle ricerche erano stati dei bei diversivi, le era sembrato di tornare a fare qualcosa di utile, di aiutare la gente, come aveva sempre voluto fin da bambina. Poi però Arrow le aveva sbattuto in faccia la realtà e il peggio era che non poteva nemmeno dargli torto.
Sospirò profondamente e con uno scatto di reni si mise in piedi. Era ora di avvolgere il nastro, alzarsi e ricominciare da capo il Giorno della Marmotta. Andò in cucina, accese il lettore musicale su I Got You Babe, mise in funzione la macchina del caffè, infilò due fette di toast nel tostapane e tirò fuori dal frigorifero succo di arancia, burro e marmellata. Mentre apparecchiava e l’appartamento si imbeveva dell’aroma penetrante del caffè e del profumo croccante del pane tostato, il campanello alla porta trillò.
Sam Winchester sulla sua soglia di casa con un’espressione da cane bastonato la scombussolò non poco. Lo vide grattarsi la nuca a disagio.
«Sei mattiniera, eh?».
Lei incrociò le braccia sotto al seno.
«Che ci fai qui, Sam?».
Lui sollevò la mano destra, che stringeva il sacchetto di carta di una pasticceria.
«Avevo preso dei cornetti per il viaggio in macchina, ma a quanto pare hai già provveduto da sola alla colazione».
Il tostapane in cucina fece din come a dargli ragione.
«Sam, non ti seguo. Cornetti per quale viaggio in macchina?».
«Sto andando a Los Angeles. Voglio saperne di più sui quei casi del ’99. Ti va di accompagnarmi?».
Laurel per un attimo ponderò l’idea di dirgli di no per dispetto. In fondo in fondo ce l’aveva con lui per aver ceduto alla richiesta di Arrow. Poi però pensò all’ennesimo Giorno della Marmotta che le si prospettava davanti e si fece da parte per farlo entrare.
«Sarò pronta in dieci minuti. Tu intanto metti il caffè nel termos e i toast nella busta con i cornetti».


Si erano gustati caffè, cornetti e toast con marmellata in silenzio, mentre l’Impala macinava un chilometro dopo l’altro. Il viaggio era lungo, però, e se non avessero trovato subito un argomento di conversazione, molto presto la faccenda sarebbe diventata imbarazzante.
«Altro caffè?», gli chiese.
«No, grazie. Sono a posto».
Laurel annuì meccanicamente e poggiò il termos sul cruscotto, scartabellando tra le memorie di Ruby in cerca di qualche spunto. La prima cosa che le venne in mente fu...
«Non posso credere che Dean ti abbia lasciato l’Impala. Da quel che ricordo ne è molto geloso».
Sam abbozzò un mezzo sorriso, mentre imboccava la prima uscita per l’autostrada.
«Geloso è un eufemismo. Se l’Impala fosse una donna, credo che le chiederebbe di sposarlo. Ma sono cambiate molte cose da quando tu... be’, hai capito».
Seguì un altro lunghissimo minuto di silenzio.
«Grazie per avermi chiesto di accompagnarti», tentò di nuovo Laurel.
«Non devi ringraziarmi, ci sono così tante cose di cui io dovrei scusarmi con te che penso non saremo mai pari».
Vide il suo volto incupirsi e sentì il bisogno di rassicurarlo.
«No, Sam. Quella sera, quando siete arrivati, ero solo arrabbiata con tuo fratello. Ruby ti ha manipolato, ti ha fatto credere che possedere un’umana fosse il male necessario, non te ne faccio una colpa. E se ti riferisci anche a ieri sera... be’, sì, un po’ ce l’avevo con te, ma solo perché in realtà ce l’avevo con me stessa. Ho mandato al diavolo la mia vita con l’alcol, non posso prendermela con gli altri se così facendo ho perso la fiducia delle persone».
Lui distolse per un istante lo sguardo dalla strada per rivolgerle un’occhiata significativa.
«Sei troppo severa con te stessa, Laurel».
«E tu sei troppo buono con me». Prese a fissare la strada oltre il parabrezza. «Come l’hai capito, a proposito? Ieri sera... quando hai fatto sparire la birra».
Sam rise imbarazzato e si scompigliò i capelli, tenendo saldamente il volante con una mano.
«Ah, te ne sei accorta? Ed io che cercavo di fare il disinvolto! Oh, be’... da come fissavi la bottiglia». Si incupì un’altra volta. «Qualche anno fa vedevo lo stesso sguardo allo specchio. Di tanto in tanto lo vedo ancora».
Laurel inarcò entrambe le sopracciglia.
«Anche tu...?».
Sam annuì.
«Non alcol... un’altra cosa».
Si rese conto quanto gli stesse costando ricordare quel periodo dalle dita serrate intorno al volante. Laurel conosceva fin troppo bene i piani che Ruby aveva per Sam e gli effetti che avrebbero avuto su di lui...
«C’entra Ruby, vero?».
«Com’è che hai detto prima? Mi ha fatto credere che fosse il male necessario. Sapeva che avevo bisogno di credere di poter volgere in bene il male che Azezel aveva fatto a me e alla mia famiglia. Ho visto in lei una speranza. Forse è per questo che...».
Lasciò la frase in sospeso e arrossì.
«Che...?», lo incalzò lei.
Sam si scompigliò di nuovo i capelli e deglutì a vuoto.
«Che lei ed io...».
Improvvisamente Laurel si ricordò di certi pensieri che Ruby aveva avuto su Sam e arrossì a sua volta.
«Oh».
«Non quando era nel tuo corpo, però. È stato dopo», si affrettò a precisare lui.
«Oh, sì, lo so, sta’ tranquillo». Laurel abbassò lo sguardo sulle sue mani sudate. Le fantasie di Ruby stavano ancora scorrendo davanti ai suoi occhi. Il problema era che Ruby le aveva pensate in prima persona. Quindi adesso era Laurel che si vedeva in prima persona presa per i fianchi da Sam, sbattuta con violenza contro un muro e... Scosse la testa, fino a frustarsi il viso con i capelli. «Una cosa così non l’avrei mai potuta dimenticare, credimi».
Si rese conto troppo tardi di quanto la sua frase suonasse ambigua. Per fortuna Sam era troppo concentrato sul suo tormento per accorgersene.
«Lo capirei se mi giudicassi male adesso, non farti scrupoli», disse infatti.
La frustrazione che lesse nella sua voce fu sufficiente a scacciare in un istante tutti quei pensieri inopportuni.
«Perché dovrei? Tu non mi hai giudicata per i miei errori, forse sei la prima persona da un po’ di tempo a questa parte che non mi tratta come un oggetto rotto. “Errare è umano, perseverare è diabolico” è un detto da cui traggo molto conforto, da quando ho scoperto che esiste tutto un sottomondo di creature sovrannaturali. Se si cade, ci si può rialzare. Se si sbaglia, si può cercare di rimediare. È nella natura umana». Gli poggiò la mano sull’avambraccio. «Tu ne sei l’esempio lampante, Sam. Tu sei molto... umano, non dubitarne mai».
Le rivolse uno sguardo riconoscente.
«Anche tu, però. Non dubitare mai di te stessa. Dopo l’inferno che hai passato, sei ancora qui, in piedi, pronta a ricominciare. Sappi che ti ammiro per questo».
Laurel sentì le lacrime pungerle gli occhi, dovette serrare le palpebre per ricacciarle indietro. Quando le riaprì, Sam stava fissando la strada.
Calò nuovamente il silenzio tra loro. Un silenzio confortevole, che Laurel non sentì più necessario riempire con le parole.


