Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: My name is Freedom    21/08/2015    0 recensioni
. Aveva qualcosa di maledettamente misterioso e attraente, se lo avessi dovuto associare ad un colore, avrei scelto di certo il grigio, oscuro e affascinante; era bello, bello da far paura.
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nero. Buio pesto. Corro, qualcuno mi sta inseguendo, scappo. Il rumore delle foglie calpestate, il vento, il fiatone, la nebbia. Non vedo nulla, tutto è sfocato. Poi uno sparo e delle grida profonde, provengono dal cimitero dietro di me, continuo a correre, le forze mi stanno abbandonando, ma non posso fermarmi, il fiatone aumenta, una mano afferra il mio polso ma la spingo via e torno a correre, più veloce, più veloce, più veloce. Un bosco, gli alberi spogli di una notte d'inverno mi ostacolano la corsa, i rami più bassi e secchi mi tagliano la pelle, poi un ruscello, nero come la pece, la luna sembra essersi spenta, poi la fine. Niente più Larici, o Pioppi, o Aceri, un fil di luce illumina il cammino appena fatto. Silenzio. Non mi insegue più nessuno, nessun grido, solo il rumore delle foglie, anche il vento si è placato, la nebbia è improvvisamente sparita, ma la vedo ancora a qualche metro da me. Cammino piano, affaticato, con la paura che mi divora. Poi una mano. Esce dal terreno e mi afferra la caviglia, uno strillo acuto di qualcuno che affoga risuona nel bosco, grido, ma dalla mia gola non esce un fiato, nessuno può sentirmi. Grido, più forte. Niente, la voce non esce.  La mano mi spinge, cado.
Nero. Buio pesto. Qualcuno mi prende da terra. Un'ombra scura, fredda, terrificante. Sento i suoi occhi su di me, gelidi. Mi trascina piano, poi alzo la testa. Nella notte si intravede solo quel panorama, due occhi verdi, accesi, quasi sovrannaturali, in forte contrasto con il nero che li circonda. Torna di nuovo la nebbia, il nero, le grida, ma ora è diverso, non c'è la luna, ma i suoi occhi.

Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà come in cielo anche in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano;
e rimetti a noi i nostri debiti,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori;
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Tuo è il regno, la potenza, e la gloria nei secoli.
Amen.

"La messa è finita, andate in pace. E che il nome del nostro caro amico defunto Mark Tomlinson rimanga sempre nei nostri cuori, poiché Dio lo ha accolto tra le sue braccia e.."
La voce del prete era sempre più lontana, mentre cercavo la lapide di mia madre poco distante, barcollavo nel buio della notte, nel bel mezzo del cimitero. Birra su una mano, sigaretta nell'altra, occhi gonfi per le abbondanti lacrime. Poco distante da me stavano celebrando la morte di mio padre, al quale non ero mai stato particolarmente legato. Nella mia vita solo una persona aveva avuto la mia più totale fiducia, mia madre, colei che all'età di dieci anni mi aveva abbandonato a causa di un incidente stradale, dove erano rimaste coinvolte svariate vittime, tra cui lei.
        Essere presente qui non era stata una mia idea infatti, fosse stato per me potevano seppellire quell'uomo sotto tre metri di terra anche anni prima, tanto non era mai stato presente e come si può avere pietà per un uomo che fin da quando sei piccolo ti prende a botte per il tuo orientamento sessuale? Se un giorno scegli di giocare a nascondino con altre bambine anziché con macchinine e aeroplanini costosissimi e inutili? Ma, secondo mia zia, avrei dovuto essere presente perchè "un giorno te ne pentirai, figliolo!" continuava a ripetere al telefono e allora l'avevo semplicemente accontentata, solo per non sentirla più ed evitare di farmi trapanare nuovamente il timpano destro.
        Ero orfano, finalmente oserei dire. Solo dopo la morte del mio ultimo genitore avrei ereditato la casa, il denaro e la panetteria di famiglia e, essendo maggiorenne, avrei potuto essere autonomo e, forse, riuscire a costruirmi una nuova vita, una mia vita.
        Un rumore assordante mi riportò alla realtà, dei passi. Mi voltai, ma non vidi nessuno e continuai a cercare la lastra di marmo, quando la riconobbi, avanzai e d'istinto accarezzai la foto che raffigurava mia madre con me in grembo, avevo due o tre anni e ridevo, ancora non ero a conoscenza della via che mi aspettava, ero felice e lo era anche lei. Mi inginocchiai davanti ai fiori che la decoravano e svuotai la birra nel vaso delle rose bianche, lei odiava quel colore, diceva che le ricordava la sofferenze, il bianco, il nulla.
Dopo qualche minuto alzai gli occhi e vidi qualcuno fissarmi a un paio di metri da me, un'ombra. Era nera, terrificante, alta e secca, mi scrutava, fu allora che li vidi, quegli occhi verdi, quasi fosforescenti, da far invidia alla luce. Un secondo, un tempo troppo breve, dopo di che la nebbia del cimitero li avvolse e quella figura scomparve.
Ma non passò molto prima che iniziasse a tormentarmi ogni notte, in ogni sogno, in ogni incubo.


