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Autore: vannagio    01/08/2015    5 recensioni
«Salve, questo è il numero di Sam Winchester. Se avete bisogno di aiuto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, sarete richiamati al più presto».
Biiiip.
«Ehm, ciao, mi chiamo Laurel Lance. Non c’è un modo delicato per dirlo, tanto sono sicura che avrai già riconosciuto la mia voce. Sono il corpo che Ruby aveva posseduto sei anni fa. Ho bisogno del tuo... vostro aiuto. Spero che tuo fratello sia ancora vivo. Dio, spero che tu sia ancora vivo. Il numero è attivo, vorrà pur dire qualcosa, no? Ma sto divagando. Vivo a Starling City, California, e sono quasi certa che qui ci sia un caso di tua... vostra competenza. Ieri notte un ragazzo è stato completamente eviscerato. Per favore, richiamami a questo numero».
Biiiip.

[Cross-over con Arrow; storia ambientata durante la seconda stagione di Arrow e la nona stagione di Supernatural]
[Seconda classificata al contest "Lunghe, anzi... lunghissime", indetto da Ili91 sul forum di EFP]
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 2




Da dietro la maschera, gli occhi di Robin Hood saettavano nervosi come una pallina da ping pong tra Dean, che teneva ancora sotto tiro col suo arco, e Megan, che Sam aveva preso in ostaggio con una glock.
«Questo è quello che si chiama Stallo Alla Messicana?», chiese lei.
A quanto pareva nemmeno la minaccia di una pistola puntata alla tempia le impediva di cianciare a vanvera. Dean scosse la testa.
«No, per uno Stallo Alla Messicana ci vogliono almeno tre persone che si tengono sotto tiro a vicenda».
«Dean, porca puttana, chiudi il becco!», disse Sam. Fissava Robin Hood dritto negli occhi senza battere ciglio. «Abbassa l’arco, siamo dell’FBI».
Robin Hood non si mosse, ovviamente.
«Provalo».
«Dean, mostragli il distintivo».
Muovendosi con la massima cautela e cercando di non fare gesti inconsulti (non teneva particolarmente a beccarsi una freccia in fronte), Dean estrasse il distintivo dalla tasca dei pantaloni e lo aprì tenendolo in alto con la mano sinistra.
«L’FBI non ammazza i civili a sangue freddo», disse Robin Hood.
«Nemmeno tu, stando a quello che ho letto su di te ultimamente», rispose Sam.
Dean aggrottò la fronte.
«Conosci questo tipo?». Venne immediatamente fulminato da un’occhiataccia. Oh, oh, il fratellino era incazzato nero. Che novità. «Ricevuto, chiudo il becco».
«Stiamo indagando sul caso dei corpi eviscerati», disse Sam, rivolgendosi nuovamente a Robin Hood. «Una delle vittime è stata vista allontanarsi con un uomo sulla trentina, biondo, con gli occhi verdi. Dentro al locale, abbiamo notato un ragazzo corrispondente all’identikit tenere d’occhio lei». Con un cenno del capo indicò Megan. «Ci siamo insospettiti, puoi biasimarci?».
«É lo stesso motivo per cui abbiamo sospettato di Dean», intervenne Megan. «Corrispondeva all’identikit e mi ha abbordata al bancone. Forse dicono la verità».
Dean alzò gli occhi al cielo. Certo, perché l’unica ragione per cui un ragazzo abborderebbe una ragazza con quel tubino turchese addosso è volerla eviscerare.
Robin Hood fissò Megan in silenzio per qualche secondo, l’indecisione era evidente nel suo sguardo, ma alla fine ripose la freccia nella faretra e abbassò l’arco, che si rimpicciolì come per magia nella sua mano e venne assicurato alla cintola. Non appena Sam rinfoderò la pistola, le guance di Megan riacquistarono il loro colorito normale.
«Un’ultima cosa», disse Sam, mentre Megan si poneva al fianco di Robin Hood. «Sarà meglio che vi facciate da parte in questa indagine».
«Altrimenti?».
«Altrimenti potresti non aver più bisogno di portare una maschera... Oliver Queen». Megan sgranò gli occhi, ma Robin Hood rimase espressivo come un sasso. Sam ghignò. «Ho visto le tue iniziali sulla camicia che hai abbandonato in bagno».
Dean non ci stava capendo più un cazzo. Chi diavolo era Oliver Queen? Prima che avesse la possibilità di esprimere ad alta voce il suo dubbio, Robin Hood cinse la vita di Megan col braccio destro, alzò quello sinistro e sparò una specie di dardo con fune a seguito in direzione di un edificio. Un attimo dopo stavano volando via. Fecero appena in tempo a vederli atterrare sul tetto di un palazzo, che si erano già dileguati nella notte.
Dean fece una faccia ammirata.
«Quel tipo sa come uscire di scena con stile!». Sam non commentò. Si limitò a voltargli le spalle, scuotendo la testa. Dean gli corse dietro. «Oh, andiamo, non tenermi il broncio per un piccolo errore di valutazione».
«Piccolo errore di valutazione? È il re degli eufemismi, Dean. Dovremmo essere una squadra, collaborare insieme, invece tu continui a decidere per entrambi».
«Be’, non avevo tempo di indire un briefing, ho visto un’opportunità e l’ho colta. Tu che avresti fatto?».
Sam si fermò, fronteggiandolo.
