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Autore: gingersnapped    10/08/2015    1 recensioni
“Respira. Quando non respiri, non pensi.”
Le sue parole l’avevano colpito. Quelle stesse parole, pronunciate dalla sua piccola bocca in un giorno assai lontano da quello, ma chiare come se le avesse pronunciate qualche istante prima, risuonavano nella testa di Hiccup. La ricordava ancora davanti a lui, i lunghi riccioli rossi che si muovevano con la lieve brezza del vento, l’arco (il suo arco) in mano, gli occhi acquamarina sorridenti. Sembrava così lontana in quel momento.
Genere: Avventura, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hiccup Horrendous Haddock III, Jack Frost, Merida, Rapunzel, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La (ri)scoperta dell’amicizia
 
 
 
“Deciderò io per tutti e due, va’ a letto adesso.”
“No!”, esclamò la bambina, le lacrime agli occhi. “Merida me l’ha spiegato. È anche una mia scelta!”
Jack alzò gli occhi al cielo, e Rapunzel sapeva cosa stava facendo: stava maledicendo mentalmente la rossa. Il brunetto le aveva confidato che da quando era entrata nelle loro vite –più che altro, da quando erano in contatto- tutto sembrava essere precipitato, mandando nel più completo caos il loro futuro.
“Non è così semplice, Ems.”
“Sai cosa mi diceva sempre mamma quando tu eri via?”, gli chiese lei, le lacrime ormai scorrevano sulle guance. “Sii gentile e coraggiosa. E io voglio esserlo.”
Rapunzel rimase in silenzio, desiderando eclissarsi in quella cucina. Non aveva mai pensato che sarebbe andata a finire così. Per lei la scelta non era mai stata posta. Lei non aveva nulla e nessuno da perdere, tranne sua madre ma si era convinta che ce l’avrebbe fatta perché era una donna forte. Sperava di dimostrare che era forte almeno quanto lei ma Jack.. per lui era una terribile decisione, ora più che mai dopo le parole di Hiccup. Emma era davvero una bambina d’oro, e Merida aveva ragione a dirle che anche a lei spettava decidere solo che sembrava tutto così sbagliato.
“Sei troppo piccola!”, esclamò Jack, alzando la voce. Anche stavolta la ragazza rimase in silenzio, abbassando i grandi occhi verdi per non guardare quelli dell’amico che sembravano annegare nella disperazione.
“Non voglio vivere imprigionata qui per sempre, Jack”, lo supplicò Emma, andando ad abbracciarlo e il fratello ricambiò caldamente la salda presa.
“Salve ragazzi”, disse Hiccup, entrando nella stanza e abbozzando una sorta di sorriso, con un atteggiamento molto goffo. Rapunzel lo guardò confusa, domandandosi il motivo di quella interruzione. Non era un comportamento molto rispettoso nei confronti di Jack interrompere quella sorta di dialogo con la sorella, e Hiccup lo sapeva. La guardava sicuro, e molto preoccupato, completamente in antitesi con il suo ingresso nella stanza. Era successo qualcosa.
 “Sono piuttosto sicuro che ce ne dobbiamo andare adesso”, disse, con tono grave. “Anche tu Jack, ed Emma.”
“Perché?”, domandò Jack, aggrottando diffidente le sopracciglia. D’altronde lui e la sorella non erano giunti a nessuna conclusione.
“Vi ha convocati il vostro re”, rispose Astrid al posto del ragazzo entrando anche lei nella piccola cucina.


 
(Conversazioni impensabili)