22 Febbraio 2014
I corridoi della scuola erano più affollati del solito e l'aria il triplo più opprimente, forse perchè erano mesi che non mi presentavo a scuola. Raggiunsi il mio armadietto, feci un po' di fatica a ricordarmi dove fosse, ma poi vidi la scritta "Tomlinson" e lo riconobbi. Milioni di voci iniziarono a sollevarsi, mi voltai e vidi i quattro ragazzi nuovi di cui mi avevano tanto parlato, non diedi molta importanza a quella scena, girai le spalle e mi diressi nell'aula di trigonometria, sperando di non sbagliare aula.
La stanza era ancora vuota, i banchi insolitamente ordinati e le finestre chiuse con le tapparelle abbassate, fuori era ancora buio, la luce del lampione davanti alla finestra che riusciva a filtrare era lieve, soffusa, un insieme di ombre si disegnavano sul pavimento e per un attimo mi parve di riconoscere quella vista al cimitero, quegli occhi verdi, quella figura di cui avevo il terrore, ma che da un lato mi attraeva. Sentii la porta sbattere e tornai alla realtà, ma quando mi voltai la classe era ancora stranamente vuota. Mi sedetti e gettai lo zaino a terra, pian piano iniziò ad arrivare gente e a prendere posto nei vari banchi, pregai fino all'ultimo che nessuno occupasse quello accanto al mio, ma le mie preghiere furono vane, una ragazza dai capelli rosso fuoco lanciò il suo zaino accanto al mio e chiese "Posso!" con un tono così irritante, che neanche risposi.
Poco dopo un ragazzo alto e con un capellino grigio dove si vedevano scorgere alcuni riccioli castani entrò e si sedette qualche fila avanti a me, sicuramente uno dei studenti nuovi, dato che un tipo così me lo sarei sicuramente ricordato se mai lo avessi conosciuto. Aveva qualcosa di maledettamente misterioso e attraente, se lo avessi dovuto associare ad un colore, avrei scelto di certo il grigio, oscuro e affascinante; era bello, bello da far paura.
Passò l'ora a fissare il banco, immerso nei suoi pensieri, nessuno sguardo rivolto agli altri alunni, teneva la testa bassa, con i ricci a coprirgli gli occhi, giocava con la penna e a volte scarabocchiava un taccuino, era come se fosse assente, quasi gli disturbava essere in mezzo ad altre persone. Infatti, non appena suonò la campanella, si alzò e uscì dall'aula senza neanche far finire di parlare la professoressa che stava assegnando i compiti. Feci lo stesso, mi alzai per seguirlo e non so neanche io per quali ragioni, ma l'istinto mi diceva che dovevo farlo, anche se la testa mi suggeriva il contrario, io lo feci. Entrò nel bagno e, non appena la porta si chiuse, io la riaprii, quando entrai, le luci erano spente, la stanza era infestato dal fumo di sigarette fumate illegalmente tra un'ora e l'altra, ma il bagno era vuoto.
Il pomeriggio fui impegnato dallo studio, dovevo assolutamente rimettermi in pari con le lezioni, se non volevo essere bocciato per la terza volta. Verso le sei del pomeriggio decisi di smettere, le forze mi stavano abbandonando e stavo letteralmente crollando sopra ai libri, quando improvvisamente il telefono squillò.
"Pronto?"
"Ciao figliolo, sei tornato a scuola come ci avevi promesso?"
"Si, zia!"
"Quando ci vieni a trovare?"
I rapporti con i miei zii non sono mai stati buoni, in realtà non ci sono mai stati e basta. Semplicemente avevo saputo della loro esistenza solo dopo la morte di mio padre, un paio di settimane prima del suo funerale; non erano mai stati presenti, forse anche a causa della distanza, loro abitavano a Cambridge, mentre io ero rimasto a Liverpool, anche dopo essere rimasto orfano, avevo ancora la casa dei miei, anche se troppo grande per una sola persona, avevo abbastanza denaro per sistemarmi e continuavo a portare avanti la panetteria che era ormai di mia proprietà. Dopo la morte di mio padre avevo cambiato tutto di quel posto, avevo modificato la disposizione dei tavoli, il colore delle pareti, i dipendenti. Avevo lasciato solo il necessario, il vecchio panettiere di fiducia e il violino di mia madre appeso al muro con incisa la frase che sempre ripeteva, la sua piccola filosofia di vita: "se ti piace, è lecito."
"Non saprei zia, qui ho molto da fare, tra la scuola, il locale.."
La verità era che la voglia di andare a casa di completi sconosciuti non mi allettava affatto, soprattutto sapendo che mi avrebbero fatto il terzo grado e io non sopporto la gente che parla troppo e mia zia è esattamente una chiacchierona per eccellenza.
"Hai ragione figliolo, però presto ci saranno le vacanze di inizio novembre, potresti fare un salto da noi.."
"Ci penserò zia.." No, assolutamente no.
"Ok, ti chiamo presto, ciao tesoro e pensaci.."
Scesi le scale per raggiungere la cucina e iniziai a prepararmi dei pop corn, vedere un film mi sembrava la migliore idea che mi era saltata in testa, anche se una bella dormita non mi avrebbe fatto male, visto che dal funerale avevo passato tutte le notti in bianco per colpa di quel sogno, di quell'ombra così fiabesca, ma maledettamente reale.
        Infatti, non appena il film partì, il sonno ebbe la meglio e mi abbandonai sul divano.