Quando era andato all’obitorio chiedendo del Dottor Morgan e gli avevano detto che il dottore lo avrebbe ricevuto nel suo ufficio invece che nella camera mortuaria, Dean si era sentito sollevato. Nella sua personale top ten delle cose che più lo mettevano a disagio, vedere un uomo che sbava su un cadavere occupava il quinto posto, preceduto da Castiel che cerca di capire la trama di un porno al quarto posto e sorprendere Castiel che lo fissa dormire al terzo.
Poi entrò nel suddetto ufficio e tutta la classifica andò a farsi fottere.
Dean non sapeva dove guardare, così si concentrò sulla faccia sorridente del Dottor Morgan, che si era alzato per porgergli la mano.
«É un piacere rivederla, Agente Plant. Abbiamo a che fare con uno stacanovista, non le pare? Questo serial killer non ci dà tregua nemmeno nel fine settimana. Prego, si sieda», disse, indicandogli la poltrona e tornando dietro la scrivania. Nel sedersi, la pelata del Dottor Morgan si allineò esattamente con la foto di un cranio spappolato. «Che gliene pare?».
Dean sbatté le palpebre un paio di volte. Non glielo stava chiedendo davvero, vero?
«Di cosa, scusi?».
«Del mio ufficio, naturalmente».
Sì, glielo stava chiedendo davvero. Tentò di guardarsi intorno con espressione neutra e rispose con un diplomatico “Eccentrico” che fortunatamente parve soddisfare il Dottor Morgan.
«I miei colleghi lo chiamano La Galleria Degli Orrori. Io preferisco L’Arte Della Morte, perché anche nel morire ci vuole un certo stile». Indicò la foto di una ragazza gravemente ustionata alla sua sinistra. «Come la Signorina Hopkins che è caduta dentro una botte di vino con una sigaretta accesa. O il Signor Ford», fece un cenno verso la fotografia di due corpi maciullati, «che si è buttato in mare con la sua auto, ma invece di annegare, è morto per tamponamento: è finito addosso a una chiatta e ha sfondato la cabina del conducente». Infine prese uno scatto da un fascicolo e lo mise sulla scrivania davanti a un Dean sul punto di vomitare. «O questa bellezza, che continua a sorprendermi giorno dopo giorno». Picchiettò sulla foto. «Guardi qui».
Dean vide solo la schiena di un cadavere.
«Scusi, ma non capisco».
Il Dottor Morgan gli offrì una lente di ingrandimento.
«Questa è la schiena di Steve Neeson. Vede questo leggerissimo alone? É quasi un cerchio».
Guardando attraverso la lente, Dean strizzò gli occhi.
«É una cicatrice?».
Il Dottor Morgan applaudì.
«Esatto! Era così ben rimarginata e noi eravamo così concentrati sulla ferita sul davanti, che all’inizio è passata inosservata. Dopo un attento riesame, abbiamo scoperto che tutti i corpi hanno lo stesso tessuto cicatriziale sulla schiena. Per quel poco che si riesce a vedere, la ferita che l’ha prodotto aveva lo stesso diametro...», tirò fuori dallo stesso fascicolo un’altra fotografia, questa volta del petto squarciato di Steve Neeson, «...di quella sul davanti. Sa a che cosa mi ha fatto pensare, Agente Plant?».
Dean scosse la testa.
«Ai proiettili», disse il Dottor Morgan.
«Non si è mai parlato di ferite d’arma da fuoco».
«Oh, sì, certo. Ho detto solo che mi ha fatto pensare ai proiettili, non che i proiettili c’entrino qualcosa. Perché, vede, quando un proiettile colpisce un corpo e lo attraversa da parte a parte, si trovano sempre...».
«...due fori».
Il Dottor Morgan annuì.
«Uno di entrata», posò l’indice sulla foto della schiena, poi lo spostò su quella del torace, «e uno di uscita».


