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Autore: Dark_Water    20/08/2015    3 recensioni
AU.
Quando John uscì dalla camera da letto fu accolto da un leggero tintinnio di stoviglie con in sottofondo il chiacchiericcio delicato di due voci allegre e familiari.
“Sono felice che siate qui. Mi siete mancati.”
“Anche tu ci sei mancato. Ci voleva una rimpatriata dopo tutto questo tempo. Manca solo….”
Rory si interruppe forse troppo tardi,lasciandosi sfuggire un pensiero che come un alito gelido di vento si era insinuato tra loro spaccando l’equilibrio che avevano avuto fino a quel momento.
Nei millesimi di secondo immediatamente successivi, Rory si ritrovò un gomito della moglie piantato nel fianco, John invece con la mano ferma a mezz’aria, attraversata da un fremito che si diradò anche attraverso la forchetta che stringeva tra le dita lasciando cadere da essa un piccolo pezzo di bacon sul tavolo.
Amy/Rory - Clara/Doctor...Who?
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amy Pond, Clara Oswin Oswald, Doctor - 11, Doctor - 12, Rory Williams
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Non Brucia Solo La Pelle'
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13

Capitolo 13

 

 
La casa era immersa nel silenzio mentre il Dottore preparava alcune cose da riporre nel bagaglio per il viaggio. Aveva acquistato un nuovo kit per la sala operatoria, non perché non si fidasse di ciò che avrebbe trovato una volta raggiunta la sua destinazione (e solitamente faceva bene a non fidarsi), ma semplicemente perché con i ferri personalizzati che si adattavano alle sue mani si sentiva più sicuro in un campo in cui l’arte dell’arrangiarsi poteva decidere della vita o della morte di una persona. Dare una mano alla sorte a volte poteva essere un vantaggio. Operare su un campo di battaglia, tra la polvere del deserto ed i germi pronti ad infierire, era del tutto diverso dall’operare nella comodità e tranquillità sterile di una sala operatoria, le infezioni erano all’ordine del giorno e preferiva prendere tutte le precauzioni del caso mentre era ancora in uno Stato civile e fare scorta di tutto l’occorrente necessario. Filo chirurgico in primis, senza risparmiarne affatto perché là, era sicuro, non ne avrebbe trovato.

Aveva riposto tutto in un borsone che aveva adibito a raccogliere tutto ciò che man mano avrebbe deciso di portarsi in viaggio; poi si ritrovò a raccogliere la sua giacca con il risvolto rosso dal letto e stenderla tra le mani. Gli era piaciuto indossarla di nuovo, aveva adorato ogni giorno che aveva vissuto dal suo ritorno come non gli era capitato da anni, avvertendo nella gola un leggero sentore amaro all’idea di dover rinunciare a quei giorni. Raccolse una gruccia per sostenere la giacca e la ripose per l’ennesima volta della sua vita all’interno del suo armadio. La nascose sul fondo, ancora ignaro che non l’avrebbe mai più indossata.

Un volo civile per una base ISAF, missione internazionale della NATO per l’Afghanistan. Da lì volo per Herat.

 

 Il Dottore non aveva acquistato cibo se non un pacco di biscotti al cioccolato per il viaggio di andata. Una volta giunto alla base militare gli diedero un kit di sopravvivenza e quelle disgustose monoporzioni incellofanate ermeticamente che gli davano il voltastomaco, esattamente come si aspettava ogni volta. Il solo pensiero di dover mangiare cibo militare per i prossimi mesi lo nauseava, ma non poteva fare altrimenti. I cuochi non si risparmiavano di certo nel cucinare pasta scotta ed insapore. E per il momento, lo standard militare da viaggio non permetteva altro che fare colazione con quel misero tubetto di latte concentrato ed una monoporzione di marmellata o miele da spalmare con le dita su una galletta che sapeva di cartone bagnato. Mentre attendevano l’aereo che li avrebbe condotti a destinazione, alcuni giovani soldati, scherzando tra loro, le avevano ribattezzate ‘Pane Elfico’. Il Dottore non aveva capito il significato finchè non gli avevano nominato Il Signore degli Anelli. A quel punto, mentre si sedevano a bordo del velivolo, lui aveva partecipato allo scherzo con un impacciato e poco convinto:

“Quindi… noi siamo la Compagnia dell’Anello?”

