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Autore: Lyter    11/08/2015    2 recensioni
Quando hai un gemello la tua vita è legata alla sua, inevitabilmente.
Ma cosa succederebbe se il destino decidesse di separare la vita di due gemelli, cosa succederebbe se le loro strade si separassero per poi incontrarsi quando ormai tutto è cambiato?
Questa è la storia di Diana e Oscar Anderson, due orfani costretti a vivere in una Londra molto crudele
Genere: Malinconico, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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Agosto-1819





Il mondo gli parve assumere una forma ben diversa rispetto al solito.
Solito… una parte di lui era stata brutalmente strappata dalla carne e ora la ferita brulicava di sangue e febbre. Una ferita indissolubilmente curabile. Dilaniata la pelle bruciava e ad ogni vampata di calore il suo corpo agonizzante si aizzava nel letto della morte.
Ma tutto questo avveniva solo dentro di lui. La sua carne era intatta, perfetta. La sua saluta stabile e fin quando essa era stabile, ovviamente, sensibilmente, tutto andava bene. Almeno per gli altri.
Una volta sua sorella gli aveva detto che sarebbero stati sempre insieme, una volta si erano fatti una promessa di fronte una Londra al tramonto, mentre ogni cosa prendeva le sfumatura grigia della notte. Parole vane, parole vuote che ormai il tempo si era portato via e, benché fossero passate solo poche settimane da quel giorno in cui Diana lo aveva salutato, gli sembravano passati ormai anni. Lui era cambiato, lei era cambiata e il luogo in cui viveva, anche se cristallizzato nella sua interminabile grottesca attesa della distruzione, pareva essere diventato più nero. Nero come il morbo che attanagliava le strade infime di Londra.
Ogni giorno esso distruggeva le famiglie e nuovi bambini venivano accolti nell’Inferno dell’Orfanotrofio. E i letti non bastavano più. Oscar divideva il suo con un bambino di circa tre anni che, durante la notte, mentre con una manina cercava disperatamente il seno della madre, piangeva disperatamente. Ogni giorno Oscar si svegliava con un livido in più nelle gambe o nelle braccia e ogni giorno era sempre più incerto se si sarebbe mangiato a cena. O anche a pranzo. ‘Andiamo al mercato domani?’ era quella la domanda che i bambini si ponevano regolarmente ogni giorno, ma non sempre era possibile fuggire da quella struttura demoniaca.
Ma che senso aveva andare al mercato se, alla fine, colei per il quale si preoccupava non risiedeva più con lui. Nessuno aveva voluto prenderlo con sé e allora che andassero tutti all’Inferno! Rubare non aveva più senso e lui si accontentava di un cozzo di pane duro la sera con un po’ di latte stagionato.
“Anderson!” quel cognome, quella parola… sembrava non volere più rispondere a quel richiamo. Era fatto per due e condividerlo da solo sarebbe stato qualcosa di oltremodo impensabile. La parola si ripeté fin quando il ragazzino non dovette voltarsi per incontrare gli occhi grigi di Cane.
“Che vuoi?” rispose a tono Oscar. Cane non gli era mai stato simpatico, con i suoi denti gialli e marci e quella voce che ringhiava ad ogni parola. Oscar non ricordava il suo vero nome ma, probabilmente, era così abituato a sentirsi chiamare Cane che lui stesso aveva perduto memoria del suo nome.
“Devi scendere di sotto” una parola, un abbaio. La voce raschiante colpì Oscar come un pugno. Qualcuno osava dargli ordini.
“Perché?”
“Non lo so! Ordini dall’alto” stava perdendo la pazienza, capì immediatamente Oscar. Gli piaceva far perdere la pazienza a quell’idiota di un Cane ma sapeva che dopo sarebbero venute le percosse e le percosse facevano male.
Lo avrebbe provocato, lo faceva sempre infischiandosene altamente delle percosse, lo avrebbe visto adirare ma quando stava per parlare le parole non gli giunsero in bocca. Qualcosa lo frenò, qualcosa gli disse di abbassare la testa e stare muto. ‘Non devi farti ridurre così, ti faranno più male la prossima volta’ gli aveva detto sua sorella qualche anno addietro. Ma lui non l’aveva mai ascoltata.