«Perché non puoi semplicemente ammettere che tu hai sbagliato e che io ti ho salvato il culo?».
Dean si strinse nelle spalle.
«Ti farebbe sentire meglio?».
«Sì, mi farebbe sentire molto meglio».
Roteò gli occhi.
«D’accordo, allora. Ho sbagliato e tu mi hai salvato il culo. Siamo... a quanto? Diecimila a uno, adesso?».
Un lampo di rabbia attraversò gli occhi di Sam. Per un istante Dean pensò che si sarebbe beccato un pugno in faccia. Poi però l’istante passò e Sam riprese a incamminarsi verso il luogo in cui avevano parcheggiato l’Impala.
«Adesso potresti dirmi chi cazzo era quel tipo? E Oliver Queen?».
Sam sospirò.
«Sai, Dean, se leggessi i giornali con la stessa costanza con cui segui gli anime hentai, non avresti bisogno di fare questa domanda».


Si alzò dal letto stiracchiandosi e guardò l’ora sulla radiosveglia del comodino. Le tre del mattino. Non era tardissimo, non rispetto ai suoi standard, ma era meglio svignarsela al più presto, che domani lo aspettava un’altra giornata di duro lavoro.
Si fermò davanti allo specchio del bagno per darsi una rinfrescata e una sistemata ai capelli. Aveva gli occhi stanchi, probabilmente per il lavoro da cameriere che svolgeva. Tutto sommato però non stava male. Certo, non era molto convinto dei baffi, ma quelli avrebbe potuto raderli in ogni momento. Quando ebbe finito, diede una ripulita.
Raccattò i vestiti sparsi sul pavimento il più silenziosamente possibile e perse qualche secondo in più alla ricerca delle scarpe e dei boxer, che erano stati rispettivamente le prime e gli ultimi a venire lanciati via. Passò in rassegna la stanza in cerca di oggetti personali, non voleva rischiare di dimenticare qualcosa che avrebbe potuto ricondurre a lui. Per fortuna i documenti, il cellulare e le chiavi dell’auto erano nella giacca appesa all’appendiabiti. Poi andò in cucina, lavò meticolosamente i bicchieri di vino, li asciugò e li ripose nello stipetto sopra al lavello.
Tornò in camera da letto per un’ultima controllata e non poté fare a meno di rivolgere lo sguardo al letto matrimoniale. Alisha fissava il soffitto con occhi rivoltati. Il lenzuolo spruzzato di rosso attorcigliato attorno alle gambe e una macchia porpora che si allargava a ventaglio sul materasso. Le sfilò il bracciale dal polso e vi applicò un campanellino che aveva trovato in cucina appeso alla finestra. Infine indossò il braccialetto e lo fece tintinnare scuotendo il braccio. Contemplò soddisfatto il campanellino che sbatacchiava allegramente tra una coppia di gemelli da uomo, un ciondolino a forma di scarpetta e una fedina d’oro, poi volse nuovamente la sua attenzione ad Alisha.
Le dispiaceva per lei. Tra tutti, era la sua preferita, quella che gli si addiceva meglio. Purtroppo non abbastanza da essere quella perfetta per lui. La baciò sul capo, tra i capelli incrostati di sangue, e la coprì col lenzuolo. Le doveva almeno quello.
Poi indossò la giacca e lasciò quell’appartamento per l’ultima volta.


Sabato

«Ecco qui, Agenti». Il Coroner, tale Dottor Morgan, aprì lo sportello della cella frigorifera, tirò fuori il lettino scorrevole e sospirò. «Alisha Milano, ventiquattro anni. Causa del decesso... c’è solo l’imbarazzo della scelta. Non è uno schianto?».
Dean guardò in direzione del corpo. Una ragazza dalla corporatura minuta, pelle olivastra e un viso ovale dai lineamenti delicati e graziosi.
«Sì, come no. Se le piacciono dal colorito cadaverico...».
Il Dottor Morgan gli rivolse uno sguardo perplesso, poi i suoi occhi si illuminarono di comprensione e scoppiò a ridere.
«No, non uno schianto lei, nel senso di ragazza, anche se sicuramente doveva essere un bel vedere da viva. Intendevo lei, nel senso di cadavere. Petto squarciato, eviscerazione. È morta solo a processo ultimato». Il Dottor Morgan fissava il corpo di Alisha come Dean avrebbe fissato una spogliarellista. «Bellissimo!».
Quasi quasi preferivo l’idea che gli piacessero gli zombie, pensò Dean.
«Il modus operandi coincide in tutto e per tutto con quello degli altri tre omicidi, dico bene?», chiese Sam in tono professionale senza fare una piega.
«Oh, sì, assolutamente. Ma c’è di più. Sugli altri tre corpi non lo avevo notato. Vedete come sembra bruciacchiato l’orlo della ferita?». Dean e Sam si sporsero in avanti, mentre il Dottor Morgan indicava la zona di tessuto interessato. «Sospetto sia stata usata una qualche sostanza altamente corrosiva».
«Sta dicendo che...». Sam aggrottò la fronte. «...più che eviscerate, le vittime potrebbero essere state corrose dall’interno? Come se l’avessero imbottite di acido?».
A giudicare dalla sua espressione, al Dottor Morgan era appena venuto un durello.
