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Autore: ejamary    19/08/2015    1 recensioni
Elemmire, a diciassette anni, è un'adolescente schiva e riservata. Da quando suo padre l'ha abbandonata e sua madre è morta vive con una vecchia prozia in una casa di città, dedicandosi allo studio e ai pomeriggi di letture assieme ad un circolo di compagne di classe guidato dalla migliore amica Andra, di temperamento assai diverso. Quando in un tempestoso pomeriggio di autunno esce di casa non può certo immaginare di star lasciandosi alle spalle tutto il mondo che ha conosciuto. Un Portale tra la Terra e la Terra di Mezzo si apre: ingoiata da un mondo a lei alieno, Elemmire impara a sue spese che se vuole sopravvivere deve lasciare da parte la sua diffidenza e la sua freddezza per mettersi in collaborazione con i nani di Erebor alla conquista della leggendaria Montagna Solitaria. E chissà che tra fughe notturne, lezioni di scherma e prigioni elfiche non riesca, in una missione disperata, a ritrovare se stessa e il posto in cui le sue domande acquistano improvvisamente una risposta.
mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, così se vedo che la storia interessa aggiungo gli altri capitoli!
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lentamente, il miracolo si compì: la vita tornò nel corpo di Kili. Eliminata la cancrena la sua natura forte e il pieno della giovinezza presero il sopravvento e il nano recuperò il suo vigore. In pochi giorni fu in grado si sedersi e mangiare da solo; dopo nemmeno due settimane si alzò dal letto e barcollando per la lunga degenza camminò nella stanza. Elemmire dovette appoggiarsi allo stipite della porta perché le ginocchia non la ressero quando, entrando nella stanza, lo trovò accanto alla finestra, debole e pallido ma eretto e orgoglioso, che le sorrideva con quei denti bianchi nel viso smagrito. Aveva ripreso a mangiare pane e uova, oltre ai brodi di verdure, e un giorno le chiese perfino del vino. I suoi lunghi capelli scuri ripresero lucentezza e gli occhi verdi, seppure velati da un’impalpabile dolore, tradivano la forza di volontà. Il moncherino era perfettamente guarito e cicatrizzato, e nonostante Kili fosse attraversato da un brivido di orrore ogni volta che lo guardava sembrava aver accettato il male minore con filosofia. In effetti Elemmire si stupì di trovarlo molto più mansueto di come si sarebbe aspettata. Sembrava che l’audacia del giovane principe si fosse congelata in una specie di distaccata saggezza. Man mano che le ferite fisiche guarivano in entrambi, vennero a galla quelle dell’anima. Quando il sole tramontava i fantasmi li assalivano con ferocia spezzandoli in due dal dolore. Allora, senza dire una parola, Elemmire si infilava sotto le coperte di Kili, come aveva fatto molte volte durante il viaggio, e con il suo corpo cercava di attutire i singhiozzi disperati del nano, lo teneva stretto a sé e lui compensava quella spaccatura, quella voragine dentro di lei che la svuotava di energie fino a farla quasi svenire. Non parlavano. Le loro lacrime si confondevano e in quel modo la morte, gli orrori della guerra, il dolore, le separazioni scivolavano fuori, un po’ alla volta. Si aggrappavano l’uno all’altra per non cedere alla disperazione, e anche la morte dopo un po’ passò. Una mattina Elemmire si svegliò da sola nel letto a baldacchino, rannicchiata nella veste da notte sotto le pellicce. Un energico bussare alla porta scacciò i sogni del dormiveglia strappandole uno svogliato “avanti”. Con sua sorpresa due nane barbute e nerborute entrarono nella stanza recando stoffe e cofanetti. La fecero alzare di peso dal letto, la lavarono ignorando le sue proteste e poi la vestirono con una