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Autore: HeartSoul97    08/08/2015    3 recensioni
"Alex Watson è una normale diciassettenne londinese, forse solo un po' sfigata, niente di più. I suoi amici? Una ragazza bellissima e dolce, un'allegra libraia e un chitarrista che sogna la fama. Ma i suoi nemici? Uno solo: un ragazzo tanto bello quanto stronzo, che non fa che prenderla in giro, e che abita proprio accanto a lei! Le cose cominciano a precipitare quando una misteriosa lettera giunge alla nostra protagonista..."
Ora, spazio all'autrice. Abbiate pietà, è la primissima storia DAVVERO romantica che scrivo, non ho esperienze su cui basarmi, quindi chiedo umilmente il vostro parere. Opinioni positive ben accette, negative anche di più, perché servono a migliorare. Grazie per l'attenzione, a tutti.
Un'altra cosa: nei vostri commenti potete darmi spunti o consigli su ciò che potrebbe succedere. Vorrei infatti che la storia risultasse anche divertente, ma io non ho molto senso dell'umorismo, quindi imploro il vostro aiuto. Grazie mille.
Vi auguro sinceramente una buona lettura e spero che continuerete a seguirmi.
HeartSoul97
Genere: Demenziale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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20. Il primo giorno d’estate – epilogo
                                                                                                               La farfalla riesce a volare
da sola
 

Sono passati due mesi dal giorno della gara e l’estate è finalmente arrivata.
Questi due mesi li ho passati a riflettere. Su Jake, su Ludvig, su me stessa.
Il loro comportamento, alla fine della serata, mi aveva disgustata – sì, una piccola parte di me ne era lusingata, ma l’altra parte no. Mi dispiaceva vederli azzuffarsi, e per di più a causa mia.
Dopo una settimana di silenzio con entrambi, ho deciso di mettere le cose in chiaro. Ho detto chiaro e tondo a Ludvig che non ero interessata a lui, ma con mia grande sorpresa mi ha detto che lo sapeva già.
«In che senso, scusa?» gli ho chiesto, piena di stupore, mentre lui scuoteva la testa.
«Il legame che c’è tra te e O’Brian è talmente stretto che non c’è spazio per me». Aveva fatto un sorriso triste, ma allo stesso tempo sembrava essersi tolto un grosso peso dalle spalle.
Tuttavia, lui e Jake non facevano che evitarsi, nei corridoi.
Nonostante ciò, non sono riuscita a parlare con Jake. Aveva ripreso a evitarmi, distogliendo lo sguardo ogni qualvolta il mio incrociasse il suo. Era imbarazzato, lo vedevo: forse si pentiva di aver reagito così. Però volevo parlargli, e in due mesi non ci sono riuscita.
Mi è sembrato di essere ritornata in quel limbo angosciante in cui mi sono trovata da quel famigerato primo giorno d’estate al capitombolo giù dalle scale che ci aveva fatti riavvicinare: come se i due mesi passati a ballare insieme non fossero stati altro che un’illusione, un’idilliaca parentesi che si era aperta e poi chiusa di scatto. Mi ha ferita.
In questi altri due mesi di ostinato silenzio mi sono resa conto di quanto abbia bisogno di lui. Un bisogno disperato e insopprimibile, che ha reso le mie giornate un supplizio – vederlo aggirarsi per i corridoi della scuola con lo sguardo assente è stata una tortura. Mi sembrava davvero di essere tornata al primo anno, dopo l’estate terribile passata a piangere dietro a porte chiuse.
Da quand’è che ho così bisogno di lui?
Non potevo fare a meno di chiedermelo, ma ancora non ho trovato una risposta certa. Forse da sempre, ma soffocare i sentimenti mi ha aiutato a reprimere anche questo. O forse alla festa di Amber, quando ci siamo baciati? O ancora il giorno della gara, quando ha intrecciato di nascosto le sue dita con le mie?
È difficile da stabilire.

Oggi è il primo giorno d’estate.
Da quella volta, ogni primo giorno d’estate è stato per me fonte della più grande infelicità – come essere felici, quando il ragazzo che ti piace ti parla in quel modo? Forse non si può più. Alcune ferite fanno male anche quando ormai non sono altro che cicatrici.
L’aria è immobile. Da fuori proviene solo il suono di qualche macchina che sfreccia sull’asfalto, il lieve brusio provocato dalla vita di tutti i giorni: qualche uccello che canta, i campanelli di qualche bicicletta, le risate dei bambini…
Una volta c’erano anche le nostre, di risate. Quelle mie e di Jake. I poveri signori Callahan del piano di sotto se le dovrebbero ricordare bene.
Sono sola in casa, i miei se ne sono andati stamattina presto – mamma da un’amica, papà al lavoro. Io ho poltrito, e sono già quasi le dieci.
Mi stiracchio come un gatto sul mio letto, cercando di combattere la noia che già minaccia di affiorare dalla superficie piatta del dolce far niente. Sono in vacanza da neanche ventiquattr’ore e già non vedo l’ora che finisca.
L’estate, una volta, era motivo di grande gioia e desideravo che non finisse mai – ovviamente per merito di Jake. Si stava così bene insieme, perché smettere? Poi però l’estate finiva e tutto cambiava, ovviamente.
Ma ora cosa posso fare?
Cosa posso fare per sopprimere il disperato bisogno che ho di Jake?

