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Autore: Blakie    22/08/2015    7 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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And we'll
be good
capitolo 2


Ci provai, nel mese successivo, a sentirmi a casa lì ad Alexandria: fu incredibilmente dura, molto più di quanto mi sarei aspettata.
La prima notte io e Noah dormimmo nel salotto della casa che era stata assegnata a lui;
dormimmo per modo di dire. Per quanto mi sforzassi di ripensare alla gentilezza di Aaron e alle parole rassicuranti di Deanna, non riuscii a chiudere occhio. Ogni minimo rumore mi faceva scattare e attendere il momento in cui qualcuno avrebbe sfondato la porta e ci avrebbe assaliti. Essere disarmata, inoltre, non mi aiutava a stare più tranquilla. Ma non successe mai nulla, nemmeno nella settimana successiva, e all'ottavo giorno ero talmente stanca e distrutta che dormii per dodici ore, dalle sette di sera alle sette del mattino successivo, in casa "mia".
Per me e Noah fu molto difficile abbassare la guardia dopo che, per un anno e più, aprire gli occhi la mattina significava stare in costante allerta, col pericolo sempre in agguato e con la speranza di riuscire ad arrivare vivi a fine giornata. La sopravvivenza non era una cosa affatto scontata, là fuori, per questo fu strano rimettersi nell'ordine delle idee che ora avevamo di nuovo una vita più o meno normale.
Inoltre, mi mancava la mia famiglia, fino a star male. Sapere che loro erano ancora là fuori mentre io ero lì, al sicuro, mi faceva scendere una lacrima tutte le notti prima di addormentarmi. I primi giorni non ero nemmeno riuscita ad alzarmi dal letto. Ero diventata più taciturna e avevo perso la voglia di cantare, perché il mio cervello era impegnato il novanta percento del tempo a pensare a come trovarli e salvarli. Avevo cercato di descrivere ad Aaron ed Eric le persone da cui era composto il mio gurppo, una ad una, per fare in modo che fossero riconoscibili per i miei due amici (ormai questo erano diventati per me) reclutatori. In un mese, Erano usciti dai cancelli di Alexandria tre volte, e tutte e tre le volte non avevano portato notizie di loro, non li avevano visti.
Ma noi eravamo pronti ad accoglierli.
Eravamo persino riusciti a scattare un'altra fotografia che mi ritraeva davanti ai cancelli di Alexandria, in modo che Rick e gli altri non pensassero che fosse un trucco di Aaron per attirarli in trappola.
Per fare in modo che Aaron ed Eric venissero presi sul serio dalla mia famiglia, ebbi l'idea di scrivere qualcosa nel retro della mia fotografia.

Alla mia famiglia:
sono viva, sono al sicuro e sto bene: l'unica cosa che mi manca qui siete voi.
Vi aspetto tra le mura di Alexandria. Vi voglio bene.

Beth
Ps: esistono ancora brave persone

Richiusi il pennarello, sperando con tutte le mie forze che la foto, le mie parole e quelle di Aaron servissero a convincerli che non era tutto un trucco e che stavo bene. Sperai soprattutto che il post scriptum per Daryl servisse come prova del nove: solo e io lui sapevamo il significato dietro quelle parole, nessun altro ad Alexandria avrebbe potuto riferirsi al nostro ultimo discorso. Sperai che sarebbe servito, di più non sapevo cosa fare.
L'unico modo in cui riuscivo a liberare la mente era lavorare come infermiera nel piccolo ambulatorio della zona sicura, affiancata dal medico-chirurgo Pete e dalla sua assistente, Josie. Passavo più tempo con Josie, infermiera anch'essa, che si premurava di istruirmi su tutto quello che mio padre non aveva fatto in tempo a insegnarmi; ma era successo anche che andassi a casa di Pete, per cenare con la sua famiglia. Jessie, sua moglie, era una donna giovane e deliziosa, così come i suoi figlii Sam e Ron erano educati e sapevano metterti a tuo agio; fu una bella serata, anche se qualcosa, nei modi materni con cui Jessie accolse a cena me e Noah, mi scavò un senso di vuoto nello stomaco.
