Capitolo 13
La
casa era immersa nel silenzio mentre il Dottore preparava alcune cose da
riporre nel bagaglio per il viaggio. Aveva acquistato un nuovo kit per la sala
operatoria, non perché non si fidasse di ciò che avrebbe trovato una volta
raggiunta la sua destinazione (e solitamente faceva bene a non fidarsi), ma
semplicemente perché con i ferri personalizzati che si adattavano alle sue mani
si sentiva più sicuro in un campo in cui l’arte dell’arrangiarsi poteva
decidere della vita o della morte di una persona. Dare una mano alla sorte a
volte poteva essere un vantaggio. Operare su un campo di battaglia, tra la
polvere del deserto ed i germi pronti ad infierire, era del tutto diverso
dall’operare nella comodità e tranquillità sterile di una sala operatoria, le
infezioni erano all’ordine del giorno e preferiva prendere tutte le precauzioni
del caso mentre era ancora in uno Stato civile e fare scorta di tutto
l’occorrente necessario. Filo chirurgico in primis, senza risparmiarne affatto
perché là, era sicuro, non ne avrebbe trovato.
Aveva
riposto tutto in un borsone che aveva adibito a raccogliere tutto ciò che man
mano avrebbe deciso di portarsi in viaggio; poi si ritrovò a raccogliere la sua
giacca con il risvolto rosso dal letto e stenderla tra le mani. Gli era
piaciuto indossarla di nuovo, aveva adorato ogni giorno che aveva vissuto dal
suo ritorno come non gli era capitato da anni, avvertendo nella gola un leggero
sentore amaro all’idea di dover rinunciare a quei giorni. Raccolse una gruccia
per sostenere la giacca e la ripose per l’ennesima volta della sua vita
all’interno del suo armadio. La nascose sul fondo, ancora ignaro che non
l’avrebbe mai più indossata.
Un
volo civile per una base ISAF, missione internazionale della NATO per
l’Afghanistan. Da lì volo per Herat.
“Quindi…
noi siamo la Compagnia dell’Anello?”
I
ragazzi avevano riso mentre i motori dell’aereo venivano avviati, poi uno di
loro gli rispose:
“Dottore,
lei sarà il nostro Gandalf!”
Il
Dottore non sapeva come rispondere a quella cosa, ma non ne avrebbe mai avuto
il tempo: l’aereo cominciò a rollare ed impennò praticamente subito,
schiacciandolo nel sedile a causa della pressione. Il decollo tattico, come al
solito, gli provocò una pressione ai timpani con un conseguente fischio
fastidioso all’orecchio ed un groviglio allo stomaco che si sarebbe portato fino
a due ore dopo l’atterraggio. Si pentì subito di aver mangiato quella stupida
galletta.
Il
volo era stato scomodo, ma avere quei ragazzi al suo fianco gli aveva alleviato
il viaggio ed alleggerito il peso che si portava sull’anima.
Aveva
scoperto che il ragazzo che lo aveva battezzato ‘Gandalf’ aveva la sua stessa
assegnazione iniziale, che era la seconda volta che tornava in Afghanistan e
che:
“Non
ci credo! Davvero lei è il Dottore? Quel Dottore?”
“Sono
il Dottore, punto. Non so se sono lo stesso dottore di cui parli tu.”
“Si
fidi, lei è proprio il Dottore di cui parlo, guardi che sul campo di battaglia
è famoso!Lei parla il Pashtun ed il Farsi, vero?” In realtà, con gli anni
passati a fare missioni internazionali aveva imparato anche un po’ di spagnolo
ed italiano. Ma le due lingue ufficiali Afghane, per lui che in Afghanistan
c’era stato innumerevoli volte, era d’obbligo conoscerle.
“Quindi,
se io sono Gandalf, tu chi saresti invece?” Il Dottore aveva risposto alla
domanda con un’altra domanda, per deviare il discorso. E ci era riuscito:
“Legolas!”
Rispose il giovane, stringendo a se il suo fucile d’assalto: “Assolutamente
Legolas!”
