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Autore: Koa__    13/08/2015    9 recensioni
Un cadavere scomparso. Un fazzolettino ricamato e sul quale una mano ignota ha scritto una strana filastrocca. Una copia del libro: "Il giardino segreto" vecchia di anni, recante diciture confuse e incomprensibili. Misteriosi personaggi dai segreti inconfessabili, si muovono in un minuscolo paesino dello Yorkshire. In tutto questo, Sherlock Holmes, venuto assieme al suo fidato amico John Watson per far luce su di un curioso mistero, si comporta in una maniera assai strana.
[Blandamente ispirata al romanzo di Frances Hodgson Burnett: "Il giardino segreto"]
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti di un giardino segreto'
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Capitolo secondo
 




John Watson non era certo di come dovesse essere una piccola pensioncina di campagna. L’immagine che associava alla parola “pensione” lo rimandava a uno di quei tanti film ambientati nel selvaggio west, in cui i protagonisti si rifugiavano in una confortevole pensioncina. Quello in cui aveva da poco messo piede era certamente un piacevole alberghetto. Poteva trattarsi per via dell’aria frizzantina della prima sera, ma il tepore che s’irradiava dal camino acceso e che John riusciva a intravedere nell’altra stanza, riscaldava persino l’ingresso. Seppur non avesse un granché le idee chiare e fosse decisamente contrariato dal modo di comportarsi scostante di Holmes, capì immediatamente d’essere finito in un’altra epoca. I locali avevano un non so che di antiquato, erano certamente ben tenuti, ma gli pareva appartenessero a un tempo lontano. Per la precisione, che fossero stati ereditati da quella tradizione inglese che aveva la presunzione di non volerne sapere niente di design moderno. A tratti gli sembrava di stare nel soggiorno di Baker Street. Con un leggero pulviscolo ad aleggiare qua e là e la carta da parati verdognola, decorata con buffi temi floreali. L’ingresso, nonostante fosse relativamente minuscolo, aveva tutto quanto il necessario. Proprio a fianco delle scale che conducevano al piano di sopra, v’era un bancone piuttosto piccolo. Un appendi abiti con relativa rastrelliera stava accanto all’entrata e una porta alla sinistra dell’ingresso, si affacciava in sala da pranzo. Sì, constatò John dopo aver dato una rapida occhiata, l’atmosfera sembrava quasi quella che si creava spesso al 221b di Baker Street e che tanto s’apprezzava nei giorni invernali.
 