Noah invece aveva trovato in Reg, marito di Deanna, un mentore che lo guidasse nello sviluppo della sua passione per l'architettura, della quale non ero a conoscenza e che mi sorprese. Passavano molto tempo insieme, discutendo su quale fosse il modo migliore per rinforzare le mura di Alexandria e dove trovare i materiali giusti, il tutto studiando, sulle mappe a loro disposizione, i dintorni circostanti la zona sicura. Per rendersi attivamente utile alla comunità, Noah si univa ogni tanto - quando Reg lo permetteva - alla squadra addetta alla ricerca di provvigioni e scorte. Avrei voluto unirmi a loro e non dover sempre aspettare il suo ritorno in preda all'ansia, ma quando avevo avanzato la richiesta, Deanna, seppur con gentilezza, mi aveva negato il permesso, ribattendo che la comunità necessitava la mia presenza
.
Ma rimanere entro le mura significava non fare nulla di entusiasmante per la maggior parte del tempo. Certo, ero grata per il lavoro che Josie stava facendo con me e l'attenzione con cui mi insegnava tutto ciò che sapeva: il problema era che non avevo modo di metterlo in pratica. Era una fortuna che la salute degli abitanti di Alexandria fosse tanto buona, ma in un mese mi ero occupata di aiutare prettamente persone anziane con i fastidi dovuti all'età e bambini che non avevano reagito bene al freddo che avanzava di giorno in giorno. Mi sentivo inutile.
Deanna lo sapeva, per questo, una mattina nuvolosa e piatta, era arrivata all'ambulatorio chiedendo a Josie se poteva sequestrarmi per un po'. L'espressione interrogativa era permeata sul mio volto finché non eravamo arrivate davanti al garage dove i bambini più piccoli avevano scuola, e Deanna li aveva salutati con un sorriso, annunciando: «da oggi in poi, ogni mercoledì, avrete una lezione speciale con Beth, la vostra nuova insegnante di musica».
Io l'avevo guardata con gli occhi spalancati, mentre i pochi bambini presenti sorridevano entusiasti assieme a Samantha, la loro maestra.
«Perché?»: ero riuscita a domandare solo questo, esterrefatta.
«In questo mondo si sta dimenticando l'importanza della musica. Non voglio che i bambini di oggi diventino adulti di domani che non sanno con quali canzoni far addormentare i propri figli», aveva spiegato, come se fosse la risposta più scontata da dare. La risposta più bella che mi potesse dare.
«Ti sono veramente grata, Deanna, ma... senza di loro, io...», avevo sussurrato, gli occhi che si riempivano di lacrime. «Non credo di riuscire più a cantare». 
Mi aveva messo una mano sulla spalla come gesto di conforto. «Se non te la senti posso capire, ma almeno pensaci. Non ti vedo affatto bene, Beth, e non sono l'unica a pensarlo», aveva replicato con lo sguardo preoccupato, riferendosi chiaramente ad Eric, Noah ed Aaron. Per un secondo avevo pensato che anche Aiden si fosse accorto del mio stato d'animo: dopo avermi conosciuta alla festa di benvenuto che Deanna aveva organizzato appositamente per me e Noah, ogni scusa sembrava essere buona per parlarmi o passare del tempo con me. Era un bravo ragazzo, più grande di me di qualche anno, e ancora non avevo capito se da me cercasse un'amicizia o qualcosa di più – o fingevo di non capirlo; ero certa solo del fatto che non ne avessi voglia. Più volte avevo reclinato i suoi inviti, persa com'ero nella mia bolla di malumore: sopportavo solo la compagnia di Noah e dei due reclutatori, o di Josie; in certe giornate, nemmeno quella.
«Sto bene», avevo detto, mentendo spudoratamente. «Credo solo di aver bisogno di tempo, ma ti prometto che ci penserò».
Deanna mi aveva sorriso. «Quando avrai preso una decisione dimmelo, qualunque essa sia».
Quella sera riflettei molto sulla proposta di Deanna, fissando il vuoto del soffitto comodamente stesa sul mio matrimoniale. Ogni volta che pensavo ad un motivo valido per accettare, la paura mi faceva fare un passo indietro; non sapevo esattamente cosa mi spaventasse o cosa mi facesse credere che non ne sarei stata in grado. Semplicemente, cantare non mi veniva più naturale come una volta: era questo che mi faceva davvero paura, che mi immobilizzava. La tristezza che mi provocava essere lontana dalla mia famiglia mi stava impedendo di fare ciò che amavo di più, e mi sembrava di non avere nessun mezzo per cambiare quella situazione. Ero prigioniera della mia stessa mente.
Forse, se avessi provato a ricominciare, ad andare al mercoledì successivo ce l'avrei fatta, questo pensai. 