“Ma
non sei biondo.” Protestò lui, notando i capelli neri e ricci del giovane e la
sua pelle scura.
“Però
sono un cecchino di prim’ordine!” Orgoglio negli occhi del ragazzo.
Il
Dottore sorrise appena, ma il suo sguardo era distante e triste mentre il
silenzio si insinuava denso tra loro, interrotto solo dall’assordante rombo del
motore del velivolo. Qualche settimana dopo, nella base operativa di Bagram
dove erano solo di passaggio per una nuova assegnazione, quello stesso ragazzo
gli avrebbe detto:
“Sa…più
che Gandalf, lei in realtà mi ricorda Aragorn.”
Il
Dottore aveva sospirato, ma non aveva risposto. Si sarebbero separati da lì a
poco.
Il
compito principale che gli fu assegnato, in qualità di Ufficiale Medico, era
quello di tenere sotto controllo l’infermeria ed il Gate, al quale accedevano i
civili che avevano urgente bisogno di cure.
Più
spesso giungevano bambini, fingevano un malessere per farsi dare il sacchetto
con la porzione di cibo standard: tubetto di latte condensato, un pacchetto di
biscotti, monoporzione di marmellata e le solite gallette. Il Dottore di
nascosto aggiungeva qualcosa in più in ogni sacchetto.
I
malati ed i feriti che gli portavano erano diversi ogni giorno. Una volta giunse un bimbo con quattro dita della
mano amputate da un ordigno esplosivo, probabilmente un LED, uno di quelli
artigianali, ed il Dottore notò che c’era stato un primo tentativo di cura. Fu
quello il momento in cui capì che al
villaggio vicino doveva esserci qualcuno che di medicina se ne intendeva.
Sapeva benissimo che i Talebani permettevano ai civili di rivolgersi al campo
medico militare solo ed esclusivamente per le emergenze.
Comunque,
una volta sistemati i monconi e ricucito le ferite con filo chirurgico e quel
po’ di pelle rimasta attorno sapeva già che, nonostante l’avvertimento di farsi
rivedere il giorno dopo, quel bambino non sarebbe più tornato. I malati
andavano una volta, poi sparivano. Parlando con l’uomo che lo aveva
accompagnato aveva avuto conferma ai suoi sospetti: tra parole non dette e
sguardi nervosi aveva capito che un primo tentativo di cura c’era stato. Gli
aveva quindi consegnato degli antidolorifici e qualche antibiotico che si era
portato da casa, da far prendere al bambino nei giorni successivi. Lo aveva
fatto per coscienza e perché era il suo lavoro, la sua missione. In fondo,
però, sapeva già che quelle medicine sarebbero state vendute per procurarsi una
dose di oppio.
***
Un
giorno fanno il giro dei villaggi. Aiutano a scavare pozzi, lasciano provviste.
Anche a quelli che non vogliono collaborare in nessun modo per paura di
ripercussioni da parte dei Talebani: se ne vanno via con l’amaro in bocca, cacciati,
ma lasciano le provviste lo stesso. Sempre meglio quelle, che vedere centinaia
di bambini uscire da chissà dove e scavare nella loro spazzatura alla ricerca
di cibo.
Al
ritorno percorrono nuovamente la strada che attraversa i campi di oppio.
Papaveri che si espandono a vista d’occhio, teste che si vedono appena un po’ al
di sopra dei fiori. Sembrano non dare alcuna attenzione ai mezzi militari di
passaggio, agli elicotteri che sorvolano la zona e si esibiscono nel loro Show
of Force. Poi arriva via radio l’ordine di fermarsi. Più avanti sono stati
avvistati degli uomini che, lungo la strada, scavano, piazzano e si allontanano. Devono
aver seppellito degli ordigni. Una camionetta va in avanscoperta, il Dottore
resta nel blindato, con il suo fucile pronto (perché è pur sempre un militare
ed ha il suo fucile) e lo sguardo
concentrato sul campo di papaveri che si estende al di fuori del suo oblò,
pronto ad avvisare per qualsiasi anomalia. Sembra deserto; in effetti è deserto e nella camionetta si muore
dal caldo. Le persone che stavano lavorando nei campi fino a qualche secondo
prima sono scomparse ed un silenzio innaturale circonda la zona, interrotto
solo dal rumore degli elicotteri che sorvolano rasoterra per il loro Show of
Force.