«Uhm...».
Oliver scattò sull’attenti.
«Trovato qualcosa?».
Felicity fece spallucce.
«In realtà sì, anche se non so quanto possa servire. Tutte le vittime, tranne Steve Neeson, il giorno della loro morte si sono assentate dal lavoro senza avvisare. Dai tabulati telefonici risulta che nessuno di loro ha effettuato chiamate durante la giornata. Nessuno ha mandato e-mail, usato WhatsApp, navigato su internet o visitato siti web. E da quello che posso dedurre, normalmente Alisha era una fanatica delle chat room, Paul era un affezionato di youporn, John lavorava soprattutto da casa e mandava molte e-mail, Jessica pubblicava storie melense su un sito per scrittori amatoriali e Steve svuotava le sue carte di credito su e-bay. Ma a partire da ventiquattro ore prima della loro morte... nada, zero, tabula rasa. È come se avessero smesso di essere loro stessi».
«Forse Dean saprà cosa farsene di queste informazioni». Oliver si afflosciò contro lo schienale della poltrona. «Accidenti, mi sento completamente inutile».
Felicity fece scrocchiare le dita e si stiracchiò. Erano tornati momentaneamente al loro covo per effettuare le ricerche sulle vittime.
«Vedrai che il momento di usare la forza bruta arriverà presto e allora sarò io quella inutile, magari proprio stasera! Anzi, potresti allenarti un po’, giusto per riscaldarti». Si aggiustò gli occhiali sul naso. «Lo dico per il tuo bene, eh?».
Purtroppo Oliver non colse il suggerimento. Anzi, sembrava proprio non ascoltarla. Una ruga di preoccupazione gli attraversava la fronte. Felicity fece voltare la poltrona in modo da guardarlo dritto negli occhi.
«Che c’è, Oliver?».
«C’è che non voglio che ti esponga di nuovo sul campo, è troppo pericoloso. L’altra sera a momenti ti beccavi una pallottola in testa».
Felicity roteò gli occhi.
«Oliver, te l’ho già spiegato un milione di volte. Le telecamere wireless che piazzerai all’esterno del locale mandano un segnale molto debole, devo trovarmi nelle vicinanze per captarlo e monitorare le immagini. E non penso che Dean sia in grado di sostituirmi in questo compito. In compenso pare sia molto bravo con la faccenda della forza bruta, non mi perderà di vista un attimo. E tu sorveglierai il perimetro dell’edificio. Sarò in una botte di ferro, credimi».
«Che Dean non ti perderà di vista sono sicurissimo».
Felicity gli diede le spalle e tornò alle sue ricerche.
«Se al mio posto ci fosse Sara, non faresti tutte queste storie», borbottò.
Lo sentì alzarsi e avvicinarsi, ma continuò imperterrita a dargli le spalle.
«A parte che Sara sa difendersi da sola, non è questo il punto. So che sei in gamba, Felicity». Non la stava sfiorando nemmeno con un dito, eppure non avrebbe percepito meglio il suo calore sulla schiena nemmeno se l’avesse abbracciata. «Hai già dimostrato altre volte di essere in grado di lavorare sul campo. Questa volta, però, è diverso. Questa volta stiamo affrontato qualcosa che non conosciamo».
Finalmente si voltò. La ruga di preoccupazione stava ancora deturpando la fronte di Oliver, così cercò di appianarla con una carezza e un sorriso.
«Starò attenta, te lo prometto».


