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Autore: Thingsthinker    08/08/2015    0 recensioni
Lei sarebbe sempre rimasta delle sue idee, lui delle sue.
Ma ridevano e scherzavano e si prendevano un caffè insieme, la politica poteva andare a quel paese.
Finché non parlavano di cose serie, potevano essere amici. Quasi.
Vittorio e i suoi amici erano filofascisti ricchi e finti, venivano dalla zona agiata della città.
Libera e i suoi amici erano filocomunisti borghesi e ostentati, avevano famiglie normali di gente medio-borghese.
Non sapevano in cosa credevano, se l’avessero saputo si sarebbero ritrovati a credere nei fantasmi opachi di dittature morte.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ti vedo

Vittorio e Libera si stettero simpatici quasi subito.
Furono messi in banco insieme poco dopo l’inizio della scuola, per separarli dai rispettivi migliori amici.
Lei dovette ignorare la sua tendenza a considerarsi il migliore, lui si costrinse a superare quelle battutine acide che puntavano ad uno scontro diretto. Ma, in sostanza, si piacquero e divennero amici.
 
Gli amici filofascisti di Vittorio ridacchiarono mentre lui gli indicava la ragazza sottile con quel nome strano, i capelli lunghissimi, le sciarpe colorate, i parka. Gli dissero che era una “comunista di merda”, gli dissero di lasciar stare.
E l’immagine di Libera – il cui nome soltanto era una storia – cominciò a cambiare, per Vittorio.
 
Gli amici di sinistra di Libera digrignarono i denti, quasi pronti a sputare sul ragazzo robusto con il berretto di lana nera calato quasi fin sugli occhi e la sigaretta fra le labbra. Gli dissero che i fasci, quelli stronzi, era meglio se li lasciava perdere.
E l’immagine di Vittorio cominciò a cambiare.
 
Tentarono di ignorare gli altri, ma ben presto furono loro stessi a non sopportarsi.
Si accendevano violente liti sul razzismo, sulla libertà di parola, sul sessismo. Fuori, ma anche in classe.
Vittorio faceva un paio di battute pesanti, Libera rispondeva con insulti sottili e mirati verso la sua ignoranza. La discussione degenerava, Libera cominciava a parlare velocissimo con parole dai significati importanti, frasi complesse, riferimenti a questo o quell’altro personaggio importante. Vittorio ridacchiava, la prendeva in giro, aggirava le domande e rincarava la dose dandole della moralista e di altre cose di cui era conscio di non conoscerne il significato.
Allora la lezione si fermava, il professore si interessava e chiedeva di esporre la questione.
E l’apocalisse cominciava.
Libera si alzava in piedi, il volto accaldato, gli occhi fiammeggianti, il sangue sembrava accelerare nelle vene e portare al cervello le parole giuste, la passione che le animava. Gesticolava e ammaliava i suoi compagni, li trascinava dalla sua parte, li faceva innamorare di lei ogni volta, anche se parlava forte, anche se non era affascinante, anche se la odiavano.
Ma poi, a malincuore, doveva lasciare la parola a Vittorio e lui non era da meno.
Aveva una voce forte, profonda: la voce di qualcuno che è pienamente sicuro di quello che dice, una voce che faceva venir voglia di ascoltare. Non risultava spiacevole, come quella di Libera, troppo veloce e troppo alta. Proclamava frasi brevi di cui tutti potevano capire il significato, non lasciava loro la sensazione di essergli inferiori.
La classe si spaccava, il professore doveva gestire una vera e propria insurrezione popolare. Così acquietava gli animi – non quello di Vittorio, non quello di Libera – più velocemente possibile e riprendeva la lezione.
 
E, incredibile ma vero, Libera e Vittorio si riappacificavano, e anche molto rapidamente.
Lei sarebbe sempre rimasta delle sue idee, lui delle sue.
Ma ridevano e scherzavano e si prendevano un caffè insieme, la politica poteva andare a quel paese.
Finché non parlavano di cose serie, potevano essere amici. Quasi.
 
Vittorio e i suoi amici erano filofascisti ricchi e finti, venivano dalla zona agiata della città.
Libera e i suoi amici erano filocomunisti borghesi e ostentati, avevano famiglie normali di gente medio-borghese.
Non sapevano in cosa credevano, se l’avessero saputo si sarebbero ritrovati a credere nei fantasmi opachi di dittature morte.
 
Venne il giorno di Febbraio in cui i gruppi di amici di Libera e Vittorio si trovarono ai lati opposti di una stessa piazza.
Vittorio cercò qualche scusa per andarsene, Libera fece lo stesso. Non vennero ascoltati. Lasciare all’altro il territorio significava arrendersi.
Libera cercò di estraniarsi da quel clima teso, provò ad attaccare conversazione e a pensare che magari non sarebbe successo proprio niente.
Vittorio rise con i suoi amici, tentò di sdrammatizzare e si accese una sigaretta, pensando che magari non sarebbe successo proprio niente.
Si sbagliarono entrambi.
Sguardi pesanti inquinavano l’aria con il fumo delle sigarette, conversazioni vuote riempivano il silenzio dei drum girati, dello scrocchio nervoso di dita.
 