Poi
un esplosione. L’ordigno, realizzato con una tanica di benzina, è stato fatto
esplodere, ma probabilmente lungo la strada ne sono stati piazzati altri.
Procedono
con estrema lentezza, fermandosi continuamente per far brillare gli ordigni fatti
in casa. Si fa buio, la copertura aerea viene a mancare. La tensione è alle
stelle, ma non viene ingaggiato nessuno scontro. Gli è andata bene.
Ni
giorni successivi c’è una calma apparente. Si spara poco, poche esplosioni. I
suoi compagni giustificano il tutto con un: “Adesso sono concentrati sulla
raccolta dell’oppio! Quando finisce la raccolta si concentreranno su di noi.”
Il
Dottore sa che hanno ragione. Ma non parla. Invece, pensa a suo figlio. Pensa a
John, che lo ama, gli manca e che vuole rivederlo. Il desiderio di parlargli lo
spinge successivamente a cercare un contatto che gli viene rifiutato, ma anche
solo sapere che suo figlio sta bene e continua la sua vita gli basta. Fa
comunque male, ha bisogno di essere più impegnato per non pensare.
Chiama
anche Amy, con lei si sente più spesso che può. A volte su Skype, altre volte
solo comunicazione telefonica su una linea sicura. Non le racconta della
guerra, finge quasi di non essere lì quando parlano. Lei invece gli racconta
dell’Università, di Rory che è tornato a Glasgow per cercare lavoro in una clinica
privata, per cominciare; poi vedrà in qualche ospedale. Lei lo raggiungerà
appena avrà in mano il certificato di Laurea. Aggiunge che ha un sospetto: Rory
è strano, a volte emozionato a volte spaventato; il sospetto è che lui voglia
chiederle di sposarla perché è la stessa reazione che aveva quando le ha
chiesto di fidanzarsi. Il Dottore sorride, pensando che quei bambini
scapestrati che si rincorrevano nel giardino della loro vecchia casa scozzese
ormai erano diventati uomini e donne. E piange quando Amy gli dice:
“Zio
John, lo sai, vero? Devi tornare per quel giorno. Mi devi accompagnare
all’altare. Ho solo te.”
Amy
non ha un padre e lui è la cosa più vicina ad una figura paterna che lei abbia
mai avuto.
Accetta
tra le lacrime, commosso e forse anche stanco di tutto il peso che
l’Afghanistan gli ha messo addosso. Anche Amy si lascia scappare qualche
lacrima.
Il
Dottore le chiede anche di John, ogni volta. Lei risponde sorridendo, gli
racconta quello che John le racconta dei suoi viaggi. Gli dice che sta bene,
sembra sereno. Il Dottore sorride, triste ma sollevato. Non le chiede di Clara
e lei non ne parla. Mai. Non se lo dicono, ma pensano che sia un bene, e va
bene così.
Poi
arriva la destinazione finale. Riparte.
Mentre
sorvolano la zona, il Dottore sembra mostrarsi indifferente alla desolazione,
ai villaggi abbandonati o ai campi di papaveri dove alcune teste dei
raccoglitori di oppio si intravedono appena, chini sul loro operato. Non pensa
molto al fatto che la base in cui si fermerà fino alla fine del suo periodo di
permanenza è in un punto caldo. Ma sorride al pensiero che rivedrà ‘Legolas’.