E poi, così dal nulla, improvviso come un lampo nel cielo sereno d'estate, mi tornarono in mente la luce delle candele, i tasti d'avorio sotto le mie dita e la presenza di Daryl alle mie spalle che mi ascoltava in silenzio. Nella mia testa vissi di nuovo quell'episodio, avvertendo nel mio cuore un senso di sollievo; questa era una delle emozioni che mi provocava il pensare a lui: pace. Ricordai gli occhi di Daryl fissi nei miei, mentre si accomodava nella bara e mi esortava a continuare a cantare: era stato uno sguardo molto simile a quello che ci eravamo scambiati nella cucina, poco prima di separarci.
Intenso, confortevole e di difficile interpretazione, quasi quanto lo erano i sentimenti che mi suscitava qualunque cosa avesse a che fare con Daryl Dixon.
«Continua... continua a suonare. Canta».
Il suo suggerimento trascese il ricordo ed arrivò al mio cuore con un senso tutto nuovo: era come se allora mi avesse dato un consiglio che avrei dovuto seguire sempre, nonostante tutto. Qualunque cosa fosse successa, anche quando non ci sarebbe stato lui a proteggermi, avrei dovuto continuare a cantare, perché era questo che facevo io, questo che avevo sempre fatto: cantare, sempre. Andare avanti e vivere, sempre.
Il ricordo si srotolò davanti ai miei occhi finché non vidi me stessa esaudire la sua richiesta e iniziare a cantare, accompagnata dalla dolce melodia del pianoforte; senza che me ne accorgessi, la mia voce uscì da quel ricordo e mi ritrovai a muovere le labbra.
«
We'll drink up our grief and pine for summer», intonai, a bassa voce, con un lieve sorriso che sentii far capolino sulle mie labbra, «And we'll buy a beer to shotgun, and we'll lay in the lawn, and we'll be good... And we'll be good».
La mattina seguente, dopo quelle parole canticchiate, mi sentii più ben disposta nei confronti della proposta di Deanna: anzi, mi diede qualcosa di nuovo di cui occuparmi, un nuovo obiettivo, che per una volta non aveva a che fare con la routine dell'ambulatorio. Due mattine dopo mi ritrovai, quasi senza accorgermene, a segnare su un foglio tutte le canzoni che avevano fatto da sottofondo alla mia infanzia e che ero solita cantare assieme a Maggie e alla mamma. L'ambulatorio era vuoto come spesso accadeva, perciò ebbi tutto il tempo di pensare a cosa avrei potuto far cantare ai bambini, a come strutturare le lezioni e a come trovare un compromesso tra le diverse età dei miei piccoli allievi.
L'imbarazzo che provai quando mi presentai alla porta di Deanna per comunicarle la mia decisione era evidente, soprattutto a lei. Non ero sicura che fosse la scelta giusta, ma ero sicura del fatto che fosse giusto almeno provarci. Deanna accolse la notizia con entusiasmo, riservandomi persino uno sguardo orgoglioso. Iniziavo a credere che quella donna ci tenesse davvero a farmi diventare parte integrante della comunità, a prescindere dal fatto che li aiutassi con la sopravvivenza là fuori o meno. Che ci tenesse davvero a me.
Col mio verdetto, le portai anche la piccola lista di canzoni che avevo stilato, in modo da avere un suo parere a riguardo: ne discutemmo insieme e programmammo per bene gli orari e la struttura delle lezioni. Mi chiese se avessi bisogno di qualche strumento e - non senza un certo imbarazzo - le chiesi se potevo avere un pianoforte o una chitarra. Deanna si offrì di spostare il pianoforte che teneva in salotto nel garage adibito a scuola, aggiungendo che per la chitarra avrei dovuto chiedere ad Aiden, che mi avrebbe senz'altro prestato la sua.
Andai da Aiden il pomeriggio stesso, tanto per togliermi il pensiero, e la faccia sbattuta che mi ritrovai dopo aver passato due ore buone a cercare di dileguarmi fece ridere Noah; era venuto a prendermi perché quella sera eravamo invitati a cena da Eric: si sentiva solo dato che Aaron era uscito là fuori per cercare nuove persone e lui non aveva potuto accompagnarlo per una storta che si era procurato durante un'altra missione. Non ci avevo messo molto a scoprire che erano una coppia: una
bella coppia, a dire il vero.
«Ce l'hai fatta a liberarti», esclamò, con le mani infilate nelle tasche della giacca.
Feci una smorfia infastidita, alzando gli occhi al cielo. «Non so quante volte gli ho detto che dovevo andare. Trovava sempre una scusa nuova per trattenermi», mi lamentai, iniziando a camminare al suo fianco.