«Glielo avevo detto che era uno schianto, no? Non ho ancora capito di quale sostanza si tratti, però. Ha sciolto gli organi interni, trasformandoli in una specie di poltiglia della consistenza del latte coagulato».
Lo stomaco di Dean fece blurp. Cristo, lo sapeva che avrebbe dovuto rimandare il pranzo a dopo la visita all’obitorio.
Sam lesse il fascicolo, schiarendosi la voce.
«Qui dice che Alisha è stata trovata sul letto del suo appartamento e che, come le altre vittime, aveva avuto un rapporto sessuale poco prima del decesso».
«Sì, ed è stato un rapporto consensuale. Non ci sono tracce di droghe o segni di violenze». Il Dottor Morgan rise come qualcuno che si è appena ricordato di una barzelletta divertente. «Petto squarciato a parte, si intende».
Sam annuì, un po’ a disagio.
«Grazie, dottore. Ci è stato molto utile».
«Di nulla, Agente Page. Rovistare nei cadaveri è prima una passione e poi un lavoro».
Il Dottor Morgan strinse la mano di Sam e poi la porse anche a Dean, che esitò un istante prima di ricambiare la stretta. Chissà dove cazzo era stata quella mano... Il suo stomaco sussultò un’altra volta. Non appena furono usciti dalla camera mortuaria, si infilò in un bagno. Sam lo seguì senza rendersene conto, immerso com’era nella lettura del fascicolo.
«Non ho mai visto niente del genere».
Dean si stava insaponando le mani per bene.
«C’è una cosa che non capisco. Questo mostro... prima ci fa sesso, giusto? Con tutti. Sia uomini sia donne. Questo lo rende... un bisessuale?».
Sam fece spallucce.
«Forse è una specie di mutaforma. Un po’ come i Leviatani. Cambia aspetto a seconda della preda che intende cacciare. Avrebbe senso, visto che adesca le sue vittime in un locale per single. Non sembra avere preferenze: uomo, donna, uomo, donna. Tutto qui».
«Non ho mai sentito parlare di mutaforma che usano acidi per sciogliere organi, però. E poi perché lo fa? Non solo mostro, anche psicopatico?».
Sam sospirò.
«Non sarebbe il primo».
Dean si sciacquò le mani e se le asciugò con una salvietta.
«Penso che andrò a interrogare gli amici delle vittime e qualche dipendete del Cuori Solitari. Tu...», Dean assunse un’aria guardinga, «...potresti tornare al motel per fare delle ricerche. Sei non hai altre proposte, ovviamente».
Sam roteò gli occhi.
«Addirittura le ricerche da solo. Non pensi di stare allentando troppo la corda?».
«Oh, andiamo! Dici che decido tutto io! Sto facendo un tentativo. Riconoscimelo, almeno».
Sam uscì dal bagno senza aggiungere altro.
Dean sbuffò. Peggio di una donna mestruata.


Fare l’hacker il più delle volte era noioso, soprattutto quando si doveva aspettare che l’algoritmo facesse il suo dovere. Felicity fissava il monitor con sguardo vacuo, accasciata sulla scrivania, col viso a due centimetri dallo schermo, a masticare una gomma come una mucca. Bastò, però, il tonfo della porta d’ingresso del seminterrato che si chiudeva, subito seguito da una rapida serie di passi, a farle raddrizzare la schiena, sputare la gomma nel cestino (Centro!) e lisciarsi meccanicamente la camicetta (Rosa, con i pois neri, solo cinquantasette verdoni, non potevo resistere!).
«Avevi ragione tu», disse voltandosi verso la scala, mentre Oliver scendeva l’ultimo gradino. «Gli Agenti Page e Plant non sono chi dicono di essere. Come hai capito che quei distintivi erano falsi?».
Oliver le poggiò una mano sulla spalla che le provocò una specie di scossa elettrica al basso ventre. Non ottenne risposta, ovviamente.
«Giusto, che stupida. Probabilmente per lo stesso motivo per cui parli russo e conosci un membro della Bratva».
«Cosa hai scoperto?», chiese lui invece.
Felicity si voltò nuovamente verso lo schermo. Si sentiva sempre un po’ sotto esame, quando Oliver le stava alle spalle. Come durante un compito in classe: il professore che gira tra i banchi e il suo sguardo che si diverte a pungolarti sulla nuca.
«Niente. Gli Agenti Page e Plant non esistono. Non compaiono in nessuno dei database dell’FBI che ho violato nelle ultime sei ore. Direi che possiamo affermare con certezza che quei due sono degli impostori. Che è quello che sapevamo già ieri notte. A proposito, se sapevi che mentivano, perché li hai lasciati andare via?».
La presa sulla sua spalla si fece più forte.
«Cosa avrei dovuto fare? Lasciare che quel tipo ti puntasse di nuovo una pistola alla testa?».
Felicity si costrinse a rimanere con lo sguardo sullo schermo. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche uno stupido grazie, ma un bip bip intermittente la distrasse proprio mentre stava formulando il pensiero. Sgranò gli occhi e strillò, battendo le mani.
«Che c’è?», chiese Oliver allarmato.
«Il mio algoritmo ha trovato qualcosa! Oh, mammina è così fiera di te!».
«Fe-li-ci-ty».
Oh, aveva sillabato il suo nome, stava perdendo la pazienza. Felicity cercò di darsi un contegno e cominciò a ticchettare sulla tastiera.