***
Nello
stesso preciso momento pensò anche a Clara, appena laureata, che viveva la sua
vita in chissà quale città dell’Inghilterra. Il suo cuore ormai tranquillo
quando pensava a lei gli faceva capire che il fuoco si stava spegnendo e non
bruciava più. Eppure, non poteva fare a meno di continuare a pensare ad un ‘e
se…’. Nella moltitudine di emozioni che, in quel momento, smossero le ceneri
ancora calde che coprivano i suoi sentimenti contrastanti, si accorse in
ritardo della chiamata all’attivazione, si accorse in ritardo degli spari che
provenivano dall’esterno dell’accampamento; si accorse in ritardo delle
esplosioni che sembravano sempre più vicine; si accorse in ritardo della parete
che crollava e di un violento e troppo caldo spostamento d’aria che gli soffiò addosso
prima di sbalzarlo sulla parete opposta. Avvertì solo un improvviso dolore in
tutto il corpo, i polmoni che gli bruciavano, la sabbia del deserto tra i denti
ed infine il freddo troppo innaturale che improvvisamente gli percorreva la
superficie del corpo.
Infine,
percepì solo il buio.
Il
rumore degli elicotteri sembrava lontano. Così come erano lontani i colpi di
kalashnikov. Sparavano su di loro da una postazione più alta, con una visione
sufficiente ad oltrepassare le barriere ed il filo spinato.
Il
fischio nelle orecchie invece era fisso ed assordante. Lo sguardo concentrato a
focalizzare le figure indefinite che lo circondavano. Sentiva il suo respiro,
era faticoso e quasi inutile. Perché il petto gli faceva un male cane ed ad
ogni boccata d’aria l’ossigeno sembrava non raggiungere la destinazione. Un
polmone era collassato. Il giubbetto tattico lo affliggeva e gli pesava addosso
in un modo sconcertante, cercò di toglierselo, ma lo fermarono.
Su
di lui si piegavano l’infermiere che lo assisteva durante le uscite ed un altro
militare che gli forniva copertura. Sulla targhetta apposta sul suo petto poteva
leggerne il cognome, riconoscendo in lui il Brigadiere Lethbridge-Stewart. L’infermiere era italiano, di passaggio per un
paio di settimane ancora, ma masticava l’inglese.
Boccheggiando,
il Dottore fece intuire al giovane infermiere che doveva fare lui il lavoro:
“Dottore,
non sono un chirurgo, non l’ho mai fatto alla cieca… e se sbaglio?”
Con
la vista che si annebbiava nuovamente ed una forza innaturale, il Dottore lo
afferrò per il bavero della divisa militare e lo guardò negli occhi. Il giovane
intuì:
O mi infili un
ago nel petto ora e muoio più tardi, oppure muoio adesso soffocato. Siamo in
guerra, non alla Facoltà di Medicina!
L’infermiere
non potette fare altro. Aprì quel tanto che bastava il giubbetto tattico, la
casacca della divisa e tagliò la t-shirt. Seguì le direttive rapide ma precise
dell’uomo che gli indicò il punto sul torace in cui operare. Il Dottore si era
ritrovato così con un ago infilato nel petto ed una valvola da aprire ogni
quindici minuti per far uscire l’aria che si era formata nello spazio pleurico.
Ma almeno poteva respirare meglio.
“Posso
durare al massimo tre ore…” Aveva detto con un filo di voce ed il respiro che
si stabilizzava. Doveva essere evacuato, portato all’ospedale più vicino e,
probabilmente, rimpatriato. Ma erano sotto attacco. Non potevano essere
evacuati.
“Non
mollare Dottore! Ci sono gli elicotteri che sputano fuoco su quei bastardi! Ti
portiamo via!”
Parole
dette in un mezzo inglese ed un mezzo italiano dall’accento troppo meridionale.
Tra polvere che offuscava la vista e proiettili che radevano rumorosamente il
muretto dietro il quale erano riparati, il Dottore sembrò aver improvvisamente
dimenticato le lingue che negli anni di esperienza su campo multietnico aveva
voluto, più che dovuto, imparare. Cercava con gli occhi il suo fucile, perso
chissà dove sotto le macerie della parete che gli era crollata addosso. Cercò
di prendere la pistola dalla fondina sul fianco, rispondere al fuoco per
istinto di sopravvivenza, ma mentre il Brigadiere al suo fianco continuava a
rispondere al fuoco nemico lui doveva concentrarsi a respirare. Era questo che
l’infermiere gli ripeteva.
