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Autore: Calliope49    15/08/2015    1 recensioni
[Seguito di “By any other name”]
La regina di Inghilterra sta per giungere a Parigi da suo fratello, re Luigi. Un sicario straniero viene mandato a ucciderla, un agente al soldo del duca di Buckingham viene mandato per salvarla.
Nel mezzo, i moschettieri, Diane alle prese con il suo nuovo incarico e, ancora una volta, il confine tra “buoni” e “cattivi” che non è così preciso come si vorrebbe…
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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II
Regali di compleanno
 
Il gioielliere della regina aveva confezionato l’ampolla in un cofanetto di ebano con intarsi a forma di giglio.
Diane aveva attraversato mezza città con quel bagaglio sottobraccio, con l’ansia costante che potesse perderlo o potessero rubarglielo. Pensò che sarebbe stato interessante se qualcuno ci avesse provato: una zuffa con un borseggiatore sarebbe stata un ottimo modo per smaltire un po’ di quel nervosismo che andava aumentando man mano che si avvicinava il dannato ballo in maschera.
Athos le aveva detto che non aveva niente da dimostrare a nessuno, era certamente convinto di quell’affermazione, ma la prospettiva di un moschettiere di buona fama era molto diversa da quella di una ragazza che era finita ad occupare un posto nel mondo a cui non era destinata.
Lei aveva tutto da dimostrare.
La bottega di monsieur Masson aveva una grande vetrina lucidata a specchio e incorniciata in una struttura di legno verniciato di verde smeraldo. Sul frontone della porta spiccava in grandi lettere dorate la scritta “parfums”. A guardarlo da lontano, quel negozio poteva essere confuso con una pasticceria.
Diane spiò dentro ma non vide nessuno. Le parve strano che una bottega così rinomata non avesse nemmeno un garzone o qualche commesso a quell’ora.
Entrò e fu investita da una cascata di odori pungenti. Presi singolarmente dovevano essere gradevoli, ma quell’insieme di aromi di fiori e spezie e sapone le seccò subito la gola e le pizzicò gli occhi.
Tossicchiò per annunciare la sua presenza e per tentare di tornare a respirare.
«Buongiorno» esclamò. «C’è nessuno?».
Non ottenne risposta. Mosse qualche passo tra gli alti scaffali pieni di contenitori di vetro dove maceravano fiori, stecche di cannella o di vaniglia e altre cose simili a radici che Diane non conosceva.
Superato l’ingresso, la bottega del profumista era uno scintillio di bottiglie di vetro e fiale allineate con cura su mensole di legno chiaro. La luce che entrava dalla finestra ad arco e dalla vetrina si rifletteva su quei contenitori di cristallo, spandendosi in lampi e arcobaleni che fluttuavano nel pulviscolo.
Diane rimase ferma tra due file di scaffali, davanti al banco di legno tinteggiato dello stesso verde dell’esterno, spostando il capo per vedere quei giochi di luce cambiare a seconda dell’inclinazione con cui li guardava.
Pensò che, dato che la porta era aperta, il negoziante doveva essere nei paraggi o forse nel retrobottega e decise di aspettarlo.
Non era mai stata nel negozio di un profumista, neppure amava troppo i profumi, le sembravano una scusa per evitare di lavarsi, ma era curiosa. Dopo qualche minuto, si avvicinò a una mensola piena di ampolle colme di liquidi limpidissimi leggermente colorati di giallo o di rosa.
Nel silenzio perfetto del negozio, sentì il suono ovattato di passi provenire dall’ingresso, il fruscio quasi impercettibile della stoffa. Si voltò di colpo, l’angolo del cofanetto che aveva tra le braccia urtò la fiala sul bordo della mensola e una mano fasciata in un guanto di velluto afferrò il piccolo contenitore di vetro prima che si infrangesse sul pavimento.
«Attenta, mademoiselle» disse una voce sottile. Aveva il suono delle dita sulla seta.
Diane alzò lo sguardo per incontrare gli occhi verdi di una donna. La sconosciuta le sorrise e la ragazza pensò che avesse la bellezza languida di un felino, qualcosa in quella giovane signora riccamente abbigliata le fece mancare il respiro.
«Mi avete spaventata» le disse.
«Non era mia intenzione»
«Sapete dov’è monsieur Masson?»
«No. Lo cerco anche io».