Watson venne risvegliato brutalmente dal delicato suono di un campanello, che i proprietari avevano sistemato sopra la porta e che trillava ogni qual volta questa veniva aperta e chiusa. Fu soltanto allora che il suo sguardo s’andò a posare su di lei. Una donna giovane e carina, non doveva avere più di trentacinque anni, vestiva in maniera estremamente semplice e se ne stava appoggiata al di là del banco. Portava un poco intricato chignon che le raccoglieva malamente i capelli scuri, dalla quale di tanto in tanto, una ciocca si ribellava fuggendo dal giogo delle mollette. Doveva trattarsi della Mrs Pinkerton di cui aveva parlato loro Mary Jane. La stessa proprietaria della pensione che, ora, fissava entrambi con aria sorpresa.
«Buona sera» esclamò lei.
«Buona sera, Mrs Pinkerton?» s’azzardò a domandare. «Siamo Sherlock Holmes e John Watson» esordì il dottore, costretto a parlare per via di quel loro tacito accordo che sosteneva che dovesse essere lui a interagire con le altre persone, a sbrigare insomma tutte quelle che Holmes riteneva fastidiose formalità. Ed era ormai talmente tanto abituato a svolgere quel lavoro di assistente, che non si prendeva più nemmeno il disturbo di verificare le intenzioni di Sherlock, se volesse essere lui a rompere il ghiaccio. Sarebbe stato tempo sprecato, il suo amico non era solito cambiare idea tanto facilmente. Non quando c’erano di mezzo individui che stavano al di fuori dalla loro ristretta cerchia di conoscenze. Pertanto si rassegnò e tirando un leggero sospiro mentre posava a terra il bagaglio che s’era portato, riprese a parlare.
«Miss Gilmore ci ha detto che vi aveva avvisati della nostra venuta qui.»
«Oh sì, mi aveva accennato la possibilità» annuì lei. «Ho tenuto da parte la più bella stanza della mia pensione ed è pronta per voi. C’è un bel letto grande» esclamò la donna, roteando su sé stessa fino a recuperare una chiave per poi porgerla loro, spingendola sul bancone.
«No, mi scusi ci dev’essere un errore. Noi vorremmo due stanze singole.»
«Singole?»
«Sì, due camere diverse. Una per me e una per il mio amico. Io e Sherlock non stiamo insieme. Non siamo una coppia. Non siamo amanti o fidanzati, non siamo un accidenti di niente!» Soltanto in quel momento, quando la sua stessa voce gli arrivò alle orecchie, si rese conto di aver urlato. Gridare, lo faceva raramente e più che altro perché il suo animo era fondamentalmente troppo intriso di militaresca disciplina mescolata con del sano rigore inglese. Non era quasi mai irascibile o verbalmente violento. Non sempre, per lo meno. Già, perché c’erano situazioni in cui non riusciva davvero a non esplodere. Spesso, per quanto faticasse ad ammetterlo, il suo alzare la voce aveva a che fare con Sherlock. Aveva urlato quando lo aveva visto buttarsi dal tetto del Barts. Gridava ogni qual volta Sherlock era in pericolo. A dire il vero gridava unicamente quando c’entrava lui. Poteva dire di non conoscerne a fondo le ragioni, ma era certo del fatto che Holmes gli rendesse un po’ troppo spesso i pensieri inquieti e i sonni agitati. Vibrò appena, mentre realizzava che quella era la prima volta che lo ammetteva a sé stesso, che confessava di essere turbato dal legame che aveva con colui il quale aveva sempre considerato soltanto come suo amico. Lo stesso amico che adesso lo guardava con aria di fastidio, spiandolo con una punta di saccenza fin eccessivamente evidente. A essere insolito, era il fatto che quella fosse l’occhiata che riservava a tizi come Anderson o un qualsiasi altro idiota. L’identico e odioso modo di fare, tipico di Holmes, che John non avrebbe mai creduto che sarebbe stato riservato per lui. Lui che era il suo assistente, l’amico migliore, l’unico umano sulla faccia della terra in grado di tollerarlo come coinquilino. E ora, tutto ciò che erano, quel loro essere fatti di niente e d’ogni cosa, tutta quell’impalpabile indefinibilità che li avvolgeva, veniva vanificata dalla supponenza che gli leggeva in viso. Quello non era il solito fare di Sherlock. Non c’entrava col ritenersi superiore, con la noia che l’essere circondato da persone meno intelligenti di lui, comportava. No, quello era uno sguardo differente ed era spaventosamente vero, terrificante nel suo essere reale. Palpabile e vivo, così come il non capire di John che prese a dipingersi sul suo stesso volto, colorandolo di punti interrogativi.
«Non credo di comprendere» mormorò Mrs Pinkerton, con espressione adesso vivamente imbarazzata. Probabilmente consapevole d’aver sfiorato un argomento delicato.
«Mi perdoni» si scusò il dottore, chinando il capo mentre tentava stoicamente d’ignorare Sherlock. «Io non sono gay e tra me e Mr Holmes non c’è niente se non una collaborazione professionale» mormorò, tentando di apparire calmo e sereno o quantomeno, di non sembrare un pazzo furioso. Cosa che doveva proprio riuscirgli male, data la lieve paura che leggeva nello sguardo della donna che gli stava di fronte.
«Ma dice davvero?» insistette Mrs Pinkerton, sempre più decisa a farsi gli affari loro in una maniera che John iniziò a considerare fastidiosa.
«Per l’ennesima volta, io e Sherlock non siamo una coppia e quindi vogliamo camere separate.»
«Ho capito» esclamò lei, strizzando un occhio con fare complice «volete mantenere il segreto. Ma sì, è naturale con il lavoro pericoloso che fate. Allora facciamo finta che io non vi stia dando una chiave di una camera doppia, ma una stanza con due letti.»
«Signorina.»
«Signora» lo corresse Sherlock, distraendosi una volta per tutte dalla minuziosa opera di osservazione che stava effettuando su di alcuni dipinti e fotografie, appese proprio accanto alla porta che conduceva in sala da pranzo.
«Tu taci!» esclamò John, rabbioso. «E per una volta, per una singola volta, potresti mostrare almeno un po’ di interesse?»
«Interesse nei confronti di che cosa?» ribatté il detective, senza capire.
«Per il fatto che ovunque andiamo le persone ci credano una coppia. Non te ne frega proprio niente che tutti pensino che io e te siamo fidanzati?» In risposta, così com’era solito fare Sherlock quando faticava a capire il senso di una qualsiasi qualcosa, assottigliò lo sguardo e prese a fissarlo con fare insistente. E se normalmente, il dottore sarebbe stato più che sicuro di quale sarebbe potuta essere la sua reazione, a oggi non era affatto certo di ciò che Holmes stesse pensando. Perché la notò immediatamente, la sfumatura di profonda irritazione devastargli le espressioni del volto, così come fece caso al moto di acidità trapelare dalla sua voce.
«La domanda è come mai a te ne dia tanto, John. Siamo qui per un caso, non per divertirci e io non ho tempo da perdere» affermò, afferrando la chiave con decisione prima di allontanarsi verso le scale.