I ragazzi avevano riso mentre i motori dell’aereo venivano avviati, poi uno di loro gli rispose:

“Dottore, lei sarà il nostro Gandalf!”

Il Dottore non sapeva come rispondere a quella cosa, ma non ne avrebbe mai avuto il tempo: l’aereo cominciò a rollare ed impennò praticamente subito, schiacciandolo nel sedile a causa della pressione. Il decollo tattico, come al solito, gli provocò una pressione ai timpani con un conseguente fischio fastidioso all’orecchio ed un groviglio allo stomaco che si sarebbe portato fino a due ore dopo l’atterraggio. Si pentì subito di aver mangiato quella stupida galletta.

Il volo era stato scomodo, ma avere quei ragazzi al suo fianco gli aveva alleviato il viaggio ed alleggerito il peso che si portava sull’anima.

Aveva scoperto che il ragazzo che lo aveva battezzato ‘Gandalf’ aveva la sua stessa assegnazione iniziale, che era la seconda volta che tornava in Afghanistan e che:

“Non ci credo! Davvero lei è il Dottore? Quel Dottore?”

“Sono il Dottore, punto. Non so se sono lo stesso dottore di cui parli tu.”

“Si fidi, lei è proprio il Dottore di cui parlo, guardi che sul campo di battaglia è famoso!Lei parla il Pashtun ed il Farsi, vero?” In realtà, con gli anni passati a fare missioni internazionali aveva imparato anche un po’ di spagnolo ed italiano. Ma le due lingue ufficiali Afghane, per lui che in Afghanistan c’era stato innumerevoli volte, era d’obbligo conoscerle.

“Quindi, se io sono Gandalf, tu chi saresti invece?” Il Dottore aveva risposto alla domanda con un’altra domanda, per deviare il discorso. E ci era riuscito:

“Legolas!” Rispose il giovane, stringendo a se il suo fucile d’assalto: “Assolutamente Legolas!”

“Ma non sei biondo.” Protestò lui, notando i capelli neri e ricci del giovane e la sua pelle scura.

“Però sono un cecchino di prim’ordine!” Orgoglio negli occhi del ragazzo.

Il Dottore sorrise appena, ma il suo sguardo era distante e triste mentre il silenzio si insinuava denso tra loro, interrotto solo dall’assordante rombo del motore del velivolo. Qualche settimana dopo, nella base operativa di Bagram dove erano solo di passaggio per una nuova assegnazione, quello stesso ragazzo gli avrebbe detto:

“Sa…più che Gandalf, lei in realtà mi ricorda Aragorn.”

Il Dottore aveva sospirato, ma non aveva risposto. Si sarebbero separati da lì a poco.

 

 Dopo le prime settimane di calma, lontano dai campi di battaglia e limitandosi semplicemente a visitare alcuni soldati alle prese con un’epidemia di gastroenterite, finalmente fu assegnato ad una base decisamente più attiva prendendo un passaggio dagli Americani.

Il compito principale che gli fu assegnato, in qualità di Ufficiale Medico, era quello di tenere sotto controllo l’infermeria ed il Gate, al quale accedevano i civili che avevano urgente bisogno di cure.

Più spesso giungevano bambini, fingevano un malessere per farsi dare il sacchetto con la porzione di cibo standard: tubetto di latte condensato, un pacchetto di biscotti, monoporzione di marmellata e le solite gallette. Il Dottore di nascosto aggiungeva qualcosa in più in ogni sacchetto.

I malati ed i feriti che gli portavano erano diversi ogni giorno.  Una volta giunse un bimbo con quattro dita della mano amputate da un ordigno esplosivo, probabilmente un LED, uno di quelli artigianali, ed il Dottore notò che c’era stato un primo tentativo di cura. Fu quello il momento in cui capì  che al villaggio vicino doveva esserci qualcuno che di medicina se ne intendeva. Sapeva benissimo che i Talebani permettevano ai civili di rivolgersi al campo medico militare solo ed esclusivamente per le emergenze.