Los Angeles, California

Il negozio di antiquariato di Kate Lockley aveva un nome che riempiva la bocca (Hollywoodland Antiques & Fine Time Pieces) e somigliava più a un banco dei pegni di roba pacchiana. L’insegna era stata disegnata con lo stile vintage dei volantini pubblicitari degli anni cinquanta: una pin up mora alla guida di una decapottabile rossa indossava un foulard a pois sui capelli e un paio di occhiali a occhi di gatto; alle sue spalle si stagliava la sagoma di un promontorio verde e la scritta Hollywoodland. Sotto l’insegna, la scritta “Siamo aperti sette giorni su sette”.
Sam e Laurel smontarono dall’Impala, attraversarono la strada e passarono in mezzo a due banchetti allestiti sul marciapiede davanti all’ingresso del negozio, sui quali facevano bella mostra di sé la statuina di uno scimpanzé violinista seduto su una seggiola di legno, varie stampe di Marylin Monroe, locandine di film con Henry Fonda o John Wayne e un castello di libri tascabili. Dalla vetrina si scorgevano una casa delle bambole, una chitarra classica, un candelabro in vero vetro di Murano e un orologio a pendolo. L’interno del negozio era esattamente come Sam se lo aspettava: un dedalo di viuzze delimitate da mura di roba accatastata alte fino al soffitto.
«Se non sapessi che Lockley è un’ex-poliziotta, avrei detto che la proprietaria di questo posto è una vecchia signora coreana», disse Laurel, mentre superava una logora poltrona in pelle appartenuta a chissà quale VIP con ancora l’impronta del corpo del suddetto VIP. «Hai detto che è stata espulsa con disonore dal corpo di polizia nel 2001? Come avete avuto queste informazioni?».
Sam inciampò in un porta-ombrelli a forma di zampa di elefante.
«Arrow ci ha dato una mano...».
Il bancone si trovava in fondo a un viottolo arzigogolato di tappeti persiani, tra una vetrinetta in mogano stracolma di candelabri d’argento e un pianoforte verticale sepolto sotto un fitto strato di centrini di pizzo. Non c’era anima viva in giro. Sam fece suonare il campanello da tavolo seminascosto dalle sottane di una bambola in porcellana, sperando che non fosse un articolo in vendita.
«Posso fare qualcosa per voi?», disse una voce monocorde alle loro spalle.
Laurel sussultò, Sam invece fu più bravo a mascherare la sua sorpresa.
«Kate Lockely?», chiese.
Lei passò dietro al bancone muovendosi con circospezione, come un animale che sonda l’ambiente circostante annusando l’aria. Era una donna bionda, sulla quarantina, il cui sguardo severo e sospettoso non donava al suo viso a cuore.
«Chi lo vuole sapere?».
«Siamo Sam Allen e Laurel West dello Star’s News. Stiamo scrivendo un articolo sul caso dei corpi eviscerati ritrovati a Starling City in questi giorni, ne avrà sicuramente sentito parlare sui notiziari».
Al fianco di Sam, Laurel era rigida come un manichino. A giudicare da come la fissava, Lockley se n’era accorta. Aveva occhi di un azzurro ghiaccio che sondavano una persona come un metal detector.
«Sì». E dopo una lunghissima pausa durante la quale il suo sguardo si spostò lentamente da Laurel a Sam aggiunse semplicemente: «Ne ho sentito parlare».
Lui provò invano a sorriderle in modo rassicurante.
«Ecco, siamo qui perché lei nel ’99 ha condotto un’indagine su degli omicidi molto simili verificatisi qui a Los Angeles. Ci sono molti punti in comune tra i due casi e volevamo porle qualche domanda, se non le spiace».
«A dire il vero sì». Un click inconfondibile. Poi Lockley tirò fuori una pistola da sotto il bancone. «Mi spiace molto».
Fu solo in quel momento che lo vide, nonostante la glock puntata contro, su una lavagnetta appesa al muro, tra il prezzo di un carillon, gli orari di apertura e chiusura del negozio e gli avvisi per la clientela.
Il simbolo dei cacciatori.