“Fortunatamente non abbiamo problemi a passare inosservati in sole 10 persone”, scherzò Jack. “Dopotutto vogliono uccidere solo una di noi”, aggiunse, lo sguardo verso Merida che camminava assieme a Rapunzel ed Emma.
“Prima dovranno passare sui nostri cadaveri”, replicò Astrid, guardando il brunetto con superiorità.
“Purtroppo non faranno troppa fatica”, replicò sarcastico Jack, dando una gomitata fra le costole ad Hiccup. Era il suo migliore amico, avrebbe dovuto ridere a quella battuta! E invece se ne stava silenzioso, con quel suo dannato volatile sulle spalle, evidentemente troppo pigro perfino per spiccare il volo.
“Ehi amico”, lo richiamò Jack, fermandolo. Hiccup lo guardò, per poi spostare il suo sguardo in una manciata di secondi. “Amico, cos’hai?”, gli chiese Jack, sinceramente.
Hiccup non rispose immediatamente, pensando che la domanda fosse alquanto ironica, in sé. Davanti a lui c’era Jack, il suo amico Jack che aveva perso la madre e che lui stesso aveva visto perdere il controllo difronte a quella perdita, che gli chiedeva come stesse lui. “Niente”, borbottò lui, cercando di andare avanti, ma Jack aveva intuito che c’era già qualcosa.
“Cos’hai?”, ripeté, fermandolo nuovamente. Hiccup alzò gli occhi verdi al cielo.
“So che c’è qualcosa che non va e tu me la dovresti dire”, disse Jack, mesto, ma quelle non erano le parole adatte. Furono l’inizio di un’esplosione.
“Così come tu avresti dovuto dirmi che avevi una madre e una sorella?”, chiese l’artista, riprendendo a camminare con passo spedito. Jack rimase inizialmente impietrito, poi accelerò per stargli al passo.
“Era più complicata di così la situazione, Hiccup!”, esclamò il brunetto, gesticolando.
“No, non lo era”, replicò l’altro. “Ehi, Hic, io ho una famiglia”, disse a conferma quello, in un’imitazione –molto buffa e per nulla somigliante- dell’amico. “Non mi sembra così complicato.”
“Tu non hai vissuto tutti questi anni con il peso di una famiglia come la mia”, lo accusò Jack. “Dove mia madre non riusciva nemmeno a prendere Emma e mio padre..”
“Hai anche un padre?”
“No! Voglio dire, ci ha abbandonati quando è nata Emma.”
Hiccup rimase in silenzio, spostando il suo sguardo a terra. Si sentiva incredibilmente stupido in quel momento e Toothless, nella sua spalla, sembrava sottolineare questo fatto beccandogli la testa.
“Perché sei così arrabbiato per questa cosa?”, chiese Jack, tornando malinconico.
“Perché è importante. Da quando ci siamo conosciuti io ti ho raccontato ogni evento importante della mia vita e scoprire che tu non l’hai fatto. Mi hai mentito su un aspetto fondamentale della tua vita, perché dovrei continuare a fidarmi di te?”
“Sappi che io non ho mai mentito su di noi. Tu sei davvero il mio migliore amico”, disse il brunetto, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. Vedendo che Hiccup non reagiva –doveva ancora elaborare l’intera faccenda- pensò bene di lasciarlo da solo, aggregandosi invece alla sorella.
Hiccup rimase in silenzio, continuando a guardarlo camminare in modo buffo per far divertire la sorella. E gli doleva ammettere che Merida aveva posto la domanda giusta. Perché lo vuoi tenere lontano?



“Alla fine vieni con noi”, disse la rossa, appena Jack si avvicinò, rivolgendogli un piccolo sorriso. Questo ricambiò.
“Non ho avuto molta scelta”, ammise il ragazzo, lasciandosi scappare un altro sorriso. Forse il primo genuino della giornata dopo quel lutto. Come sembrava ironico, ciò che la sorte gli aveva riservato in una manciata di mesi. E tutto era iniziato da quelle tre pesti dei fratelli di Merida che si erano lasciati corrompere dalla sorella per farsi comprare un arco. In pochissimo tempo, con qualcosa che lui stesso avrebbe definito molto futile, la ragazza aveva iniziato a intrecciare i loro destini e adesso i fili stavano disegnando una trama oscura e poco definita, di cui neanche la fanciulla sapeva bene come sarebbe finita.
“Se avessi potuto, cos’avresti scelto?”, chiese lei, toccandogli appena la spalla e costringendolo a fermarsi. Rapunzel ed Emma andarono avanti, non curandosi dei due che rimanevano indietro. Jack rimase a guardare le due ragazze andare avanti, finché non si sentirono le loro risate, limpide e giocose come mille campanellini.
“Sarei partito”, rispose, riprendendo a camminare. “Sappi però che non l’avrei mai fatto per la principessa”, aggiunse, facendole l’occhiolino. Merida sbatté le ciglia ramate un paio di volte, prima di dargli un buffetto sulla testa.
“Dovresti scrivere un saggio. Come offendere un reale in dieci parole”, replicò lei, facendolo ridere, nonostante fosse offesa.
“Tu non sei la principessa. Tu sei Merida. Noi siamo amici, e sarei partito volentieri per aiutare un’amica.”
“Grazie, Jack”, lo ringraziò lei, profondamente colpita. “Grazie davvero.”
“Fermatevi”, disse Astrid ad alta voce, richiamandoli tutti. “Siamo arrivati.”