Tuttavia non sparì immediatamente. Per un istante si fermò sul primo gradino. Un brevissimo attimo in cui John Watson si ritrovò a sperare che volesse scusarsi o, piuttosto, spiegargli il motivo di tanto rancore nei suoi confronti. Un istante che si ruppe subito, infranto dal tono freddo e distaccato che gli arrivò alle orecchie. Sherlock era carico soltanto della passione che quel caso scatenava in lui, non c’era la minima traccia di altro. In quel momento, comprese, tutto il mondo del suo amico detective era quel cadavere scomparso e nulla lo avrebbe distratto. Qualunque problema avessero loro due avrebbe dovuto aspettare. Tutto stava nel riuscirlo a sopportare senza mandarlo al diavolo.
«Mrs Pinkerton» esclamò quindi Sherlock, attirando l’attenzione della giovane signora. «Avrei bisogno di alcune cose.»
«Se posso aiutarla, certamente, Mr Holmes.»
«Una mappa della zona, il più possibile dettagliata, una vanga e una torcia. Per domattina, grazie. Mi pare inoltre corretto informarvi che ho già crackato la password del vostro wifi. Ho bisogno di internet per le mie indagini.»
«Beh, non era necessario che lo facesse, le avrei dato i dati senza alcun problema. Per quel che riguarda le cose che ha chiesto, mio marito le farà avere tutto quello di cui necessitate. Ah, si cena alle sei e trenta» urlò, ma il geniale detective già era sparito al piano di sopra.

John si ritrovò pertanto solo con troppi pensieri che gli vorticavano per la mente, e l’idea martellante di aver fatto qualcosa di enormemente sbagliato a ossessionarlo. Si sorprese a ricordare in maniera prepotente lo sguardo aspro di Sherlock e senza capire cosa ci fosse di non giusto nel fondo di quegli occhi. Era più che certo di conoscere quello sguardo molto bene, ma ora gli pareva di non sapere più niente e che ogni dettaglio che negli anni aveva difficilmente compreso, non servisse più a nulla.
«Potrebbe darmi una stanza, per favore» la implorò, con fare stanco.
«Ci sarebbe la camera numero due, ma non l’ho preparata.»
«Andrà bene lo stesso» affermò, prendendo di fretta la chiave.
«D’accordo» annuì Mrs Pinkerton, arresa «le porterò lenzuola e coperte. Il bagno è uno per ogni piano, quindi lo dovrà dividere con il suo amico.»
«Questo è perfetto, la ringrazio davvero.»
«Mi deve scusare, dottor Watson» disse lei, evidentemente contrita «ma i giornali dicono che lei e Mr Holmes siete una coppia e ho creduto fosse vero. Mi sento una sciocca, ho dato voce ai pettegolezzi e… Non volevo che lei e il suo amico litigaste a causa della mia boccaccia, invece lei si è arrabbiato e Mr Holmes si è innervosito.»
«Oh, non tema per lui: se ne sarà già dimenticato» mentì. O meglio, non che si trattasse di una bugia perché solitamente, Sherlock non portava rancore, anzi probabilmente non ne conosceva nemmeno il significato. Tuttavia, aveva capito che ultimamente era troppo lontano dall’immagine che ne aveva sempre avuto. Era come se fossero su due frequenze differenti e non riuscissero mai a incontrasi, né capirsi. Ed era terribilmente frustrante, data l’intesa che solitamente avevano e che rendeva il loro rapporto unico e speciale. Adesso, invece, era come se lo guardasse ma non riuscisse ad afferrarne un bel nulla. Sherlock aveva avuto fin da subito attorno a sé un’aura di mistero, il suo cervello fenomenale andava a tutt’altra velocità rispetto a quello di chiunque altro e ciò non permetteva a John di comprendere nell’immediato, dove sarebbero andati a parare con un qualsiasi determinato caso. Con Moriarty era stato così e perfino con Magnussen o con la faccenda della presunta Mary Morstan. Di tanto in tanto era frustrante, ma d’altra parte faceva parte del fascino di Holmes e lui in fin dei conti non se n’era mai lamentato. Di recente, però, era come se le trame di quel cervello splendido si fossero infittite e il suo caro amico fosse diventato ancora più incomprensibile. Da giorni lo vedeva teso e nervoso, rigido e scostante. Gli parlava appena e quando lo faceva, appariva come intollerante e poco garbato. Non che di solito badasse alla formalità, specie quando si trattava di loro due, tuttavia c’era qualcosa che non andava e lui, da banale e normale dottore, non ci capiva un accidenti di niente.
«In ogni caso provvederò a scusarmi il prima possibile» lo interruppe Mrs Pinkerton, infrangendo il flusso dei suoi pensieri contorti. «Si cena alle sei e trenta, dottor Watson. Le auguro una buona serata.»
 
