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Autore: Sarathehobbit    18/08/2015    3 recensioni
John Watson è un medico.
Ma John Watson è anche un soldato.
Non ha mai smesso di esserlo.
- - -
Spoiler per chi non abbia visto la 2x03.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Spazio autrice*
Salve a tutti, lettori e lettrici. Questa è la prima storia in assoluto che pubblico.
Le parti in corsivo fanno parte del testo della canzone "Paura non ho", scritta da Irene Grandi e cantata da Tiziano Ferro.

I personaggi non sono miei, ma appartengono a Sir Arthur Conan Doyle e al magnifico duo Moffat/Gatiss.
Io non ci guadagno nemmeno un biscotto. Se vi sono cose che ricordano altre storie, mi scuso ma è involontario.

Ringrazio in anticipo chiunque perderà un po' del suo tempo a leggere questa cosa orrenda piccola one shot e sarei felice se mi faceste sapere cosa ne pensate.




Soldato

 

Paura non ho
se devo partire
perché di morire

paura non ho.
Non piangere più,
non piangere amore
perché ti prometto
che ritornerò.


Il treno sta per partire e io sono ancora sulla banchina a fissare il capostazione che sta cominciando a controllare che le porte siano ben chiuse. Mia madre è accanto a me, in silenzio. Non ha detto una parola da ieri sera. Mi sento in colpa, perché mio padre è morto così: è salito su un treno con un'uniforme uguale a quella che indosso ora e non è più tornato. Ma so di fare la cosa giusta, sono diventato dottore per salvare delle vite, non per rinchiudermi in ambulatorio passando le giornate a curare malattie inesistenti. Sì, l'esercito è la strada giusta.
Mi volto verso Harry per salutarla e lei inaspettatamente mi abbraccia. Ricambio, perché nonostante le discussioni, i suoi passati (o almeno spero) problemi con l'alcool e le incomprensioni, è la mia sorellina e le voglio bene.

-Ci vediamo presto Johnny, torna tutto intero.

Mi sussurra solo queste parole e io la stringo un po' più forte.
E' la volta di mia madre. Mi avvicino e la abbraccio. Non dico nulla, spero che capisca che il mio silenzio è la promessa di un ritorno.

-Resta vivo.

Dice prima che io salga sul treno, una sola lacrima che le scorre sulla guancia.

 

Io sono un soldato,
fucile sul cuore
e vado cercando,
paura non ho.

 

“Due anni. Oggi sono due anni che sono qui.”

E' un pensiero che mi attraversa la mente all'improvviso, mentre sto ricucendo l'ennesima ferita. Lo scaccio subito perché in questo momento non posso permettermi di pensare. La mia mano deve rimanere ferma, non voglio aggiungere altro dolore a questo povero disgraziato. Una bomba a mano durante l'ultima battaglia gli ha fatto saltare un braccio.
Ritorno a pensarci solo quella sera, steso sulla brandina mentre aspetto che ci vengano a chiamare per una missione notturna. Ne ho viste di cose in questi due anni. Ho rassicurato uomini destinati a morire che invece no, sarebbero tornati presto a casa. Alcuni li ho salvati sul serio. Ho dovuto anche uccidere molti uomini, anche se sono un dottore. Il problema è che in Afghanistan si è anche soldati e i soldati uccidono.
Arriva l'ordine e cominciamo a prepararci. Imbraccio il fucile e guardo i miei commilitoni. Chi non tornerà stavolta? Chi dovrò uccidere dei nostri nemici per avere la possibilità di tornare?
Salgo sul camion e sento l'adrenalina scorrere nel sangue. Comincia l'ennesima battaglia.

 

Paura non ho
ma sono cambiato,
mi sveglio sudato
e so anche perché:
una notte un soldato
moriva nel letto
e mi ha salutato
per sempre così.

 

Mi sveglio a causa delle mie stesse urla, le coperte che si sono arrotolate intorno al mio corpo. Quasi posso sentire l'odore del sangue e l'eco delle bombe e per un attimo il mio incubo sembra fin troppo reale. Poi una melodia mi raggiunge. Non l'ho mai sentita da quando mi sono trasferito a Baker Street. Scendo al piano di sotto e mi vado a sedere in quella che da un mese a questa parte è la mia poltrona. Sherlock continua a suonare senza voltarsi, anche se so che mi ha sentito scendere. Le note che sta suonando sono rilassanti e dolci, aggettivi che probabilmente non gli attribuirei mai. Porto le ginocchia al petto, sperando che le mie mani smettano di tremare prima della fine della melodia.
Gli incubi mi tormentano da quando sono tornato dall'Afghanistan, ma da quando ho incontrato Sherlock le cose vanno meglio, principalmente perché quando torniamo dopo un inseguimento o una sparatoria sono troppo stanco anche solo per pensare. Ma risolvere i casi, inseguire criminali, Sherlock, tutto questo mi fa sentire vivo, utile.
Mi viene messa una tazza di the fra le mani. Guardo stupito Sherlock, in un mese non ne ha mai preparato una sola tazza.

-Sai John, solo perché non mi hai mai visto fare del the non vuol dire che non sappia prepararlo.

Dice sbuffando senza che io abbia aperto bocca. Credo che non mi abituerò mai a questo trucchetto.

-Grazie.

Dico bevendone un sorso.
Sappiamo entrambi che non è per il the che lo sto ringraziando.

 

Paura non ho
ma non vivo più,
non rido, non piango,
non ti penso più.

 

-SHERLOCK!

Mi sveglio ancora una volta urlando il suo nome, l'immagine del corpo straziato stampata a fuoco nel cervello. Decido di alzarmi perché sono le cinque e alle otto devo essere in ambulatorio. Zoppico fino alla doccia, cercando di ordinare alle mie mani di smettere di tremare. Loro, traditrici, le uniche che mostrano quanto lui mi manchi. Mi faccio una doccia veloce, non più di tre minuti, soldato. Barba, the, metropolitana, ambulatorio. Gesti meccanici, ripetitivi che mi permettono di non pensare, di non provare nulla. Niente gioia, niente dolore, niente di niente. Puro, rassicurante, orribile nulla. 
Anche per oggi ho finito di dare finte cure a finti pazienti, così me ne torno nel mio monolocale preparandomi a rivivere la sua morte non appena chiuderò gli occhi.

Tieni gli occhi fissi su di me”

Le mani tremano di nuovo mentre infilo le chiavi nella serratura, il cuore sussulta e il respiro accelera.
Non pensare.
Mi manca come l'aria e so che sarà sempre così.
Ma non pensare, soldato, non pensare.

   
 
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