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Autore: Rei_    10/08/2015    5 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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L'ufficio che condivideva con Chiarelli sembrava ancora più luminoso, forse perché aveva passato l'ultima ora nel buio più totale. Andreani non parlò molto durante la giornata. Ogni tanto si forzò a dire due o tre battute, per sembrare almeno lo stesso di sempre, ma la sua mente era assorbita da ben altri pensieri.
Martino aveva avuto un vero e proprio attacco di panico. Era svenuto, non aveva smesso di tremare e solo alla fine, con molta fatica, si era calmato, anche grazie al suo intervento. Non aveva mai visto nessuno ridotto in quello stato, e lui lo aveva aiutato, perché quella era la migliore occasione che potesse capitargli per impedire che Michele Martino decidesse di prendere provvedimenti contro il suo gesto dell’altro giorno.
Uscì molto presto dall'ufficio e si catapultò sulla moto. A casa trovò Giorgio in cucina, circondato da un invitante profumo di arrosto di tacchino, e Nico per una volta sentì distintamente i morsi della fame, causati probabilmente dalla giornata assurda che aveva appena passato, in cui, tra le altre cose, non aveva toccato cibo.
Il capogruppo del Fronte intravide lo sguardo dell’amico, e si ricordò in quel momento della loro discussione dell’altro giorno.
«È tutto a posto. Non mi denuncerà».
Subito Giorgio assunse un’aria più rilassata, servendogli l’arrosto nel piatto.
«Mi stupisci sempre di più. Sinceramente, conoscendoti non pensavo che ti saresti scusato».
«Non solo mi sono scusato» sorrise Nicolò, «l’ho aiutato mentre eravamo chiusi dentro un ascensore, al buio, con lui che era in preda ad un attacco di claustrofobia» concluse con fierezza.
Giorgio restò con la forchetta penzolante nella mano. Ma gli bastò uno sguardo per capire che l'amico non stava inventando storie.
«Cosa?»
«Proprio così» rispose Nicolò con tono piatto, mentre faceva a pezzettini una fetta di carne.
«È stato male?»
«Sì» rispose lui, «molto».
Si inscurì in volto e non disse più una parola. Uno strano senso di colpa, più acuto di quello dell’altro giorno, lo stava tormentando da quando era uscito da quell'ascensore.
Finita la cena, scherzò un po’ con Giorgio per sembrare lo stesso Nicolò spensierato di sempre. Poi si buttò sul letto, di nuovo pensieroso.
In fondo andava molto fiero di quello che aveva fatto, ma per qualche strano motivo non si sentiva a posto. Restò a fissare il soffitto, pensando e ripensando a quella giornata. Poi, d'un tratto, tutto gli divenne chiaro.
Non c’entrava quello che era successo in ascensore, no. Si sentiva in colpa perché aveva schiaffeggiato qualcuno che, chiuso in un ascensore, era stato preso da attacchi di panico. Un uomo che si era mostrato estremamente fragile davanti a lui.
Era una sensazione strana, quella. Se prima ne aveva solo il sospetto, ora era sicuro di essere stato veramente ingiusto e meschino. Non poteva più mantenere intatto il suo orgoglio e accettare le sue azioni. Per Nicolò mantenersi una persona integra era sempre stato un requisito primario della sua indipendenza e del suo orgoglio.
Quell’azione lo aveva macchiato indelebilmente, e doveva rimediare in qualche modo.
Iniziò a camminare nervosamente, non sapendo come fare. Sarebbe dovuto andare dai questori della Camera e denunciarsi da solo? Ma no, non aveva senso, dopo tutta la fatica fatta!
Si cambiò i vestiti, mettendosi addosso una tuta nera da ginnastica e scarpe da jogging. L’aria fresca della sera lo avrebbe aiutato. Uscì e iniziò a correre sempre più veloce sull'asfalto, con nelle cuffie quelle canzoni di rivolta che, da quando era giovane, non lo avevano mai abbandonato.
 
*
 
 
Michele sedeva al bar insieme ad Arturo e Thomas, come tutte le mattine. Anzi, non proprio come tutte. Quella mattina era diversa dalle solite, perché quella notte era stata diversa.