Ma sì, lo ignorerò. Come ho sempre fatto.
Mi raggomitolo nel mio letto, chiudendo gli occhi. Dormirò ancora un po’. Vorrei dormire per sempre, veramente. Vorrei che il sonno mi intontisca abbastanza da farmi smettere di pensare, tuttavia rimango sveglia. E anche se mi fossi addormentata, lo squillo del campanello mi avrebbe svegliata comunque.
Mi tiro su, incuriosita. Chi sarà mai a quest’ora?
Un’assurda, irrazionale speranza comincia a farsi strada nella mia mente, ma la scaccio via prima che possa fare danni. Jake non tornerà. È troppo tardi.
Vado verso la porta quando mi rendo conto di essere ancora in pigiama.
«Un attimo!» grido per farmi sentire al di là della porta chiusa, e mi fiondo in camera mia per mettere addosso una cosa qualsiasi.
Corro poi davanti alla porta, senza osare chiedermi cosa penserà di me – ancora spettinata e assonata – chiunque ci sia dall’altra parte.
Apro la porta e il sonno svanisce all’istante.

Jake si guarda le punte delle scarpe, almeno finché non alza lo sguardo verso di me. Ha una mano dietro la schiena e nell’altra tiene un pallone vecchio e sporco.
Ho un tuffo al cuore quando riconosco quel vecchio pallone. È quello che usavamo tutte le estati per giocare insieme.
Sono troppo stupita anche solo per pensare, figuriamoci per parlare.
«Ciao» mormora. Le sue guance s’imporporano quasi quanto le mie.
«Ciao» rispondo con una sorta di sospiro. È stato difficile.
Siamo imbarazzati, ma io sono anche un po’ incuriosita – e diciamocelo, speranzosa. La curiosità ha la meglio.
«Che ci fai qui?» chiedo, sperando che non suoni come un’accusa.
«Volevo parlarti» dice, arrossendo ancora di più.
«Quello servirebbe allo scopo?» dico, alludendo al malconcio pallone. Sorride.
«In effetti no, ma mi sembrava strano venire qui senza». Per un secondo, la malinconia si impossessa di noi, ma mi impegno a scacciarla. È ora che il passato rimanga nel passato.
«Che cos’hai dietro la schiena?» chiedo invece.
«Ah, già. Questa sì che serve allo scopo» sorride, ma poi torna serio. Rivela la mano nascosta, porgendomi un involto.
«È per te» dice, imbarazzatissimo, mentre io trattengo il fiato alla vista della rosa rossa racchiusa nella carta.
Accetto il dono, ammirandola.
«È bellissima. Ma perché è ancora chiusa?» chiedo. Di solito le rose non si regalano già aperte?
«Per la speranza che si apra e diventi uno splendido fiore» sussurra Jake, guardandomi negli occhi. Il suo viso è davvero vicino al mio.
Chiude gli occhi.
«Lo so che forse è troppo tardi, ma sai che sono un testardo». Riapre gli occhi. «Mi dispiace. Per tutto quanto. Anche per aver picchiato Ohlsson» sbuffa, e mi scappa un sorrisino. Poi torna serio.
«Sul serio, non avrei dovuto farlo. Anziché riavvicinarti a me, ti sei solo allontanata di più. Ma avevo paura di perderti di nuovo» sussurra e il mio cuore decide di punto in bianco di sciogliersi.
«Ti prego. Possiamo ricominciare?» mi chiede, guardandomi, e nei suoi occhi grigi vedo mescolate paura e speranza.
Ha bisogno di me come io ho bisogno di lui. Realizzo il suo tenero e goffo tentativo di dirmi che ci tiene, a me, e sorrido.
Prima che possa dire qualcosa, però, mi sollevo in punta di piedi e lo bacio, e questo unico bacio vale più di mille parole e mille anni e mille pugni in faccia.
È talmente sbalordito che ci mette un attimo a capire che lo sto baciando.

Dopo, riapre gli occhi lentamente, come per conservare quel momento il più a lungo possibile, e ci guardiamo per un istante.
Con un sorriso timido mi prende la mano, intrecciando le sue dita alle mie, e ci dirigiamo a piedi verso Regent’s Park.
 

The End
 
 

***
Angolo autrice – Ringraziamenti

Dunque, infine, eccoci qua. È finita. Dopo due lunghi anni, ho scritto quelle due dannate paroline.
A volte è stato difficile: spesso ho accarezzato l’idea di cliccare su “Cancella” e farla finita, ma non l’ho fatto, e sono estremamente felice di questo.
Che altro dire? Spero che questa storia vi abbia lasciato qualcosa – anche se non è certo una di quelle storie serie e impegnate che si leggono in giro, ma spero comunque che vi aiuti a gettare il passato alle spalle, dove deve stare, e girare pagina. Alex l’ha fatto, potete farlo anche voi…
Voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutata a giungere fin qui senza mai perdere la speranza, tutte quelle persone che mi hanno offerto il loro sostegno, direttamente o indirettamente. Quindi grazie a tutte coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, le seguite o le ricordate (vorrei ringraziarvi una a una ma siete così tante che finirei domattina), grazie mille ai tanti lettori anonimi, un grazie gigantesco a Clockwise, un grazie a tutte coloro cui ha fatto piacere lasciare la propria opinione, un grazie a chiunque si sia divertito a leggere questa storia quanto io mi sono divertita a scriverla.
Grazie di cuore a tutti voi.
Forse ci rivedremo, forse no… in ogni caso, Alla Prossima!
HeartSoul97  
   
  
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