 
(Padri)



“Merida!”, esclamò Fergus, riconoscendo la figlia ed abbracciandola. Stoick e Gobber, invece, era troppo concentrati su Hiccup che cercava di farsi sempre più piccolo.
“Stiamo un po’ stretti qua, non è vero?”, disse Hiccup, seduto nel letto della bottega sua e di Gobber, tra suo padre e il suo maestro, mentre gli altri era sparsi nella bottega. Non erano mai stati così tanti là dentro, e adesso avevano pure mancanza di spazio.
“Cosa sono questi?”, chiese Fishlegs, rovistando tra i fogli.
“Non toccare, no, no, no”, cercò di fermarlo il giovane, in un tentativo di alzarsi ma il braccio del padre lo teneva fermo, così Fishlegs –stupido grosso e grasso ragazzino che non si faceva gli affari suoi- sparpagliò per terra gli schizzi che il moro aveva usato come prova per il dipinto dei Dunbroch, e altri che il giovane aveva realizzato al palazzo senza che la famiglia reale lo sapesse. Infatti in alcuni c’era addirittura la regina, Elinor, che parlava in maniera intima con il marito, le piccole mani sulle enormi braccia di lui mentre il sovrano sorrideva, o i tre fratellini, Hamish, Hubert e Harris che giocavano con delle spade di legno o, ancora loro, che si ingozzavano di dolcetti precedentemente rubati da Maudie. E poi non poteva mancare Merida, ovviamente. L’aveva ritratta in una delle sessioni del loro addestramento, proprio mentre gli insegnava a tirare con l’arco. Per come era stato fatto lo schizzo, molto velocemente, più attento a cogliere il carattere che non l’aspetto in sé, l’arco non era altro che parte della ragazza, una parte di sé, mentre gli occhi della figura femminile guardavano lo spettatore fisso negli occhi.
“Quale parte di non toccare non capisci?”, fece Jack in difesa del moro, che era rimasto impietrito, mentre Emma cercava di riordinare tutti i disegni. Hiccup gli rivolse un segno di riconoscimento e riservò un sorriso alla brunetta che, dopo aver raccolto i fogli, glieli consegnò in mano.
“Bene sire, avete sua figlia, avete l’artista. Adesso che dobbiamo fare?”, domandò Astrid, facendo un inchino –per quanto possibile dato il pochissimo spazio- al re dai capelli rossi.
“Ehm, io”, cominciò il re impacciato, finché la figlia non gli lanciò un’occhiata truce –proprio come la madre- “noi abbiamo bisogno di parlare, voi perché non sorvegliate qua fuori?”
“Va bene”, accordò Astrid, con referenza. “Circolare!”, urlò poi subito dopo, “Tutti”, specificò, facendo segno anche a Jack e Rapunzel che pendevano letteralmente dalle labbra per sentire quella conversazione.
“Bene”, disse Stoick appena si chiuse la porta, alzandosi per sgranchire le ossa, “come ti è venuto in mente di prendere tutte le armi?”, chiese furibondo rivolto al figlio. Questo si girò verso Gobber, rimasto fermo al suo posto, che si allisciava i lunghi baffi biondi.
“Non le ho prese io”, cercò di difendersi, mentre Stoick lo guardava trucemente con i suoi occhi, verdi esattamente come i suoi. Hiccup chiuse perfino i suoi, in attesa che l’ira dell’uomo passasse velocemente. Trovava decisamente strano e perfino curioso il fatto che il padre si stesse interessando di lui –o almeno, su qualcosa che riguardasse lui più o meno indirettamente- e questo lo metteva decisamente a disagio.
“Le ho prese io”, disse Merida, infilzando il tavolo con la spada e intromettendosi in quel modo in quell’interrogatorio. “Le altre le ho date a Jack e Punzie.”
“Principesse”, commentò Gobber, bevendo birra direttamente dalla mancante mano, “sono tutte matte.”
Stoick si voltò verso Fergus, imbarazzato e senza parole. Quello alzò le spalle, senza dire nulla riguardo la figlia.
“Bene”, brontolò, mentre Merida lo fissava con i suoi grandi occhi acquamarina, “abbiamo chiarito la faccenda delle armi della bottega.”
“Adesso parliamo di quelle che ti avevo commissionato, ragazzo”, sviò l’argomento il sovrano, attirando l’attenzione sul giovane artista.
“Le armi sono in progettazione all’officina. Non penso che siano pronte con.. con quello che è.. successo, ecco”, balbettò Hiccup, gesticolando ampiamente con spalle e mani.
“Io ho bisogno di quelle armi!”, esclamò Fergus, urlando.
“Re”, commentò nuovamente Gobber, stavolta a voce più bassa in modo che potesse sentirlo solo Hiccup che era al suo fianco, “sono tutti matti.”
“Io potrei raggiungere l’officina e terminare il lavoro ma non so quanto ci metterò”, disse il moro, muovendo velocemente le dita come se questo aiutasse a pensarlo, “avrò comunque bisogno di persone, e di tempo.”
“Io ne ho bisogno il prima possibile. Devo liberare mia moglie e i miei figli.”
“E hai delle persone a tua disposizione”, aggiunse la figlia, guardando in direzione del padre. Sia Gobber che Hiccup la guardarono dubbiosi, mentre Stoick cercava di mantenersi impassibile.
“Chi, di grazia?”, gracchiò Gobber mentre la principessa abbozzava un sorriso.
“Noi siamo già 4 persone che possono dare una mano, e là fuori ce ne stanno una decina”, spiegò lei.
“Potrebbe funzionare”, borbottò il vecchio maestro, alzandosi dal divano.
“Pensi di farcela, mastro Haddock?”, chiese Fergus, porgendogli la mano. Hiccup la guardò sorpreso, stringendola di buon grado.
“Io metterò anima e corpo, ve lo prometto.”