Verde, verde intenso. Due occhi, fissano,immobili, intorno tutto è nero, nessuno sfondo. Improvvisamente le palpebre si chiudono e si riaprono più accese di prima, questa volta la sfumatura è più sul celeste, simile al colore dei miei. Poi del fumo, l'immagine di prima schiarisce tra il grigio della foschia e i verdi occhi piangono, sangue.
Rosso, rosso sangue. Cola sulle guancie pallide dell'ombra, in forte contrasto con il nero che tutto circonda, scende piano trasformandosi in petali, petali di una rosa, che impallidisce e diviene bianca, pallida, il nulla.

        Il sole dell'indomani mi svegliò, guardai l'ora, erano le sei del pomeriggio, avevo involontariamente risaltato la scuola, molto bene. Dopo un'abbondante colazione e una lunga doccia, mi misi a studiare, ma un pensiero fisso mi distraeva: Perchè il sogno era cambiato? Dal giorno del funerale era sempre stato lo stesso identico incubo, cosa era cambiato quel giorno?
Decisi di prepararmi una camomilla per calmarmi un po' e magari uscire a fare due passi, tanto un giorno in più o un giorno in meno di studio non avrebbe di certo fatto la differenza sui miei voti.
Versai la camomilla in un bicchiere di cartone e uscii di casa. La sera era abbastanza gelida, il vapore che usciva dalla mia bocca ad ogni mio respiro me lo fece intuire, anche se la camomilla e la sciarpa pesante mi scaldavano abbastanza da non farmi sentir freddo. Mi fermai nei giardini di Sefton Park e mi sedetti su una panchina, presi una sigaretta dal pacchetto che avevo precedentemente messo in una tasca del giaccone e l'accesi. Il buio era ormai sceso, le giornate iniziavano a diventare sempre più corte, guardai distrattamente la luna, il parco era vuoto, illuminato da qualche lampione e i fari di una macchina parcheggiata tra due alberi. Dopo qualche secondo, la portiera dell'auto si aprì e ne uscì un ragazzo, alto, riccio. Lui. Il mio nuovo compagno di classe. Si avvicinava lentamente, a testa bassa e quando arrivò a due centimetri dai miei piedi, mi guardò. I suoi occhi. Subito fui assalito da una paura inspiegabile, lo stesso verde della mia ombra, mi guardava e solo dopo qualche interminabile minuto si decise a parlare: "Hai un accendino?"
La sua voce era roca e bassa, eccitante direi.
Gli porsi l'oggetto e tornai a guardare il vuoto, cercando di calmarmi, anche se l'ambiente e quegli occhi mi sapevano fin troppo famigliari. Al contrario di come avevo previsto, non si accontentò dell'accendino e si sedette accanto a me e continuò a parlare: "Sei nella mia stessa classe di Trigonometria."
Sembrava un'affermazione più di una domanda, quindi non risposi e feci cenno con la testa di aver capito, anche se ero seriamente interessato a sapere come avesse fatto a vedermi se non aveva mai alzato la testa da quel maledetto banco.
"Figo!" Esclamò mentre sputava il fumo della sigaretta.
Mi limitai a guardarlo e feci lo sbaglio più grande della mia vita, aveva i lineamenti di una scultura costruita dal più bravo scultore, uno sguardo disegnato dal più bravo artista, delle labbra scolpite dal più fantasioso tra gli ideatori, era perfetto nella sua oscurità.
"Hai ancora molto?" Sorrise, facendomi l'occhiolino, forse dovevo averlo fissato per un tempo troppo lungo, arrossii rapidamente e ringraziai il buio della notte per non averlo reso noto ai suoi occhi.
"Scusa!" Mi voltai rapido.
"Non devi scusarti, con quegli occhi celesti potresti farmi qualsiasi cosa!" Ammiccò e per un attimo ero talmente attratto da quella voce, che non capii neanche il doppio senso delle sue parole, dopo qualche secondo sorrisi stupito, gettai la sigaretta tra l'erbaccia del parco e senza dire niente me ne andai. Solo qualche metro dopo gridai: "Spero che un giorno la proposta sia ancora valida!" e lo salutai con un cenno della mano.