Mai avrebbe pensato di riuscirci. Aveva chiuso porte e finestre, aveva spento le luci ed era rimasto lì da solo nell'oscurità. Solo lui e il suo cuore nel petto, che batteva regolare. Aveva dormito sereno, senza interruzioni, e al risveglio non aveva nemmeno ricordato i suoi sogni. Stava bene, stava dannatamente bene. Non riusciva a spiegarselo, ma nemmeno gli importava. Era uscito di casa tranquillo, in pace con il mondo, senza aver bisogno del fondotinta per nascondere le occhiaie, senza brutti ricordi freschi nella mente, e ora era seduto al bar a mangiare come non aveva mai fatto. Riusciva addirittura a sorridere spontaneamente, qualche volta, di sfuggita, senza rendersene conto.
Thomas lo fissò mentre Michele divorava il secondo cornetto.
«Michè, stai mangiando più di me! Hai deciso che vuoi crescere?» sorrise lui, pulendosi le briciole dalla camicia a scacchi rosa e gialli. Il giovane lo spinse amichevolmente, fingendosi offeso. Arturo li guardava e sorrideva. Sia lui che Thomas non potevano che essere contenti nel vedere Michele così ripreso dopo l’episodio del voto.
Quella mattina il bar era pieno, perché la seduta sarebbe iniziata solo alle nove. Michele si guardò in giro, osservando i presenti. Pasqui, il loro capogruppo, era seduto un po' in disparte e parlava con il capogruppo dei popolari e due ministri. In un altro tavolo c'era Chiarelli, il vicecapogruppo del Fronte, che leggeva il giornale da solo, con molta attenzione.
Alle otto e mezza, il bar si svuotò e tutti andarono in aula per la seduta. Quel giorno Michele fu attento come non era mai stato, prendendo appunti di getto su ogni intervento. Quando la seduta finì, il capogruppo di Sinistra Democratica salì le gradinate per avvicinarsi al suo banco.
«Martino» comunicò freddo Pasqui, aggiustandosi gli occhiali sul viso, «il segretario desidera vederti nel suo ufficio.»
Detto questo, ridiscese le scale, senza aspettare risposta.
Il giovane guardò i due amici con un misto di ansia e preoccupazione.
«Cosa vuole da me?»
«Non ne ho la minima idea» alzò le spalle Thomas, «ma non ti preoccupare. Tra i due è Pasqui quello che fa paura».
Michele sospirò. Non era affatto consolante.
Mentre saliva le scale, ripensò al suo primo incontro in aula con il segretario. Gli era sembrato strano e decisamente eccentrico per i suoi modi di fare, ma tutto sommato una brava persona. Ora però non poteva fare a meno di detestarlo per il suo emendamento in aula. Non era stata una mossa corretta, sicuramente non qualcosa che un vero sostenitore della democrazia parlamentare avrebbe fatto.
Bussò tre volte. La porta aveva inchiodata una targhetta d’oro con inciso il suo nome.
«Entra pure!»
L’ufficio di Marchesi era davvero spazioso, almeno il doppio di quello degli altri colleghi. Le vetrate erano ampie e la luce del sole entrava copiosamente. Qua e là erano appese foto, quadri e targhe di onorificenza. Michele non perse tempo a curiosare con lo sguardo, sapeva bene che Marchesi era considerato una specie di eroe da gran parte dell’opinione pubblica, ed era evidente che la cosa non gli dispiacesse.
Il segretario sedeva scomposto dietro la scrivania. Quando lo vide gli fece un gran sorriso, indicandogli la sedia.
«Come stai? È passato più di un mese dalle elezioni, ormai. Ti stai trovando bene?»
Michele annuì freddamente. Non riusciva a credere che quella fosse una domanda disinteressata.
«So cosa stai pensando» Marchesi sorrise, con la sicurezza di chi ha tutto sotto controllo, «sì, mi sembrava giusto che noi parlassimo chiaramente di ciò che è successo l’altro giorno».
«Avevamo solo presentato degli emendamenti» Michele lo interruppe, incapace di trattenersi, «non penso che possa considerarsi sbagliato. Poter modificare delle leggi è un principio importante per la democrazia».
Marchesi si accigliò, poi sorrise bonario.
«Ma certo Michele! Non posso che essere d’accordo con te su questo, non c’è dubbio!»
Il segretario prese a camminare per la stanza, sotto lo sguardo severo di Michele. Quel giorno non sentiva alcuna paura a dire chiaramente ciò che pensava.