Nessuno ricordò, più avanti, chi fu a cominciare. Forse erano così sicuri che qualcosa sarebbe cominciato che se lo immaginarono, non lo videro davvero; forse nulla ebbe un inizio.
Ma Ottavio, uno degli amici di Libera, fu a terra con il naso rotto e il sangue sulla pietra.
Due ragazzi si avventarono contro il colpevole, altri si aggiunsero dalla fazione opposta. Qualcuno chiamò qualcun altro, altra gente stava arrivando.
L’aria si riempì di insulti e di tonfi, la piazza si svuotò in fretta.
Le ragazze del gruppo di Vittorio si allontanarono velocemente.
Paola, l’amica di Libera, cominciò a piangere: “Andiamo via”, diceva.
Se ne andò da sola.
 
Libera vide Vittorio fissarla, un attimo prima di togliersi la giacca e buttarsi nella mischia.
Fu quel gesto che le rimase impresso. Quel togliersi la giacca come prima di un incontro di box. Il fatto che non si fosse lasciato trascinare dall’impulso, che avesse l’intenzione lucida di far male.
Forse di ammazzare di botte gli amici di Libera, forse solo di difendere i suoi.
 
Libera rimase l’unico essere fuori dall’ammasso di corpi e lividi e bestemmie, ferma. Immobile nello sconcerto. Vide un suo amico a terra con il naso rotto, il torace oppresso dal peso di un ragazzo biondo seduto sopra di lui che lo tempestava di pugni. Gridò tutta la sua paura, poi spinse via il biondo con tutta la forza che possedeva. Fu sufficiente a sbilanciarlo, cadde di lato.
Si rialzò quasi subito, ghignando. Libera fece in tempo a vedere che aveva mezzo cranio rasato, prima che la colpisse con una capocciata e la gettasse di peso contro una panchina.
L’urto fu così violento che le mozzò il fiato. Rimase lì, accasciata contro la panchina come una bambola rotta, un rivolo di sangue che dalle labbra scendeva sul mento solcando la pelle.
Credette di non respirare più, rimase con gli occhi strabuzzati e il respiro mozzo, un dolore così terribile alla spalla che se non fosse stata così a corto di ossigeno avrebbe urlato.
Dal suo posto di burattino senza fili vide arrivare altra gente, sempre di più, sempre più grandi, sempre  più esperti nel picchiare la gente, e non per difesa. Dal gruppetto di liceali con idee politiche molto confuse e tanta voglia di una piccola rissa la situazione era degenerata.
Le parve di vedere un tizio con una svastica tatuata sulla nuca, un ventenne con la maglia del Che e una cicatrice su un braccio.
 
Quando vide Vittorio, smise per un attimo di avere paura. Lo vide bianco di orrore, rosso di sangue, viola di lividi. La sollevò velocemente e con poca delicatezza.
“Scusa.” disse, “Mi dispiace.”
Continuò a scusarsi, e Libera si chiese in quale terribile condizione dovesse essere: Vittorio non chiedeva mai scusa. Si vide nello specchietto di una macchina, con un labbro spaccato e un livido sullo zigomo. Non era così terribile.
Si convinse che era il suo sguardo – spaventato, disorientato, dolorante – a fargli così pena.
Lui la trascinò di peso fino ad un portone vicino, mentre già le sirene della polizia cominciavano ad ululare. La fece sedere ma rimase in piedi, ansimante. Un grosso livido si andava formando sull’occhio sinistro.
- Perché dovete sempre fare questo? – chiese lei, mentre con la mano si asciugava il sangue che colava sul cappotto. – Prendervi a botte. Perché? –
Vittorio guardò la minuscola figuretta infagottata in un cappotto da uomo con la sciarpa a righe, il berretto rosso, i lunghi capelli aggrovigliati. Alzò le spalle, risposta non c’era.
Libera alzò gli occhi al cielo, provò a rialzarsi. Vacillò e Vittorio fece per prenderla, ma lei si scansò, una mano sulla spalla dolorante.
La ragazzetta fece due passi indietro, il tacco degli scarponcini risuonò sull’asfalto. Guardò la piazza, la polizia che portava via gente, gli animi acquietati di colpo. Quelli grandi erano andati via, e gli altri si guardavano in cagnesco mentre se la facevano sotto per la polizia.
Vittorio si accese una sigaretta e si calò il berretto ancora più sugli occhi.
Ai suoi occhi, per la prima volta Libera sembrava debole. L’aveva vista inneggiare alle manifestazioni cubane, e ora eccola: un po’ di sangue, e sembrava uno spettro. Rimaneva dritta, però, fragile ma statica, senza parole. E quello si, era strano.
- Ti vedo. – gli disse, ad un certo punto.
- Come? –
- Ti vedo. Non è vero che sei fascio. –
- Ma che cazzo vuoi – disse Vittorio ridendo.
- Ti vedo in questo momento e non sei fascio neanche un po’. –
- Vaffanculo. –
Fumò la sigaretta fino al filtro, stando bene attento a non farsi notare dalla polizia che girava nei dintorni dopo il rapido svuotarsi della piazza. La spense contro il muro, Libera gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.
- Ci si vede a scuola, allora. – disse lui.
Libera rimase sconcertata dalla normalità di quell’affermazione.
- Ci si vede a scuola, si. -



 




i'm back, guys.
come sempre, se mi lasciate una recensioncina vi amo tanto.
:)
Lee
  
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