semplice veste azzurro ghiaccio piena di pieghe dallo collo alto e morbido. Sulle spalle le posero un caldo mantello di lana, bianco con bellissimi ricami geometrici dello stesso azzurro della veste e una grossa spilla d’oro pallido che lo chiudeva sul petto; raccolsero indietro i suoi lunghi capelli con un nastro azzurro e le concessero, dopo un’estenuante contesa a gesti, di mettersi da sola i morbidi stivali imbottiti di pelliccia bianca. Pulita e calda nei suoi indumenti Elemmire si trovò a seguirle per i corridoi di pietra. Fiaccole fumose illuminavano i punti bui. Chiese più volte dove fossero dirette, chi le aveva mandate o anche solo come si chiamassero, ma non ottenne risposta. Evidentemente le nane non parlavano la sua lingua. Quando infine si fermarono davanti ad una porta di ottone Elemmire aveva definitivamente perso l’orientamento. Le due nane si inchinarono e la invitarono ad entrare da sola. Elemmire spinse i battenti e la porta si aprì senza un cigolio su cardini oliati di fresco. Mosse qualche passo in una stanza enorme. Il soffitto era basso e questo le concedeva un’aria intima e familiare, ma lo sguardo poteva spaziare a piacimento. C’era un grande camino in cui ruggiva un fuoco allegro, e davanti al camino uno scrittoio di legno massiccio e uno sgabello imbottito; un baldacchino alto e dalle superbe tende blu e viola dominava l’ambiente, ma c’era anche un treppiedi coperto da un voluminoso cuscino con nappe e un tavolo con i piedi di lupo. Elemmire comprese che, tra scale, corridoi e passaggi nella roccia doveva aver attraversato la Montagna da una parte all’altra perché questo appartamento aveva, sorprendentemente, una grande finestra. Le tende viola erano state aperte e la luce del giorno entrava attraverso la sottile seta bianca. Nel complesso, era un ambiente accogliente ed elegante, anche se sobrio e a misura di nano. Elemmire fece ancora qualche passo: la stanza era vuota. Stupita, si sedette sullo sgabello, che aveva l’aria più solida del treppiedi, e si beò del calore del fuoco per un po’. Si sentiva bene: era riposata, al caldo e le ferite iniziavano a cicatrizzare procurandole un piacevole prurito lungo il corpo. Congiunse le mani in grembo e attese. Quando la porta si spalancò di nuovo si alzò per la sorpresa e si guardò attorno: quattro nani entrarono nella stanza. Due di loro, vestiti uguali, avevano l’aria di essere paggi o camerieri; uno era Balin, anche se a stento l’avrebbe riconosciuto con addosso abiti puliti, damascati e ricamati; l’altro era un nano alto e giovane dalla pelle chiara, il viso imberbe e i capelli ramati intrecciati con ninnoli d’oro. La sua veste era sontuosa, di un azzurro con riflessi metallici, e sulle spalle portava drappeggiato un lungo manto che sembrava ricamato di zaffiri.
-Il principe Kili- annunciarono i due paggi, e nell’incontrare gli occhi verdi spruzzati d’oro Elemmire si rese conto che era davvero lui. Si inchinò il meno goffamente possibile.
-Al diavolo i convenevoli- Kili mosse con noncuranza l’unica mano, poi si inchinò con grazia –Credo che Elemmire sappia benissimo chi sono.
Elemmire gli sorrise timidamente, poi si girò verso l’altro nano e lo saluto con un cenno del capo:-Mastro Balin. È un piacere vedervi di nuovo.
-Il piacere è tutto mio figliola- rispose il nano con un sospiro.
Kili congedò i paggi e si avvicinò a lei:-Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare, Elemmire, e ci tengo particolarmente che tu ti unisca alla nostra conversazione.
Con il braccio buono la invitò a spostarsi attorno al tavolo con i piedi di lupo, mentre lui e Balin prendevano posto sui treppiedi.
-Non credo ci saranno mai delle parole per ringraziarti e per sdebitarmi nei tuoi confronti.