«Sai, il punto è che noi siamo al governo, ma in minoranza» continuò, «il Nuovo Partito Popolare è maggioritario, e io e Pasqui abbiamo un contatto costante con loro, al fine di poter governare insieme con armonia. Gli emendamenti presentati da voi avrebbero sicuramente portato la legge ad una maggiore giustizia sociale, e questo è molto giusto…»
Fece un enorme sorriso, che a Michele apparve sincero.
«Ma, come dicevo, non siamo noi la maggioranza. Approvare le vostre modifiche avrebbe aperto uno scontro all’interno del governo, e per questo ho dovuto rimediare personalmente».
Michele abbassò lo sguardo. Era difficile dargli contro, ora che gli aveva dato delle motivazioni giustificabili.
«Sì, capisco».
Il segretario sorrise di nuovo. Michele non riuscì a fare a meno di chiedersi perché quell’uomo avesse giudicato così importante spiegarsi personalmente con lui, quando sicuramente la sua giornata era piena di mille impegni.
«Bene, sono contento che ci siamo chiariti» si avvicinò per dargli una pacca amichevole sulla spalla, «oh, ma ti sei fatto male?»
Michele seguì il suo sguardo e notò che puntava al livido dello schiaffo sullo zigomo, ormai quasi scomparso.
«No, no! Non è niente».
Marchesi sorrise enigmatico e Michele per un attimo si chiese se, in qualche assurdo modo, lui fosse al corrente di tutto.
Si congedò subito dopo, scendendo le scale a passi veloci.
 
 
*
 
«Ehi, Ric, la mammina non ti vuole a casa? Vedi che sta arrivando la limousine a prenderti!»
Riccardo Marchesi correva lungo un vicolo buio, con le scarpe nuove che si sporcavano per le pozzanghere.
Odiava quegli imbecilli. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto fargliela pagare a tutti quanti. Ma questo non avrebbe cambiato la situazione, né il loro odio verso di lui. Sarebbe stato anche inutile spiegargli che non vedeva i suoi genitori da due anni ormai.
Spense il cellulare, anche se nessuno lo avrebbe cercato a quell’ora di notte. Goffredo ogni tanto lo chiamava per controllarlo, ma per la maggior parte del tempo i suoi rimproveri riguardavano la politica, le sue responsabilità, il rispetto delle scadenze e cose simili. Di tutto il resto della sua vita non gli importava nulla. D’altra parte, non era suo padre. Non che a suo padre fosse mai importato qualcosa.
Si rifugiò dentro un pub che non conosceva. Non era mai uscito tanto la sera. Anche se erano passati pochi anni, a volte non si ricordava nemmeno cosa facesse ai tempi del liceo o gli amici che aveva allora, se li aveva mai avuti. In università qualcuno se ne stava facendo,
impegnandosi con le attività dell’Associazione Giovanile Universitaria.
Goffredo gli aveva consigliato di inserirsi, perché un futuro dirigente di partito come lui deve essere dentro ovunque, in tutte le
associazioni e i movimenti che hanno a che fare con l’area cattolica. Strategia, strategia, apparato, ancora strategia. Era solo questo che importava a Goffredo Ranieri. Se vuoi essere dirigente devi fare questo e quello. Devi passare i tuoi giorni dentro un ufficio, impegnarti con lo studio, devi organizzare e coordinare, chiamare, dialogare, fare accordi.
La musica dentro il pub era forte, abbastanza da stordirlo. Si sedette al bancone e ordinò una birra. La barista gliela portò e gli chiese se dopo avesse dovuto guidare. Rispose di no, dicendole che era venuto a piedi, anche se non era vero. Non voleva passare per quello che ha tanti soldi. Non voleva che anche lei lo odiasse, anche se non lo conosceva nemmeno.
In pochi minuti, Riccardo finì la birra. Forse aveva bevuto troppo in fretta, perché sentì subito l’impulso urgente di andare in bagno. Si staccò dalla sedia e si fece largo in mezzo alla gente che ballava ubriaca. Cercò il cartello della toilette e vi si rifugiò dentro, apprezzando subito il maggiore silenzio rispetto alla sala.
Mentre si sciacquava le mani, al suo fianco notò un tizio che aveva in mano un oggettino quadrato che teneva davanti alla bocca aperta.
Aveva qualche anno in più, ma era decisamente molto diverso da lui, con gli occhi fuori dalle orbite, i capelli quasi rasati e i vestiti larghi. Riccardo restò a fissarlo per un po’ di tempo, indugiando sulla cosa che teneva nel palmo della mano.