 
(All’officina)



“Non mi sono allenata per questo”, commentò Astrid, nuovamente, a mezza voce attirandosi in questo modo un’occhiataccia da Gobber che la zittì. Gobber non era affatto un buon maestro, e questo la bionda l’aveva pensato fin dal primo momento in cui l’aveva visto, ma sapeva farsi rispettare. D’altronde, lei stessa lo stimava molto. Era sopravvissuto alla Grande Guerra dell’Est rimanendo senza una gamba, e circolavano diverse voci su come si fosse mutilato la mano sinistra, e una di queste includeva un combattimento con Bludvist, uno dei tre re assassini  di Drachma che vantava di uccidere chiunque si mettesse nel suo cammino. Astrid lo stimava, perché Gobber era un sopravvissuto, un uomo morto mancato. Pertanto, quando Gobber le intimò con quell’occhiataccia di rimanere in silenzio lei lo fece, interessandosi di più alla sua treccia bionda che alle blaterazioni di Hiccup. Infatti nell’officina, completamente deserta eccetto che per loro, il giovane artista stava esponendo ciò che dovevano fare, come e quando, mentre Stoick e il re stavano cercando faticosamente di accendere tutte le braci.
“Ci sono domande?”, chiese Hiccup alla fine del suo discorso, guardando ad uno ad uno chi era presente. Astrid era ancora interessata ai suoi capelli, Rapunzel invece gli rivolgeva un sorriso incoraggiante, i gemelli Thorson stavano (nuovamente) litigando, chissà su cosa tra l’altro, Jack era indifferente, Snotlout lo guardava soddisfatto iniziando già ad arrotolarsi le maniche, Fishlegs era terrorizzato e Merida.. sembrava guardarlo con astio. Ancora. Hiccup deglutì, cercando di non apparire più nervoso di quanto desse a vedere quando la piccola Emma alzò la mano timidamente.
“Sì?”, gli fece Hiccup avvicinandosi alla sorella di Jack.
“Quindi il mio compito è assicurarmi che tutti lavorino?”, chiese per conferma, aggrottando le sopracciglia.
“Esattamente.”
“E se non lavorano?”
“Beh”, iniziò Hiccup, cercando un appoggio da Gobber che stava vicino a lui (e che, ovviamente, non gli diede), “lo dici a quell’uomo grande e grosso”, gli rispose con un sorriso, indicando il punto dove c’erano sia Stoick che Fergus.
“A quale, però? Sono tutti e due grandi e grossi!”, esclamò Emma, ancora dubbiosa.
“A quello che ha una lunga barba e un’espressione sempre arrabbiata sul volto. Non ti puoi sbagliare”, gli rispose il moro facendo ridere la bambina. Merida tossì appena, giusto per richiamare la sua attenzione, guardando un punto imprecisato alle spalle dell’artista con soddisfazione.
“Ce l’ho dietro, vero?”, chiese Hiccup e la brunetta annuì.
“Su, al lavoro!”, esclamò Rapunzel, cercando di dissimulare un sorriso nonostante le sue sopracciglia fossero aggrottate per la preoccupazione. Aveva appena salvato Hiccup da un destino crudele.

 
(Altrove)



“Andiamo Phil, è il mio momento!”, esclamò quel ragazzo, prendendolo in braccio e facendolo girare. Era irriconoscibile adesso. Fino a qualche mese fa era sempre stato magro, ossuto, con una costituzione molto esile sebbene fosse alto quanto una colonna: i capelli ramati e quelle lentiggini sulla pelle bianca gli avevano sempre donato un aspetto innocuo, per niente pericoloso. Adesso perfino i suoi stessi occhi sembravano cambiati: da azzurri, come il cielo a maggio senza neanche una nuvola, erano diventati rocamboleschi, come se ci fosse qualche terribile tempesta. Era maturato, ed era pronto per uccidere.
“Calma i tuoi spiriti bollenti, Hercules”, gracchiò il nano, ritornando –finalmente- con i piedi per terra, letteralmente. “Ti stai dimenticando l’aspetto più importante.”
“Tutto il paese è nel caos più totale, non penso che non vi sia bisogno d’aiuto!”
“Ma allora sei stupido!”, lo rimproverò l’uomo, dandogli uno scappellotto. “Ci deve essere una richiesta, non un bisogno.”
“Andiamo Phil”, ricominciò di nuovo Hercules, con tono persuasivo. “Non penso che il sovrano verrà mai qui a chiedermi di combattere per lui.”
“Fidati, succederà qualcosa”, disse Phil, sedendosi amaramente. “Succede sempre, purtroppo.”

 
(Scuse)