«Non so chi sia questo budino tremolante che ti porti dietro, ma riconosco un uomo armato quando lo vedo».
Da quando Lockley aveva estratto la pistola, Laurel non aveva osato muovere nemmeno un sopracciglio, ma il commento sul budino aveva trasformato parte del suo terrore in stizza. Lockley era concentrata solo su Sam, probabilmente lo considerava il più pericoloso tra loro due. Non a torto, in fondo.
«Sono un cacciatore anche io», disse Sam.
Laurel si permise la libertà di lanciargli un’occhiata sbigottita.
«Di certo non siete giornalisti», replicò Lockley, che invece non sembrava affatto sorpresa dalla rivelazione. «Poggia le tue armi sul bancone e poi parliamo».
Sam obbedì senza fiatare. Estrasse una pistola dalla fondina ascellare sotto la giacca, un coltellaccio dalla cinta dei pantaloni e un coltellino più piccolo dallo stivale. Poi si slacciò i primi due bottoni della camicia a quadri e mise in mostra la stella circondata dal sole tatuata appena sotto la clavicola. Le spalle di Lockley si rilassarono un po’.
«Bene, adesso fate dietro front e sloggiate», disse, continuando a tenerlo sotto tiro.
«Aveva detto che...».
«Avevo detto che avremmo parlato. Be’, vi sto dicendo di togliervi dai piedi. Non sono più una cacciatrice e non voglio avere più niente a che fare con questa vita, ne ho avuto abbastanza».
Sam rimase fermo dov’era.
«Non si smette di essere un cacciatore. Il fatto che quel simbolo sia ancora lì dimostra che ne è consapevole anche lei».
Lockey rinsaldò la presa sulla pistola, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
«Posso almeno provarci».
Laurel stava adocchiando le armi sul bancone e chiedendosi se fosse abbastanza veloce da afferrarne una al volo, dato che Lockley aveva occhi solo per Sam, quando lo sguardo le cadde sul porta-fotografia accanto al registratore di cassa: la foto che incorniciava ritraeva un uomo sulla settantina in divisa da poliziotto. La cera del lumino posto davanti alla fotografia si era sciolta quasi del tutto e aveva formato una crosta solida sul piano del bancone. All’improvviso Laurel ricordò le parole di suo padre, il giorno della laurea. Sai cosa è più pericoloso di un uomo armato? Un avvocato senza bavaglio. Non è detto che l’uomo armato punti una pistola per uccidere. L’avvocato, invece, quando apre bocca è sempre per colpire.
«Mi spiace per la sua perdita. Era suo padre, vero?».
Lockley mosse verso di lei solo gli occhi. Si limitò a rispondere con un cenno del capo.
«Anch’io ho un padre poliziotto». Laurel sorrise, guardando la foto con tenerezza. «Scommetto che ha deciso di entrare in polizia per merito suo».
«Volevo rendermi utile, suppongo che lui c’entri in qualche modo. Non capisco dove tu voglia andare a parere con questo, però».
L’espressione di Sam sembrava dire lo stesso.
«Da bambina avevo questa fantasia...», proseguì Laurel. «Catturare i cattivi al fianco di mio padre, un po’ come nei fumetti, ogni eroe ha la sua spalla, no? Poi sono cresciuta e ho capito che se lui arrestava i criminali, qualcuno doveva assicurarsi che finissero in galera, così sono diventata un avvocato».
«Senti, ragazzina, è tutto molto commovente, ma...».
«Anche adesso che ho mandato tutto al diavolo e che probabilmente non potrò più praticare la professione, non faccio che pensare agli insegnamenti di mio padre e a trovare un nuovo modo per aiutare la gente. Fa parte di me, di ciò che sono, non posso cambiarlo. Ecco perché Sam si porta dietro questo...», mimò le virgolette con le dita, «...budino tremolante. Ed ecco perché lei, anche se non è più una poliziotta, anche se dice di non voler più essere una cacciatrice, ha lasciato quel simbolo sulla parete. Perché nel profondo del suo cuore desidera ancora aiutare le persone, è la sua natura. Non è così? Be’, questa è la sua occasione, può tornare a fare quello che sa fare meglio, può aiutarci a salvare delle vite umane».
Il celeste negli occhi di Lockley pareva più acquoso, adesso. Col cuore in gola, Laurel la vide serrare le labbra, prendere un respiro profondo... e finalmente abbassare la pistola.
«Non appena avrò risposto alle vostre domande vi voglio fuori di qui», disse. «Andiamo nel retrobottega, lì saremo più comodi».
Mentre sorpassavano una libreria strabordante di scatoloni impolverati, Sam diede di gomito a Laurel e mimò un grazie con le labbra.
Non c’è di che, rispose. In fondo, le parole erano il suo mestiere.