Le lezioni continuavano, anche quella di trigonometria, anche se il riccio non si presentava più a scuola dal giorno del nostro primo incontro. Le giornate erano noiose se non avevo nessuno da guardare mentre la professoressa parlava, avevo però recuperato parecchie materie, ora le uniche che mi rimanevano erano: Matematica e la stessa Trigonometria.
        Arrivò poi il giorno che, mentre passeggiavo per i corridoi durante l'ora di Storia alla quale non avevo voglia di partecipare, una mano mi afferrò per il braccio e mi spinse nel bagno. Un bacio mi investì le labbra e un corpo mi spinse al muro, quando la bocca si staccò, misi a fuoco che lo sconosciuto mi aveva appena baciato e, nonostante mi fosse piaciuto e l'avrei rifatto altre centinaia di volte senza mai riprendere fiato, gli lanciai uno schiaffo e gridai:
"Che cazzo fai?"
"Avevi detto che aspettavi il giorno che la proposta fosse ancora valida, bene, tu non te lo sei venuto a cercare e te l'ho creato io stesso, anche se con 'qualsiasi cosa' non intendevo uno stupido bacio."
Quindi per lui è stato solo uno stupido bacio? Io avevo lo stomaco a contorcersi, le mani che tremavano e gli occhi lucidi e per lui quello era stato solo un insignificante bacio?
Girai le posizioni e lo incastrai tra il muro e il mio corpo, anche se più esile e decisamente più basso, mi alzai in punta di piedi e lo bacia con foga, un bacio molto più lungo e passionale di quello precedente, uno assolutamente perfetto, tutto lingua e morsi, sorrisi e gemiti.
"Questo dovresti ricordartelo, a meno che non sia un altro dei stupidi baci che ricevi, ma credo che 'questi occhi azzurri' non li dimenticherai facilmente!" Lo lasciai così, a bocca aperta, scioccato dalla mia affermazione, con un sorriso stampato in faccia, lo stesso che la sera prima di addormentarmi iniziò a tartassare me.

"Cosa desidera?" Chiesi quanto sentii la porta della panetteria aprirsi, senza neanche staccare gli occhi dalla cassa che aveva improvvisamente scelto di non funzionare.
"Due occhi azzurri, grazie!"
Alzai la testa di botto, fissando incredulo il cliente, non mi era servito guardarlo per capire chi fosse, la sua voce non poteva appartenere che a lui, la mia presunta ombra.
Ansia, non era più la paura che mi assaliva a quel suono o ogni volta che sentivo i suoi passi dietro di me, era una forte e interminabile ansia.
"Allora? Che servizio scadente che avete da queste parti.." Si lamentò scherzosamente, notando la mia poca attenzione nei suoi confronti.
"Cosa vuoi?" Cercai di apparire il meno scontroso possibile, anche se quel sorrisino bastardo sulle sue labbra mi stava invitando a oltrepassare il bancone e prenderlo a pugni.
"Voglio...un caffè, con te." Puntò il dito verso di me, come se gli fosse venuto improvvisamente un lampo di genio, teneva gli occhi fissi nei miei e avrei giurato che stava cercando di interpretare il mio sguardo, il quale era a metà tra il sorpreso, l'infastidito e il contento.
"Qui si vende pane, pizza, panini.. non caffè? Vedi forse una macchinetta o una caffettiera?" Sputai isterico, quelle fossette a decorare il suo sorriso mi stavano facendo decisamente innervosire, come si permetteva di venire nel mio posto di lavoro?
"Io andrò in un bar e tu verrai con me." Affermò sicuro di se con un tono da sfida.
"Contaci." Mi voltai infastidito, indaffarato con lo scontrino che nel momento meno esatto aveva deciso di disfarsi e incastrarsi all'interno della cassa, mentre cinque o sei clienti mi richiamavano e un moccioso dagli occhi verdi mi importunava. Meravigliosa giornata, oserei dire.
"Il cliente ha sempre ragione, ricordi?" Cantilenò soddisfatto, con un sopracciglio alzato.
"Devo lavorare." Tagliai corto.
"Te ne pentirai ragazzino!"