«Ogni volta che digitavo i nomi Plant e Page, comparivano immagini dei Led Zeppelin. Ho pensato che era strano che due agenti dell’FBI si chiamassero come il cantante e il chitarrista di un famosissimo complesso musicale. Poi mi sono data della stupida, perché sapevo già che non erano veri agenti, me lo avevi detto tu. Forse non è la prima volta che usano nomi di membri di rock band come alias, mi sono detta. Così ho creato un algoritmo ad hoc per il caso e... pare abbia fatto decisamente un bingo! Guarda qua, saranno sì e no un centinaio di risultati».
Oliver si chinò in avanti sopra di lei, una mano sullo schienale della poltrona e l’altra appoggiata sul piano della scrivania. Era così vicino che Felicity riusciva a sentire l’essenza della sua acqua di colonia.
«Fai un controllo incrociato», le ordinò.
«Con cosa?».
«I nomi Sam e Dean».
«Pensi siano i loro veri nomi?», chiese Felicity, che si era già messa al lavoro.
«Tentar non nuoce».
E a volte paga.
«Cavolo, avevi ragione un’altra volta. Dean e Sam Winchester. C’è davvero poco su di loro, qualcuno ha fatto piazza pulita. Opera di un hacker, riconosco le tracce».
Oliver annuì.
«Quei due sono stati ovunque».
Felicity smanettò un altro po’.
«Ovunque ci sia stato un omicidio particolarmente efferato. La domanda è: sono loro che seguono i guai o i guai che seguono loro?».
Lui si raddrizzò e incrociò le braccia al petto.
«Sarà la prima cosa che chiederò loro. Il localizzatore che ho piazzato ieri sulla loro auto è ancora attivo, giusto? Abbiamo un indirizzo?».
Felicity esitò.
«Non sarebbe il caso di chiamare Dig... o Sara, prima?».
«Dig mi ha chiesto qualche giorno da passare con Lyla, dopo la missione con la Suicide Squad se lo merita. E Sara mi serve con Roy. La meditazione è importante per lui, lo aiuterà a controllarsi».
«Ma...».
Oliver aveva già raggiunto la teca e imbracciato il suo arco.
«Dammi quell’indirizzo, Felicity».


Quando vivi passando da un motel all’altro, non capita spesso che la gente ti venga a trovare per una visitina di piacere. Così, se qualcuno bussa alla porta della tua stanza, se nessuno che conosci sa che sei lì, se a bussare non può essere né il tuo compagno di stanza barra fratello iperprotettivo perché ha le chiavi, né l’angelo custode del suddetto fratello perché non bussa (e di solito non usa nemmeno la porta), se la donna delle pulizie è già passata e soprattutto se la sera prima hai avuto un piccolo diverbio con un vigilante mascherato dalle nobili intenzioni ma un po’ irascibile, conviene mettersi in allerta.
Sam estrasse la pistola dalla fondina, si avvicinò alla porta e spiò dallo spioncino.
Ah, giusto.
In effetti una persona che sapeva che era lì c’era.
Aprì la porta con un sorriso.
«Ru-Laurel, ciao!».
Il sorriso di Laurel era più tirato del suo. E titubante, anche.
«Ciao, Sam. Ti disturbo?».
«No, affatto. Entra».
Non se lo fece ripetere due volte. Mentre lei si guardava intorno, Sam aprì il piccolo frigorifero, ne estrasse due birre e gliene porse una. Laurel indugiò sulla bottiglia per un istante, poi scosse la testa.
«No, grazie».
La fece accomodare al tavolo dove lui fino a un momento prima era seduto.
«Volevo solo sapere a che punto erano le indagini».
Sam prese posto di fronte a lei e bevve un sorso di birra. Quando mise giù la bottiglia, vide Laurel distogliere lo sguardo di scatto, come una bambina colta con le dita nella marmellata.
«Giusto, hai ragione, avevo promesso che ti avrei tenuto informata. Mi spiace, mi sono dimenticato, questo caso si sta rivelando più rognoso del normale e...».
«Quindi siete a un punto morto».
Laurel giochicchiava con le chiavi della sua auto e lo fissava. Sam si passò una mano tra i capelli.
«Già».
«Siete passati alla fase delle ricerche», disse lei, indicando con un cenno del mento il laptop acceso tra loro.
Sam inarcò un sopracciglio e Laurel si picchiettò la tempia con l’indice.
«É tutto qui dentro, ricordi?».
Cristo, se era strano. Un viso così familiare, su una persona di cui conosceva a stento il nome e che tuttavia sapeva quasi tutto di lui. Lo faceva sentire un libro aperto.
«Senti, mi chiedevo...», disse Laurel, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. «...se non potessi darvi una mano. Anche solo con le ricerche. Non so se lo hai saputo, ma ho parecchio tempo libero in questo periodo».
L’aveva buttata lì, come un’idea sopraggiunta sul momento, ma c’era qualcosa nel modo in cui picchiettava le chiavi dell’auto sul tavolo o negli scatti nervosi degli occhi che la smentiva. Sam sapeva che aveva perso il lavoro a causa di un qualche scandalo con un politico locale, lo aveva letto di sfuggita su un articolo quando aveva cercato informazioni su di lei. Sì, di sicuro di tempo libero ne aveva tanto. E tutto quel tipo di tempo libero non faceva bene a una persona.