Quello che Lockley chiamava retrobottega, in realtà era un arsenale in piena regola. Sam non aveva mai visto tante armi, provenienti dai paesi più disparati e appartenenti alle epoche più lontane, accumulate in uno spazio così ristretto. Considerato il fornitissimo arsenale dei Men Of Letters, era tutto dire.
Con occhi e bocca spalancata, Sam si avvicinò a una teca dove riconobbe un barong, un pugnale tradizionale filippino, utilizzato dalla tribù islamica dei Moro. Aveva la tipica lama a foglia e l’impugnatura in corno di carabao a forma di testa di drago. Anche Laurel si stava timidamente guardando intorno. Si fermò a fissare un mandau appeso alla parete che aveva un’impugnatura dal piumaggio variopinto.
«Quando ero una cacciatrice, usavo l’antiquariato come copertura», spiegò Lockley. «Me ne servivo per reperire le armi di cui avevo bisogno per ammazzare i mostri. Questa, ad esempio...», indicò una Misericordia del XII secolo dalla lama triangolare, «...l’ho usata per uccidere una strega parecchio coriacea».
«E cosa hai usato per liberarti del mostro che ha eviscerato quelle persone nel ’99?», chiese Sam.
Lockley si sedette su uno sgabello e accavallò le gambe.
«Non l’ho ucciso io, non ero ancora una cacciatrice all’epoca. Non sapevo nemmeno che si trattasse di un mostro, ero convinta di avere per le mani un semplice psicopatico. Solo successivamente mi è stato spiegato tutto».
Sam aggrottò la fronte.
«Da un altro cacciatore?».
Lei gli rivolse un sorriso enigmatico.
«Un investigatore privato con un debole per la vita notturna. L’ha ucciso col fuoco, a ogni modo. È questa la risposta che cercavi: cuocilo a puntino. Ha una forza sovraumana, però, non si farà beccare facilmente».
Sam annuì.
«Con che tipo di creatura abbiamo a che fare?».
«Si chiama Scavatore, essenzialmente perché scava dentro le sue vittime. Si trasferisce da un corpo all’altro, normalmente in seguito all’atto sessuale, lo scambio di fluidi corporei rende più veloce il passaggio. Un trasferimento in assenza di rapporto sessuale è possibile, ma lo indebolisce parecchio».
Laurel si strinse nelle braccia.
«Perché lo fa?».
«É un parassita e cerca l’ospite perfetto», rispose Lockley. «I corpi non adatti a contenerlo si consumano in un giorno a causa di una sostanza acida che lo Scavatore secerne mentre è dentro di loro. Se non trova un altro corpo in tempo, muore».
«C’è possibilità di salvare gli ospiti?», chiese Laurel.
Lockley scosse la testa.
«Una volta che è entrato, non c’è più niente da fare, l’ospite diventa un frutto bacato. Non dovete farvi scrupoli: bruciate tutto il pacco sorpresa, confezione compresa».


«Scavatore, eh? Che nome originale! Torna tutto, comunque. E coincide con quello che IT Girl e Dottor Morte hanno scoperto».
«Rimorchia in un locale per single e dopo averci fatto sesso si trasferisce nel nuovo ospite. Steve Neeson è l’ultimo della catena, questo vuol dire che adesso si trova nel corpo di una ragazza».
«Un motivo in più per tenere d’occhio le puledre, stasera».
«Dean...».
«Cristo, perché sei sempre così serio?».
«Sto partendo in questo momento, sarò a Starling City tra cinque-sei ore al massimo. A che ora avete intenzione di andare al locale?».
«Non se ne parla nemmeno, cowboy. Tu devi riposare».
«Dean...».
«Sammy, non voglio tenerti in disparte, okay? Ma hai affrontato cinque ore di macchina e ne hai davanti altrettante. Devi riposare. IT Girl si è già messa al lavoro per trovare un modo per scovare il vermiciattolo, non appena lo avremo identificato, ti chiamerò».
«Giuramelo, Dean».
«Va bene, promesso».
«No. Devi giurare. Su Babe».
«Sam...».
«Dean!».
«D’accordo, d’accordo. Lo giuro sulla mia piccola Babe. Contento?».