-Oh Kili…
-No, lasciami parlare. Tu mi hai salvato la vita offrendoti volontaria e venendomi ad avvisare a Colle Corvo. Mi hai salvato la vita centinaia di volte dall’alto della tua torre con le tue frecce bianche. Hai impedito che il colpo che ha ucciso mio fratello trapassasse anche me, hai medicato una ferita che i medici davano già per spacciata e infine mi hai riportato in vita. Ad un prezzo- Kili alzò appena il moncherino –Ma infinitesimale rispetto a quello che hai fatto per me. Ho saputo poi oggi che hai compiuto tutto ciò mentre eri gravemente ferita anche tu, e che quando mi hanno trovato i cadaveri di orchi attorno a me erano crivellati di tue frecce. Questo Elemmire io lo chiamo coraggio. Lo chiamo sacrificio. E nessuna parola, nessun dono potrà mai esprimere appieno il debito di riconoscenza che mi lega a te. Perciò, alla presenza di Balin, figlio di Farin, scrivano di corte, io Kili, principe di Erebor, erede della stirpe di Durin, ti accordo la protezione del mio casato e l’amicizia della mia gente, assieme al titolo di dama. Erebor sia per te come una seconda patria, dove nessuna tua richiesta passerà mai inosservata e dove sempre troverai cuori leali e grati. Dico questo alla presenza degli dei, e che Guntera mi sia testimone. Hai scritto Balin?
Elemmire aveva ascoltato il monologo con gli occhi sbarrati pieni di lacrime di gioia. Non si era nemmeno accorta che, affianco a lei, Balin stava scrivendo ogni parola di Kili su un rotolo di pergamena.
-..mi sia testimone- la penna smise di grattare il foglio e Balin alzò la testa –Ecco fatto, ora devi solo apporre il sigillo.
-Non posso apporre io il sigillo- disse Kili dopo un attimo di silenzio –Non ho l’anello di zio Thorin.
-Bhe, questo è un problema. Senza sigillo il documento ha validità limitata, lo sai bene.
-Il vero problema è che Dain si è preso anche quello- il viso di Kili si adombrò –Mi chiedo se mi abbia lasciato almeno una testa su cui piangere il giorno dei funerali.
-Quali funerali?- chiese Elemmire guardando prima l’uno e poi l’altro nano.
-Quelli di mio zio e mio fratello- l’inquietante incrinatura nella voce di Kili parlava di un dolore ancora troppo recente e profondo per essere curato –Il cugino Dain sarà immensamente dispiaciuto di non dover far aggiungere una terza lapide nella Sala dei Re, ora che sono tornato in forze.
Balin sbuffò nella barba bianca ma non disse nulla.
-Ma non parliamone ora. Avremo tempo per piangere e preoccuparci, ora voglio sapere cosa ne pensi- Kili le prese con dolcezza la mano ed Elemmire gliela strinse con un sorriso. Aveva un groppo in gola.
-Io non credo di meritare tutto questo. Ho fatto solo quello che potevo e se avessi potuto fare di più…- non riuscì a concludere la frase. La spalla ferita ebbe un fremito e una visione di sangue e pietra gelida, assieme al senso di nausea, la riportò a quando, sulla torre, aveva creduto di stare per morire. Boccheggiò.
-Va bene, figliola, da brava, va tutto bene- Balin si accorse del suo momento di difficoltà e la guardò con un’infinita comprensione negli occhi –Credo tu abbia bisogno di un sorso di qualcosa di forte.
Il nano si alzò dal treppiedi e lasciò la stanza. La mano di Elemmire, tremante, era ancora chiusa in quella di Kili. Le lasciò andare lentamente le dita e la guardò negli occhi.
-Stai bene Elemmire?- le chiese con una venatura di malinconia che non aveva mai avuto.
-Sì. Sto bene, è solo che…
-Ti è tornato in mente. Lo so- Kili abbozzò un sorriso –Non c’è modo per evitarlo. Rilassati e cerca di chiuderlo fuori dalla tua testa. Attacca a quell’immagine il dolore e chiudili fuori entrambi. Ti aiuterà a controllarlo.
Elemmire respirò a fondo per calmare il tremito, poi con uno sforzo enorme rievocò la sensazione di nausea gelida e viscida nei polmoni e vi associò il senso di colpa per la morte di Fili. Con un atto di pura volontà schiacciò il tutto contro il bordo della sua coscienza e imbavagliò le voci che gridavano. L’atto la lasciò sudata e affaticata, ma con il cuore leggero.