Noah rise, arruffandomi i capelli in un gesto affettuoso. «Le persone diventano pedanti quando prendono una cotta per qualcuno, non lo sapevi?», affermò con tono malizioso.
Sbuffai mentre mi sistemavo il disordine in testa regalatomi dal mio amico, stringendomi poi nel maglione. «Non ha una cotta per me», ribattei, per niente convinta.
«Come no, Greene! E' già tanto se non gli vengono gli occhi a cuore quando ti vede», disse, ridendo ancora.
Gli colpii il braccio con la mano. «Smettila, Noah!».
Se mi sforzavo di ignorare le prese in giro di Noah e l'insistenza imbarazzante di Aiden, mi resi conto che alla fine ero felice di avere tutto pronto in vista di quella nuova occupazione. Avrei iniziato, come stabilito dal principio, il mercoledì successivo dopo la pausa di metà mattina, dalle undici a mezzogiorno, cominciando con solo un'ora di “lezione”, giusto per conoscerci.
Mercoledì mattina aprii gli occhi presto, in preda a una piacevole agitazione, quella che si sperimenta nel momento in cui si sta per fare qualcosa di nuovo: era tanto che non provavo un'emozione del genere, e fui ancora più contenta di aver accettato l'offerta di Deanna.
Cercai di fare tutto molto lentamente, in modo da far passare il tempo e resistere fino alle undici. Preparai la colazione e la consumai con finta calma, perdendo tempo a ripassare il programma che avevo preparato per quella prima lezione mentre sorseggiavo il caffè e sgranocchiavo i biscotti preparati da Jessie. Invece di lasciare le stoviglie nel lavandino come mio solito, addirittura le lavai appena finita colazione, dirigendomi poi al piano di sopra per scegliere i vestiti da mettere. Cambiai idea due o tre volte, optando infine per dei semplici jeans abbinati ad una maglia a maniche lunghe, abbellita da qualche inserto di pizzo – tutti indumenti che mi avevano fornito i volontari al guardaroba di Alexandria.
Sentivo di non essermi vestita nel modo più adatto, forse perché non assomigliavo affatto alle insegnanti che avevo avuto quando ancora andavo a scuola, vestite sempre eleganti e di tutto punto. Per qualche motivo volevo presentarmi al meglio, nonostante sapessi che non era poi così importante – per Samantha o per i bambini – il modo in cui ero vestita.
Dato che era ancora presto, decisi di acconciarmi i capelli in una treccia più elaborata del solito, giusto per far trascorrere il tempo in modo ancora più impegnato.
Uscii di casa che mancava un'ora abbondante alle undici, perciò feci un salto all'ambulatorio per chiedere a Josie se avesse bisogno di aiuto: nonostante la sala d'attesa fosse vuota – l'unico paziente della mattina era stato Eric, che era andato lì per farsi controllare la caviglia – rimasi con lei per farle compagnia.
Più il momento si avvicinava, più spesso il mio stomaco si contorceva in fitte dolorose dovute al nervosismo; Josie mi domandò se volevo qualche tranquillante, ma rifiutai con un sorriso.
Era bello, dopo tanto tempo, essere nervosa per qualcosa di normale, di nuovo.
Era bello che fosse l'emozione a provocarmi fitte nello stomaco, e non la paura o l'angoscia.
Quando l'orologio sul muro bianco dell'ambulatorio mi rese noto che mancavano venti minuti alle undici, mi alzai e mi congedai da Josie, afferrando la chitarra che da quella mattina mi portavo appresso, per raggiungere il garage adibito a scuola.
La porta più grande del garage era chiusa – quel giorno faceva particolarmente freddo – perciò mi infilai nella porticina collocata ad un lato della struttura; mi ci volle qualche minuto per trovare il coraggio di bussare. E se fossi stata troppo in anticipo? E se avessi interrotto Samantha?
Inspirai dal naso ed espirai dalla bocca, profondamente, appena prima di decidermi, finalmente, a bussare. Samantha aprì la porta e, appena mi riconobbe, mi accolse con un gran sorriso.
«Ben arrivata, Beth!».
«Buongiorno, Samantha», mormorai. Era una donna giovane, e ciò mi rincuorò, specialmente perché il suo sorriso era caldo e rassicurante. «Spero di non essere troppo in anticipo».
«Sei in perfetto orario. Prego, entra!», esclamò, invitandomi con un gesto della mano. «Bambini, è arrivata Beth!», annunciò, mentre richiudeva la porta alle sue spalle.