Il
brigadiere invece non faceva altro che dargli ordini che capiva e non capiva.
Ed ai quali non voleva obbedire, ma si ritrovò costretto a farlo lo stesso:
“Dottore
stai giù. Sta calmo che qua ci penso io!”
Per
tutta risposta un colpo di fucile, dopo aver attraversato di striscio il muro
spesso dietro cui si rifugiavano, lo aveva colpito ad un braccio. La divisa
militare si sporcava di rosso.
“Stai
sanguinando. Sei ferito!”
“Non
ho tempo di sanguinare!” Fu la risposta del Brigadiere mentre alzavo lo sguardo
consapevole ed allarmato.
Rosso
era diventato anche il cielo. I fumogeni di segnalazione. Erano troppo vicini
ad un obiettivo; o l’obiettivo si era avvicinato troppo a loro. I missili dei
rinforzi via aria sarebbero arrivati a minuti, forse secondi.
“Via!
Via!”
L’urlo
del Brigadiere che di forza tirava su il Dottore costringendolo a correre ed
inciampare quasi su se stesso; lo trascinava via in una corsa a zig zag
interamente fatta a testa bassa per rendere più difficile ai nemici il compito
di sparargli alle spalle. Poi un boato, uno spostamento d’aria che lo fece
sbalzare in avanti per la seconda volta nel giro di… un’ora? Pochi minuti?
Quanto davvero fosse durato quell’attacco non avrebbe saputo dirlo né
calcolarlo. Nel silenzio che ne seguì, interrotto subito dalle urla di guerra
dei compagni intuì che avevano vinto la battaglia e mantenuto la base.
Infine,
di nuovo il buio e stavolta più profondo e definitivo.
Un
universo tasca piccolo, fragile, bloccato nel tempo ma con un timer sempre
attivo pronto ad azzerarsi ed esplodere da un momento all’altro, collassare su
se stesso.
Dal
vetro in plexiglass che dava sulla camera d’isolamento sterile osservava suo padre steso su un lettino troppo piccolo.
Un sondino infilato nel naso che arrivava giù nello stomaco, un altro che
partiva da un buco incerottato sul suo torace, scendeva appena al di sotto del
materasso per poi risalire sino ad un sostegno metallico, biforcarsi a metà
percorso per poi finire con ogni nuovo capo in due ampolle trasparenti,
probabilmente di vetro o chissà cosa. Uno a metà pieno di liquido giallastro.
L’altro apparentemente vuoto.
Qualche
altro macchinario muoveva qualcosa, una ventola o una sorta di compressore a
fisarmonica che si alzava ed abbassava per chissà quale motivo. Non sapeva
neanche se fosse collegato a suo padre o al paziente comatoso nel letto
accanto. Forse a suo padre. Suppose servisse a dargli aria, o a toglierla dalla
pleura; nella confusione mentale in cui si trovava non riusciva a ricordare se
il polmone avesse bisogno di aiuto per prendere ossigeno o avesse bisogno di
aiuto per toglierlo.
Ricordava
appena ciò che il medico gli aveva detto: polmone collassato ed una sorta di
cuscino d’aria che si era formato nell’aera pleurica a causa di un forte trauma,
doveva essere assorbito.
Ricordava
precisamente però le parole ‘attacco nemico’ e ‘quasi morto’.
John
si era occupato di tutto. Del rimpatrio una volta stabilizzate le condizione di
suo padre, del ricovero e di tutta quella carta straccia necessaria che passava
sotto il nome di ‘burocrazia’. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto ad un comune
essere umano in quelle stesse condizioni se non si fosse trattato di prendersi
cura del Dottore. Quel Dottore al quale avrebbero dato una medaglia al valore
per i servizi svolti negli anni. Potevano
tenersela la medaglia!