-Funziona- sospirò.
-Lo so bene- Kili sembrò sul punto di prenderle di nuovo la mano, ma ci ripensò –Vedrai, dopo un po’ inizi a farlo in automatico e non è più così faticoso. Anche se non finirà mai di tenerti sveglia, la notte. Quelle immagini ti rimangono impresse sulla retina e non le scollerai da lì mai più, mai più.
-Tu hai visto?- chiese Elemmire con un filo di voce. Non avevano mai parlato di quello che era successo appena tre settimane prima.
-Ho visto morire Fili, sì- il nano rabbrividì e chiuse gli occhi, quasi rattrappendosi su se stesso. Rimase in quel modo per pochi secondi, prima di alzare di nuovo gli occhi. Erano iniettati di lacrime represse, ma determinati:-E ti giuro, Elemmire, non avrei voluto essere in nessun altro posto in quel momento, se non lì con lui. Ero convinto che presto sarei morto anch’io.
Avrei potuto salvarvi entrambi.
-E invece no- rispose laconica.
-E invece no- Kili le sorrise mestamente –C’è una cosa che devo chiederti, Elemmire. Non abbiamo più avuto modo di parlarne ma…
La porta si aprì e Balin entrò seguito da un giovane nano che recava un vassoio.
-Ho pensato che avresti desiderato avere qui in camera il tuo pranzo- disse l’anziano nano guardando Kili. L’altro annuì con la fronte corrugata, ma non continuò la frase che aveva incominciato.
Fu un pasto sostanzioso e saporito a base di pane tostato sulle braci con bacon sfrigolante, omelette alle erbe aromatiche, frittele dolci ripiene di marmellata e soffice gelato.
-Dovresti dirglielo, figliolo- mugolò Balin nella barba mentre si puliva le labbra dai baffi bianchi del gelato.
Kili fulminò con lo sguardo lo zio, ma non rispose, intento a leccare il suo cucchiaino. Elemmire allontanò da sé la coppa e guardò Kili cercando di reprimere la stizza. Odiava essere lasciata all’oscuro di cose che avrebbe dovuto sapere.
-Dirmi cosa, esattamente?- chiese con tono leggero dopo essersi schiarita la gola.
-Che sarei sollevato se decidessi di rimanere ospite qui ancora per un po’. So che dopo tutto questo tempo starai morendo dalla voglia di rivedere la tua famiglia, e non dovrei trattenerti ancora di più, ma non posso permettere che tu ti metta in viaggio con l’inverno inoltrato. Voglio che tu aspetti la primavera, Elemmire.
Kili stava dicendo la verità, senza dubbio; ma non la verità a cui alludeva Balin. Tuttavia, le parole ebbero l’effetto di ridestare un sentimento che Elemmire aveva sperato di poter seppellire una volta e per sempre: la nostalgia per casa sua. Presa alla sprovvista, mormorò un frettoloso:-Certamente- prima che il suo stomaco si chiudesse definitivamente, rifiutando il minimo boccone di cibo. Lasciò cadere il cucchiaino intonso ai piedi della coppa.
-Certamente- si riprese subito dopo, raddrizzandosi–Sarò onorata di rimanere ospite qui fino al disgelo.
Balin scosse impercettibilmente la testa e suonò un campanello d’ottone che era poggiato con discrezione sul vassoio. Un giovane paggio ritirò i piatti e il gelato sciolto di Elemmire.
-Da dove vengono tutti questi…
-…nani?
-…inservienti. Avrei detto inservienti.
-E’ la popolazione dei Colli Ferrosi, che distano due giorni di marcia da qui.
-E cosa ci fanno ad Erebor?
-Seguono il loro re- Balin si appoggiò mollemente al treppiedi scrutando con occhi vigili Kili davanti a lui –Dain Piediferro ha decretato che chi lo desideri possa stabilirsi qui ad Erebor insieme a noi sopravvissuti. Ha anche iniziato i lavori per la ricostruzione e metà Montagna è già operativa, come puoi ben vedere. I suoi nani lavorano notte e giorno per riportare queste sale al loro antico splendore.