Abituato com’era a svolgere le mansioni pratiche con rapidità e rigore, John impiegò pochissimi minuti per disfare il bagaglio e sistemare ogni cosa nel minuscolo armadio in legno che decorava la sua stanza. Quando invece la padrona della pensione gli fece avere lenzuola e federe, insistette per fare il letto di persona e l’operazione non gli rubò che pochi minuti. Pertanto, una mezzora più tardi rispetto all’ultima volta che lo aveva visto, si ritrovò di fronte alla porta della camera numero uno, posizionata esattamente a fianco della sua. Non gli chiese il permesso di entrare. Non si premurò di bussare, semplicemente si fece avanti perché era davvero troppo abituato a quella loro casalinga familiarità, per far caso alle formalismi. Sherlock, dal canto suo, neanche si prese il disturbo di voltarsi, se ne rimase fermo e immobile di fronte alla finestra che dava sulla piazza. Era di certo immerso nei suoi pensieri, magari stava ragionando sul caso, tuttavia, John decise di provare a intavolare una sorta di discorso. Quanto meno per cercare di capire come dovessero muoversi nei giorni a venire o che cosa avesse già capito.
«Ho bisogno che tu mi faccia un favore» esordì Holmes, qualche istante più tardi. Ancora, però, gli dava le spalle e non pareva volerlo nemmeno guardare in viso. Il mento non aveva smesso di essere rivoltò all’insù mentre le mani erano saldamente intrecciate dietro la schiena, in una postura nobile e a tratti imperiosa. Avrebbe intimorito chiunque, soprattutto per la maniera che aveva avuto di rivolgerglisi. Gelido nei toni, quasi regale e imperioso. Pareva volesse minacciarlo.
«Ho bisogno che scorri le pagine della cronaca locale, col computer dovresti fare più in fretta.»
«Cosa devo cercare?»
«Eventi strani, insoliti per un paesino dello Yorkshire con un centinaio di abitanti. Tutto quello di strano che ti salta all’occhio. Da oggi, andando indietro di ventotto anni.»
«Ventotto anni?» ripeté, sconvolto. «Sei forse impazzito?» sbottò John. «Ci impiegherò delle ore, come acc… no, sai che ti dico: va bene. Hai vinto, lo faccio. Non disturbarti a dirmi cosa farai invece tu, perché presumo che te ne starai per il resto della nottata a fissare il vuoto. E non c’è nemmeno bisogno che sottolinei che non ci sarai per cena. Conosco la tiritera a memoria. Buona notte, Mr Holmes.»
 
