And
we'll be
good
capitolo
2
Ci
provai, nel mese successivo, a sentirmi a casa lì ad
Alexandria: fu incredibilmente dura, molto più di quanto mi
sarei aspettata.
La prima notte io e Noah dormimmo nel salotto
della casa che era stata assegnata a lui; dormimmo
per
modo di dire. Per quanto mi sforzassi di ripensare alla gentilezza di
Aaron e alle parole rassicuranti di Deanna, non riuscii a chiudere
occhio. Ogni minimo rumore mi faceva scattare e attendere il momento
in cui qualcuno avrebbe sfondato la porta e ci avrebbe assaliti.
Essere disarmata, inoltre, non mi aiutava a stare più
tranquilla. Ma non successe mai nulla, nemmeno nella settimana
successiva, e all'ottavo giorno ero talmente stanca e distrutta che
dormii per dodici ore, dalle sette di sera alle sette del mattino
successivo, in casa "mia".
Per me e Noah fu molto
difficile abbassare la guardia dopo che, per un anno e più,
aprire gli occhi la mattina significava stare in costante allerta,
col pericolo sempre in agguato e con la speranza di riuscire ad
arrivare vivi a fine giornata. La sopravvivenza non era una cosa
affatto scontata, là fuori, per questo fu strano rimettersi
nell'ordine delle idee che ora avevamo di nuovo una vita più o
meno normale.
Inoltre, mi mancava la mia famiglia, fino a star
male. Sapere che loro erano ancora là fuori mentre io ero lì,
al sicuro, mi faceva scendere una lacrima tutte le notti prima di
addormentarmi. I primi giorni non ero nemmeno riuscita ad alzarmi dal
letto. Ero diventata più taciturna e avevo perso la voglia di
cantare, perché il mio cervello era impegnato il novanta
percento del tempo a pensare a come trovarli e salvarli. Avevo
cercato di descrivere ad Aaron ed Eric le persone da cui era composto
il mio gurppo, una ad una, per fare in modo che fossero riconoscibili
per i miei due amici (ormai questo erano diventati per me)
reclutatori. In un mese, Erano usciti dai cancelli di Alexandria tre
volte, e tutte e tre le volte non avevano portato notizie di loro,
non li avevano visti.
Ma noi eravamo pronti ad
accoglierli.
Eravamo persino riusciti a scattare un'altra
fotografia che mi ritraeva davanti ai cancelli di Alexandria, in modo
che Rick e gli altri non pensassero che fosse un trucco di Aaron per
attirarli in trappola.
Per fare in modo che Aaron ed Eric
venissero presi sul serio dalla mia famiglia, ebbi l'idea di scrivere
qualcosa nel retro della mia fotografia.
Alla
mia famiglia:
sono viva, sono al sicuro e sto bene: l'unica cosa
che mi manca qui siete voi.
Vi aspetto tra le mura di Alexandria.
Vi voglio bene.
Beth
Ps:
esistono
ancora brave persone
Richiusi
il pennarello, sperando con tutte le mie forze che la foto, le mie
parole e quelle di Aaron servissero a convincerli che non era tutto
un trucco e che stavo bene. Sperai soprattutto che il post scriptum
per Daryl servisse come prova del nove: solo e io lui sapevamo il
significato dietro quelle parole, nessun altro ad Alexandria avrebbe
potuto riferirsi al nostro ultimo discorso. Sperai che sarebbe
servito, di più non sapevo cosa fare.
L'unico modo in cui
riuscivo a liberare la mente era lavorare come infermiera nel piccolo
ambulatorio della zona sicura, affiancata dal medico-chirurgo Pete e
dalla sua assistente, Josie. Passavo più tempo con Josie,
infermiera anch'essa, che si premurava di istruirmi su tutto quello
che mio padre non aveva fatto in tempo a insegnarmi; ma era successo
anche che andassi a casa di Pete, per cenare con la sua famiglia.
Jessie, sua moglie, era una donna giovane e deliziosa, così
come i suoi figlii Sam e Ron erano educati e sapevano metterti a tuo
agio; fu una bella serata, anche se qualcosa, nei modi materni con
cui Jessie accolse a cena me e Noah, mi scavò un senso di
vuoto nello stomaco.