Mi sentii addosso otto o nove paia di occhi, incuriositi ma sorridenti. Erano tutti bambini che non avranno avuto più di otto anni, ad una prima occhiata. Erano seduti ognuno al proprio banco e stavano disegnando tutto quello che a me parve avere a che fare con l'autunno: l'arancione ed il rosso erano i colori che dominavano sui loro fogli.
Da lì partimmo con le presentazioni e cercai subito di ricordarmi tutti i nomi e i volti: Claire e Jacob erano i bambini più piccoli e avevano entrambi tre anni. Alyssa, Grace, Joseph, William e Liam ne avevano sei e Cody e Paige, i più grandi, sette.
Avrei dovuto ricordarmene in modo da strutturare al meglio le mie lezioni, infatti mi segnai tutti i nomi e le età su un foglio.
Inizialmente fu difficile trovare il modo di dare il via alla lezione, perché avvertivo tutta l'inesperienza dalla mia parte, e ciò mi bloccava di tanto in tanto facendomi perdere il filo del discorso o facendomi inciampare nelle mie stesse parole mentre parlavo. Ma i bambini erano tanto buoni e cari, così come Samantha, che presto l'insicurezza lasciò il posto alla voglia di insegnare loro quanto bella e importante fosse la musica.
Partii dalle nozioni fondamentali, illustrando loro un pentagramma disegnato sulla lavagna bianca e riempendolo con le note musicali. Ripetei le nozioni un paio di volte, per poi terminare la lezione cantando assieme a loro una canzone che avevo imparato quando ero stata a mia volta una bambina, una cantilena che rendeva più facile ricordarsi i nomi delle note. Mi accompagnai con la chitarra di Aiden, e quando finii di suonare i bambini mi applaudirono entusiasti.
Samantha li esortò a mettere a posto i pennarelli e i fogli negli scaffali, prima di avvicinarsi a me con un gran sorriso.
«Sei andata alla grande, Beth», si complimentò, posandomi una mano sulla spalla.
Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo, come se avessi finalmente ripreso a respirare dopo un'ora di apnea. «Non lo dici solo per farmi contenta, vero?», scherzai, sorridendo timida.
«Assolutamente no, sono sincera», replicò, serissima. «Deanna ci ha visto lungo: ci sai fare con i bambini, oltre che con la musica».
«Beh, grazie», risposi, imbarazzata da tutti quei complimenti, mentre il mio pensiero correva inevitabilmente a Judith e al soprannome che le aveva dato Daryl. Risi tra me e me.
Visto che era quasi ora di pranzo e che le parole di Samantha mi avevano trasmesso sicurezza, mi offrii di aiutare lei e un'addetta alla dispensa, Macie, a servire il pranzo ai bambini. Non c'era un reale motivo di trattenerli a pranzo, se non il fatto che fosse un'occasione in più per permettere a quei bambini di stare insieme, costruire amicizie e vivere il più possibile una vita simile a quella di prima.
Uscii dal garage verso le due e mezza psicologicamente provata: lo stress, l'emozione e il fatto che era parecchio tempo che non mi davo così tanto da fare mi avevano dato il colpo di grazia. Avevo mal di testa e mi sentivo stanca; l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era il momento in cui mi sarei finalmente buttata sul divano e avrei riposato un po'. Nonostante la stanchezza, però, ero felice di quell'esperienza: il mercoledì dopo sarebbe sicuramente andato meglio. Per un istante pensai di andare da Deanna per ringraziarla, ma non ero sicura di riuscire a resistere, visto che il desiderio pressante di riposarmi non mi lasciava stare.
Arrivai finalmente a casa e, chiusa la porta alle mie spalle, abbandonai la chitarra di Aiden vicino all'entrata e mi tolsi gli stivali, fiondandomi in salotto.
La sensazione che mi pervase quando sprofondai tra i morbidi cuscini del divano fu qualcosa di encomiabile che non provavo da molto: per un attimo mi sembrò di tornare indietro nel tempo, a quando mi stendevo dopo una giornata di scuola particolarmente stancante.
Mi sistemai a pancia in giù, abbracciando il cuscino e chiudendo gli occhi, lasciando andare un mugolio di soddisfazione: mi addormentai subito.
Non so dopo quanto tempo, ma ad un certo punto qualcosa mi trascinò lentamente fuori dal sonno, anche se subito non mi resi conto di cosa fosse. Ci vollero due o tre colpi alla porta per farmi finalmente capire che qualcuno stava bussando. Socchiusi gli occhi per un attimo, contrariata e senza la minima voglia di alzarmi.