La donna ripose la fiala sulla mensola con delicatezza e guardò Diane con la coda dell’occhio come se stesse cercando di indovinare chi fosse. La ragazza non capì perché la sconosciuta provasse di colpo tanto interesse per lei e si sentì a disagio, ma le parve sgarbato voltare le spalle alla signora e fingere di ignorarla, così rimase a sostenere per un istante lo sguardo di quegli occhi da gatta eccessivamente belli.
«Scusate» fece poi la donna con un sorriso gentile, forse troppo ostentato. Si scostò i  vaporosi capelli scuri dalle spalle e Diane notò che aveva un girocollo di perle e fili d’argento stretto alla gola. «Avete un accento singolare, cercavo di indovinare da dove venite. Anche io ho viaggiato un po’»
«Sono di Parigi, madame. Ma ho vissuto all’estero per molto tempo»
«Perdonate, mademoiselle, vi sto infastidendo?».
C’era certamente qualcosa di insolito in quella donna, forse era la sua bellezza, forse il suo sguardo, ma Diane credeva di non essere tipo da lasciarsi turbare da una sconosciuta strana e affascinante.
«No, madame. Sono infastidita di mio» rispose.
«Perché mai? Se posso chiedere. Una giovane donna come voi dovrebbe essere impermeabile a ogni turbamento».
Diane sorrise, divertita da quella considerazione che le si addiceva così poco. Come ogni persona che si sente in difficoltà, le parve facilissimo e consolatorio confidarsi con una perfetta estranea. «Troppe novità. Conoscete la sensazione di quando si è tanto felici da essere spaventati?».
«La conosco. L’ho provata una volta, e avevo ragione d’essere spaventata». Con un gesto che parve casuale, la donna si pizzicò il girocollo. «Se è per un uomo, mademoiselle, vi consiglio di tenere per voi un po’ della vostra felicità e non consegnarla tutta nelle sue mani: gli uomini non sanno maneggiare certe cose»
«L’uomo in questione non sa maneggiare la sua, di felicità, figuriamoci!» sbuffò Diane. «Ma mi piace pensare che quando siamo insieme diventi tutto più gestibile»
«Conosco anche questa sensazione, e questo tipo di uomo». La donna scosse il capo, un sorriso un po’ civettuolo riemerse dal velo di freddezza che le aveva indurito il viso. «Scusate, le mie sono riflessioni che non si adattano a un cuore giovane come il vostro. Ma il consiglio rimane valido: per il vostro benessere, non affidatevi a nessun altro che a voi stessa»
«Non è un cattivo consiglio, madame. Ma come potrei amare senza fidarmi?»
«Spero non arriviate mai a scoprirlo» concluse la donna. «Si è fatto tardi, temo dovrò tornare da monsieur Masson un’altra volta».
Diane annuì. «Buona giornata, madame».
«A voi, mademoiselle».
La donna uscì con passi lenti, sembrava sfiorare appena il pavimento, e la ragazza rimase nuovamente sola nella bottega. Dopo lunghi minuti, cominciò a considerare l’idea di servirsi da sola, prendere la colonia e lasciare i soldi sul bancone, ma realizzò di non sapere quale fosse il profumo per il re.
Si chiese se non fosse il caso di lasciare una nota a monsieur Masson per chiedergli, a nome della regina, di venire a portare il profumo a palazzo. Non aveva voglia di tornare a girare per mezza città trascinandosi dietro quella preziosa ampolla che metteva ansia al solo guardarla.
Sospirò e si allungò dietro al bancone, alla ricerca di un pezzo di carta su cui scrivere. Non ne trovò e guardò con aria spazientita la porta di legno incassata nella parete che doveva immettere nel retrobottega.
Decise di tentare, l’aprì con discrezione e rimase immobile sulla soglia, pietrificata. Le dita strinsero con uno scatto il cofanetto.
Quando si riebbe, appoggiò il suo prezioso bagaglio su una mensola, si portò le mani ai fianchi e, come in un sogno strano, restò a fissare il cadavere di quello che doveva essere monsieur Masson. L’uomo giaceva a terra con la gola tagliata, il sangue era ovunque e gli lordava il panciotto di seta e il foulard.
Diane pensò alla donna, ma le parve impossibile: la sconosciuta era entrata e uscita dalla porta anteriore e chiunque avesse ucciso Masson avrebbe dovuto essere sporco di sangue. L’assassino aveva lasciato delle impronte che andavano verso la finestra da cui era scappato.