Hiccup si fermò per un momento, dopo aver finito di sistemare la prima fila costituita da 11 canne. Stavano lavorando ininterrottamente da circa due giorni e non avevano completato ancora nulla. Le occhiate di Fergus alternate con quelle del padre gravavano sempre di più sulla sua figura, che sembrava farsi sempre più piccola e inutile come qualche tempo fa. Avvertiva che anche gli altri erano tremendamente stanchi, ma nessuno in presenza del sovrano osava lamentarsi. E così in quell’officina sembrava essersi generato il clima del terrore: perfino nei momenti di pausa continuavano a sussurrare tra di loro, nella speranza di non disturbare il re, il cui umore precipitava insieme al tempo. Il moro si soffermò a guardare i suoi amici, presi anche loro nel lavoro. Jack stava forgiando proprio le canne dell’invenzione a cui stava lavorando Hiccup, mentre Merida e Rapunzel –entrambe pessime in questo lavoro- gli stavano dando il ferro bollente, simile alla lava. Sembravano divertirsi, dato le loro risate. L’artista rimase fermo a guardarli per un po’ di tempo, fin quando qualcuno richiamò l’attenzione proprio alle sue spalle.
“Sì?”, domandò immediatamente, senza voltarsi ma quando lo fece si ritrovò Emma accanto al padre.
“Scusa Hiccup, ma non stavi lavorando”, disse la bambina, con un’espressione estremamente dispiaciuta sul volto paffuto. Il padre invece lo guardava con profonda delusione. Hiccup le sorrise forzatamente, scuotendo la testa.
“Io stavo pensando e pensare fa parte del mio lavoro”, inventò lui al momento, muovendo le spalle.
“Pensavo che i progetti fossero tutti terminati”, disse Stoick, freddo e distaccato. Sembrava un gigante in confronto al figlio.
“Questo non vuol dire che non possano essere migliorati”, replicò Hiccup, prendendo il suo quaderno degli appunti e scarabocchiando qualcosa come se volesse avvalorare quanto detto. Il giovane si curò perfino di chiudere immediatamente il quaderno, nel caso il padre avesse voluto controllare cosa avesse scritto e constatasse che non era niente.
“Riprendi a lavorare”, gli ordinò l’uomo, dandogli una pacca nient’affatto affettuosa sulle spalle e andandosene.
“Credo di essermi abbassato di qualche centimetro”, commentò, con un accenno di sorriso sul volto cosparso di lentiggini ma non aveva nessuno accanto che poteva sentirlo. Già, gli mancavano così tanto.



“Ve lo giuro! Questo posto è maledetto!”, esclamò Fishlegs, scatenando le rise degli altri. Dopo una giornata sfiancante si erano riuniti attorno ad una fucina accesa e stavano cenando insieme, raccontandosi storie.
“Si, come no”, disse Ruffnut, la sorella gemella bionda. Ora che Jack la guardava da vicino, sembrava perfino più bruta di Astrid. I lineamenti erano più asciutti, smunti e tutto ciò che la riguardava sembrava urlare che non era affatto una persona ragionevole. Il viso era magro e scavato, così come il resto del corpo, ma questo non faceva altro che evidenziare gli occhi azzurri, spesso ridotti a due fessure, e le labbra estremamente sottili, contratte in un sorriso sornione. I lunghi capelli biondi, spenti –non affatto caldi come quelli di Rapunzel o luminosi come quelli di Astrid- erano legati in tre trecce grossolane. Sembrava in tutto e per tutto uguale al suo gemello maschile Tuffnut. Era assolutamente brutale, in tutto ciò che faceva. Jack odiava ammetterlo, ma Astrid, nella sua glacialità, possedeva un’eleganza che era assolutamente estranea a questa bionda.