Erano le sei e mezza quando decisi di chiudere il locale, ormai non avevo più clienti da una mezzoretta ed ero sicuro che non sarebbe venuto nessun altro, quindi tirai giù la serranda, pulii il bancone e andai sul retro a sistemare alcuni affari.
"Luke puoi andare a casa, per oggi può bastare, torna pure dalla piccola Dercy, ci penso io a fare la chiusura!" Gridai al mio panettiere di fiducia, da una stanza all'altra, poco prima di svoltare verso il mio ufficio, chiudendo poi la porta a vetri alle mie spalle. Iniziai a sfogliare i vari fascicoli,di cui prima si occupava mio padre, tutta la parte finanziaria del locale: tasse, stipendi, acconti. Improvvisamente un boato si alzò dal salone principale della panetteria, immediatamente mi recai nella medesima stanza a controllare cosa fosse successo, piano mi avvicinai alla porta, a luci spente, il locale avrebbe dovuto essere vuoto, tutte le porte erano chiuse con tanto di serrande abbassate; la grande stanza era ancora ordinata, nulla fuori posto, tranne una cosa, il violino di mia madre era a terra e mi sembrò molto strano il fatto che fosse ancora intatto, cadere da un'altezza tale avrebbe dovuto ridurlo in pezzi o almeno scheggiarlo visto che era uno strumento vecchio almeno di vent'anni, invece era insolitamente intatto e sembrava quasi poggiato al muro con cura, mi guardai intorno preoccupato, esaminai ombra su ombra, in cerca di quegli occhi verdi, che dal giorno del funerale di mio padre mi perseguitavano ovunque. Nulla. Tornai in ufficio, cercando di calmarmi e terminai di inserire gli ultimi pagamenti nel database, dopo di che, presi il giaccone, spensi l'ultima luce e uscii, ma nel momento in cui stavo per chiudere la porta, un nuovo trambusto si udì nell'altra stanza e il rumore di passi pesanti iniziò ad avvicinarsi, accesi nuovamente la luce per controllare se qualcuno fosse arrivato nel mio ufficio, anche perchè era l'unica via d'uscita, considerando che le altre erano tutte ormai sbarrate, ma il rumore cessò immediatamente e pensando che forse il troppo lavoro mi aveva davvero snervato, chiusi definitivamente la porta. Camminai svelto verso il parcheggio, ma di tanto in tanto mi giravo per vedere se qualcosa di strano si intravedeva, ma una porta-finestra con delle tapparelle interne chiuse era la solita scena che mi trovavo ad osservare per una, due, tre volte, fu alla quarta che persi un battito: due stecche della tapparella erano aperte e degli occhi verdi spiccavano nel buio della notte da dietro alla porta, l'ombra.. era nel mio ufficio.

L'aria fresca e i raggi caldi del sole appena sorto mi fecero svegliare, guardai l'orologio accanto al letto, le sette e mezza, in perfetto orario per una buona colazione! Dopo essermi fatto un bagno andai in cucina, i capelli ancora gocciolanti sulle mie spalle, scalzo e coperto solo da un asciugamano intorno ai fianchi, mi preparai del thè e mi sdraiai sul divano, per un attimo mi tornò in mente l'ufficio, gli occhi verdi, la finestra. Mi sbrigai a finire il mio tè, al diavolo la meravigliosa colazione, mi infilai un paio di jeans neri e una T-shirt bianca della Vans, le solite scarpe della stessa marca e corsi in panetteria, nel caso l'ombra fosse davvero rimasta intrappolata lì, a questo punto l'avrei dovuta ritrovare esattamente dove l'avevo lasciata. Aprii la porta di colpo e trovai Luke indaffarato a preparare le ricette del giorno, mi guardò con aria interrogativa e dopo qualche secondo, notando la mia agitazione e il mio sguardo truce in giro per il locale, parlò: "Qualche problema Lou?"
"No, nessun problema, hai visto qualcosa di strano quando sei arrivato?"
Scosse la testa. Mi diressi verso il mio ufficio, aprii piano la porta, vuoto, esattamente come l'avevo lasciato. La mia testa iniziò a vagare 'possibile che me lo sia solo sognato?' 'No! Sono sicuro di ciò che ho visto!' 'Sto impazzendo? Alla fine non è la prima volta che sento rumori o vedo quei dannati occhi anche in stanze vuote.'
Il mio cellulare iniziò a vibrare,zia. Attaccai con  un gesto automatico, ma i miei occhi si poggiarono sull'ora in alto allo schermo, stavo facendo l'ennesimo ritardo a scuola, chiusi nuovamente la porta e uscii fregando una pizzetta dal bancone della sala principale. Mi catapultai fuori dal locale e inciampai sugli scalini, e visto che piove sempre sul bagnato, per evitare un cane, o meglio un topo viste le dimensioni, che mi stava tagliando la strada caddi a terra, imprecai varie volte prima di raccogliere i fogli che mi erano volati via dalla cartella e notai una scritta rossa su uno di essi, un numero: 1711. Non ci feci molto caso, troppo impegnato ad evitare la ramanzina della preside sui miei continui ritardi e non appena arrivai a scuola, un cappellino da baseball, dei ricci castani che si intravedevano sotto di esso e due spalle 'mozzafiato' mi si fiondarono davanti.
"Che fai stasera?"
"Devo lavorare Mr Telafacciopagare"
"Mmh, vacci piano con le parole ragazzino, vengo a trovarti verso le otto!"
Senza darmi neanche il tempo di replicare si allontanò correndo.
"Non ci provare.."
Provai a gridare, ma il moccioso si era già dileguato.