«Chi è?», domandai scocciata e con la voce impastata dal sonno e attutita per metà dal cuscino.
«Ehi Beth, sono Aaron!», esclamò il mio amico da dietro la porta. Subito non riuscii a rendermi conto che era tornato da una delle sue spedizioni, intontita com'ero dal sonno.
«Entra», dissi a voce più alta, sbuffando e chiudendo nuovamente gli occhi, «è aperto».
Avvertii la porta aprirsi e Aaron dire «permesso», con una strana euforia nella voce alla quale non diedi subito peso. C'era qualcosa di strano nel modo in cui stava muovendo per il corridoio, ma non avevo abbastanza forza per aprire gli occhi e controllare. Tendendo l'orecchio e prestando più attenzione alla frequenza e al rumore dei suoi passi, con un po' di difficoltà, capii: Aaron non era solo.
La nebbia che mi pesava sugli occhi e rallentava la mia consapevolezza iniziò a diradarsi piano piano.
Aaron era stato fuori in perlustrazione, era tornato, non era solo. Non era solo. C'erano altre persone con lui. C'erano
molte altre persone con lui.
Non feci in tempo a capire – finalmente – ad aprire gli occhi e a scattare seduta che Aaron era già lì, di fronte a me.
«Beth».
Ma non era sua la voce che aveva chiamato il mio nome: era stata la voce di Maggie.
La stessa Maggie che, in carne ed ossa di fianco a lui, mi stava fissando con gli occhi spalancati e le labbra dispiegate in un sorriso tremante.
Ci impiegai un secondo a finire tra le sue braccia, le mie gambe si mossero da sole; o forse fu lei a venirmi incontro e ci incontrammo a metà strada, non lo sapevo. E non mi importava.

«Beth, oh mio Dio, Beth», continuava a singhiozzare Maggie, stringendomi a sé. Piangevamo, tutte e due. E ridevamo anche, perché era impossibile liberare un'emozione a discapito di un'altra, in quell'abbraccio che avevo creduto di non poter più dare. Eravamo libere di esternare ogni cosa.
Felicità, sollievo, paura, era mischiato tutto insieme e buttato fuori assieme alle lacrime che mi inzuppavano le guance. Si aggiunse anche il cordoglio, quando mi resi conto che quella era la prima volta che potevamo piangere in pace nostro padre, senza trattenere il dolore perché dovevamo pensare a scappare, come era successo invece alla prigione. Da sopra la spalla di Maggie incrociai lo sguardo commosso di Rick: Rick, che era diventato il più caro amico e alleato di mio padre, ed ora mi guardava con lo stesso sguardo paterno. Mi venne da piangere ancora più forte.
«P-Papà...», iniziai a dire, la voce spezzata dai sussulti del pianto. Non c'era bisogno che formulassi una frase completa, anche perché non avrei saputo come continuare. Maggie capì lo stesso.
«Lo so, piccola, lo so», singhiozzò, accarezzandomi i capelli senza sciogliere l'abbraccio. Nelle sue parole colsi il sollievo di poterlo finalmente piangere, lo stesso che avevo provato io. Rimanemmo strette ancora per un po', finché i nostri visi non diventarono completamente bagnati e convenimmo che, effettivamente, sarebbe stato meglio sistemarci un attimo. Aaron ci allungò due tovaglioli di carta che era andato a prendere nella mia cucina, ed io e Maggie ci asciugammo le guance e soffiammo il naso, ridacchiando imbarazzate.
Gli altri si strinsero intorno a noi, impazienti di salutarmi: era così bello rivedere i loro volti dopo averlo sperato così tanto, che la sensazione quasi mi frastornò. Li abbracciai uno ad uno, e per me fu come tornare alla vita, una stretta dopo l'altra. I loro sguardi commossi e felici non li avrei più scordati per il resto dei miei giorni, assieme alla sensazione di felicità autentica che provai.
Rick mi abbracciò per ultimo, il viso serio ma gli occhi accesi da una gioia che, in quegli ultimi minuti, avevo imparato a riconoscere.
«Beth, grazie al cielo», mi salutò con la voce intrisa di sollievo, lasciandomi un bacio sulla fronte poco prima di scostarsi da me per farmi salutare Judith. Tirai su col naso, ridendo, mentre altre lacrime iniziavano a scorrere. «Ciao, Rick. E ciao anche a te, piccola spaccaculi», mormorai verso la piccola, sfiorandole la punta del naso.