Comunque, una volta sistemati i monconi e ricucito le ferite con filo chirurgico e quel po’ di pelle rimasta attorno sapeva già che, nonostante l’avvertimento di farsi rivedere il giorno dopo, quel bambino non sarebbe più tornato. I malati andavano una volta, poi sparivano. Parlando con l’uomo che lo aveva accompagnato aveva avuto conferma ai suoi sospetti: tra parole non dette e sguardi nervosi aveva capito che un primo tentativo di cura c’era stato. Gli aveva quindi consegnato degli antidolorifici e qualche antibiotico che si era portato da casa, da far prendere al bambino nei giorni successivi. Lo aveva fatto per coscienza e perché era il suo lavoro, la sua missione. In fondo, però, sapeva già che quelle medicine sarebbero state vendute per procurarsi una dose di oppio.

 
***

 I giorni si alternano ai giorni. Tra visite al Gate e quelle all’infermeria, dove i soldati si rifugiano per lo più per gastroenterite causata dalla maledetta polvere, di cui l’Afghanistan è completamente avvolto, ed i suoi germi.

Un giorno fanno il giro dei villaggi. Aiutano a scavare pozzi, lasciano provviste. Anche a quelli che non vogliono collaborare in nessun modo per paura di ripercussioni da parte dei Talebani: se ne vanno via con l’amaro in bocca, cacciati, ma lasciano le provviste lo stesso. Sempre meglio quelle, che vedere centinaia di bambini uscire da chissà dove e scavare nella loro spazzatura alla ricerca di cibo.

Al ritorno percorrono nuovamente la strada che attraversa i campi di oppio. Papaveri che si espandono a vista d’occhio, teste che si vedono appena un po’ al di sopra dei fiori. Sembrano non dare alcuna attenzione ai mezzi militari di passaggio, agli elicotteri che sorvolano la zona e si esibiscono nel loro Show of Force. Poi arriva via radio l’ordine di fermarsi. Più avanti sono stati avvistati degli uomini che, lungo la strada,  scavano, piazzano e si allontanano. Devono aver seppellito degli ordigni. Una camionetta va in avanscoperta, il Dottore resta nel blindato, con il suo fucile pronto (perché è pur sempre un militare ed ha il suo fucile)  e lo sguardo concentrato sul campo di papaveri che si estende al di fuori del suo oblò, pronto ad avvisare per qualsiasi anomalia. Sembra deserto; in effetti è deserto e nella camionetta si muore dal caldo. Le persone che stavano lavorando nei campi fino a qualche secondo prima sono scomparse ed un silenzio innaturale circonda la zona, interrotto solo dal rumore degli elicotteri che sorvolano rasoterra per il loro Show of Force.

Poi un esplosione. L’ordigno, realizzato con una tanica di benzina, è stato fatto esplodere, ma probabilmente lungo la strada ne sono stati piazzati altri.

Procedono con estrema lentezza, fermandosi continuamente per far brillare gli ordigni fatti in casa. Si fa buio, la copertura aerea viene a mancare. La tensione è alle stelle, ma non viene ingaggiato nessuno scontro. Gli è andata bene.

Ni giorni successivi c’è una calma apparente. Si spara poco, poche esplosioni. I suoi compagni giustificano il tutto con un: “Adesso sono concentrati sulla raccolta dell’oppio! Quando finisce la raccolta si concentreranno su di noi.”

Il Dottore sa che hanno ragione. Ma non parla. Invece, pensa a suo figlio. Pensa a John, che lo ama, gli manca e che vuole rivederlo. Il desiderio di parlargli lo spinge successivamente a cercare un contatto che gli viene rifiutato, ma anche solo sapere che suo figlio sta bene e continua la sua vita gli basta. Fa comunque male, ha bisogno di essere più impegnato per non pensare.

Chiama anche Amy, con lei si sente più spesso che può. A volte su Skype, altre volte solo comunicazione telefonica su una linea sicura. Non le racconta della guerra, finge quasi di non essere lì quando parlano. Lei invece gli racconta dell’Università, di Rory che è tornato a Glasgow per cercare lavoro in una clinica privata, per cominciare; poi vedrà in qualche ospedale. Lei lo raggiungerà appena avrà in mano il certificato di Laurea. Aggiunge che ha un sospetto: Rory è strano, a volte emozionato a volte spaventato; il sospetto è che lui voglia chiederle di sposarla perché è la stessa reazione che aveva quando le ha chiesto di fidanzarsi. Il Dottore sorride, pensando che quei bambini scapestrati che si rincorrevano nel giardino della loro vecchia casa scozzese ormai erano diventati uomini e donne. E piange quando Amy gli dice:

“Zio John, lo sai, vero? Devi tornare per quel giorno. Mi devi accompagnare all’altare. Ho solo te.”