Le lezioni furono pallose, ma il pensiero che solo due giorni dopo ci sarebbero stati i due giorni di pausa per il primo e il due novembre mi faceva affrontare la giornata con più tenacia. Alle una in punto la campanella suonò per mia grande gioia e io corsi al locale, diedi il cambio a Luke e iniziai a studiare dietro il bancone in attesa di qualche cliente, ogni tanto mi guardavo in giro ancora scosso dall'incubo del giorno prima, ma la panetteria risultava sempre in ordine. Verso metà giornata la porta si aprì e tre signore anziane entrarono, ordinando qualche pezzo di pizza, poco dopo un bambino mi chiese dei pasticcini e una donna di mezza età delle baguette di pane e, come promesso, verso le otto meno dieci un alto riccio dagli occhi verdi entrò nel locale, sfoggiando uno dei suoi miglior sorrisi.
"Hey biondo, quando stacchi?"
"Non sono biondo, verso le nove!"
"E' un modo di dire, antipatico!" scavalcò il bancone come se nulla fosse e si sedette accanto a me.
Dopo qualche minuto di eterno silenzio, decisi di iniziare a pulire il locale, con grande sorpresa il riccio mi aiutò a spazzare il pavimento, alzare le sedie sopra i tavoli e a portare fuori le sacche di pane non vendute. Più lo guardavo, più mi rendevo conto che conosceva quel posto meglio di me, troppo bene per essere la prima volta che metteva piede lì, le mani iniziarono a tremarmi a tale pensiero e cominciai a sudar freddo, decisi però di tenere la bocca chiusa e di velocizzare i lavori in modo da uscire il prima possibile dalla panetteria. Verso le nove, chiusi la porta dietro di me, rimanendo a guardare il vetro della finestra, pensare a ciò che era successo il giorno prima ancora mi terrorizzava, guardai il mio riflesso e non vedendo nessuno dietro di me, mi voltai, un po' preoccupato che il riccio se ne fosse andato, ma, forse con un po' di gioia, lo trovai poco dietro di me e senza voltarmi una seconda volta inizia a camminare, sentendo i suoi passi dietro di me.
"Cosa vuoi da me?"
"Che tu venga con me!" sorrise spavaldo.
"Se per oggi ti dico di sì, mi prometti che non mi tormenterai più?"
"Non posso!" disse abbassando lo sguardo, per un attimo sembrò che avesse perso tutta la sua sicurezza.
"Perchè non puoi?" mi allarmai.
"Lo vuoi davvero?" disse sicuro, alzando lo sguardo e facendolo combaciare con il mio.
Tutte le mie certezze di volerlo fuori dai piedi iniziarono a vacillare quando vidi quella luce all'interno dei suoi occhi, c'era qualcosa di dannatamente sovrannaturale in lui, qualcosa che mi attirava  e mi impauriva nello stesso tempo.
Decisi così di accettare l'invito a passare una serata con lui, ammaliato dalla sua bellezza, una chiacchiera al bar non ha mai ucciso nessuno dopo tutto.

La serata si fece interessante quando, dopo aver fatto il coglione una mezz'ora, vantandosi del fatto che ero caduto nel suo fascino, iniziò a parlare di lui. Mi disse che era orfano, proprio come me, che la sua famiglia era morta in un incidente e che nella sua vita la fortuna non era mai stata dalla sua parte, parlò del fatto che la madre era rimasta incinta a causa di una violenza da parte di un uomo con cui si frequentava, uno dei tanti aggiunse sorridendo, mentre parlava di tutte le tragedie che gli erano avvenute, era calmo, aveva come una pace interiore dentro di se che regnava sul racconto, un sorriso tranquillo che faceva calmare anche me, uno strano potere quasi divino. Mi chiese come fossero morti i miei genitori e senza neanche batter ciglio sputai tutto fuori, era come se non fossi padrone della mia bocca, tutto ciò che lui chiedeva, era per me un invito a sfogarmi, in quel momento, in quel preciso istante in cui il suo sorriso mi intimò di continuare a parlare, mostrando due meravigliose fossette sulle guancie, e i suoi occhi mi guardarono le labbra, io mi innamorai.
 