Poi mi bloccai: ecco cosa mancava, o meglio, chi. Nell'euforia del momento che aveva annebbiato la mia vista, e guardando i loro volti come se fossero qualcosa che faceva parte di una totalità indistinta, non mi ero accorta che in quella schiera di volti, quello di Daryl mancava.
Daryl non c'era.
«Dov'è
Daryl?», domandai a bruciapelo, spalancando gli occhi per la preoccupazione. Mi guardai intorno per cogliere un cambiamento nelle loro espressioni, in particolare mi soffermai su quella di Carol: non si era intristita o rabbuiata, perciò ne dedussi che a Daryl non era successo nulla di male.
«Credo che Deanna stia finendo il suo colloquio con lui in questo momento», confermò Aaron, ed io ripresi a respirare.
Infatti, qualche attimo dopo, sentii la porta di ingresso aprirsi lentamente e cigolare, seguita dal rumore di passi incerti. Mi sembrò di vederlo, mentre si guardava intorno diffidente, e non potei resistere un secondo di più. Potevo finalmente rivederlo, era vivo, stava bene ed era finalmente al sicuro, assieme a me e a tutti gli altri.
In tre falcate attraversai il salotto e mi affacciai al corridoio, rimanendo sulla soglia: lo vidi subito, accompagnato da Deanna e altri sconosciuti. E lui vide me.
Era come se fosse uscito perfettamente dai miei ricordi, dalla mia testa, con la balestra in spalla, il giubbotto di pelle e i suoi occhi blu penetranti e sempre circospetti. Non mi era mai sembrato tanto bello, mentre avvertivo il cuore battere impazzito e le lacrime minacciarmi di uscire di nuovo.
Ci fissammo, da un estremo del corridoio all'altro, per quello che a me sembrò un tempo infinito e breve nello stesso momento. Lui era lì, lo vedevo, ma questo non mi bastava: io dovevo sentirlo, dovevo sentire il suo corpo contro il mio e la sua vicinanza, per convincermi che fosse davvero così.
Daryl spalancò all'improvviso gli occhi e lasciò cadere la balestra che aveva in mano – come se solo in quel momento avesse realizzato che ero davvero lì.
«Beth!», esclamò, incredulo, mentre iniziava ad avanzare verso di me; lo stesso feci io.
Quasi gli saltai in braccio, logorata dall'impazienza di sentirlo finalmente stretto al mio corpo. Le sue braccia erano perfettamente strette e incastrate proprio sotto le mie, tanto che i miei piedi smisero di toccare terra molto presto, perché lui mi sollevò e mi strinse forte a sé.
Non avevo mai ricevuto un abbraccio del genere da Daryl Dixon, infatti – le poche volte che era successo – ero sempre stata io a prendere l'iniziativa o metterci più calore, tra i due. Ma non quella volta.
La sua fragranza mi inondò le narici: tabacco, cuoio, bosco, sudore, pelle. Era proprio come me lo ricordavo.
I miei singhiozzi non mi sorpresero per niente, al contrario degli strani respiri veloci e accorati che sentivo provenire dalla mia spalla, dove era affondato il volto di Daryl. O stava piangendo, o stava cercando di non piangere. Quel lato di Daryl che avevo solo intravisto, il fatto che stesse reagendo in quel modo
per me, mi fece sciogliere il cuore come neve al sole.
Quando non riuscì più a tenermi sospesa, iniziò a barcollare e mi posò gentilmente a terra, ma io lo trattenni a me e, nella foga del movimento, finii con la schiena contro al muro, mentre Daryl mi sovrastava ancora, stringendomi ancora più forte contro la parete. Affondai il volto nel suo petto, mentre il suo braccio destro mi circondava la spalla e l'altro mi teneva contro di lui premendo sulla schiena. Fu come se il tempo si fosse fermato, tornando poi ad avere un senso. Come se le altre persone che stavano assistendo alla scena non esistessero; quasi mi sembrava di vedere la sorpresa sui loro volti dato che, alla prigione, non avevamo certo dimostrato di avere il tipo di rapporto che spinge due persone ad abbracciarsi in quel modo dopo essere state separate a lungo. Ma non mi importava, ci sarebbe stato tutto il tempo per le spiegazioni.
Non ci potevo credere: quel mese di agonia, paura, solitudine era stato difficile, certo, ma la mia fiducia, la mia speranza, erano state ripagate. Avevo di nuovo la mia famiglia, lì con me, e avevo Daryl.