Amy non ha un padre e lui è la cosa più vicina ad una figura paterna che lei abbia mai avuto.

Accetta tra le lacrime, commosso e forse anche stanco di tutto il peso che l’Afghanistan gli ha messo addosso. Anche Amy si lascia scappare qualche lacrima.

Il Dottore le chiede anche di John, ogni volta. Lei risponde sorridendo, gli racconta quello che John le racconta dei suoi viaggi. Gli dice che sta bene, sembra sereno. Il Dottore sorride, triste ma sollevato. Non le chiede di Clara e lei non ne parla. Mai. Non se lo dicono, ma pensano che sia un bene, e va bene così.

Poi arriva la destinazione finale. Riparte.

Mentre sorvolano la zona, il Dottore sembra mostrarsi indifferente alla desolazione, ai villaggi abbandonati o ai campi di papaveri dove alcune teste dei raccoglitori di oppio si intravedono appena, chini sul loro operato. Non pensa molto al fatto che la base in cui si fermerà fino alla fine del suo periodo di permanenza è in un punto caldo. Ma sorride al pensiero che rivedrà ‘Legolas’.

 
***

 Qualche mese dopo, nei pressi di un villaggio tra le montagne aride, nella piccola costruzione diroccata che avevano scelto come obitorio nell’accampamento medico, si ritrovò a togliere le illeggibili piastrine militari dal cadavere di quel ragazzo mentre lo richiudeva in un sacco nero, con il rimorso di non avergli chiesto nemmeno quale fosse il suo nome di battesimo. In quel momento pensò di nuovo a John, al sicuro a casa.

Nello stesso preciso momento pensò anche a Clara, appena laureata, che viveva la sua vita in chissà quale città dell’Inghilterra. Il suo cuore ormai tranquillo quando pensava a lei gli faceva capire che il fuoco si stava spegnendo e non bruciava più. Eppure, non poteva fare a meno di continuare a pensare ad un ‘e se…’. Nella moltitudine di emozioni che, in quel momento, smossero le ceneri ancora calde che coprivano i suoi sentimenti contrastanti, si accorse in ritardo della chiamata all’attivazione, si accorse in ritardo degli spari che provenivano dall’esterno dell’accampamento; si accorse in ritardo delle esplosioni che sembravano sempre più vicine; si accorse in ritardo della parete che crollava e di un violento e troppo caldo spostamento d’aria che gli soffiò addosso prima di sbalzarlo sulla parete opposta. Avvertì solo un improvviso dolore in tutto il corpo, i polmoni che gli bruciavano, la sabbia del deserto tra i denti ed infine il freddo troppo innaturale che improvvisamente gli percorreva la superficie del corpo.

Infine, percepì solo il buio.

 

 
Il rumore degli elicotteri sembrava lontano. Così come erano lontani i colpi di kalashnikov. Sparavano su di loro da una postazione più alta, con una visione sufficiente ad oltrepassare le barriere ed il filo spinato.

Il fischio nelle orecchie invece era fisso ed assordante. Lo sguardo concentrato a focalizzare le figure indefinite che lo circondavano. Sentiva il suo respiro, era faticoso e quasi inutile. Perché il petto gli faceva un male cane ed ad ogni boccata d’aria l’ossigeno sembrava non raggiungere la destinazione. Un polmone era collassato. Il giubbetto tattico lo affliggeva e gli pesava addosso in un modo sconcertante, cercò di toglierselo, ma lo fermarono.

Su di lui si piegavano l’infermiere che lo assisteva durante le uscite ed un altro militare che gli forniva copertura. Sulla targhetta apposta sul suo petto poteva leggerne il cognome, riconoscendo in lui il Brigadiere Lethbridge-Stewart.  L’infermiere era italiano, di passaggio per un paio di settimane ancora, ma masticava l’inglese.

Boccheggiando, il Dottore fece intuire al giovane infermiere che doveva fare lui il lavoro:

“Dottore, non sono un chirurgo, non l’ho mai fatto alla cieca… e se sbaglio?”

Con la vista che si annebbiava nuovamente ed una forza innaturale, il Dottore lo afferrò per il bavero della divisa militare e lo guardò negli occhi. Il giovane intuì:

O mi infili un ago nel petto ora e muoio più tardi, oppure muoio adesso soffocato. Siamo in guerra, non alla Facoltà di Medicina!