«Certo», disse sorridendo. «Un aiuto in più non guasterà di certo. Anzi, ho dei vecchi tomi che potrebbero fare al caso nostro».
Si alzò, portando la bottiglia di birra con sé.


Dean si stava maledicendo da solo, dopo un giro inconcludente di interrogatori tra parenti e amici piagnoni delle vittime. L’unica informazione vagamente utile ricavata era la robusta eterosessualità di tutte le vittime, che faceva sorgere un’altra domanda (Come aveva fatto un mostro presunto bisessuale a rimorchiarli tutti? Forse aveva ragione Sam, si trattava di una strana specie di mutaforma) e che quindi in fondo era utile a un cazzo, rendeva la storia ancora più confusa e basta.
Come se non bastasse, anche gli interrogatori al Cuori Solitari si erano rivelati insoddisfacenti quanto un pompino senza ingoio. Nessuno dei dipendenti aveva reagito in qualche modo all’argento. Dean lo considerava un vero tocco da maestro, il suo: mettere una fede d’argento all’anulare e dare la mano a tutti. In più, a parte la barista che aveva fornito quel mezzo identikit alla polizia, gli era stata rifilata circa una dozzina di varianti della frase “Non ho visto nulla”. L’ultimo della sua lista era il cameriere con i baffi alla Jude Law, Steve Neeson, e se avesse sentito ancora una volta...
«Non so proprio come dirglielo, Agente. Non ho notato nulla di strano».
...avrebbe strangolato qualcuno.
Decise che andarsene era la migliore opzione. Quella, o fare una strage. Diede la mano al cameriere (niente, nemmeno lui, e poi portava al polso un bracciale con dei ninnoli di argento), attraversò un labirinto di sedie capovolte sui tavoli e uscì dal locale che ormai era il tramonto. Prese il cellulare e selezionò il numero di Sam, che rispose al primo squillo.
«Dean?».
«Dimmi che hai trovato qualcosa o mi sparo un colpo in testa».
«Forse».
«Che cazzo significa forse?».
«C’è stato un caso simile al nostro a Los Angeles. Nel ‘99».
«Sento che a questo punto arriva il ma».
«Ma il caso è stato risolto da una detective della polizia. Non sembra esserci nulla di... sovrannaturale, a parte i corpi eviscerati».
«Forse hanno preso il tizio sbagliato. Sto tornando al motel, ne riparliamo dopo. Passo e chiudo».
Dean aveva quasi raggiunto l’Impala e tirato fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni. Il parcheggio del Cuori Solitari era deserto, era presto, il locale non aveva ancora aperto i battenti. La luce del lampione sopra l’Impala traballava, sembrava indecisa se spegnersi o meno. Accesa, spenta, accesa, spenta. L’Impala appariva e spariva, appariva e spariva nella penombra del crepuscolo. E poi, proprio quando Dean avrebbe avuto bisogno di un po’ di luce per centrare il buco della serratura, la luce si spense del tutto. Non quella di un solo lampione, però. Tutta. Tutta la luce, di tutti i lampioni. Dean pensò subito che non era un buon segno, ma fu comunque troppo tardi.
Un sibilo vicino all’orecchio.
Un pizzicore al collo.
Le gambe cedettero sotto il peso del suo corpo e Dean sbatté la testa contro la fiancata dell’Impala. Strano, la botta non gli aveva procurato dolore.
Ha ragione Sammy, ho la testa dura fu il suo ultimo pensiero lucido.


Sam posò il cellulare accanto al portatile.
«Dean sta arrivando».
Laurel sollevò lo sguardo dal libro (Miti e leggende d’Europa del sedicesimo secolo) che stava consultando. Era seduta sul piccolo divano, i piedi poggiati sul tavolino.
«Credi che sia un problema per lui? Che io sia qui, intendo».
Sam sbuffò.
«Sei stata tu a trovare quell’articolo sul caso di Los Angeles. Deve solo provarci a dire qualcosa».
«Uh, percepisco dell’attrito tra fratelli qui». L’intento di Laurel era solo fare dell’ironia, ma l’occhiata cupa di Sam le disse che forse si era involontariamente impicciata in qualcosa in cui non doveva impicciarsi. «Scusa, è stata una battuta infelice. È che ho una certa esperienza in attriti tra fratelli...».
Lui inarcò entrambe le sopracciglia, sorpreso.
«Hai un fratello?».
Laurel annuì.
«Una sorella. Sara».
«E... non andate d’accordo?».
Lei rise.
«Be’, diciamo che abbiamo avuto i nostri trascorsi. Tipo che io mi sono messa insieme al ragazzo per cui lei aveva una cotta e che poi lei si è fatta il suddetto ragazzo mentre lui ed io progettavamo di andare a convivere. Però ci vogliamo bene, tutto sommato».
Sam aveva sbarrato gli occhi.
«Accipicchia! Forse l’unica cosa per cui Dean ed io non abbiamo ancora litigato è proprio una donna». Prese posto accanto a lei. «Ci vogliamo bene, certo. Saremmo pronti a morire l’uno per l’altro. E forse è proprio questo il problema».
«A me non sembra affatto un problema».
«Lo è, credimi. Siamo così concentrati sul sacrificarci per l’altro, che dimentichiamo di vivere la nostra vita. Vorrei solo... la mia indipendenza. Vorrei almeno essere trattato come un adulto. Dean si occupa di me da sempre e tende a dimenticare che ormai non sono più un bambino da proteggere».