Si
chiese anche se fossero stati altrettanto scrupolosi se il Brigadiere
Lethbridge-Stewart non si fosse interessato quotidianamente di loro, con il suo
braccio fasciato e quelle escoriazioni che gli coprivano il resto del corpo.
Aveva
chiamato Amy e Rory. Gli facevano compagnia, gli portavano da mangiare. Qualche
cambio d’abito e qualche battuta stupida di Rory sempre troppo fuori luogo ma
capace lo stesso di procurargli un sorriso, nell’attesa che il Dottore si
svegliasse: alternava momenti di veglia confusa a momenti di sonno profondo. I
medici dicevano che era colpa delle medicine per la terapia.
Rory
a volte arrivava con indosso la sua divisa ospedaliera. Era l’unico modo per
avere notizie certe, parlare con i medici e vedere le continue analisi che gli
venivano fatte. Piccoli miglioramenti c’erano ogni giorno. Ma a volte si
alternavano a crisi respiratorie. Almeno ogni giorno che passava il Dottore era
sempre più consapevole di se stesso e cosciente di cosa lo circondava.
Una
settimana dopo, sempre dalla finestra in plexiglass, John vide qualcosa che non
si aspettava.
Clara
stringeva la mano di suo padre. Lui aveva gli occhi chiusi ma sorrideva. Nei
secondi successivi la ragazza si voltò verso John e lo guardò, come un istinto
improvviso, una chiamata particolare o semplicemente la risposta al suo ‘Clara’
che gli attraversava la mente come un urlo.
Lei
gli sorrise, lui restò impassibile prima di allontanarsi.
***
Quando
Clara mise piede in quella camera asettica l’odore di disinfettante le bruciò
nelle narici. Le lacrime minacciarono di affacciarsi dagli occhi nel momento in
cui inquadrò la figura magra – troppo magra- del Dottore. Si avvicinò
lentamente, correndo istintivamente a stringergli la mano tra le sue. Era
freddo, forse a causa delle continue flebo che gli gelavano il sangue, e
sembrava più fragile del cristallo. Quando l’uomo aprì gli occhi l’azzurro
delle sue iridi era diventato un arido grigio. Clara diede colpa alla scarsa illuminazione
di quella stanza mentre soffocava un singhiozzo.
Lui
le sorrise, salutandola con un ‘ciao’ pronunciato appena in un sussurro. Lei
non riuscì a parlare.
“Guarda
che per uccidermi ce ne vuole… dammi solo un paio di settimane e rimpiangerai
questi momenti.”
“Un
paio di mesi, forse! E di certo non rimpiangerò questo.” Rispose finalmente con
la voce rotta e tirando su col naso prima di sorridere e continuare: “Almeno
adesso penserai bene di fermarti una volta per tutte.”
“Non
contarci…” Rispose lui di rimando, lasciandosi sfuggire un sorriso.
“Dovresti,
invece.”
“Per
favore, non rifacciamo questo discorso…” Riprese respiro, muovendosi appena nel
letto: “ Lo sai. Potrei dirti che lo farò, ma mentirei. Non posso negare quello
che sono.”
Clara
restò in silenzio. Consapevole che non poteva obiettare nulla, e consapevole
che non doveva agitarlo come invece stava facendo.
“Sono
contento di rivederti.”
“Anch’io.
Ma se continui a dimagrire ho paura che sparirai.” La preoccupazione e l’ansia
nella voce rotta di Clara era palpabile. Il Dottore guardò i suoi occhi rossi e
lucidi di lacrime stringendole appena la mano con quella poca forza di cui era
capace.
“Impossibile.
Nelle flebo che mi danno ci sono tutti i nutrimenti di cui ha bisogno il mio
corpo. Senza grassi e senza coloranti.” Le sorrise, per confortarla e
rasserenarla. In realtà era la presenza di Clara a confortare e rasserenare lui.