-E gli uomini del Lago Lungo? Anche loro avevano una città da ricostruire.
-E hanno ancora- Kili si stiracchiò a disagio –Nonostante Dain si comporti come se lo fosse, non è il re di Erebor e non ha alcun potere sul suo Tesoro. Ha lasciato in sospeso la richiesta di Bard, aspettando di vedere se si fosse fatto avanti qualche erede diretto della razza di Durin.
-Lui non lo è?- Elemmire cercò di prendere la palla al balzo. Sentiva che quello che Kili non voleva dirle era strettamente collegato con la sua nuova posizione di principe ed erede.
-Indirettamente. È un cugino di Thorin, nipote del fratello del vecchio nonno Thror. Un ramo cadetto, per intenderci.
-E fammi indovinare chi è l’erede diretto e candidato d’onore al trono- Elemmire inclinò il busto in avanti e guardò dritto negli occhi Kili. Il nano roteò gli occhi:-Non sono io.
-Lo sei- ribatté Balin, raddrizzandosi all’improvviso.
-Non lo sono!
-Sei il figlio di una principessa, il nipote di un re. Nessun altro ha diritto a quella corona più di te.
-Eppure, io non diventerò re- Kili si alzò di scatto e voltò loro le spalle.
-Perché non dovresti?- Elemmire alzò il sopracciglio con aria scettica.
Kili rimase in silenzio. Balin la guardò con eloquenza e scosse la barba bianca.
-Era questo che dovevo sapere? Che non hai intenzione di diventare re?
-No.
-No cosa?
-No che non era questo- Kili la guardò con la coda dell’occhio e allentò la tensione delle spalle –Dovresti sapere che il caro cugino Dain sta cercando in tutti i modi di spodestarmi e di prendere il trono della Montagna per sé, e io non alzerò un dito per impedirlo.
 
-E allora se non lo farai tu, lo farò io!- Elemmire si girò con un moto di stizza e nonostante lo sforzo non riuscì a mantenere la voce neutra e fredda come avrebbe voluto. Guardò negli occhi Kili e per la centesima volta si chiese se tutta quella rabbia l’avrebbe prima o poi incenerita. Kili era venuto a salutarla nella sua vecchia stanza di convalescenza, che ora era riservata a lei sola, e l’aveva trovata vestita della leggera sottoveste da notte, il petto e le spalle scoperte e i capelli ancora umidi dal bagno raccolti in molte trecce sopra le testa. Forse l’intento di Kili era stato pacifico all’inizio, ma la discussione si era subito accesa: Kili urlando e congestionandosi in viso, Elemmire rispondendo in sibili irati e gelide, sarcastiche battute.
-Ma si può sapere dov’è il tuo problema? Tu non c’entri nulla! Tu non appartieni qui! Perché ti interessa tanto che io diventi o no il re?
-Cristo- imprecò sottovoce –Non credevo che me lo avresti chiesto davvero. Non con quel tono.
-Quale tono?
-Come se fosse nel mio interesse farti prendere il posto che ti spetta per diritto di nascita!
-Dain ha altrettanti diritti su quella corona quanto…
-NO! Dain NON ne ha!- Elemmire affondò le unghie nella coperta sulla quale era seduta ma non alzò la voce –Sei tu l’erede diretto. Su quel maledetto trono hanno poggiato il regale posteriore il tuo bisnonno e tuo zio, e l’avrebbero fatto anche tuo nonno e tuo fratello, lo sai benissimo questo!
-Non tirare sempre in mezzo Fili, cazzo!- Elemmire sobbalzò. Non aveva mai sentito Kili usare un linguaggio del genere –Non puoi lasciarlo risposare in pace, una volta tanto?
-Lui non lascia riposare te- replicò tagliente, alzandosi –E nasconderti dietro di lui è un modo troppo facile di evitare il problema. Ma credi che io sia stupida? So benissimo cosa ti sta passando per la testa, e se non lo ammetterai a te stesso per primo allora te lo sbatterò in faccia io, Kili figlio di Dìs.