«Dì un po’, sarai mica uno sbirro in borghese tu?» gli fece ad un certo punto il ragazzo, sentendosi osservato.
«No» rispose.
«Ah», il giovane sembrò tranquillizzarsi. Si leccò le labbra, scrutandolo da capo a piedi, «e perché allora sei vestito in quel modo? Cazzo, sembri uscito da una di quelle fiction di ricconi viziati!»
«Probabilmente lo sono, un riccone viziato» sbottò Riccardo. Aveva già capito l’antifona e stava per andarsene. Non aveva intenzione di farsi insultare anche lì dentro. Voleva solo essere lasciato in pace, perché era sempre così difficile?
«Ehi, riccone, frena un attimo!» lo fermò quello, «vuoi qualcosa? MD, speed, crack?»
Riccardo aveva solo una vaga idea di ciò che gli stava offrendo. A scuola aveva studiato qualcosa di vago riguardo le droghe, abbastanza da sapere che “facevano male”, e questo gli era sempre bastato per tenersene alla larga. Ora però, una curiosità improvvisa stava iniziando a minare le fondamenta delle sue fragili idee sull’argomento. E se invece fossero state solo cazzate per ragazzini le cose che lui sapeva? Perché la gente si drogava, in fondo, se le droghe facevano solo male? Probabilmente qualche bell’effetto lo facevano pure.
«E che ti fanno?» gli chiese. Si rese conto di apparire come un completo ignorante, ma non vi diede importanza. Tanto non lo conosceva.
Lui lo guardò, con il sorrisone sulle labbra di chi è già sicuro di aver trovato un cliente:
«Beh, tante cose, dipende un po’ da cosa vuoi. Ti tengono carico, principalmente. Ti senti felice, libero e senza pensieri».
«Tu ti senti così?» insistette Marchesi. Non sapeva ancora se credergli, d’altra parte non lo conosceva.
«Beh, io tra tutte preferisco questa» gli fece vedere il quadrato di cartone che aveva in mano, «con questa puoi vedere tante cose e puoi viaggiare oltre i limiti dello spazio e del tempo» concluse, con un movimento ampio della mano come ad indicare un universo esclusivo che solo lui conosceva.
Marchesi guardò prima lui e poi la sua mano, perplesso. Il suo istinto gli diceva che non stava mentendo, e lui sapeva riconoscerle le persone che mentivano. Era immischiato con la politica da quando aveva sedici anni e ora ne aveva quattro in più, figurarsi se si lasciava fregare da uno spacciatore di periferia.
Mise mano al portafoglio, tirando fuori una banconota da cinquanta.
«Ti bastano?»
Il ragazzo sorrise, mollandogli il cartoncino. Infilò la banconota nel tascone, tirandosi fuori un’altra dose per lui.
«Sei uno a posto, riccone, quindi ti darò un consiglio. Non leccarlo qui, vattene fuori in un posto tranquillo e stai lì buono. Attento che non è una caramella, il mood è importante!»
Riccardo non capì del tutto le sue parole ma apprezzò lo stesso il consiglio, facendo scivolare il cartone nella tasca dei Levi’s. Salutò il ragazzo allungandogli la mano destra, come da sempre era abituato, ma lui non la strinse e gli batté invece un pugno contro il palmo.
Una volta fuori, chiamò un taxi e si fece portare in piazza del Gesù. Entrò dentro al cortile decorato, salì al secondo piano e aprì la porta con la targa “Circolo Giovanile dell’Azione Cattolica”. Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle e si lasciò cadere su una delle poltrone, seguendo alla lettera le istruzioni del ragazzo.
Dopo qualche minuto provò una sensazione strana, come se quella stanza conosciuta non fosse la stessa di sempre. Eppure non c’erano dubbi, doveva essere la sua, altrimenti la chiave non l’avrebbe aperta. Il suo cuore accelerò leggermente e Riccardo si accorse con stupore che i suoi occhi, muovendosi, creavano delle forme insolite. Iniziò a camminare per la stanza a casaccio, toccando qualsiasi oggetto che gli capitava sottomano. Sentiva il liscio, il ruvido, apprezzava la consistenza delle superfici. Si sentì felice, perché era lì nella stanza, da solo, con la porta chiusa a chiave e niente poteva fargli del male, non c’erano quelli che lo insultavano perché era ricco, non c’era nemmeno Goffredo che gli dicesse cosa doveva fare.
