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Autore: TimesNewMozzi    12/08/2015    0 recensioni
"La loro era una bella vita, piena di luce, prima che lui se ne andasse.
Il bambino di Giulia non sarebbe tornato, per un po’ era stato la fonte della loro felicità, il loro centro di gravità, poi qualcosa nella sua pancia aveva iniziato a corrompersi, a marcire e a diventare inospitale per la vita."
Genere: Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ti Amo, lasciati andare.


La loro era una bella vita, piena di luce, prima che lui se ne andasse.
Il bambino di Giulia non sarebbe tornato, per un po’ era stato la fonte della loro felicità, il loro centro di gravità, poi qualcosa nella sua pancia aveva iniziato a corrompersi, a marcire e a diventare inospitale per la vita. L’utero di Giulia era diventato arido e spinoso e ogni movimento del bimbo era un nuovo graffio, un sospiro nel liquido amniotico, una cattiva notizia.
Il bimbo non vide mai la luce attraverso filtro diverso da quello dell’addome della propria madre.
Ci volle tempo per recuperare, ci volle tempo semplicemente per trovare i pezzi sparpagliati della loro coppia e capire come incollarli insieme; per un po’ si trascinarono istintivamente sperando di vedere un traguardo spuntare all’orizzonte, un giorno, forse, l’ombra del bambino si sarebbe dissolta, forse avrebbero imparato a convivere con essa e lui sarebbe finalmente vissuto, un’ombra tra due corpi, un figlio mai nato eppur presente.
Alberto si fece trascinare. Non era lui ad aver sentito il bambino morire dentro di sé, ma sembrava essere lui ad aver sentito con più forza il dolore nel suo ultimo respiro, per molto il suo comportamento e la sua stessa persona ebbero il retrogusto amaro che solo un’enorme sofferenza può lasciare, quella sensazione tanto forte da scavare fino alla superficie, alla pelle, dell’abito scenico che ognuno si costruisce, tanto profonda da averne macchiato e inzuppato ogni lembo, tanto che ormai la si potrebbe confondere con l’abito stesso.
In Alberto, sofferenza e persona coincisero, finché Giulia non lo avvolse, asciugandolo, con una rinnovata voglia di vivere.
Passò del tempo, alla fine ritrovarono una nuova normalità, la vita aveva smesso di essere divisa tra il prima e il dopo il bambino, non che lui se ne fosse andato, non l’avrebbe mai fatto, ma i due sposi avevano trovato una vita che conteneva il suo fantasma e la sua mancanza, una vita normale, diversa e uguale a quella di tanti.
Un giorno Giulia smise di farsi vedere.
Il rapporto con i vicini non era mai stato stretto, ma erano abituati a vederla uscire per andare a comprare il solito pacchetto di sigarette, o il pane. La prima ad accorgersi di questa mancanza fu la signora Matto, che aveva l’abitudine di stare in giardino a curare i suoi fiori e spesso scambiava due parole con la sua giovane vicina, quando la vedeva attraversare la strada.
Gli amici e i colleghi se ne accorsero dopo, Giulia non venne al lavoro per una settimana, senza nessuna scusa, nessuna chiamata, qualcosa l’aveva completamente divorata e non aveva intenzione di lasciarla andare.
Alberto sporse denuncia alla polizia, e nei giorni successivi alla scomparsa gli agenti vennero a interrogare lui, poi i vicini, gli amici, poi anche i parenti più alla lontana, ma l’asfalto sembrava avere più informazioni di tutti loro. Era come se la casa stessa l’avesse inghiottita tra le sue pareti.
Nei giorni seguenti anche Alberto sparì, almeno per chi non vivesse nelle immediate vicinanze della loro casa; si chiuse in casa a rivoltare, spostare mobili e giorno dopo giorno i suoi vicini videro accumularsi nel giardino una pila di comodini distrutti, carte e altri oggetti rotti, tutti accatastati con cura da uno spettro di puro dolore, con le sembianze di un tornado pronto a ingoiare e rilanciare a metri di distanza qualsiasi cosa lo sfiorasse.
Dopo quello sfogo la casa doveva essere molto più vuota.