«Oh, no» fece Diane. «Non di nuovo». 
 
***
 
La regina di Inghilterra era sbarcata a Calais e da lì aveva deciso di proseguire in carrozza fino a Parigi. A causa del mal di mare, aveva spiegato il messo inviato in città.
Treville era furioso per quel cambio di programma, l’idea che la sovrana avesse attraversato mezza Francia con solo le sue guardie inglesi a scortarla, lo innervosiva. Era stata una scelta avventata per l’incolumità stessa della regina e aveva messo a rischio le teste di tutti loro, nel caso fosse successo qualcosa durante il tragitto. Ma Enrichetta Maria era la degna sorella di Luigi: le teste altrui non rientravano nella lista delle sue preoccupazioni.
Il capitano Treville aveva messo insieme un drappello di una dozzina di moschettieri e le era andato in contro, sulla strada che attraversava le campagne e i vigneti fuori le mura di Parigi. Prima avrebbero intercettato la sorella del re, prima avrebbero messo al sicuro lei e le loro teste.
Il corteo della regina inglese era un nugolo di polvere all’orizzonte. Le armature delle sue guardie scintillavano al sole come lucciole nella sera.
«Grazie a Dio…» sospirò Treville quando distinsero le bandiere con l’intricato stemma degli Stuart.
Il vento portò la polvere e l’odore dell’erba quando i moschettieri smontarono per schierarsi in due file oblique ai lati della strada.
Enrichetta Maria saltò fuori dalla carrozza, travolgendo il valletto che le aveva aperto lo sportello e che le stava tendendo la mano per aiutarla a scendere.
Quando era partita per sposare il re inglese, era una fanciulla, adesso era diventata una donna. I capelli ondulati e scuri le ricadevano sulle spalle candide che l’abito lasciava scoperte, i suoi grandi occhi castani erano velati di lacrime di commozione. Era ancora molto avvenente, anche se appariva troppo magra - forse era malata, oppure solo infelice, si diceva che non avesse vita facile alla corte londinese.
Treville e i suoi moschettieri si inchinarono quando la donna avanzò verso di loro.
«Capitano Treville, mi è mancato persino il vostro grugno» trillò Enrichetta, porgendo la mano all’uomo perché gliela baciasse.
«Sono lieto di rivedervi, altezza. Bentornata». Il capitano non mostrò il suo disappunto per il brutto tiro che la regina gli aveva giocato, sfoggiò invece una perfetta cortesia e il sorriso dovuto a una vera figlia di Francia che era stata così a lungo lontana dal suo paese.
«Se volete tornare in carrozza, altezza, saremo lieti di…». Enrichetta si voltò in un fruscio di stoffa e pizzo, mentre Treville stava ancora parlando, e tornò verso la carrozza. Ne tirò fuori una dama di compagnia che reggeva una grossa cesta.
«Scusate, scusate, voglio che uno dei vostri uomini porti questi in sella. Sono stati chiusi tutto il tempo in carrozza, stanno soffrendo. Sono il regalo di compleanno per mio fratello». Così dicendo, la sovrana mostrò a Treville il contenuto della cesta: quattro cuccioli di cane dal corpicno ancora un po’ tozzo e il pelo bianco a chiazze.
Il capitano annuì con un sorriso nervoso, prese la cesta e la tese bruscamente al moschettiere più vicino.
Toccò a Porthos afferrarla. Lanciò un’occhiata ai minuscoli animali che si rotolavano su un cuscino di seta, con gli occhi tondi e liquidi dall’aria troppo vispa e orecchie marroni a penzoloni come strisce di cuoio.
«Sono beagle» disse Athos. «Cani da caccia»
«Mh, mi sembrano una cosa buona da mangiare» considerò Porthos.
«Tu sei una persona orribile» sibilò Aramis mentre d’Artagnan ridacchiava.
La regina si decise a tornare in carrozza e Treville fece a tutti loro cenno di ripartire. Un giovane moschettiere lanciò il cavallo al galoppo per correre al Louvre e avvisare il re che sua sorella era in arrivo.
«Ancora poche ore» mormorò d’Artagnan mentre si mettevano lentamente in marcia ai lati della carrozza.
Una folla festante si era riversata per le strade, Parigi diede un festoso bentornato alla più giovane dei Borboni e il corteo avanzò lentamente tra la gente assiepata ai lati delle strade che applaudiva e urlava.