Starling City, California

«Casa dolce casa! Non mi sei mancata per niente». Laurel spalancò la porta del suo appartamento, posò la borsa sul mobile all’ingresso, scalciò via le scarpe e si lasciò cadere distesa sul divano. «Sono stanca morta, ma soddisfatta. É stato un bel lavoro di squadra!».
Sam si era seduto sul bracciolo del divano.
«Hai fatto praticamente tutto tu».
«Non è vero», disse Laurel. «Tu hai guidato».
Lui si scompigliò i capelli ridendo, ma prima che potesse aggiungere qualcosa, Laurel era scattata nuovamente in piedi. Sam si chiese come fosse possibile che un corpicino così ossuto sprizzasse ancora tutta quella energia.
«Ho fame. Tu?». La vide raggiungere la cucina a passo svelto, aprire il frigo e contemplarne il contenuto con la fronte aggrottata. «Hai la scelta tra due involtini primavera di ieri, pollo bambu e funghi dell’altro ieri e spaghetti fritti croccanti con verdure di... uhm, non ricordo più di quando». Prese la confezione e l’annusò con circospezione. «Dall’odore, però, sembrano ancora buoni».
«A occhio e croce direi che ti piace il cinese», fu il commento di Sam.
«É un ristorante take away molto carino, mi ci ha portato per la prima volta mio padre. Ci passiamo sempre davanti, di ritorno dagli incontri degli alcolisti anonimi». Laurel gli lanciò un’occhiata. «Sai che ti dico? Facciamo fuori tutto. Tu sei un gigante, più roba c’è meglio è. Le posate sono nel cassetto sotto al lavello, ti dispiace?».
Mentre Sam apparecchiava, Laurel prese un piatto, ci svuotò dentro tutte e tre le pietanze e lo mise dentro al forno a microonde. Girò la manopola e si leccò il pollice sporco di salsa di soia con aria pensierosa.
«Forse è rimasto del gelato dallo scorso sabato».
«Ma tu vai avanti sempre ad avanzi?».
Laurel ridacchiò.
«I miei occhi sono più grandi del mio stomaco. Quando ho fame, compro un sacco di roba che puntualmente non riesco a mangiare tutta in una volta».
Il forno a microonde fece din, spegnendosi. Laurel tirò fuori il piatto e con un “Accidenti, scotta!” lo poggiò al centro del tavolo. Prese una forchetta e ci infilzò un involtino primavera. Ne fece sparire metà con un morso, mentre era ancora in piedi, appoggiata di schiena al piano di lavoro della penisola.
«Non ti dispiace, vero, se resto alzata? Siamo stati seduti quasi per tutta la giornata».
Sam, che invece si era seduto composto a tavola, si allungò verso il piatto da portata per rubare una forchettata di spaghetti fritti alle verdure. Scosse la testa.
«Scherzi? Sono cresciuto con Dean, la formalità a tavola non so proprio dove stia di casa».
Lei storse la bocca in una smorfia.
«Immagino».
Tra un boccone di pollo e un mezzo involtino primavera, il silenzio rotto solo dal grattare delle posate sul piatto, Sam non poté fare a meno di notare quanto quell’atmosfera intima fosse familiare e al tempo stesso nuova per lui. Da un lato gli ricordava i momenti trascorsi con Ruby, quando erano solo loro due, quando Sam poteva concedersi il lusso di fare finta di non avere di fronte un demone.
«Hai un po’ di salsa di soia qui», disse Laurel, picchiettandosi la fossetta sotto il labbro inferiore con l’indice. «Aspetta, ci penso io». Prese un tovagliolo, si chinò su di lui e gli pulì il mento. «Ecco fatto!».
Dall’altro lato era assolutamente consapevole che quella piccola cucina dalle pareti rosse, Alanis Morissette in sotto fondo, l’odore di frittura degli spaghetti che aleggiava nell’aria e il sorriso di Laurel a un soffio dal suo viso non avevano nulla a che vedere con Ruby o il suo ricordo.
Laurel stava per raddrizzare la schiena, ma lui la afferrò per il polso e la trattenne vicina. La baciò prima di cambiare idea, cavalcando l’impulso del momento, con ancora la forchetta in mano. Forchetta che lasciò cadere sul pavimento, quando Laurel ricambiò il bacio e si sedette a cavalcioni sulle sue gambe. Sam si aggrappò ai suoi fianchi stretti così forte da sentirla gemere. Preoccupato di averle fatto male, era così sottile in confronto a lui, allentò la presa. In risposta ottenne uno strattone sui capelli, un lamento di protesta e il suo soffio caldo contro l’orecchio.
«Non sono fatta di terracotta, Sam».
Non se lo fece ripetere due volte.
La afferrò di nuovo saldamente per i fianchi, si alzò in piedi e mentre lei gli cingeva la vita con le gambe, lui con una manata rovesciò a terra tutto quello che c’era sul tavolo e la fece distendere sulla schiena. Afferrò i due lati della camicetta di Laurel e con un unico energico strattone provocò una pioggia di bottoni. Si chinò a baciarla e poi la morse sul collo facendola gridare per la sorpresa.
Il resto dei vestiti finì per terra subito dopo.