L’infermiere non potette fare altro. Aprì quel tanto che bastava il giubbetto tattico, la casacca della divisa e tagliò la t-shirt. Seguì le direttive rapide ma precise dell’uomo che gli indicò il punto sul torace in cui operare. Il Dottore si era ritrovato così con un ago infilato nel petto ed una valvola da aprire ogni quindici minuti per far uscire l’aria che si era formata nello spazio pleurico. Ma almeno poteva respirare meglio.

“Posso durare al massimo tre ore…” Aveva detto con un filo di voce ed il respiro che si stabilizzava. Doveva essere evacuato, portato all’ospedale più vicino e, probabilmente, rimpatriato. Ma erano sotto attacco. Non potevano essere evacuati.

“Non mollare Dottore! Ci sono gli elicotteri che sputano fuoco su quei bastardi! Ti portiamo via!”

Parole dette in un mezzo inglese ed un mezzo italiano dall’accento troppo meridionale. Tra polvere che offuscava la vista e proiettili che radevano rumorosamente il muretto dietro il quale erano riparati, il Dottore sembrò aver improvvisamente dimenticato le lingue che negli anni di esperienza su campo multietnico aveva voluto, più che dovuto, imparare. Cercava con gli occhi il suo fucile, perso chissà dove sotto le macerie della parete che gli era crollata addosso. Cercò di prendere la pistola dalla fondina sul fianco, rispondere al fuoco per istinto di sopravvivenza, ma mentre il Brigadiere al suo fianco continuava a rispondere al fuoco nemico lui doveva concentrarsi a respirare. Era questo che l’infermiere gli ripeteva.

Il brigadiere invece non faceva altro che dargli ordini che capiva e non capiva. Ed ai quali non voleva obbedire, ma si ritrovò costretto a farlo lo stesso:

“Dottore stai giù. Sta calmo che qua ci penso io!”

Per tutta risposta un colpo di fucile, dopo aver attraversato di striscio il muro spesso dietro cui si rifugiavano, lo aveva colpito ad un braccio. La divisa militare si sporcava di rosso.

“Stai sanguinando. Sei ferito!”

“Non ho tempo di sanguinare!” Fu la risposta del Brigadiere mentre alzavo lo sguardo consapevole ed allarmato.

Rosso era diventato anche il cielo. I fumogeni di segnalazione. Erano troppo vicini ad un obiettivo; o l’obiettivo si era avvicinato troppo a loro. I missili dei rinforzi via aria sarebbero arrivati a minuti, forse secondi.

“Via! Via!”

L’urlo del Brigadiere che di forza tirava su il Dottore costringendolo a correre ed inciampare quasi su se stesso; lo trascinava via in una corsa a zig zag interamente fatta a testa bassa per rendere più difficile ai nemici il compito di sparargli alle spalle. Poi un boato, uno spostamento d’aria che lo fece sbalzare in avanti per la seconda volta nel giro di… un’ora? Pochi minuti? Quanto davvero fosse durato quell’attacco non avrebbe saputo dirlo né calcolarlo. Nel silenzio che ne seguì, interrotto subito dalle urla di guerra dei compagni intuì che avevano vinto la battaglia e mantenuto la base.

Infine, di nuovo il buio e stavolta più profondo e definitivo.

 

 ***

 
 
John percorreva a passo molto lento il corridoio sterile dell’ospedale militare. I camici bianchi gli sfilavano accanto come fantasmi, senza toccarlo né prestargli alcuna attenzione. Il tutto aveva un qualcosa di surreale, con la vita che fuori da quell’edificio continuava mentre lì il tempo sembrava fermarsi, come se fosse appena entrato in un mondo parallelo, un universo nascosto.

Un universo tasca piccolo, fragile, bloccato nel tempo ma con un timer sempre attivo pronto ad azzerarsi ed esplodere da un momento all’altro, collassare su se stesso.

Dal vetro in plexiglass che dava sulla camera d’isolamento sterile osservava  suo padre steso su un lettino troppo piccolo. Un sondino infilato nel naso che arrivava giù nello stomaco, un altro che partiva da un buco incerottato sul suo torace, scendeva appena al di sotto del materasso per poi risalire sino ad un sostegno metallico, biforcarsi a metà percorso per poi finire con ogni nuovo capo in due ampolle trasparenti, probabilmente di vetro o chissà cosa. Uno a metà pieno di liquido giallastro. L’altro apparentemente vuoto.