Athos odiava la folla, o almeno odiava trovarsi tra la folla e la carrozza di un sovrano, non si poteva mai sapere quale guaio poteva saltare fuori da quella massa di volti sconosciuti. Sentì la fronte sudata sotto le falde del cappello.
Quando furono in vista del Louvre, un drappello di Guardie Rosse disperse i curiosi, spingendo via chiunque intralciasse l’avanzata del corteo. Il cancello principale del palazzo si aprì per lasciar passare la carrozza e si richiuse dietro l’ultima guardia della scorta.
Treville mandò un sospiro di sollievo, smontò e si occupò personalmente di far scendere la regina dalla carrozza, la prese sottobraccio e l’accompagnò dentro.
«È bello essere a casa» disse la donna quando varcarono il portone anteriore della reggia e uno stuolo di servi si inchinò al suo passaggio.
Il re e la regina comparvero in cima alle scale, dietro di loro il cardinale strisciava come un’ombra appoggiandosi al corrimano di marmo.
Sull’ultimo gradino, Luigi lasciò la mano di sua moglie e si gettò con slancio verso la sorella. Molte cose si potevano dire di sua maestà, ma quello per i suoi famigliari era un amore a tutta prova, in particolar modo per quanto riguardava le sue sorelle, le uniche figure femminili che avessero fatto parte della sua vita, dopo l’esilio di sua madre.  
La regina Anna sorrise e avanzò lentamente verso la cognata. Non erano mai state molto amiche: Enrichetta Maria apparteneva a quella sempre più larga parte di francesi che odiavano gli spagnoli. Ma Anna conosceva le buone maniere e la diplomazia forse meglio di suo marito e accolse la regina di Inghilterra come una sorella.
«Proprio una bella riunione di famiglia» bisbigliò Aramis.
Athos osservava in silenzio Enrichetta scambiare convenevoli con Richelieu - entrambe le sorelle del re sembravano andare assai d’accordo col cardinale - poi gli sovvenne un dubbio, la sensazione sgradevole di aver dimenticato qualcosa.
«Porthos!» fece, afferrando il compagno per un braccio. «Dove hai lasciato i cani?»
«Oh, diavolo!». Porthos indietreggiò lentamente, sparendo tra le file di moschettieri allineati nell’ingresso del palazzo, poi si voltò e corse fuori come una furia e quasi atterrò un valletto che stava arrivando in quel momento.
Il pover’uomo, ancora mezzo tramortito dallo spavento per essersi visto quasi investito da un armadio di moschettiere, avanzò con passo titubante fino al fianco di Treville e gli consegnò una nota in un foglio ripiegato e sgualcito.
Con discrezione, il capitano si voltò per leggere il messaggio. Accartocciò il foglio e se lo mise in tasca con un gesto stizzito, poi si voltò verso i moschettieri con una faccia che non presagiva niente di buono.
«Diane» disse, avvicinandosi ad Athos, Aramis e d’Artagnan schierati in prima fila, cercando di non avere alcuna reazione troppo evidente e di parlare senza che nessuno udisse.
«Cosa?» domandò Athos.
«Si è fatta arrestare»
«COSA?!». I tre moschettieri lo dissero in coro, a voce alta, per fortuna il re e sua sorella erano troppo impegnati a cinguettare a metà della scala per badarci.
Treville cacciò un sospiro che sembrava contenere una manciata di imprecazioni. «È alla gendarmeria di rue d’Agnes. Qualcuno la vada a recuperare prima che la sbattano alla Bastiglia» ordinò. «E… dove diamine sono i cani?».
 
«Cosa pensi abbia combinato?» domandò Aramis mentre lui e Athos imboccavano rue d’Agnes.
«Non sono nemmeno sicuro di volerlo sapere».
La strada era uno dei quartieri più ricchi di Parigi, case dalle facciate perfettamente intonacate si allineavano ordinate ai bordi della via. In posti come quello era importante che la gente si sentisse al sicuro e i gendarmi erano sempre fin troppo solerti e suscettibili.
«Che ci faceva qui Diane?» chiese ancora Aramis.
«Non lo so»
«Adoro quella ragazza, ma non so tu come faccia a dormire la notte»
«Infatti, non dormo»
«Be’, non dormire la notte ha anche i suoi vantaggi…».