Noah invece aveva trovato in Reg, marito
di Deanna, un mentore che lo guidasse nello sviluppo della sua
passione per l'architettura, della quale non ero a conoscenza e che
mi sorprese. Passavano molto tempo insieme, discutendo su quale fosse
il modo migliore per rinforzare le mura di Alexandria e dove trovare
i materiali giusti, il tutto studiando, sulle mappe a loro
disposizione, i dintorni circostanti la zona sicura. Per rendersi
attivamente utile alla comunità, Noah si univa ogni tanto -
quando Reg lo permetteva - alla squadra addetta alla ricerca di
provvigioni e scorte. Avrei voluto unirmi a loro e non dover sempre
aspettare il suo ritorno in preda all'ansia, ma quando avevo avanzato
la richiesta, Deanna, seppur con gentilezza, mi aveva negato il
permesso, ribattendo che la comunità necessitava la mia
presenza lì.
Ma rimanere entro le mura significava non fare nulla di
entusiasmante per la maggior parte del tempo. Certo, ero grata per il
lavoro che Josie stava facendo con me e l'attenzione con cui mi
insegnava tutto ciò che sapeva: il problema era che non avevo
modo di metterlo in pratica. Era una fortuna che la salute degli
abitanti di Alexandria fosse tanto buona, ma in un mese mi ero
occupata di aiutare prettamente persone anziane con i fastidi dovuti
all'età e bambini che non avevano reagito bene al freddo che
avanzava di giorno in giorno. Mi sentivo inutile.
Deanna lo
sapeva, per questo, una mattina nuvolosa e piatta, era arrivata
all'ambulatorio chiedendo a Josie se poteva sequestrarmi per un po'.
L'espressione interrogativa era permeata sul mio volto finché
non eravamo arrivate davanti al garage dove i bambini più
piccoli avevano scuola, e Deanna li aveva salutati con un sorriso,
annunciando: «da oggi in poi, ogni mercoledì, avrete una
lezione speciale con Beth, la vostra nuova insegnante di musica».
Io
l'avevo guardata con gli occhi spalancati, mentre i pochi bambini
presenti sorridevano entusiasti assieme a Samantha, la loro
maestra.
«Perché?»: ero riuscita a domandare
solo questo, esterrefatta.
«In questo mondo si sta
dimenticando l'importanza della musica. Non voglio che i bambini di
oggi diventino adulti di domani che non sanno con quali canzoni far
addormentare i propri figli», aveva spiegato, come se fosse la
risposta più scontata da dare. La risposta più bella
che mi potesse dare.
«Ti sono veramente grata, Deanna, ma...
senza di loro, io...», avevo sussurrato, gli occhi che si
riempivano di lacrime. «Non credo di riuscire più a
cantare».
Mi aveva messo una mano sulla spalla come
gesto di conforto. «Se non te la senti posso capire, ma almeno
pensaci. Non ti vedo affatto bene, Beth, e non sono l'unica a
pensarlo», aveva replicato con lo sguardo preoccupato,
riferendosi chiaramente ad Eric, Noah ed Aaron. Per un secondo avevo
pensato che anche Aiden si fosse accorto del mio stato d'animo: dopo
avermi conosciuta alla festa di benvenuto che Deanna aveva
organizzato appositamente per me e Noah, ogni scusa sembrava essere
buona per parlarmi o passare del tempo con me. Era un bravo
ragazzo, più grande di me di qualche anno, e ancora non
avevo capito se da me cercasse un'amicizia o qualcosa di più
– o fingevo di non capirlo; ero certa solo del fatto che non ne
avessi voglia. Più volte avevo reclinato i suoi inviti,
persa com'ero nella mia bolla di malumore: sopportavo solo la
compagnia di Noah e dei due reclutatori, o di Josie; in certe
giornate, nemmeno quella.
«Sto bene», avevo detto,
mentendo spudoratamente. «Credo solo di aver bisogno di tempo,
ma ti prometto che ci penserò».
Deanna mi aveva
sorriso. «Quando avrai preso una decisione dimmelo,
qualunque essa sia».
Quella sera riflettei molto sulla
proposta di Deanna, fissando il vuoto del soffitto comodamente stesa
sul mio matrimoniale. Ogni volta che pensavo ad un motivo valido per
accettare, la paura mi faceva fare un passo indietro; non sapevo
esattamente cosa mi spaventasse o cosa mi facesse credere che non ne
sarei stata in grado. Semplicemente, cantare non mi veniva più
naturale come una volta: era questo che mi faceva davvero paura, che
mi immobilizzava. La tristezza che mi provocava essere lontana dalla
mia famiglia mi stava impedendo di fare ciò che amavo di più,
e mi sembrava di non avere nessun mezzo per cambiare quella
situazione. Ero prigioniera della mia stessa mente.
Forse, se
avessi provato a ricominciare, ad andare al mercoledì
successivo ce l'avrei fatta, questo pensai.