Per intere settimane tutta la mia vita si incentrò su quel ragazzo dagli occhi verdi. Passare del tempo con lui era piacevole, mi sapeva calmare, mi capiva.
Il 17 Novembre fu uno dei giorni che ancora ricordo, era un venerdì e io non ero mai stato una persona superstiziosa fino ad all'ora, la mattina andai a scuola, il riccio non era presente e, come di consuetudine, ogni volta che lui mancava a me veniva una voragine nel petto, non era però una stupida cotta adolescenziale, ne la tristezza per non avere un compagno di banco, era un vuoto, come se una parte di me fosse assente, era una mancanza. Il pomeriggio mi raggiunse alla panetteria e per la prima volta dopo tutte queste settimane che continuavano le nostre frequentazioni mi chiesi come mai lui fosse sempre solo, gli chiesi se aveva degli amici a parte me e lui non rispose, cambiò argomento e si incupì.
"Che facciamo dopo?" Chiese distaccato, non mi era mai apparso così freddo.
"Ti va di andare a farci un giro?" Ero insicuro se chiederlo o meno, quel giorno avevo una sorta di paura nel guardarlo, mi sembrava diverso, più pericoloso e freddo.
Non rispose, annuì e rimase in silenzio, pensieroso.
Verso le nove chiusi il locale come da routine e mi venne spontaneo guardare il violino di mia madre prima di chiudere la porta e quella frase incisa sopra mi diete la forza di continuare ad affrontare quella giornata. Camminando mi ritrovai nel ponte che portava al cimitero e mi prese quasi un colpo al cuore quando mi resi conto di che strada stavamo percorrendo, lo guardai incuriosito sul dove fossimo diretti e lui non ricambiò il mio sguardo.
"Non avrai mica paura dei cimiteri? Sei uno di quei ragazzi codardi che scappano appena sentono un rumore di notte? Che chiudono serrande e finestre se sono in casa da soli?" Quell'ultima frase mi riportò alla mente ciò che era successo nel mio ufficio poco prima di conoscerlo e iniziai ad agitarmi.
"No che non lo sono. Ma di tanti posti in cui possiamo stare, proprio qua?!"
"Qui mi sento a casa e dovrebbe essere anche la tua, pensaci, i nostri genitori è qui che sono, i loro spiriti, i loro corpi, la loro anima è qui che giace. Non è magnifico pensare che stare qua ti rende più vicino a loro?" Quel discorso stava iniziando a degenerare. Mi guardai intorno per esaminare le varie ombre e ogni volta che associavo il buio della notte a quegli occhi verdi, il riccio mi assomigliava sempre di più al mio incubo peggiore.
"Vuoi che sia sincero? Penso che tu sia pazzo!"
Il riccio sorrise, alzò lo sguardo e "Vorrà dire che lo sei anche tu." rispose.
Ci misi vari mesi a capire quella frase, ogni volta che ci ripensavo, il tono, le parole, gli occhi, i movimenti mi sembravano sempre meno umani. Cercai di non farci caso per molto tempo fino a quando in un giorno di Aprile, la professoressa di storia ci assegnò un compito, avevamo libero accesso agli archivi e incuriosito cercai il giorno 17 Novembre di cinque anni prima, non fu una data scelta, l'istinto mi disse di prendere esattamente quell'anno e forse fu quello il giorno in cui iniziai a credere che tutto alla fine succede per una ragione.

Harry Styles, il diciassettenne accoltellato dal padre non è sopravvissuto alla notte, ci lascia così dopo una terribile tragedia il ragazzo dolce e solare che tutti gli amici ricordano con striscioni e cartelloni lungo Leta Street dove risiedeva il ragazzo. Harry aveva da poco perso la madre in un incidente d'auto. A quanto risale dalle indagini il padre, tornato a casa ubriaco, dopo una nottata di gioco estremo, a causa di un lapsus avrebbe accoltellato il figlio per non aver ripulito la camera, dopo l'incidente l'uomo si sarebbe suicidato con tre coltellate sul collo.