Athos lanciò al compagno un’occhiata che avrebbe frantumato un muro.
«Ah, quindi voi due non…» tentò Aramis, ma lo sguardo dell’altro si fece ancora più assassino. 
«Innanzitutto,» capitolò Athos, «Diane vive con il capitano. In secondo luogo, forse ti stupirà sapere che c’è gente che ha bisogno di tempo per entrare in intimità con un’altra persona e, infine, non sono affari tuoi»
«Aspetta, chi ha bisogno di tempo, tu o lei?».
Athos alzò gli occhi al cielo. «Ti è sfuggita la parte del “non sono affari tuoi”?»
«No, ma se ti imbarazza parlare con un tuo fratello moschettiere dovrei strapparmi l’uniforme e farmi prete». Aramis sbuffò una risata nasale.
«Piantala»
«Come vuoi». Aramis si fece serio di colpo. «Solo non negarti la possibilità di essere felice, d’accordo? Diane sarà pure giovane e, ehm, un po’ pazza, ma ha scelto te quando poteva tornare in Italia e sposare Corsetto…»
«Corsini. Cesare Corsini». Il ricordo del ragazzo e di lui e Diane nell’aranceto fece agitare qualcosa in fondo allo stomaco di Athos. 
«… qualunque sia il suo nome. La scelta di Diane merita tutto il tuo impegno» concluse Aramis, fermando il cavallo davanti alla gendarmeria. «E adesso andiamo a tirarla fuori da questo posto, prima che dia ai gendarmi una scusa per farsi fucilare».
Entrarono senza bussare, avanzando spavaldi verso uno scrittoio tarlato e polveroso dove stava un uomo di mezza età, intento a scrivere. Era più l’inchiostro che versava sul legno che non quello che arrivasse sulla pagina.
«Moschettieri del re» disse Athos, asciutto. «Avete arrestato una ragazza, siamo venuti a prenderla».
L’uomo li guardò come se faticasse a capire.
«Andiamo» sbottò Aramis. «Giovane, carina, lingua lunga… quante ragazze arrestate di mattina in questo quartiere?».
«Ah, sì, quella che ha ammazzato il signore dei profumi».
I due moschettieri si scambiarono un’occhiata allarmata, voltandosi lentamente l’uno verso l’altro.
«Quante volte ve lo devo dire? Non ho ammazzato monsieur Masson! Era già morto quando l’ho trovato» esclamò la voce di Diane da dietro una porta. Si sentirono dei rumori, passi pesanti e stridore di legno.
Athos si impose di mantenere la calma. «Siamo moschettieri. Il nostro capitano ci ha ordinato di prendere la ragazza, ora voi ce la ridarete e ognuno tornerà ai suoi affari. Mi sono spiegato?».
La porta si aprì e ne uscì un ufficiale con il farsetto consunto, indossava alti stivali con gli speroni e portava al fianco una spada dalla ricca elsa cesellata. Sembrava un moschettiere con un po’ meno stile.
Oltre il battente intravidero Diane, seduta su una sedia con i polsi legati. La ragazza si sporse in avanti e lanciò ai moschettieri un’aria esasperata.
«Conoscete questa ragazza?» disse l’ufficiale, sembrava annoiato, di quella noia che spinge di solito la gente a torturare gli animali. In una giornata normale forse sarebbe salito sul tetto a sparare ai piccioni o a prendere a sassate i gatti, e invece gli era capitata tra le mani una ragazza che non perdeva occasione di urtare la suscettibilità altrui.
«È al servizio della regina ed è qualcuno che non vi conviene toccare» disse Athos. La frase aveva molte implicazioni e sottintesi e tutti veritieri.
«Perché non ci dite cosa credete che abbia fatto e vediamo di sistemare questo seccante malinteso?» intervenne Aramis.
«È stata trovata sulla scena del delitto, vicino al corpo sgozzato del profumista del quartiere» spiegò l’ufficiale. «Ora, una ragazza così giovane, una persona dabbene, sarebbe svenuta alla vista di quello scempio - perché di uno scempio si tratta - invece lei era perfettamente calma».