“E perché dovrebbe essere maledetto, questo posto?”, domandò Astrid, scettica al riguardo.
“Io.. ho sentito dei rumori”, balbettò il ragazzo grassoccio. Snotlout rise sguaiatamente, assieme agli altri. Perfino Merida si aggregò, con la sua risata un po’ roca e provocatoria, che si discostava parecchio dalle altre, più simili a schiamazzi. Lui e Rapunzel si guardarono, mentre stringeva sua sorella in un abbraccio.
“Questo posto è pieno di rumori”, gli disse Tuffnut, guardando agli altri come se volesse una conferma.
“Ma ci sono anche le voci!”
“Oh, questa potrei essere io”, ammise Rapunzel, sorridendo nervosamente. “Da quando sono qui non faccio che parlare a dismisura.”
“Ma non è la tua voce che ho sentito!”
“Sei sicuro che la voce fosse fuori e non nella tua mente?”, sussurrò Merida,  con un accenno del suo tipico sorriso. Astrid, al suo fianco, rise. E mentre tutti erano interessati a sentire questa storia da Fishlegs, che tentava in tutti i modi di dimostrare che non aveva perso il senno, Hiccup si avvicinò lentamente. Non aveva avuto abbastanza fegato per fare quella pausa con Gobber, visto che si sarebbe ritrovato anche in compagnia del sovrano e di suo padre, e quindi era rimasto completamente da solo. Era riuscito perfino a progettare uno scudo che all’occasione diventava una balestra, ma si sentiva tremendamente triste. Sapeva cosa andava fatto.
“Jack, ti posso parlare?”, gli bisbigliò all’orecchio, mentre gli altri continuavano a prendere in giro il ragazzo grassoccio.
“Certo”, rispose il brunetto, facendo segno a Rapunzel di controllare Emma. “Cosa c’è?”, chiese, appena si furono allontanati abbastanza dal gruppo.
“Ti volevo dire scusa, anche se penso che ho ragione”, disse Hiccup, tirandosi indietro i capelli castani. Jack rise genuinamente.
“Beh, grazie!”, commentò il brunetto, non smettendo di ridere. “Anch’io penso che hai ragione tu, però. Non so perché avessi sinceramente così paura di dirtelo ma adesso mi rendo conto che avrei dovuto.”
“Beh, sì”, accordò l’artista, sorridendo. “Se c’è altro di importante che hai omesso di dirmi in questi anni sappi che questo è il momento decisamente più adatto per rimediare.”
“Purtroppo per te non c’è altro”, disse Jack, ed entrambi fecero una cosa mai fatta prima: si abbracciarono. Più che un caldo abbraccio fu uno scambio di pacche reciproche, ma fu davvero profondo e significativo per loro.
“Adesso ti fidi di nuovo di me?”, chiese il brunetto. L’altro fece finta di pensarci, guardandolo seriamente con i suoi occhi verdi.
“Sì ma non troppo”, rispose ironicamente ricevendo un’occhiataccia dall’amico. “Troppo presto per scherzarci?”
 “Forse”, ammise Jack, con uno strano sorriso soddisfatto sulle labbra. “Però sappi che non sono l’unico della lista con cui chiarire. Anche la selvaggia principessa vuole la sua parte”, suggerì il brunetto, dandogli un’altra pacca amichevole sulla spalla.