Le parole scritte su quel giornale mi fecero sobbalzare il cuore in gola, ma quello che più mi colpì fu la foto. Harry corrispondeva al ragazzo dai ricci stupendi, al mr tenepentirai, all'ombra, al ragazzo che da mesi ormai condivideva il mio letto, la mia routine, la mia vita. Decisi così di correre verso la strada scritta nell'articolo, poco lontano dall'archivio e i vari cartelloni non fecero altro che confermare tutto ciò che pensavo, il mio riccio era morto cinque anni prima. Percorsi l'intera strada dopo di che vidi una chiesa, entrai anche se nella mia vita l'unica certezza era sempre stata che nessun Dio sarebbe mai esistito, nessuna divinità mi avrebbe fatto passare tutto l'inferno della mia infanzia. Mi sedetti alla fine delle varie panche e guardai fisso il nulla, cercai di capire anche se una vera spiegazione non l'avrei mai trovata, l'altare era esattamente di fronte a me, era maestoso e decorato con candele bellissime, accanto ad esso vi era la statua della madonna con uno specchio in mano, dove vedevo riflettere la mia immagine particolarmente pallida. Una mano mi sfiorò la spalla e quando mi girai accanto a me, seduto con le lacrime agli occhi, vi era il riccio.
La mia prima impressione non fu quella di aver paura, ma quella di prendergli la mano, era maledettamente fredda, ma la sentivo, era lì, sopra la mia, sentivo le ossa, il sangue passare, ma facendoci più caso mi resi conto che non c'era battito sul polso, fissavo le nostre mani e vidi una lacrima cadere sopra al mio braccio.
"Ora pensi ancora che sia io il pazzo?" Affermò calmo, era triste ma portava il suo solito bel sorriso e le sue fossette ben in vista.
Non risposi, non sapevo esattamente cosa dire, milioni di domande mi frullavano in testa, ora che la situazione mi era chiara avevo anche la metà delle risposte, effettivamente tutte le volte che eravamo insieme lui cercava di non frequentare posti affollati, non aveva amici ne familiari, era solo. Era un'ombra, solo un'ombra nera.
"Perchè io?" Mi uscì senza neanche pensarci.
"Non c'è un motivo, ti ho visto il giorno del mio incidente, il pomeriggio che io fui ucciso ero tornato da poco da un concerto e ti avevo notato, eri sudatissimo e felice, eri esattamente il mio posto. Quando arrivai a casa cercai di risalire al tuo nome, ma mi fu impossibile, ma mi resi conto che nel quartiere c'era solo una scuola che era presente a quel concerto ed era la tua, insomma la nostra ora. Ma non feci in tempo ad organizzare l'incontro, poco dopo entrò mio padre in stanza urlando come un matto e con un coltello da carne in mano, non mi sarei mai aspettato che quello che doveva tagliare ero io."
Disse l'ultima frase quasi ridendo, come se tutto ciò fosse solo uno scherzo.
"Guarda" sussurrò, si alzò la maglietta e si abbassò di poco i pantaloni per far vedere un profondo taglio tra le costole e uno poco sopra l'anca. "E' il motivo per cui non sono mai venuto a letto con te, finché non trovavo il coraggio di dirti chi sono davvero, non avrei potuto spiegarti questi" Li toccai quasi involontariamente e provai solo un forte sentimento di compassione e di tristezza.
"Abbassa la maglietta siamo in chiesa, per quanto sia ateo è irrispettoso, penso.."
"Non lo hai ancora capito? Solo tu mi vedi, io per gli altri non esisto e non so neanche il motivo per il quale tu riesca a vedermi"
Quello che stava accadendo avrebbe dovuto mandarmi in pappa il cervello, ma in realtà era come se già sapessi tutto, ero sconvolto ma non più di tanto, l'unica cosa che volevo era che Harry rimanesse.
"E' il motivo per il quale non mi hai mai detto il tuo nome?"
"No, quello non l'ho fatto perchè non lo hai mai chiesto! Dopo un po' il gioco dei soprannomi è diventato divertente e ho evitato di infangare le cose o farti venire dei dubbi, purtroppo la mia storia è molto famosa in questo quartiere.."
Le nostre mani erano ancora intrecciate, le guardai un'ultima volta prima di avvicinarmi alle sue labbra, nel momento in cui mi staccai vidi il prete a pochi passi da me con un'espressione confusa sul volto: "Vuoi confessarti ragazzo? C'è qualche problema?"
Feci cenno che non ne avevo bisogno, alzai gli occhi verso lo specchio retto dalla madonna e fu la prima volta che mi resi conto che il riflesso di Harry non c'era, mi alzai di corsa per fuggire alle buone maniere del prete e uscii dalla chiesa per mano con il riccio.
Arrivati a casa andai in camera e prima che Harry arrivasse alla porta lo ritrovai seduto sul letto con la testa bassa.
"Promettimi che non avrai paura di me e non mi giudicherai, promettimi che non cambierà nulla. Mi sedetti accanto a lui e lo guardai negli occhi, sembrava quasi impaurito dalla mia risposta.
"Vieni!" Presi la sua mano e lo misi di fronte a me davanti allo specchio.
"Non cambierà assolutamente niente." Ed ecco che sentii il calore della sua mano sulla spalla, mi focalizzai sui suoi capelli ricci, gli occhi verdi, sembrava così reale, lo spingevo, lo toccavo, lo abbracciavo, ma quando si trattava di stare qui, davanti ad uno specchio, era me che tastavo, l'aria che sentivo, il vuoto che stringevo.
Volevo solo una persona nella mia vita e questa mi era stata portata via prima ancora che io potessi desiderarla.
Fu nell'esatto momento che accettai il fatto che Harry non era altro che un'ombra con cui avrei dovuto convivere, che sparì.

 

 

 

Ciao ragazzi, se siete arrivati fino a qua vi ringrazio immensamente e vorrei che mi scriveste qualcosina per farmi capire se la storia vi è piaciuta o meno, ogni critica è ben accettata. Grazie ancora per la vostra pazienza e per chi fosse così pazzo da voler leggere qualcos'altro scritto da me, basta andare sul mio Account. Grazie mille ancora e bacioni a tutti :* P.s. scusate eventuali errori/orrori di ortografia o di grammatica, non ho riletto la storia :)
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: My name is Freedom