Laurel posò il libro sulle gambe usando il pollice a mo’ di segnalibro, poggiò la testa sullo schienale del divano e guardò in su. C’era una fitta ragnatela di crepe sul soffitto.
«Credo che sia la deformazione professionale di noi fratelli maggiori. Se penso a Sara, la vedo ancora bambina giocare con quello stupido squalo di peluche. Ma capisco cosa si prova quando qualcuno non ti guarda come vorresti. Sto attraversando un periodo...», Laurel prese un respiro profondo, «...dire difficile è eufemismo. E noto che tutti mi trattano come se fossi un vaso di terracotta tra vasi di ferro. Ero abituata a essere quella forte, quella che sorregge gli altri. All’improvviso invece sono gli altri a sorreggere me, all’improvviso è Sara la sorella maggiore». Laurel si voltò a guardarlo. «Forse Dean si sente un po’ così. Ci hai mai pensato?».
Sam fissava il vuoto con aria corrucciata, non disse nulla. Lei preferì non insistere, invece chiuse il libro e sbuffò.
«Qui non c’è niente. C’è altro da controllare?».
Il repentino cambio di argomento parve distrarlo da ciò che lo angustiava.
«Uh? Sì. Ho messo tutto su quello scaffale lì in fondo. Dovrebbe esserci qualcosa sui mutaforma, comincia da lì».
«Ricevuto».
Laurel scattò in piedi e andò a rovistare nel mucchio di libri. Aveva appena trovato il volume che cercava (Leggende metropolitane sui mutaforma), quando captò un baluginio dietro a una pila di tomi polverosi. La scostò appena e sussultò: una bottiglia di birra, ancora piena per metà. Laurel si voltò verso Sam che era tornato al suo portatile. Era immerso nella lettura di un qualche articolo, i suoi occhi si muovevano veloci da sinistra verso destra. In un primo momento pensò di dire qualcosa, era stato un gesto così... delicato da parte sua. Subito dopo, però, cambiò idea: mise a posto la pila di libri e tornò sul divano col volume da leggere.
Proprio in quel momento il cellulare di Sam prese a squillare.
«Dean, ma dove diavolo sei finito?». Laurel vide la stizza per il ritardo del fratello trasformarsi prima in sorpresa e poi in preoccupazione. «Ascolta, non c’è bisogno di... è tutto un equivoco, non possiamo... okay, d’accordo. Ci sarò».
«Chi era?».
Sam stava già raccattando le sue cose. Pistola compresa.
«Ieri sera abbiamo avuto il piacere di conoscere Arrow. Ha preso Dean».
Lei sgranò gli occhi.
«Come? Perché?».
«É una lunga storia, non c’è tempo».
Laurel prese al volo la borsa e lo raggiunse di fronte alla porta prima che potesse spalancarla e sgusciare fuori.
«Allora raccontamela mentre andiamo».
«Non se ne parla nemmeno. Tu non vieni».
«Senti, Sam. Io lo conosco, forse riesco a farlo ragionare. In più tu sei a piedi, mentre io...», gli fece penzolare un paio di chiavi davanti al naso, «...ho un’auto».
Sam fu costretto ad accettare.


«Sai, di solito gli schizzati normali legano gli ostaggi a una sedia o a un pilatro. Una volta una strega mi ha incatenato alla vasca da bagno e poi ha cercato di molestarmi. Capisci, adesso? Sei strano perfino per gli standard degli schizzati che ho incontrato».
Oliver lanciò un’occhiata di sbieco a Dean, appeso a testa in giù come un salame a un gancio da macellaio. I loro visi erano alla stessa altezza.
«Sta’ zitto».
Lui alzò gli occhi al cielo. O, meglio, al pavimento. La giacca che gli ondeggiava intorno alla testa come una tenda.
«Cosa speri di ottenere con questa messa in scena alla Mezzogiorno di fuoco? In un vecchio mattatoio abbandonato, poi. Potevi scegliere un’ambientazione più pittoresca».
«Voglio solo delle risposte».
«Okay, amico. Anche io sono un sostenitore del “Prima colpisci e poi chiedi”, ma se vuoi una risposta, abbi almeno la cortezza di porla, la cazzo di domanda, no?».
«Non ha tutti i torti», disse la voce di Felicity nell’auricolare.
Oliver serrò la mascella. Ci si metteva anche lei, adesso.
«E a proposito di domande, dove hai lasciato quella sventola della tua spalla?».
«Come mi ha chiamato?».
Se quel Sam non fosse arrivato al più presto, quei due lo avrebbero fatto impazzire.
«Vedo un’auto», gli comunicò Felicity.
Nello stesso momento, infatti, le vetrate scheggiate dell’edificio vennero illuminate di giallo dai fanali di un veicolo, proiettando quadrati di luce sul pavimento e rendendo l’oscurità meno impenetrabile. Il borbottio di un motore si diffuse nel complesso rimbalzando tra le pareti spoglie. Oliver ringraziò qualsiasi entità soprannaturale avesse interceduto per lui.
«Oh, cacchio!».
Anche se forse aveva cantato vittoria troppo presto.
«Che c’è?», le chiese.
«Parli con me?», domandò Dean, inarcando un sopracciglio.