 
(Altre scuse)



In una situazione come quella, non poteva fare a meno di guardarlo. Il suo ciondolo era magnetico in quel momento: non riusciva a staccare i suoi occhi da quelli verde smeraldo dei tre orsi, intrecciati tra di loro come tutti i simboli della loro casata. Ricordava che sua madre le aveva messo al collo quella collana proprio prima della grande serata. Probabilmente per lei sarebbe stata una serata orribile lo stesso dato il matrimonio combinato, ma Mor’du l’avrebbe pagata per quello che aveva fatto. L’avrebbe ucciso personalmente, si giurò la ragazza. Avrebbe dovuto prendere prima le sue armi, sperando che fossero rimaste nella sua camera, e poi l’avrebbe ucciso senza alcuna pietà, così come lui non ne aveva dimostrata nei loro confronti. Si sentiva ubriaca di sete di vendetta, in quel momento, come se il mondo intero fosse nelle sue mani e lei si ritrovasse ad essere il giocoliere di turno. Sperava semplicemente di non essere un pessimo giocoliere o addirittura un buffone.
“Ciao”, soffiò una voce alle sue spalle, vicino al suo orecchio, facendole scivolare il ciondolo dalle mani. Lei si voltò immediatamente, ritrovandosi il volto di Hiccup fin troppo vicino al suo.
“Che c’è?”, chiese lei, ritornando alla posizione originaria, sperando che lui non si fosse accorto che lei aveva indugiato troppo a guardarlo.
“Posso parlarti?”
“Lo stai già facendo”, disse semplicemente lei, distaccata. Hiccup sussurrò un “già” poco convinto, prima di sedersi accanto a lei ad una debita distanza di sicurezza, sicuramente più di un semplice palmo dal viso come prima.
“Scusa”, mormorò, profondamente risentito. La rossa si girò immediatamente a guardarlo di nuovo, incatenando i loro sguardi. E Hiccup in quel dannato momento pensò che Jack aveva ragione a chiamarla principessa selvaggia. C’era qualcosa, in lei, che non apparteneva a nessun altro se non alla natura stessa. Quello sguardo così fiero, orgoglioso ed esasperato sembrava essere specchio non solo della sua anima, ma anche di qualche landa di terra desolata, completamente libera. Ma, inutile dirlo, la cosa più straordinaria di tutte erano i suoi capelli. Di un colore incredibilmente acceso, vivo, così meravigliosamente caldo in quella terra così fredda –Hiccup stesso amava dire che si trovava esattamente sul meridiano della miseria, dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di morire di freddo-, di una forma così misteriosamente ribelle, rendendo le ciocche vere e proprie fiamme danzanti con una parvenza di vita. Selvaggia era decisamente qualcosa che le si addiceva.
“Tu ti stai scusando?”, chiese, in un sussurro. “Era la tua opinione, non ti devi scusare per questo.”