Stretta nel suo abbraccio caldo e disperato, tutto quello che avevamo passato insieme assunse ai miei occhi un nuovo significato, assieme a tutti i pensieri su di lui che avevano popolato la mia mente quando era lontano. Non potevo più ignorare il cuore impazzito nel mio petto, né la gioia che stava facendo agitare ogni mia singola cellula, o i miei occhi che agognavano nuovamente il suo viso, diventato così dannatamente attraente quasi da un momento all'altro. Non potevo più far finta di non capire perché il mio pensiero fosse corso così spesso a lui, mentre non c'era. Non sarei più stata in grado di fingere che la voglia disperata di proteggerlo e tenerlo al sicuro, e soprattutto di averlo vicino, fosse dettata da un affetto fraterno o da semplice amicizia.
Io provavo qualcosa per Daryl Dixon, ormai non aveva più senso mentire a me stessa.
Ne ero persino innamorata, forse.
Al culmine di tutti quei pensieri, Daryl mi diede il colpo di grazia scostandosi appena da me, per posarmi una mano tra il profilo della mascella e il collo e appoggiare, per un istante troppo breve, le labbra e la guancia contro la mia tempia sinistra, tornando poi ad abbracciarmi. Il mio cuore prese il volo e la testa iniziò a girarmi.
Se Daryl non mi avesse tenuta abbracciata così saldamente, probabilmente sarei svenuta: troppe emozioni, per quel giorno. Troppa confusione, in quel momento, per farsi domande e trovare risposte. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci e capire, ora che il mio cuore era libero da qualsiasi altra preoccupazione.
La mia famiglia era lì, con me, al sicuro: nulla poteva più spaventarmi.


"This is a place where I don't feel alone
this is a place where I feel at home."
w
(The Cinematic Orchestra - To build a home)




Angolo autrice.
Oh, questa volta sono stata più brava, 12 pagine anziché 15! Stiamo facendo progressi :P
Beh, che dire di questo capitolo... finalmente Beth ha potuto riabbracciare la sua famiglia, era una lagna che non si sopportava più! Ahahah, scherzo, ovviamente.
Mi dispiace farvia assaggiare il biscotto e poi togliervelo, ovvero far comparire Daryl e finire il capitolo, ma spero mi perdonerete! Come al solito, stava venendo troppo lungo, e non volevo fare tutto frettolosamente solo per fare in modo che si parlassero e facessero qualcosa di più dell'abbracciarsi. Pensate solo che Daryl finalmente ha fatto la sua comparsa nella storia, e non se ne andrà più. A me riempie di gioia, a voi? Vi dico da subito che il prossimo capitolo sarà quasi totalmente incentrato su di loro, quindi resistete un altro po' e godetevi questa benedetta, agognata reunion!
Mi dispiace per la prima parte super pallosa, ma volevo cercare di sviluppare bene il personaggio ed il ruolo di Beth all'interno della comunità, in modo da non dover riprendere poi più avanti questo aspetto!
Ci tengo a puntualizzare una cosa sulla frase finale, che è chiaramente il verso di una canzone (
cercatela su youtube, è stupenda!): ho una playlist tutta mia che mi è servita di ispirazione per questa storia; particolarmente ricorrente sarà il tema di “casa” come posto in cui tornare, in cui arrivare, in cui restare. Certo mi riferisco ad Alexandria come luogo, ma anche a Beth che diventa la casa che Daryl ha cercato per tutta una vita. Quindi si parla di legami affettivi; in particolare in questo capitolo, volevo rendere accentuato il fatto che, come Rick e gli altri hanno trovato una casa nuova, per Beth il vivere in Alexandria ha riacquistato un nuovo significato appunto perché finalmente la sua famiglia è lì con lei: finalmente, può sentirsi a casa.
Ah, belli i mappazzoni psicologici!
Se vi interessa vedere gli outfit (fa tanto fanfiction.net ahahah), le immagini, le musiche e tutto ciò che mi ispira nella stesura di questa storia, potete visitare il tumblr che ho aperto appositamente per entrare in contatto più diretto con voi :)
http://blakieefp.tumblr.com/ è tutto qui!
Niente, direi che anche per stavolta è tutto! Ringrazio veramente di cuore le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare e chi più ne ha più ne metta, e anche chi ha letto soltanto.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi farebbe molto piacere ricevere qualche parere :)
Alla prossima!
Un bacio,
Blakie



   
 
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