Infine Alberto tornò a lavorare, non uscì di casa che per quello e per fare compere, trasformato più che in un essere umano, in ciò che gli antichi grechi avrebbero chiamato un’ombra. L’universo intero era diventato la sua caverna abitata da Eco, la sua Giulia, la sua dea che rispondeva a ogni sua domanda, ogni sua frase o mugugno, con lo stesso suono ripetuto e riflesso un’infinità di volte, come un immagine che attraversi uno specchio nel momento in cui si infranga e venga riflessa in ogni suo frammento, in ogni scheggia. Alberto viveva più in quel riflesso sempre più fioco di sé, dipinto non da Giulia, ma dalla sua mancanza, che nella sua persona, nel suo mondo, e chi lo circondava poteva accorgersi del fatto che, andandosene, Giulia si era portava via anche l’anima del suo amato.
Un giorno, qualche mese dopo la scomparsa, Alberto tornava a casa dal lavoro; la faccia stanca, le spalle basse a compiere l’arco disegnato da una schiena già di per sé curva. Era dimagrito di un paio di chili ultimamente, la scomparsa di sua moglie lo stava velocemente erodendo, letteralmente, come un vento saturo d’acqua che sciolga una scogliera, così la carne di Alberto si faceva sempre più sottile e rivelava i suoi spigoli e le sue punte.
Si chiuse la porta alle spalle facendo attenzione a girare la chiave il giusto numero di volte. Le borse della spesa, prevalentemente pasta e acqua, finirono per essere appoggiate sul tavolo del salotto, in vista di una futura migliore sistemazione, magari in una credenza o in qualcosa di simile, Alberto non aveva la forza per pensarci.
Si stese sul divano appoggiando la testa sulle le palme delle mani e queste contro un rigido bracciolo, mentre i talloni riposavano sull’altro dal lato opposto del mobile. Il lungo e magro corpo era perfettamente adagiato, come la statua di un cadavere, forse un manichino di cera usato in una casa degli orrori, e non fosse stato per il ritmico sollevarsi del petto e i rari spostamenti, prevalentemente della posizione delle gambe, chi l’avesse visto così disteso avrebbe probabilmente chiamato un ambulanza, se non il becchino di fiducia.
Rimase a riposare in quella posizione per un paio d’ore. Se sognò qualcosa fu dimenticabile, poco importante, quando si svegliò l’unica immagine che sembrava essere imasta impressa nei suoi occhi era quella del buio che gli calava addosso quando faceva cadere le palpebre. Intorno alle 21 un leggero rumore iniziò a provenire da sotto il divano, da sotto il pavimento perfino.
Sembrava che qualcosa si trascinasse al di sotto delle travi del pavimento, qualcosa squittiva acutamente, come una manciata di pezzi di metallo fatti scontrare tra loro. Alberto sciolse le lunghe e nodose gambe e si scosse di dosso il sonno come un albero scuote lontano le proprie foglie morte.
Non sembrava particolarmente colpito dai rumori, solo, sul volto aveva un’espressione di inconsolabile tristezza.
Aprì un cassetto di uno dei pochi mobili rimasti dopo il suo sfogo e ne trasse una torcia elettrica, poi infilò una mano tra le buste della spesa, le sollevò e iniziò a portarsele dietro. Con giusto una decina di passi si ritrovò in camera da letto, immobile al suo centro, guardando in basso dove non c’era altro che un’ordinata serie di travi di legno. Si piegò finendo per appoggiarsi sui propri talloni, mentre appoggiava le buste e andava con la mano sinistra a prendere qualcosa nella tasca posteriore dei jeans, tirò fuori un arnese di metallo lungo e con una punta che andava allungandosi e assottigliandosi. Studiò per qualche secondo il pavimento sotto di sé e poi infilò lo strumento in una minuscola fessura.
Fece abbastanza pressione per sollevare una botola che fino a qualche istante prima sarebbe potuta non esistere.
Sollevò quel quadrato di parquet senza troppa difficoltà, il dolore non aveva ancora completamente eroso la sua forza fisica, e rimise l’arnese al suo posto nei pantaloni, poi, riprese le buste, si fece strada con la torcia accesa giù per una scala in legno che sembrava alta almeno un paio di metri.
Lo scricchiolio dell’ultimo gradino fu più rumoroso di tutti gli altri e fu accompagnato da un acuto rumore di catene e un mugugno sordo.
Alberto trovò un posto per le buste su un tavolo sgombro in un lato di quella caverna nascosta sotto la sua casa, una caverna antropica cubica, grande più o meno come un salotto, anche se molto più buia.