Qualche altro macchinario muoveva qualcosa, una ventola o una sorta di compressore a fisarmonica che si alzava ed abbassava per chissà quale motivo. Non sapeva neanche se fosse collegato a suo padre o al paziente comatoso nel letto accanto. Forse a suo padre. Suppose servisse a dargli aria, o a toglierla dalla pleura; nella confusione mentale in cui si trovava non riusciva a ricordare se il polmone avesse bisogno di aiuto per prendere ossigeno o avesse bisogno di aiuto per toglierlo.

Ricordava appena ciò che il medico gli aveva detto: polmone collassato ed una sorta di cuscino d’aria che si era formato nell’aera pleurica a causa di un forte trauma, doveva essere assorbito.

Ricordava precisamente però le parole ‘attacco nemico’ e ‘quasi morto’.

John si era occupato di tutto. Del rimpatrio una volta stabilizzate le condizione di suo padre, del ricovero e di tutta quella carta straccia necessaria che passava sotto il nome di ‘burocrazia’. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto ad un comune essere umano in quelle stesse condizioni se non si fosse trattato di prendersi cura del Dottore. Quel Dottore al quale avrebbero dato una medaglia al valore per i servizi svolti negli anni. Potevano tenersela la medaglia!

Si chiese anche se fossero stati altrettanto scrupolosi se il Brigadiere Lethbridge-Stewart non si fosse interessato quotidianamente di loro, con il suo braccio fasciato e quelle escoriazioni che gli coprivano il resto del corpo.

Aveva chiamato Amy e Rory. Gli facevano compagnia, gli portavano da mangiare. Qualche cambio d’abito e qualche battuta stupida di Rory sempre troppo fuori luogo ma capace lo stesso di procurargli un sorriso, nell’attesa che il Dottore si svegliasse: alternava momenti di veglia confusa a momenti di sonno profondo. I medici dicevano che era colpa delle medicine per la terapia.

Rory a volte arrivava con indosso la sua divisa ospedaliera. Era l’unico modo per avere notizie certe, parlare con i medici e vedere le continue analisi che gli venivano fatte. Piccoli miglioramenti c’erano ogni giorno. Ma a volte si alternavano a crisi respiratorie. Almeno ogni giorno che passava il Dottore era sempre più consapevole di se stesso e cosciente di cosa lo circondava.

Una settimana dopo, sempre dalla finestra in plexiglass, John vide qualcosa che non si aspettava.

Clara stringeva la mano di suo padre. Lui aveva gli occhi chiusi ma sorrideva. Nei secondi successivi la ragazza si voltò verso John e lo guardò, come un istinto improvviso, una chiamata particolare o semplicemente la risposta al suo ‘Clara’ che gli attraversava la mente come un urlo.

Lei gli sorrise, lui restò impassibile prima di allontanarsi.

 
***

 
Quando Clara mise piede in quella camera asettica l’odore di disinfettante le bruciò nelle narici. Le lacrime minacciarono di affacciarsi dagli occhi nel momento in cui inquadrò la figura magra – troppo magra- del Dottore. Si avvicinò lentamente, correndo istintivamente a stringergli la mano tra le sue. Era freddo, forse a causa delle continue flebo che gli gelavano il sangue, e sembrava più fragile del cristallo. Quando l’uomo aprì gli occhi l’azzurro delle sue iridi era diventato un arido grigio. Clara diede colpa alla scarsa illuminazione di quella stanza mentre soffocava un singhiozzo.

Lui le sorrise, salutandola con un ‘ciao’ pronunciato appena in un sussurro. Lei non riuscì a parlare.

“Guarda che per uccidermi ce ne vuole… dammi solo un paio di settimane e rimpiangerai questi momenti.”

“Un paio di mesi, forse! E di certo non rimpiangerò questo.” Rispose finalmente con la voce rotta e tirando su col naso prima di sorridere e continuare: “Almeno adesso penserai bene di fermarti una volta per tutte.”

“Non contarci…” Rispose lui di rimando, lasciandosi sfuggire un sorriso.

“Dovresti, invece.”