Lo seguì lungo i corridoi crepati della struttura che mai, mai, avrebbe chiamato casa. Il sole stava lentamente ritirandosi ad Ovest e, con lui, gli ultimi bagliori di un giorno caldo e malato morivano nella luce brillante del cielo. Il caldo, quel caldo afoso che non lasciava respirare, odorava di morbo nero, di instancabile malattia e non dava spazio alla frescura del pomeriggio.
Scesero le scale scricchiolanti di legno fino alla Sala Comune, abbigliata in un modo alquanto inusuale: Oscar era abituato a vederla quasi del tutto deserta, sporca e con un odore di sudore che si aggirava per quel piccolo spazio. Quel giorno, invece, era brulicante di bambini di ogni età e sistemata quasi come una classe scolastica. Banchi a solo, penne riciclate e una pergamena bianco sporco ordinatamente sistemati sul banco.
Il Signore, come sempre accompagnato dal suo fedele panciotto e dall’irregolare orologio da taschino, parlava sommessamente con un uomo estraneo a quell’edificio, sia di nome, probabilmente, che di faccia. Non aveva il solito volto abbruttito dalla veneranda e malefica ordinanza degli uomini di quel posto, bensì presentava lineamenti morbidi e zigomi rotondi. Una bellezza che aveva giocato il gioco del tempo e che aveva perso. Come tutte le bellezze…
Oscar si fermò sulle scale e riconobbe i vari orfani. C’era Joffrey che si guardava intorno stranito, Robert con la sua micidiale stazza, grasso come un bue, forte come un toro, c’erano i gemelli Lose che si acchiappavano per i capelli e Vince e J-J e il nuovo membro Salvator. Erano in tanti, in troppi in quella sala che solitamente non ospitava più di dieci persone ed il caldo li faceva soffocare. Lo si vedeva nei loro volti. “Anderson!” la voce dura del Signore ridusse tutti al silenzio.
“Signore…” rispose il bambino alzando lo sguardo fiero. ‘Sguardo basso, Oscar, sempre’ gli ripeteva sua sorella.
“Siediti e tutti voi” passò uno sguardo minaccioso a tutta la sala “silenzio”. Bum. L’effetto magico dell’educazione di quel posto…
Il Signore iniziò a spiegare qualcosa, con parole semplici che tutti avrebbero capito, ma Oscar era troppo impegnato nello studiare la compostezza e la rigidità dell’uomo al fianco dell’ospite. Chi era? Sentiva un disperato bisogno di sapere chi fosse quell’uomo dallo sguardo tanto paterno ma dalla postura tanto rigida da sembrare un carceriere. E tutte quelle domande, con le varie supposizioni, lo portarono a scordarsi di stare attento alla spiegazione. Qualche minuto dopo tutti scarabocchiavano qualcosa sul proprio foglio. E ora? Cosa avrebbe fatto in quel momento? Iniziò a chiedere aiuto agli altri orfani con lo sguardo ma tutti erano troppo concentrati sul foglio “E tu?” la voce soffice lo colse di sorpresa e Oscar alzò gli occhi per incontrare quelli dell’uomo.
“Io n-non ho capito” un balbettio, un unico balbettio.
L’uomo lo fissò con più intensità. Aveva capito che stava mentendo “Allora sei stupido” fece con la sua voce soffice. Non c’era rimprovero in quella voce ma solo e soltanto curiosità. “Devi disegnare tutto quello che vuoi”
Ma nessuno dava dello stupido a Oscar, nessuno. “Non so disegnare”
“Allora non lo fare” rispose quello.
Alla fine dell’ora, il foglio di Oscar era l’unico bianco.
***
Aveva tentato la fuga.
Più volte.
Ma qualcuno era riuscito sempre a riprenderla e a gettarla in quella stanza che le era stata destinata, verso quella vita che lei non aveva mai voluto e che ora si ritrovava ad affrontare.
Aveva tentato la fuga.
Ma tutto era stato vano.
Dov’era Oscar? Dov’era suo fratello?
   
 
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