“Non
fare il medico con me. Un po’ di grasso in realtà non ti farebbe male.”
“Preferirei
un soufflè…”
“Allora
te ne preparerò uno speciale per quando uscirai di qua.” Stavolta erano
entrambi a sorridere.
Il
successivo silenzio era interrotto solo dal bip bip continuo
dell’elettrocardiogramma. Stabile, senza sbalzi. Lasciava intuire che il cuore
del Dottore era forte e calmo. Con una nota di orgoglio l’uomo pensò che, con
Clara lì a tenergli la mano e parlargli, quella calma poteva solo significare
che tutto era passato, che tutto era chiuso e che questo non poteva che essere
un bene. Era la prova decisiva per lui, in quel momento lo era per entrambi.
Il
momento fu interrotto da un medico di passaggio all’esterno. Aprì la porta
richiamando Clara:
“Non
può stare qui, signorina. Solo i familiari hanno accesso ai pazienti e non è
questo l’orario.”
Il
cuore di Clara in quel momento invece perse un battito. Perché non voleva andare
ancora via, e perché non le piaceva essere richiamata in quel modo.
“E’
mia figlia.” La risposta del Dottore la sorprese, indubbiamente sorprese anche
il medico in questione.
“Non
è vero. L’unico nome a cui è consentito l’accesso è John Connor Smith.”
“Infatti.
Lei è la fidanzata di mio figlio. Quindi è mia figlia. La lasci stare. Se sta
qui mi tranquillizza.” Il Dottore sembrò agitarsi, incupendo lo sguardo fisso
sul medico ancora in piedi sull’uscio. Non potendo obiettare e non volendo
destabilizzare le condizioni del paziente (conoscendone il carattere
particolare per fama) l’uomo non potette fare altro che arrendersi e lasciar
stare.
Pochi
minuti dopo Clara osò parlare di nuovo:
“Hai
mentito.”
Il
Dottore riaprì gli occhi quel che bastava per poterla vedere e capire a cosa si
riferisse.
“A
quel medico? No.”
“Non
sono tua figlia. E non sono la fidanzata di John.”
“Non
lo hai visto?”
Lei
scosse la testa, lo sguardo triste e la sensazione di una morsa stretta attorno
al cuore.
Il
Dottore chiuse gli nuovamente gli occhi, rispondendo con un filo di voce
assonnato:
“Nemmeno
io. Ma so che è qui. Va da lui.”
Il
Dottore si addormentò nell’istante successivo. Clara avvertì il cuore battere
più veloce ed il desiderio incomprensibile di voltarsi.
Erano
passati mesi. Ma il calore nel cuore che si scioglieva per poi far male quando
vedeva il volto di John non era passato.
La
Ragazza impossibile si ritrovò a rincorrere il suo Eleven tra i corridoi
bianchi dell’ospedale. Tutti uguali, tutti puzzavano di disinfettante e tutto attorno
a lei ricordava un enorme labirinto senza uscita nel quale sembrava essersi
persa.
Infine,
trovò John affacciato ad una delle finestre della sala d’attesa, scuro in
volto, la mascella serrata che si contraeva in lievi spasmi.
Clara
si avvicinò in silenzio, col cuore impazzito e le gambe che le tremavano. Mosse
le labbra per parlare, ma John fu più veloce di lei.
“No.
Per favore, Clara.”
“Invece
dovresti ascoltare.” Fu la risposta di Clara. Secca, disperata ed arrabbiata.
“Non
è come pensi! E dovresti ascoltarmi una volta per tutte! Tra me e tuo padre non
c’è niente! Sono qui per te, perché voglio starti vicino. Vorrei solo… se tu
potessi darmi una seconda possibilità, per favore…”
John
scosse la testa interrompendola:
“Clara,
se davvero tieni a me. Se davvero ci tieni così tanto a me ed a mio padre come
dici, ti prego: va via.”