Se n’era andato via così. Sbattendo la porta e pestando addirittura i piedi, finché non era sceso al piano di sotto e aveva imboccato l’uscita. Soltanto a quel punto, con l’aria esterna a donargli del misero sollievo, si era reso conto di quanto aveva fatto. Non era mai capitato prima, ma era come se stare con lui lo soffocasse. C’era troppa tensione e a essere frustrante, si univa il fatto che non esistevano evidenti ragioni dietro simili attriti. John si sentì poco quieto e nervoso, di sicuro l’idea di tornare dentro non gli passava neanche per l’anticamera del cervello. Nonostante il freddo pungente della brughiera si riversasse fin dentro le stradicciole del paese strisciandogli odiosamente sotto pelle, in quel momento, di accogliente, la bella pensioncina di un paesino dello Yorkshire non aveva proprio nulla. E quindi rimase. Immobile. In parte ancora stordito. Restò fermò, inspirando a pieni polmoni l’aria satura di pioggia mentre il suo cervello si svuotava di pensieri e paranoie. Nemmeno notò che era buio e il sole era già calato, non face caso a niente, se non al battito del proprio cuore impazzito. Sherlock aveva il potere di tirarlo fuori dai gangheri. Lo faceva diventare matto. Cosa pretendeva? Che passasse tutta la notte chino sullo schermo di un computer in cerca di chissà cosa? Questo voleva? Davvero? E lui, il grande genio, cos’avrebbe fatto? Già lo sapeva, se ne starebbe rimasto zitto e immobile a fissare il soffitto. Perché lui era il geniale consulente investigativo e aveva un Mind Palace e una fottuta memoria eidetica, un cazzo di orecchio assoluto, parlava almeno una decina di lingue ed era intelligente, sagace, furbo, aveva quegli zigomi così belli e… diavolo! Rifletté. Non gli aveva chiesto niente di niente. Si era di nuovo lasciato dominare dall’ira. Non sapeva nemmeno cosa ci volesse fare con una vanga, né a che gli servisse una mappa della zona. Non aveva idea di quali impressioni si fosse fatto riguardo il caso o Mary Jane. E tutto perché si era arrabbiato in quel modo, perché… perché Sherlock aveva smesso di sorridergli. Questa era l'unica verità. E John era confuso, e stranito, e delle volte si sentiva come se gli mancasse la terra sotto i piedi. Provava un’immensa nostalgia, gli mancavano le loro intese e le loro risate. Da quando non ridevano per stupidate? Tanti, troppi mesi. Da Mary, da Magnussen, perfino da Moriarty. Quello che era accaduto loro era lontano fisicamente, ma terribilmente vicino per due che avevano preso di nuovo a vivere insieme senza mai nemmeno averne parlato. La fine della relazione con Mary e l’ennesimo sacrificio che Sherlock aveva commesso uccidendo Magnussen, era un qualcosa che non avrebbe dovuto in nessun modo venire ignorato. Eppure l’avevano fatto. Ci erano passati sopra e avevano ripreso la loro consueta normalità, come se niente di terribile fosse capitato. Per questo ora si ritrovavano a un passo di distanza e mai così lontani. Quando avevano smesso di capirsi? Quando di parlarsi con il solo sguardo? Quando non era più riuscito a comprenderlo? Non ne aveva idea. Così come brutalmente ignorava che Sherlock, a quel caso, ci stesse pensando ben poco. Non sapeva che aveva detto quella cosa dei giornali, solo perché non aveva la minima idea del perché quella donna fosse scomparsa. John non sapeva che mai il suo grande e cervellotico genio si era inceppato in questo modo e che al momento, Sherlock non riuscisse a concentrarsi su niente di niente. Ma in fin dei conti, nemmeno era a conoscenza del fatto che, proprio lì e in quel momento, lo stesse osservando dalla finestra della sua stanza. Ancora rigido e teso. Ancora con la mente dominata da una violenta, profonda e appassionata gelosia. Gelosia. Di tutto. Dell’aria che John respirava, dei sorrisi che regalava a chiunque tranne che a lui, della confidenza che aveva con la cliente. Sì, Sherlock era prepotentemente geloso, tanto che la sua spietata logica aveva potuto ben poco e s’era inceppata.

«Dottor Watson» lo chiamò d'un tratto una voce sconosciuta, attirando la sua attenzione, così come fece con lo sguardo di Holmes.
«Sì?»
«Avrei bisogno di parlare con Mr Holmes. Io sono la nonna di Mary Jane.»
 
 

 
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