-Sentiamo. Scommetto che la figlia di un mercante sappia tutto di come gestire il potere.
-No, quello che sa come gestire il potere sei tu- Elemmire si costrinse a sorridere a denti stretti –Hai ricevuto lezioni apposite per tutta la tua vita, e qualcuno si è preso questa briga perché tu sei l’erede legittimo al trono. Io sono solo quella che forse ne capisce qualcosa di sogni, incubi e lutti.
Kili la guardò torvo.
-Tu hai paura, Kili.
-Paura di cosa?- Kili scandì le parole come per scimmiottarla.
-Dovresti dirmelo tu questo, anche se io ho una mia idea. Sei sempre cresciuto con l’idea che, se mai tuo zio fosse venuto a mancare, ci sarebbe stato Fili in prima linea per raccogliere la corona. E ora che è morto anche lui tu hai paura di non essere all’altezza di quello che hanno fatto o avrebbero potuto fare i tuoi predecessori. Siccome è sempre stato Fili quello destinato ad avere il trono, senti che non è il tuo posto, e addirittura preferisci darlo a qualcun alto, qualcuno che non sa nulla di come la Montagna è tornata nelle mani dei nani, qualcuno che non ha mai vissuto da esule e ramingo.
-Io non ho paura- stavolta fu il turno di Kili di sibilare.
-Ne hai. Perché ti conosco, e soprattutto conosco me stessa, e io e te siamo fatti della stessa pasta- con un sospiro si riaccasciò sulle lenzuola. Perché stavano litigando in quel modo da un’ora ormai? Era estenuante.
-E sai cosa ti dico Kili? Che è normale averne, ma non devi lasciare che ti fermi, o non saprai mai cosa vuoi davvero.
-So cosa non voglio- Kili riconobbe la bandiera bianca che svettava nelle sue parole –Non voglio un posto che non mi appartiene.
-Perché non dovrebbe appartenerti? Se per diritto di sangue…
-Non dovrei esserci io lì- Kili si coprì il volto con le mani –Ma non capisci? Non dovrei esserci io.
Elemmire si arrampicò sulle coperte e raggiunse Kili. Lo abbracciò mentre singhiozzava, cullandolo come un bambino e baciandogli i capelli.
-Ehi, mi dispiace. Mi dispiace di aver aperto una discussione del genere. Non pensare mai, mai, neppure per un istante che io possa avere qualche interesse in questa storia. Io voglio solo che tu non faccia scelte di cui poi ti pentirai. Ma sono stata dura, scusami, a volte non mi rendo conto di quanto è ancora fresca la ferita.
Rimasero abbracciati per un po’, poi Kili la scansò con un gesto fermo ma delicato:-Va bene così. Sto bene. Ti chiedo solo una cosa.
Elemmire annuì.
-Non cercare di convincermi quando sai che ho già preso una decisione.
Kili uscì dalla stanza con il capo chino ed Elemmire rimase sola a guardare le candele sciogliersi nei candelabri. Durante la notte si rigirò nel letto, in preda ai dubbi. Quando pensava che tutto si sarebbe avviato verso una soluzione, ecco che aveva a che fare con nuovi problemi! La forza con cui difendeva il diritto di Kili al trono lasciava sorpresa lei per prima: era qualcosa di istintivo, ma chiuse gli occhi e cercò a fondo in se stessa. Aveva vissuto sulla sua pelle tutti i pericoli che gli eredi della razza di Durin avevano dovuto affrontare per giungere al posto che apparteneva loro; meglio, aveva assistito ai momenti di dolore, di scoramento, quando erano stati sul punto di rinunciare e quando la strada era sembrata senza uscita. Aveva visto la determinazione, la tenacia di Thorin; l’orgoglio e il senso di sacrificio di Fili; e ora che loro non c’erano più le sembrava che il minimo che potesse fare per ripagarli del calore, dell’averle trovato una famiglia, un posto nel mondo, dell’averle mostrato il coraggio, la forza di volontà, fosse portare avanti la loro missione fino alla fine. E c’era di più: voleva dire a Kili quelle parole che avrebbero detto loro. Ed era certa che per nulla al mondo Thorin avrebbe voluto vedere suo nipote cedere il trono ad un perfetto sconosciuto. Nel ripensare a Thorin e Fili le si riempirono gli occhi di lacrime. Quanto le mancavano i pacati consigli del nano biondo! Lui avrebbe saputo cosa fare. Lui avrebbe saputo come trattare il fratello. Come poteva far vedere a Kili quello che vedeva anche lei?