La torcia si spense in favore di una lampada, appesa al soffitto, che, seppur non particolarmente potente, riusciva ad illuminare abbastanza bene almeno la grande gabbia al centro della stanza.
Giulia guardava Alberto col volto premuto contro le sbarre della gabbia, il suono della la catena che le legava il collo ad un puntello nel pavimento di pietra era come una serie di lampi metallici.
Magra, più di lui, più di quanto dovrebbe essere permesso ad un essere umano, una carcassa spigolosa, una grossa lisca di pesce raccolta in un sacco di pelle. La bocca secca non provava nemmeno a emanare un qualche tipo di grido, aveva imparato che quelle pareti di cemento non sembravano lasciare scappare neanche una particella di ossigeno; gli occhi, solo quelli sembravano essere rimasti vivi, e ora inondavano Alberto di una rabbia primordiale, gridavano tradimento e disgusto, chiedevano più di ogni altra cosa un perché.
Lui stava versando dell’acqua in un bicchiere e preparando un tozzo di pane più piccolo del suo pugno.
Si avvicinò alla gabbia di Giulia solamente per appoggiarli giusto al suo esterno, poi si allontanò di nuovo incrociando le braccia e mettendosi a guardarla mentre quei suoi dieci stecchi avvolgevano il bicchiere e lo portavano alle labbra, praticamente inesistenti, lasciando che l’essenza della vita tornasse in lei.
« Mi sta uccidendo » disse Alberto a bassa voce, con una mano tra i capelli e il volto triste.
« Vederti morire mi uccide, sei solo ossa ormai, Giulia. Non puoi lottare per sempre, io sono qui con te, sempre e per sempre, ci sarò fino alla fine. Ti amo, lasciati andare, lasciati semplicemente andare» Disse, con la voce rotta e dolce avvicinandosi di qualche passo.
Il corpo spinoso di Giulia si scosse come un’onda in mezzo al mare torcendosi in un movimento partito dai piedi e conclusosi nella sua laringe, con un urlo straziante, con l’espulsione di tutta l’aria che i due rachitici polmoni potevano contenere.
«TU! Sei tu a farmi questo! » Alberto scosse la testa, mentre Giulia tossiva e riprendeva coscienza di quelle corde vocali che stavano dimenticando come vibrare.
« Io voglio solo porre fine alla tua sofferenza, io ti amo. »
«Tu mi vuoi morta, mi stai uccidendo come un cane e ti diverti a vedermi morire » l’aria raschiava contro la gola come ruggine.
« Io NON mi diverto! » Urlò Alberto.
«Non c’è nulla di divertente nel vederti morire, Giulia, c’è solo dolore. Non hai idea del mio dolore…»
Giulia si scosse di nuovo come se l’avessero frustata.
« Mi hai rinchiusa, affamata, assetata e guardata morire, il tuo non è dolore, tu non puoi provare dolore, non sei umano… Come puoi farmi questo? Perché? »
Alberto si avvicinò ancora; gli occhi di Giulia si fecero più rossi, non avevano acqua per piangere, ma non c’era bisogno di lacrime per capire il messaggio di quelle crepe nel suo volto.
« Il nostro bambino…» Disse Alberto dopo un po’.
« C’eravamo io e te, soli, poi dal nulla è apparso lui. In un attimo la nostra vita era diventata quella di genitori, si era riempita della gioia della vita. Io ero diventato padre, e tu madre. »
« Cosa stai dicendo? Perché lo stai dicendo?! »
« Perché? Perché Giulia? Sono io a essere stato tradito, sono io a chiedere il perché. »
«Di cosa, qual è stato il mio tradimento?! »
Alberto nascose la faccia dietro le mani come se stesse piangendo.
« Perché hai smesso di amarmi, Giulia? Perché io, tuo marito, il centro del tuo mondo, sono stato spodestato da un lurido ammasso di cellule aggrappato alla tua pancia?! Come hai potuto violare la promessa e tutti i patti? »
Non c’era nell’arsenale di Giulia, una singola frase, una parola in grado di rispondere. Non c’era in tutta la sua mente qualcosa che l’aiutasse a comprendere ciò che aveva davanti in quel momento, la bestia che parlava, l’egoismo assassino che la teneva tra le mani non poteva essere capito.