«C’è... c’è Laurel con lui», rispose Felicity.
COSA?
Non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni, perché le sagome di un uomo e di una donna avevano già varcato la soglia del mattatoio con le mani alzate. Sam e Laurel si fermarono a una decina di metri da lui.
«Cosa ci fa lei qui?», chiesero Dean e Oliver contemporaneamente.
Laurel abbassò le mani e fece un passo avanti. Il suo viso trasudava sicurezza, ma il leggero tic nervoso alla mano destra tradiva una certa apprensione.
«Ascolta, Arrow. So che c’è stato un malinteso tra te, Sam e Dean ma devi credermi, sono delle brave persone. Sono qui solo per aiutare».
«Spacciandosi per dei federali? Cosa c’entri tu con loro, Laurel? Come li conosci?».
Lei si morse il labbro inferiore.
«É... complicato».
«Dovrei fidarmi del tuo giudizio dopo quello che è successo col Consigliere Blood?».
L’espressione che lei gli rivolse non era né tradita, né offesa. Punta sul vivo e colpevole, piuttosto. Forse si era aspettata quell’obbiezione. Oliver si sentiva un verme a rinfacciarle quel brutto episodio della sua vita, ma doveva vedere chiaro in quella faccenda e non poteva lasciarsi influenzare dall’affetto che provava per lei.
«In quell’occasione non ero lucida, lo so», disse Laurel. «Ma ho conosciuto Sam e Dean molto tempo prima che tu arrivassi a Starling City, molto tempo prima dei miei problemi con l’alcol. I Winchester fanno quello che fai tu. Salvano le persone e danno la caccia a... delle cose. La loro è una specie di attività di famiglia».
Oliver aggrottò la fronte.
«Cosa intendi per cose?».
«Mostri. Fantasmi. Lupi mannari. Demoni. Streghe», intervenne Sam serio. «Tutto quello che pensi sia solo una leggenda esiste davvero».
«Anche gli hobbit?».
Era difficile rimanere serio con Felicity nell’orecchio che non riusciva a mettere un filtro tra cervello e bocca. Oliver fece vagare lo sguardo da Laurel a Sam a Dean.
«State cercando di dire che le eviscerazioni sono opera di una qualche creatura sovrannaturale? E vi aspettate che vi creda?».
Laurel emise un verso di esasperazione.
«Porca miseria, non hai ancora capito? Non importa che tu ci creda o no! Non importa che si tratti di un serial killer o di un mostro. Ciò che importa davvero è fermare gli omicidi. Quante persone devono morire prima che voi tre smettiate di giocare a chi ce l’ha più lungo e decidiate di collaborare?».
Il silenzio limaccioso in cui era precipitato il vecchio edificio abbandonato fu rotto una decina di secondi più tardi dalla voce di Felicity solo per l’orecchio di Oliver...
«Uhm, questa scommetto che brucia un po’».
...e dalla lingua lunga di Dean per tutti gli altri.
«Mi sembra un’argomentazione molto valida. E non lo sto dicendo solo perché sono appeso a testa in giù, sia chiaro».
Oliver estrasse un coltellino dal fodero allacciato intorno alla coscia. Dean sgranò gli occhi.
«Che cazzo vuoi farci con quello?».
Sam fece un passo in avanti, ma Laurel lo trattenne per il braccio. Un istante dopo Dean cadeva per terra come una pera cotta, emettendo un ouch! di dolore.
«Dobbiamo prenderlo come un “Accetto”?».
Oliver annuì, poi chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.
«Ma lei deve starne fuori».
Questa volta sì che si beccò un’occhiata tradita da parte di Laurel.
«Perché?», chiese soltanto.
«Perché non sei stabile. Devi pensare a rimetterti in sesto».
«É stata lei a trovare il caso, è stata lei ad avvertirci», disse Sam. Nei suoi occhi Oliver lesse un coinvolgimento emotivo non indifferente. «Non merita di essere messa da parte».
«Secondo me dovresti darle fiducia», disse Felicity.
No, anche se trattare Laurel in quel modo era una stilettata al cuore, Oliver doveva rimanere fermo sulla sua posizione. Scosse la testa.
«Questa è la mia condizione, prendere o lasciare».


«Come sta andando l’hackeraggio?».
Dean si era trascinato dietro una sedia, l’aveva girata al contrario e si ci era seduto a cavallo, appoggiandosi con le braccia incrociate sullo schienale. Sporse la testa in avanti, per sbirciare sullo schermo.
«Potrebbe andare meglio...», disse Felicity, sbuffando. «...se potessi usare la mia attrezzatura super potente di ultimissima generazione e non un semplice tablet».
Lanciò un’occhiata di puro odio in direzione di Oliver, che ben consapevole di essere sotto accusa si stava nascondendo dietro al diario di famiglia dei Winchester. Non aveva acconsentito a portare Sam e Dean nel loro covo (perché è risaputo, sospetto e mancanza cronica di fiducia sono alla base di una serena collaborazione tra squadre), così i due fratelli avevano proposto di usare la loro stanza di motel come base operativa.
«Cos’è che stai cercando, esattamente?», chiese Dean.
«Il nostro problema è che non abbiamo la minima idea di quale sia la faccia del killer. O mostro. O quello che è», rispose lei. «Ci serve un’immagine. Anche sfocata. Qualcosa da cui partire».
«Il Cuori Solitari ha un sistema di telecamere interno?».