Come fa Kili a vedere quello che vedi tu se non riesci a sentire quello che sente lui?
Il pensiero la colpì come una pugnalata nell’orgoglio. Era vero, indubbiamente. Non si era messa per un attimo nei panni del nano. Con notevole sforzo tornò indietro nella sua memoria al periodo subito successivo a quando sua madre era morta. Per mesi aveva perso del tutto ogni voglia di vivere, di fare qualcosa, e le persone che continuavano a ripeterle di essere forte perché era quello che sua madre avrebbe voluto non facevano che peggiorare la situazione. Cosa ne sapevano loro? Cosa potevano saperne? Perché non la lasciavano in pace invece di starle attorno come mosche, ricordandole ogni giorno perché sentiva un enorme buco nero nel cuore? Avrebbe solo voluto tornare alla vita normale, ma non c’era riuscita. Non ci si riesce mai, aveva imparato, dopo che perdi qualcuno così inesorabilmente. L’aveva aiutata stare da sola e fare ciò che sapeva fare meglio: studiare. Si era gettata anima e corpo nella scuola, cercando di riempire le ore vuote con più corsi possibili. Ed era vero, le cose non era migliorate subito e ci aveva messo anni per richiudere quella ferita, ma almeno aveva ripreso a vivere. A fare quello che facevano tutti. Ma lì… Lì era questione di giorni. Gli avvenimenti si susseguivano con velocità folgorante e lei non era certa di poter stare al passo. Non era certa che Kili potesse permettersi di prendere tempo. D’istinto, si alzò dal letto e si avvicinò al tavolo. A tentoni, nel buio, aprì un cassetto e ne estrasse una pila di fogli stropicciati, un calamaio e un sottile stiletto. Si avvicinò poi alla finestra e alla fioca luce che filtrava da fuori iniziò a scrivere. Scrisse per ore. Scrisse della sua frustrazione, della sua confusione, ma soprattutto di sua madre. Descrisse accuratamente i tre mesi successivi alla sua morte: l’ultima volta che l’aveva vista, in partenza per il Brasile, la camicetta bianca, i jeans aderenti, gli scarponi e la solita macchinetta fotografica a tracolla. Quando era stata data per dispersa; quando sua zia era venuta a riprenderla a scuola perché era arrivata la notizia della morte. Il funerale, la bara coperta di fiori, la chiesa gelida e le lacrime che proprio non volevano saperne di uscire. Andra che l’aveva abbracciata singhiozzando, e i professori che le avevano fatto rigidamente le condoglianze due giorni dopo. Anche se faceva male, scrisse ogni cosa. Il risultato fu un foglio disseminato di macchie di inchiostro e parole diseguali, ma non importava. Elemmire lo fece asciugare, poi tenendolo davanti a sé si avvicinò alle ceneri del camino. Vi soffiò sopra, ravvivando le braci che covavano in silenzio, e vi poggiò sopra il foglio. Mentre flebili fiammelle avvolgevano i bordi della pergamena, disintegrandoli, Elemmire giurò che sarebbe stato l’ultimo giorno a lutto della sua vita. Giurò che una volta e per sempre si sarebbe lasciata alle spalle il dolore e le perdite: quelle nuove, quelle antiche, quelle recenti e quelle lontane. Avrebbe deposto il bagaglio della morte e sarebbe diventata stella capace di accendere l’amore. Una stanchezza improvvisa l’avvolse: si buttò sul letto e si addormentò all’istante, mentre nel caminetto continuava a bruciare quella che una volta era stata la sua vita. 
   
 
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