Certo, da ragazzina la mandavano in punizione in un obitorio…
«Inoltre» continuò l’uomo. «Aveva un cofanetto con un’ampolla d’oro e pietre preziose. L’omicidio del profumista è chiaramente dovuto a una rapina e lei insiste col dire che il cofanetto con l’ampolla è roba sua. Io dico che era lì per rubare e…»
«E io vi dico e vi ripeto che siete un idiota!» strillò Diane. «Se ho ucciso io il profumista, perché non sono sporca di sangue? Le avete viste le tracce verso la finestra? Saranno stati certamente dei ladri e ora se ne staranno a bere in una taverna mentre voi perdete tempo con me!».
L’ufficiale girò su se stesso per tornare a guardare dentro la stanza. «Come mi avete chiamato?»
«Idiota» sillabò la ragazza. «Il cofanetto con l’ampolla me lo ha affidato la regina perché lo facessi riempire di profumo per il re. Idiota!».
Furioso, l’ufficiale fece per tornare dentro. Come minimo le avrebbe rifilato uno schiaffo e poi l’avrebbe spedita in mano a qualche boia anche solo per puntiglio.
Athos lo afferrò per una spalla. «Vi ho già detto che non potete toccarla» sibilò gelido. «Non è la vostra assassina e voi non la userete come capro espiatorio per un crimine che non ha commesso. Piuttosto, ci ridarete subito la ragazza e…»
«E il cofanetto!» fece eco Diane, dall’interno della stanza.
Dio, falle ingoiare la lingua!  «E il cofanetto, sì. Se non basta la parola di due moschettieri come garanzia, potete venire a Louvre e chiedere soddisfazione alla regina».
L’ufficiale rimase impietrito, fissando con una certa ansia le dita di Athos che gli stringevano la spalla. Ladri tagliagole dovevano essere una piaga in un quartiere come quello e, arrestando Diane, la gendarmeria aveva colto la palla al balzo per dimostrare che ogni tanto riusciva anche a fare il proprio lavoro; quell’ufficiale doveva essersi già reso conto di aver preso un grosso granchio, ma la giustizia sommaria era un’attività nella quale gli stessi rappresentanti dell’ordine tendevano a indugiare.
L’ufficiale si ritrasse dalla stretta del moschettiere con uno scatto brusco.
«Se proprio ci tenete a garantire per lei» sputò, senza poter dire altro. Afferrò Diane per un braccio e la rimise in piedi, spingendola con malagrazia verso Athos. Lui si affrettò a tagliare le corde che le stringevano i polsi, poi le cinse le spalle con un braccio e la pilotò fuori dalla gendarmeria, senza rivolgere nemmeno uno sguardo all’ufficiale o all’uomo sullo scrittoio che era andato a recuperare il cofanetto per restituirlo ad Aramis, il quale si fermò sulla porta e si sollevò il cappello con un sorriso beffardo prima di uscire.
Athos trascinò Diane fino ai cavalli. «Cosa diamine è successo?» domandò, alzando di qualche ottava il tono di voce.
«Perché mi sgridi? Sembra che sia stata colpa mia» borbottò la ragazza arricciando il naso.
«Naturalmente non lo è, ma la tua capacità di imbatterti in gente assassinata comincia a mettere un certo disagio» intervenne Aramis.
«Ho già spiegato cosa è successo» disse lei. «Ero lì dal profumista, l’ho trovato morto nel retrobottega. Mentre cercavo di riordinare le idee è arrivato il garzone del negozio e ha dato di matto. Mancava il denaro dal negozio e la borsa del profumista era stata tagliata: è stato un furto»
«Be’ niente di cui possiamo occuparci adesso» sospirò Aramis. «Spero che questi cari signori della gendarmeria siano abbastanza in gamba da trovare il vero colpevole, noi dobbiamo tornare a palazzo. Verremo a trovare quel simpatico ufficiale nei prossimi giorni, per sapere se ha qualche novità»
«E dobbiamo riportarti da tuo zio. Ha già avuto un mezzo infarto stamattina, quando ha saputo che la sorella del re ha viaggiato in carrozza per tutta la Francia» borbottò Athos, infilando lo scrigno di ebano nella sacca del suo cavallo.
Diane lo guardò senza dire niente, si aggrappò al suo braccio per montare in sella dietro di lui. Gli circondò i fianchi con le braccia e posò il mento sulla sua spalla.
«Sei arrabbiato?» gli domandò.
«No. Ero preoccupato. Con te c’è sempre il rischio che le cose degenerino».
La ragazza rise e gli posò la fronte tra le scapole. «Che ci vuoi fare, mi piace tenermi occupata».
 
  
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