Felicity scosse la testa.
«Se avesse avuto un sistema a circuito chiuso, avrei smascherato il colpevole dopo il primo omicidio. No, purtroppo non siamo così fortunati. Però sto consultando la mappa delle telecamere cittadine».
Dean le scoccò un’occhiata sorniona.
«Consultando?».
«Okay, violando. Anche se non sei nella posizione di fare il puntiglioso sui termini». Si sistemò gli occhiali sul naso e abbassò la voce. «Credi che tuo fratello terrà il broncio per sempre?».
Da quando erano entrati nella stanza, Sam aveva ficcato il naso dentro a un libro senza spiccicare parola. A difesa di Oliver, Felicity doveva dire che aveva cercato di fare pace, ringraziandolo di non aver rivelato la sua identità a Laurel. Sam aveva risposto che sapeva quanto era importante tenere nascosta la propria identità con il lavoro che facevano e poi non aveva più aperto bocca.
Dean fece spallucce.
«Ogni tanto gli piace fare la drama queen. Gli passerà, ha solo bisogno di sbollire. Tu piuttosto! Megan, eh?».
Le dita di Felicity lavoravano frenetiche sullo schermo del tablet.
«Non hai nulla da rimproverami, Agente Plant. Tra l’altro Megan è il mio secondo nome».
«Lo so, anche noi abbiamo fatto i compitini a casa. Immagina il mio stupore quando ho scoperto che Oliver Queen aveva una segretaria bionda di nome Felicity Megan Smoak».
Felicity distolse lo sguardo dal tablet.
«Quella della segretaria è una copertura impostami da Oliver. Sono un tecnico informatico e non mi sono laureata al MIT per portare caffè».
Dean sorrise. In un modo che era da prendere a schiaffi e da far venire caldo allo stesso tempo.
«Comunque... non so Felicity, ma di sicuro Megan è in debito con me di un bacio».
«Eh?».
Lui ammiccò.
«Tu, io. Un vicolo buio. E il mio Sguardo Che Conquista».
«Pensavo che facesse tutto parte del tuo piano per usarmi come esca. E poi il presunto Sguardo Che Conquista non è questo granché...».
Invase di parecchio il suo spazio personale, guardandola dritto negli occhi e arricciando solo l’angolo sinistro delle labbra.
«Davvero?».
Accipicchia se erano verdi quegli occhi! Felicity sentì le guance andare in fiamme.
«Ehm...».
«A che punto sei?».
Felicity sussultò appena, Dean invece non fece una piega. Oliver era apparso alle loro spalle come un avvoltoio.
«Ah-ehm, a un buonissimo punto!», si rituffò sul tablet per nascondere il rossore del viso. «Pare ci sia una telecamera su un semaforo posizionato di fronte all’abitazione dell’ultima vittima, Alisha Milano. Sto cercando di accedere alle registrazioni di ieri sera, vengono conservate solo per ventiquattro ore».
«E...?».
«E un attimo, no? Sono veloce, ma non così... uh, a quanto pare sono proprio così veloce!».
Dean e Oliver si sporsero sopra di lei, e perfino Sam abbandonò il suo libro per dare un’occhiata alle immagini che scorrevano sullo schermo. Una Alisha Milano ancora viva e vegeta apriva il portone di casa accompagnata da...
«Figlio di puttana!», esclamò Dean.
...Steve Neeson, il cameriere con i baffi alla Jude Law.


Quando Dean e Sam raggiunsero l’appartamento di Steve Neeson (Felicity aveva diligentemente recuperato il suo indirizzo con un semplice click), Oliver si trovava già nella camera da letto, vestito da folletto irlandese. Avevano perso tempo a raccattare dal loro arsenale qualsiasi cosa potesse nuocere a un mostro, dato che non sapevano ancora come uccidere quel qualunque-cosa-fosse, ma Dean aveva sperato comunque di arrivare per primo, dato che Oliver aveva ritenuto necessario correre a indossare il suo costume da pagliaccio.
La moto, di sicuro mi ha fregato con la moto.
Quei pensieri, però, passarono subito in secondo piano, quando scorgendo l’espressione sul suo viso, Dean capì che qualcosa era andata storta.
«É scappato?».
Oliver scosse la testa e si scostò di lato.
Sul letto matrimoniale di Steve Neeson, c’era effettivamente Steve Neeson. Baffi alla Jude Law compresi. Giaceva morto sul materasso col petto squarciato e sgonfio come un palloncino bucato.
Sam si avvicinò al cadavere per esaminarlo più da vicino.
«É morto da poco, il corpo non è ancora freddo».
«Diamo una controllata in giro prima che arrivi la polizia», disse Oliver.
Dean invece imprecò.
«Qualcuno prima però può spiegarmi che cazzo sta succedendo?».







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Note autore:
Questo era il secondo capitolo.
Grazie a voi tutti che state seguendo questo crossover dalle poche pretese, spero che vi stiate divertendo.
Da mercoledì 5 agosto sarò ufficialmente in vacanza. Potrei avere dei problemi a pubblicare il prossimo capitolo entro sabato, perciò se il capitolo 3 non sarà online giorno 8, vorrà dire semplicemente che la pubblicazione sarà spostata a lunedì 10.
A sabato prossimo (o a lunedì)!
Buona estate a tutti!
   
 
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