“Per favore, non rifacciamo questo discorso…” Riprese respiro, muovendosi appena nel letto: “ Lo sai. Potrei dirti che lo farò, ma mentirei. Non posso negare quello che sono.”

Clara restò in silenzio. Consapevole che non poteva obiettare nulla, e consapevole che non doveva agitarlo come invece stava facendo.

“Sono contento di rivederti.”

“Anch’io. Ma se continui a dimagrire ho paura che sparirai.” La preoccupazione e l’ansia nella voce rotta di Clara era palpabile. Il Dottore guardò i suoi occhi rossi e lucidi di lacrime stringendole appena la mano con quella poca forza di cui era capace.

“Impossibile. Nelle flebo che mi danno ci sono tutti i nutrimenti di cui ha bisogno il mio corpo. Senza grassi e senza coloranti.” Le sorrise, per confortarla e rasserenarla. In realtà era la presenza di Clara a confortare e rasserenare lui.

“Non fare il medico con me. Un po’ di grasso in realtà non ti farebbe male.”

“Preferirei un soufflè…”

“Allora te ne preparerò uno speciale per quando uscirai di qua.” Stavolta erano entrambi a sorridere.

Il successivo silenzio era interrotto solo dal bip bip continuo dell’elettrocardiogramma. Stabile, senza sbalzi. Lasciava intuire che il cuore del Dottore era forte e calmo. Con una nota di orgoglio l’uomo pensò che, con Clara lì a tenergli la mano e parlargli, quella calma poteva solo significare che tutto era passato, che tutto era chiuso e che questo non poteva che essere un bene. Era la prova decisiva per lui, in quel momento lo era per entrambi.

Il momento fu interrotto da un medico di passaggio all’esterno. Aprì la porta richiamando Clara:

“Non può stare qui, signorina. Solo i familiari hanno accesso ai pazienti e non è questo l’orario.”

Il cuore di Clara in quel momento invece perse un battito. Perché non voleva andare ancora via, e perché non le piaceva essere richiamata in quel modo.

“E’ mia figlia.” La risposta del Dottore la sorprese, indubbiamente sorprese anche il medico in questione.

“Non è vero. L’unico nome a cui è consentito l’accesso è John Connor Smith.”

“Infatti. Lei è la fidanzata di mio figlio. Quindi è mia figlia. La lasci stare. Se sta qui mi tranquillizza.” Il Dottore sembrò agitarsi, incupendo lo sguardo fisso sul medico ancora in piedi sull’uscio. Non potendo obiettare e non volendo destabilizzare le condizioni del paziente (conoscendone il carattere particolare per fama) l’uomo non potette fare altro che arrendersi e lasciar stare.

Pochi minuti dopo Clara osò parlare di nuovo:

“Hai mentito.”

Il Dottore riaprì gli occhi quel che bastava per poterla vedere e capire a cosa si riferisse.

“A quel medico? No.”

“Non sono tua figlia. E non sono la fidanzata di John.”

“Non lo hai visto?”

Lei scosse la testa, lo sguardo triste e la sensazione di una morsa stretta attorno al cuore.

Il Dottore chiuse gli nuovamente gli occhi, rispondendo con un filo di voce assonnato:

“Nemmeno io. Ma so che è qui. Va da lui.”

Il Dottore si addormentò nell’istante successivo. Clara avvertì il cuore battere più veloce ed il desiderio incomprensibile di voltarsi.

Erano passati mesi. Ma il calore nel cuore che si scioglieva per poi far male quando vedeva il volto di John non era passato.

 

 
La Ragazza impossibile si ritrovò a rincorrere il suo Eleven tra i corridoi bianchi dell’ospedale. Tutti uguali, tutti puzzavano di disinfettante e tutto attorno a lei ricordava un enorme labirinto senza uscita nel quale sembrava essersi persa.

Infine, trovò John affacciato ad una delle finestre della sala d’attesa, scuro in volto, la mascella serrata che si contraeva in lievi spasmi.

Clara si avvicinò in silenzio, col cuore impazzito e le gambe che le tremavano. Mosse le labbra per parlare, ma John fu più veloce di lei.

“No. Per favore, Clara.”

“Invece dovresti ascoltare.” Fu la risposta di Clara. Secca, disperata ed arrabbiata.