« Ma l’ho superata, l’ho superata. Sono stato un buon padre, ho pensato che in fondo qualche anno sarebbe stato sopportabile, saresti tornata ad amarmi alla fine. Mi ero affezionato al traditore, Ah!, i miracoli della natura, ero diventato un padre! »
« E poi, tu hai deciso di tradirci entrambi. Hai deciso di ucciderlo e lasciarmi in vita vedendolo morire, hai deciso di spaccarmi le costole e lasciarmi in strada ad annaspare. » Concluse spingendosi le mani contro gli occhi con tanta forza da sentire dolore.
« M-Mi stai punendo? Questa è la mia punizione per aver perso il bambino?! » urlò contro le sbarre della gabbia finendo poi per accasciarsi su di esse, stanca, stanca come non avrebbe mai pensato di poter essere.
« No. No, no, no, no; piccola, questa non è una punizione» le sfiorò con una mano la guancia e lei non si mosse «Questa è la chiusura del ciclo. Questa è la mia ridiscesa all’Inferno da cui mi hai tirato fuori la prima volta. Ho perso lui e ora perdo te, chi mi ama muore e io resto e rimango solo, il cerchio si chiude e torna a me. »
Le accarezzava la guancia mentre i respiri di lei si facevano più intensi e incostanti.
C’era in quel discorso confuso e incoerente un alone di chiarezza, forse per la prima volta i due coniugi si stavano osservando veramente, l’uno vedeva nell’abito da persona dell’altro la verità, la pelle non nascondeva più lo spirito ma lo imitava. Giulia iniziava a capire, iniziava a odiare, odiarsi, per aver scelto lui, per aver trovato nel mondo quella cosa che ora giocava col suo corpo e la sua vita, tutto per egoismo, tutto per il desiderio di essere il centro di ogni cosa, anche della sofferenza, anche del dolore, rifiutando ogni aiuto.
«Sei tu la star. Ora puoi essere il centro, senza pesi morti, solo tu» disse lei provocando un leggero sorriso sul volto del suo assassino. Le membra di Giulia si strinsero, avrebbe voluto soffocarsi con la propria stretta, avvolgersi come un pitone e schiacciarsi petto e polmoni, avrebbe voluto sentire arrivare la fine sapendo di poterne controllare la velocità.
Avrebbe voluto cancellare il volto di suo marito dalla sua mente almeno nel momento della morte, credeva ancora che ci potesse essere del sacro in quel momento finale, questo l’avrebbe dimostrato, sarebbe stato un ultimo atto di dignità l’andarsene senza odio e senza amore per una cosa così rivoltante.
« Sapevo che avresti capito. È terribile, ma devo rimanere solo » Sorrideva. 
Giulia non aveva forza, ma la fame non sarebbe stata la sua ultima compagna. Si concentrò sulla mascella, sui denti. Si morse la lingua, ma non riuscì ad andare a fondo, morse ancora cercando le ultime forze rimaste. Trattenne i propri muscoli quando il sangue le invase la gola, si fece coraggio contro il dolore quando i suoi polmoni rifiutarono i suoi stessi liquidi e l’aria si fece da parte.
Piano, con brutalità, la sua mente cessò di esistere e una ad una le cellule che erano Giulia si spensero.
Alberto lo vide, le prese la testa tra le mani, sostenendola, mentre lei se ne andava. Vide il sangue colare dalle sue labbra, sentì i suoi polmoni indurirsi come pietre.
Rimase solo alla fine, a morire di dolore, a piangere la sua amata e il bambino, i due fastidiosi ostacoli che per tanto tempo lo avevano allontanato da sé stesso e dal dolore e la cosa che abitava il suo animo, quella parte di sé che aveva nascosto fino alla fine, anche a sua moglie, emerse a godersi lo spettacolo. Lo spettacolo dell’uomo che sceglie di alienarsi dal suo stesso genere, che uccide per allontanarsi da ciò che più ama, come un monaco buddhista deviato dallo spirito maligno della solitudine, il desiderio incontrollabile di essere protagonista e bersaglio di ogni cosa: odio, dolore, perfino l’amore, quell’amore che per tanto aveva cercato di costruire e che aveva deciso di distruggere in un attimo.
Scese la notte e Alberto rimase solo, a vagare nel suo Inferno, senza che nessuno venisse ad aiutarlo, e sentì il petto scoppiargli di gioia.







 
  
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