C’era
ancora troppo odio, ancora troppo dolore in lui. Ancora non riusciva a
dimenticare, ancora non riusciva a perdonare. E doveva avere un autocontrollo
disumano per parlare con calma e senza alzare la voce in nessun momento, mentre
continuava:
“Non
ci riesco a vedervi vicini. Pensavo di averla superata ma non è così, non lo
sopporto. Per favore… va via. O vado via io”
Clara
doveva arrendersi. Non poteva fare altro. Il Dottore aveva bisogno di John più
che di lei.
“John…
qualsiasi cosa sia successa tra me ed il Dottore ormai non ha più senso. Non
aveva senso nemmeno prima. L’uno nell’altra cercavamo solo un modo per
avvicinarci a te. In lui io vedevo te quando mi tenevi a distanza. Ed ho sbagliato.”
“Ma
guarda… dal ‘non è successo nulla’ siamo passati al ‘qualsiasi cosa sia successa’.
Sono oltremodo confuso, Clara.” Il sarcasmo sulle labbra di John aveva un
effetto devastante. Sembrava improvvisamente un uomo adulto con troppi anni e
troppe delusioni compresse nel corpo di un ragazzo.
“Ho
commesso un errore. Lo abbiamo commesso entrambi. Vuoi che sia sincera? Non mi
pento di quello che ho provato per lui, perché mi ha fatto capire quanto tengo veramente
a te. Quanto tengo a quel ragazzo dallo stile troppo vintage e quel sorriso
furbo capace di far sparire le nuvole per dare via libera al sole.”
Gli
si avvicinò per stringergli la mano, vedendolo ritrarsi non appena i loro corpi
si sfiorarono. Faceva male ad entrambi.
“Io
posso perdonarti la notte o le notti folli con Tasha…” Aggiunse Clara con un
sussurro per continuare poi con più decisione:
“Ho
il volo per Liverpool alle otto di stasera. Amy ha ancora il mio numero, non
l’ho cambiato. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi un bacio, Eleven.
Niente di più. Quando accadrà chiamami; se anche le nostre vite per quel giorno
fossero mutate profondamente, io resterò
sempre la tua Ragazza Impossibile.”
Si
alzò sulle punte dei piedi, tirando allo stesso tempo un lembo della giacca in
tweed di John per costringerlo a calarsi, per stampargli un rapido bacio
all’angolo delle labbra.
Negli
istanti successivi, Clara sparì oltre la curva in fondo al corridoio; lo
sguardo di John restava fisso su di lei con quel bacio che gli bruciava il viso
come acido al sapore di mela sulla lingua che andò istintivamente a toccare l’angolo
delle labbra.
Non
l’avrebbe più vista nei successivi due anni. E non avrebbe visto più nemmeno
suo padre. Si sarebbe occupato di tutto ciò che occorreva al Dottore durante il
ricovero, ma non appena fu dimesso non volle più saperne. Non aveva voluto
incontrarlo, non aveva voluto parlargli. Nella sua mente un unico pensiero:
Non sono forte
abbastanza per sopportarlo.
Persino
al matrimonio di Amy e Rory, un anno e mezzo dopo, si sarebbe presentato solo a
cerimonia ormai finita.
NOTA:
Eccomi.
Avevo in mente di pubblicare questo capitolo a settembre, ma visto che è pronto
ormai da qualche mese, eccolo qua. In effetti la parte iniziale con il Dottore in Afghanistan, quella era pronta da mesi ed ho dovuto un pò modificarla in un paio di punti. Spiegherò nel prossimo aggiornamento il perchè ed il percome xD
Nel
prossimo capitolo si tornerà al presente, probabilmente sarà anche l’ultimo
capitolo della storia T.T Mi viene da piangere…. Mi mancherà scrivere di Clara,
John e del Dottore T.T Magari faccio una raccolta di One-shot su avvenimenti da ‘aggiungere’ al corso della
storia principale, chissà.
Nel
frattempo, spero questo sia un capitolo di vostro gradimento. Avevo detto che
sarebbe stato completamente incentrato sul Dottore, ma la parte finale con Clara
e John era d’obbligo inserirla.