“Non è come pensi! E dovresti ascoltarmi una volta per tutte! Tra me e tuo padre non c’è niente! Sono qui per te, perché voglio starti vicino. Vorrei solo… se tu potessi darmi una seconda possibilità, per favore…”

John scosse la testa interrompendola:

“Clara, se davvero tieni a me. Se davvero ci tieni così tanto a me ed a mio padre come dici, ti prego: va via.”

C’era ancora troppo odio, ancora troppo dolore in lui. Ancora non riusciva a dimenticare, ancora non riusciva a perdonare. E doveva avere un autocontrollo disumano per parlare con calma e senza alzare la voce in nessun momento, mentre continuava:

“Non ci riesco a vedervi vicini. Pensavo di averla superata ma non è così, non lo sopporto. Per favore… va via. O vado via io”

Clara doveva arrendersi. Non poteva fare altro. Il Dottore aveva bisogno di John più che di lei.

“John… qualsiasi cosa sia successa tra me ed il Dottore ormai non ha più senso. Non aveva senso nemmeno prima. L’uno nell’altra cercavamo solo un modo per avvicinarci a te. In lui io vedevo te quando mi tenevi a distanza.  Ed ho sbagliato.”

“Ma guarda… dal ‘non è successo nulla’ siamo passati al ‘qualsiasi cosa sia successa’. Sono oltremodo confuso, Clara.” Il sarcasmo sulle labbra di John aveva un effetto devastante. Sembrava improvvisamente un uomo adulto con troppi anni e troppe delusioni compresse nel corpo di un ragazzo.

“Ho commesso un errore. Lo abbiamo commesso entrambi. Vuoi che sia sincera? Non mi pento di quello che ho provato per lui, perché mi ha fatto capire quanto tengo veramente a te. Quanto tengo a quel ragazzo dallo stile troppo vintage e quel sorriso furbo capace di far sparire le nuvole per dare via libera al sole.”

Gli si avvicinò per stringergli la mano, vedendolo ritrarsi non appena i loro corpi si sfiorarono. Faceva male ad entrambi.

“Io posso perdonarti la notte o le notti folli con Tasha…” Aggiunse Clara con un sussurro per continuare poi con più decisione:

“Ho il volo per Liverpool alle otto di stasera. Amy ha ancora il mio numero, non l’ho cambiato. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi un bacio, Eleven. Niente di più. Quando accadrà chiamami; se anche le nostre vite per quel giorno fossero mutate profondamente,  io resterò sempre la tua Ragazza Impossibile.”

Si alzò sulle punte dei piedi, tirando allo stesso tempo un lembo della giacca in tweed di John per costringerlo a calarsi, per stampargli un rapido bacio all’angolo delle labbra.

Negli istanti successivi, Clara sparì oltre la curva in fondo al corridoio; lo sguardo di John restava fisso su di lei con quel bacio che gli bruciava il viso come acido al sapore di mela sulla lingua che andò istintivamente a toccare l’angolo delle labbra.

Non l’avrebbe più vista nei successivi due anni. E non avrebbe visto più nemmeno suo padre. Si sarebbe occupato di tutto ciò che occorreva al Dottore durante il ricovero, ma non appena fu dimesso non volle più saperne. Non aveva voluto incontrarlo, non aveva voluto parlargli. Nella sua mente un unico pensiero:

Non sono forte abbastanza per sopportarlo.

Persino al matrimonio di Amy e Rory, un anno e mezzo dopo, si sarebbe presentato solo a cerimonia ormai finita.

 
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NOTA:

 
Eccomi. Avevo in mente di pubblicare questo capitolo a settembre, ma visto che è pronto ormai da qualche mese, eccolo qua. In effetti la parte iniziale con il Dottore in Afghanistan, quella era pronta da mesi ed ho dovuto un pò modificarla in un paio di punti. Spiegherò nel prossimo aggiornamento il perchè ed il percome xD

Nel prossimo capitolo si tornerà al presente, probabilmente sarà anche l’ultimo capitolo della storia T.T Mi viene da piangere…. Mi mancherà scrivere di Clara, John e del Dottore T.T Magari faccio una raccolta di One-shot  su avvenimenti da ‘aggiungere’ al corso della storia principale, chissà.

Nel frattempo, spero questo sia un capitolo di vostro gradimento. Avevo detto che sarebbe stato completamente incentrato sul Dottore, ma la parte finale con Clara e John era d’obbligo inserirla.

 

 

 

   
 
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