«Ultima telecamera in posizione», comunicò Oliver attraverso l’auricolare.
Felicity annuì meccanicamente, anche se sapeva benissimo che lui non poteva vederla. Si mise subito al lavoro sul touchscreen dello smartphone per attivare il segnale wireless della telecamera e dopo un paio di minuti l’immagine del vicolo sul retro del locale era già comparsa sullo schermo. Poi premette un’icona in alto a destra e lo schermo si divise in quattro quadranti, corrispondenti a quattro diverse telecamere che Oliver aveva posizionato in corrispondenza delle quattro vie di accesso e uscita del Cuori Solitari. Davanti alla telecamera dell’uscita sul retro apparve la sagoma arancione di Arrow. Il filtro applicato sulla lente rivelò soltanto una fonte di radiazioni infrarosse nel suo corpo, così sullo schermo dello smartphone comparve la scritta pulito. Felicity sorrise soddisfatta.
«Big Sister is watching you. Telecamere e filtro in funzione», gli disse.
Lui mimò okay con la mano e scomparve dal campo visivo della telecamera. Felicity tirò un sospiro di sollievo e fece per aggiustarsi gli occhiali sul naso, ma un’occhiata a Dean, che era seduto al suo stesso tavolo in un locale per single a sorseggiare una birra, le ricordò non solo che portava le lenti a contatto ma che indossava anche un grazioso abitino blu elettrico scollatissimo sulla schiena.
«Davvero puoi gestire le telecamere con quel coso?», le chiese Dean.
«Le dimensioni non contano, l’importante è saperlo usare». Felicity sgranò gli occhi e si nascose dietro lo smartphone per mascherare l’imbarazzo. «Voglio dire... sì, certo che posso».
Lui ghignò al suo indirizzo, ma per fortuna evitò di infierire. Invece si volse a guardare con circospezione la folla nel locale.
«Devo ammettere di essere un po’ scettico riguardo alla tua idea, Riccioli D’oro».
«Tutti i corpi con una temperatura differente da quella ambientale emettono radiazioni infrarosse. Quelli dei mostri non fanno eccezione».
«Sì, sì, lo so. È solo che preferisco affidarmi al mio...», Dean frullò le dita in aria, «...sesto senso per i mostri».
Felicity appoggiò il mento sul palmo della mano.
«Sei esattamente come Oliver, allergico al lavoro di squadra».
Lui inarcò entrambe le sopracciglia.
«Prego? Faccio gioco di squadra con mio fratello praticamente da quando sono nato».
«Oh, sì, certo, quando c’è da dirigere una squadra, siete i migliori. È collaborare alla pari che vi riesce male. Oliver è stato all’inferno per cinque anni, qual è la tua scusa?».
Dean rise e scosse la testa. Prima di rispondere, mandò giù un altro sorso di birra.
«Trascorrere qualche anno all’inferno non è più di moda dal 2008. Di’ al tuo ragazzo di smetterla di fare l’hipster».
Felicity rimestò la cannuccia nel ghiaccio mezzo sciolto del suo bicchiere.
«Oliver non è il mio ragazzo».
«Certo, come no».
«Oliver ha una ragazza, Dean. Un’altra ragazza, intendo». Sapere che probabilmente il diretto interessato era in ascolto non la metteva a suo agio. Provò a cambiare argomento. «Cos’è questa storia del 2008?».
Ma a quanto pareva nemmeno Dean si sentiva a suo agio a parlare di certe cose. Le rivolse un sorriso abbagliante nel tentativo di distrarla, probabilmente.
«Questo vuol dire che sei una ragazza libera, allora».
Felicity roteò gli occhi e sollevò il bicchiere.
«Una ragazza libera con un bicchiere vuoto. Non avevi detto che una cosa del genere non dovrebbe mai succedere?».
«Parlavo di ragazze sole, non libere. E tecnicamente tu non sei sola» Dean ammiccò. «Sei con me. Di sabato sera. Con un vestitino mozzafiato addosso. E mi devi ancora un bacio».
«E sono a caccia di un mostro. Direi che un secondo giro me lo merito eccome».
«Ricevuto!» Dean le tolse il bicchiere vuoto dalla mano e si alzò dalla sedia. «Vado, ammazzo e torno».
Mentre lui si dirigeva verso il bancone, Felicity diede una controllata allo schermo dello smartphone. Fino a quel momento tutte le donne che avevano attraversato il raggio d’azione delle telecamere avevano superato il test del filtro infrarosso. Sentì la sedia accanto a lei venire scostata e abbozzò un sorriso.
«Hai fatto presto!».
Sollevò lo sguardo e aggrottò la fronte. Un ragazzo moro dagli occhi azzurri le stava rivolgendo un caldo sorriso.
«Posso farti compagnia?».


Dean stava aspettando che la barista tornasse da lui con le sue ordinazioni, quando notò un volantino dallo sfondo arcobaleno sotto alla ciotola delle noccioline. Qualcosa nel suo cervello scattò e lo convinse a sfilare il volantino da sotto la ciotolina per dargli uno sguardo più approfondito.

Al Cuori Solitari l’amore è uguale per tutti!
Serata Gay Pride
Ogni sabato sera

Sabato sera. Oggi è domenica. Ieri era sabato. Ieri, quando abbiamo trovato Steve Neeson...
Dean sgranò gli occhi.
«Figlio di puttana!».
Si voltò di scatto cercando con gli occhi Felicity.
Ma il tavolo al quale avrebbe dovuto essere seduta era vuoto.







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Note autore:
Sono riuscita a pubblicare oggi!
Groundhog Day è un film con Bill Murray, che in italiano si chiama Ricomincio da capo (i titoli italiani sono sempre straordinariamente brutti), in cui il protagonista (Bill Murray) rivive in continuazione lo stesso giorno (Il giorno della marmotta, una ricorrenza tradizionale degli USA).
La Detective Kate Lockley è un personaggio ricorrente della prime due stagioni della serie tv Angel. A causa di demoni e vampiri, perde il padre ex-poliziotto e viene espulsa con disonore dal corpo di polizia. Ricompare nel fumetto di Angel (che io non ho letto), nel quale comincia a cacciare i mostri usando un negozio di antiquariato come copertura. Ho usato questa informazione per adattare il suo background all’universo di Supernatural. In più (adesso posso dirlo) l’idea per il mostro di questa storia l’ho presa dalla puntata 1x02 “Lonely Hearts” di Angel.
Grazie a chi continua a seguirmi. Ci rivediamo tra una settimana con l’ultimo capitolo!
Baci, vannagio
   
 
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