C’era solo lui, lui e la sua libertà.
Continuò ad aggirarsi freneticamente per la stanza, immaginando i suoi genitori, gli insegnanti e gli ex compagni di classe. Si rese conto che sembravano reali, come se fossero realmente presenti. I suoi pensieri avevano una consistenza, non doveva fare nessuno sforzo per creare le immagini.
«Avete visto?» gridò esaltato, «questa è la mia nuova casa, stronzi! Diventerò chi mi pare, alla faccia vostra! E voi dovrete solo scusarvi per tutto quello che mi avete fatto passare!»
Riccardo corse e ballò a casaccio per la stanza, canticchiando qualche canzone dei Guns ‘n Roses, finché non si stancò e si stese semplicemente sul pavimento.
Era libero, libero, libero.
Ringraziò mentalmente il ragazzo che gli aveva regalato quella magia, e focalizzò nei ricordi il locale dove era appena stato per tornarci il prima possibile, infine chiuse gli occhi e si addormentò. E, dormendo, sognò di volare sulla sua città e sputare giù su tutte le case, le strade e le persone che ora avrebbero dovuto fare come voleva lui.
 
 
*
 
 
Il cortile del palazzo era ancora più bello la sera, quando era semideserto. Ogni tanto gli piaceva sedersi lì a cercare le stelle, chiedendosi in che modo si vedevano, in quello stesso momento, dal suo paese natale. Era un modo per sentirsi meno lontano da casa, che a volte funzionava e a volte meno. Si era abituato ormai alla vita romana, tanto da temere che, un giorno, non desiderasse più tornare indietro. Era ciò di cui aveva paura e allo stesso tempo ciò che in fondo al cuore voleva di più: avere una casa nuova, senza più brutti ricordi con cui dover convivere.
Senza accorgersene, il momento dopo si trovò davanti un uomo alto, imbacuccato dentro ad un giaccone verde.
Andreani aveva appena estratto un accendino per accendersi la sigaretta che teneva tra le labbra. Nuvole di fumo uscivano dalla sua bocca, al ritmo del suo respiro. Michele aveva notato spesso il capogruppo del Fronte nel cortile, ma per l'abitudine ad evitarlo non lo aveva mai incrociato volontariamente.
Si fissarono negli occhi troppo a lungo prima che uno dei due si decise a rompere l’imbarazzo di dire qualcosa.
«La tua ferita è a posto?» chiese Andreani, nascondendo l’espressione dietro al fumo della sigaretta.
«Sì» rispose telegrafico.
«Bene».
Passarono altri lunghissimi secondi di silenzio. Michele si sentiva quasi in dovere di ringraziarlo, perché alla fine era stato grazie a lui se era riuscito a riprendere il controllo dentro quell’ascensore, ma il ricordo di quello schiaffo bruciava ancora.
«Riguardo la legge di settimana prossima, sugli investimenti nelle opere pubbliche» disse Andreani, «che avete intenzione di fare?» Michele sapeva bene a cosa si riferisse, sulla stampa in quei giorni non si parlava di altro. Quella legge era stata proposta dal Nuovo Partito Popolare, e secondo le inchieste giornalistiche era un modo per togliere i controlli pubblici agli appalti, rendendoli permeabili alle organizzazioni mafiose.
«Io sono contrario» rispose sicuro Michele, «ma cercheremo una posizione di compromesso all’interno del partito. È questo il modo più efficace per fare battaglia.»

Guardò Andreani. Temeva un altro scontro, ma quel giorno non se la sentiva di tacere i suoi pensieri.
L’uomo sorrise, facendo un tiro lungo.
«Lo immaginavo. Non sono per niente d’accordo con il vostro metodo, qualsiasi posizione di compromesso sarà comunque un danno al Paese e un favore alle mafie».
«Il compromesso è l’unico mezzo accettabile in democrazia» ribatté Michele.
«Forse» replicò Andreani, «o forse, invece, le leggi inaccettabili non si possono bloccare con semplici mezzi accettabili».
Michele cercò di reggere lo sguardo di sfida, ma ad un certo punto abbassò gli occhi. La convinzione dell’altro sembrava impossibile da scalfire.
Andreani spense la sigaretta, espirando l’ultimo fiato bianco di fumo. Con un’ultima, fugace occhiata se ne andò, lasciando Michele da solo con i suoi pensieri.
   
 
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