“No, non lo era. Non penso che ci stai mandando a morire, è molto più di questo”, rispose, estremamente serio come mai ricordava di essere stato. “Ho sbagliato a dire ciò che ho detto. Voglio molto bene a Jack, è stato il mio primo e unico amico e continuamente lo resterà per sempre, ma ero ferito e lo volevo tenere alla larga da me. E poi, comunque, la situazione sarebbe lo stesso pericolosa per la piccola Emma. Quindi sono qui a chiederti scusa, perché anch’io ti ho ferito.”
Merida rimase interdetta dalla confessione, tanto che rimase qualche minuto in silenzio. Hiccup la osservò rigirare tra le dita sottili, tese come se dovessero scoccare l’ennesima freccia, con la sua collana, fin quando si decise a parlare.
“Ci vuole gran forza ad affrontare i nemici, ma ancor di più ad affrontare gli amici”, disse lentamente, come se si trattasse di una sentenza. “Jack non è il solo amico che hai, Hiccup. Ci siamo anch’io, e Rapunzel, e anche gli altri se ti mostri per ciò che sei.”
“No, no, no”, replicò lui, sorridendo nervosamente, “io sono sempre stato ciò che sono e loro mi hanno sempre deriso perché non sono come gli altri, perché non sono come loro.”
“Hiccup, perché mai dovresti essere come gli altri?”, chiese Merida, lasciando perdere nuovamente il ciondolo. “Tu sei coraggioso, estremamente buono e incredibilmente leale”, sussurrò, poggiando una delle sue mani sul cuore del ragazzo, guardandolo negli occhi verdi, “perché dovresti essere meschino e arrogante?”
“Ma sono comunque una persona che commette errori”, rispose Hiccup, abbozzando un altro sorriso.
“Non avevi poi così torto”, ammise la ragazza. “Vi sto portando alla morte, ma non alla vostra.”
“A quella di Mor’du”, completò il moro. Merida annuì gravemente.
“Dispiace anche a me, possiamo considerarci pari?”, chiese lei.
“Pari non lo possiamo mai essere, sei sempre un gradino sopra di me..”, rispose lui, titubante.
“Credevo avessimo smesso con tutta questa storia della milady!”, esclamò Merida, quasi sobbalzando e facendo muovere i suoi ricci sulle spalle.
“Ma, effettivamente, tu continui ancora ad esserlo!”
“Siamo pari, Hiccup Horrendus Haddock III.”
“Vedi? Continua a sembrare un ordine di una milady”, commentò Hiccup, gesticolando ma non riuscendo a trattenere un sorriso.
“Sta’ zitto”, replicò lei, ridendo.




Ed eccoci alla fine di questo capitolo. Spero che tu, lettore che sei arrivato fin qui, stia passando delle buone vacanze e spero che ti sia piaciuto il capitolo. Io sono fermamente convinta che la scrittura sia uno strumento di comunicazione così come l'arte, e la musica e so bene anche che non possono piacere le stesse cose a tutti, quindi ti esorto a lasciarmi una recensione -anche un breve commento-, giusto per dirmi cosa migliorare, se ci sono errori e, perché no, per dirmi cosa ti è piaciuto o cosa no. Ti auguro di passare buon ferragosto, 
la tua gingersnapped
   
 
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