E poi, così
dal nulla, improvviso come un lampo nel cielo sereno d'estate, mi
tornarono in mente la luce delle candele, i tasti d'avorio sotto le
mie dita e la presenza di Daryl alle mie spalle che mi ascoltava in
silenzio. Nella mia testa vissi di nuovo quell'episodio, avvertendo
nel mio cuore un senso di sollievo; questa era una delle emozioni che
mi provocava il pensare a lui: pace. Ricordai gli occhi di Daryl
fissi nei miei, mentre si accomodava nella bara e mi esortava a
continuare a cantare: era stato uno sguardo molto simile a quello che
ci eravamo scambiati nella cucina, poco prima di separarci.
Intenso,
confortevole e di difficile interpretazione, quasi quanto lo erano i
sentimenti che mi suscitava qualunque cosa avesse a che fare con
Daryl Dixon.
«Continua...
continua a suonare. Canta».
Il
suo suggerimento trascese il ricordo ed arrivò al mio cuore
con un senso tutto nuovo: era come se allora mi avesse dato un
consiglio che avrei dovuto seguire sempre, nonostante tutto.
Qualunque cosa fosse successa, anche quando non ci sarebbe stato lui
a proteggermi, avrei dovuto continuare a cantare, perché era
questo che facevo io, questo che avevo sempre fatto: cantare, sempre.
Andare avanti e vivere, sempre.
Il ricordo si srotolò
davanti ai miei occhi finché non vidi me stessa esaudire la
sua richiesta e iniziare a cantare, accompagnata dalla dolce melodia
del pianoforte; senza che me ne accorgessi, la mia voce uscì
da quel ricordo e mi ritrovai a muovere le labbra.
«We'll
drink up our grief and pine for summer»,
intonai, a bassa voce,
con
un lieve sorriso che sentii far capolino sulle mie labbra, «And
we'll buy a beer to shotgun, and we'll lay in the lawn, and we'll be
good... And
we'll be good».
La
mattina seguente, dopo quelle parole canticchiate, mi sentii più
ben disposta nei confronti della proposta di Deanna: anzi, mi diede
qualcosa di nuovo di cui occuparmi, un nuovo obiettivo, che per una
volta non aveva a che fare con la routine dell'ambulatorio. Due
mattine dopo mi ritrovai, quasi senza accorgermene, a segnare su un
foglio tutte le canzoni che avevano fatto da sottofondo alla mia
infanzia e che ero solita cantare assieme a Maggie e alla mamma.
L'ambulatorio era vuoto come spesso accadeva, perciò ebbi
tutto il tempo di pensare a cosa avrei potuto far cantare ai bambini,
a come strutturare le lezioni e a come trovare un compromesso tra le
diverse età dei miei piccoli allievi.
L'imbarazzo che
provai quando mi presentai alla porta di Deanna per comunicarle la
mia decisione era evidente, soprattutto a lei. Non ero sicura che
fosse la scelta giusta, ma ero sicura del fatto che fosse giusto
almeno provarci. Deanna accolse la notizia con entusiasmo,
riservandomi persino uno sguardo orgoglioso. Iniziavo a credere che
quella donna ci tenesse davvero a farmi diventare parte integrante
della comunità, a prescindere dal fatto che li aiutassi con la
sopravvivenza là fuori o meno. Che ci tenesse davvero a
me.
Col mio verdetto, le portai anche la piccola lista di canzoni
che avevo stilato, in modo da avere un suo parere a riguardo: ne
discutemmo insieme e programmammo per bene gli orari e la struttura
delle lezioni. Mi chiese se avessi bisogno di qualche strumento e -
non senza un certo imbarazzo - le chiesi se potevo avere un
pianoforte o una chitarra. Deanna si offrì di spostare il
pianoforte che teneva in salotto nel garage adibito a scuola,
aggiungendo che per la chitarra avrei dovuto chiedere ad Aiden, che
mi avrebbe senz'altro prestato la sua.
Andai da Aiden il
pomeriggio stesso, tanto per togliermi il pensiero, e la faccia
sbattuta che mi ritrovai dopo aver passato due ore buone a cercare di
dileguarmi fece ridere Noah; era venuto a prendermi perché
quella sera eravamo invitati a cena da Eric: si sentiva solo dato che
Aaron era uscito là fuori per cercare nuove persone e lui non
aveva potuto accompagnarlo per una storta che si era procurato
durante un'altra missione. Non ci avevo messo molto a scoprire che
erano una coppia: una bella
coppia,
a dire il vero.
«Ce l'hai fatta a liberarti»,
esclamò, con le mani infilate nelle tasche della giacca.
Feci
una smorfia infastidita, alzando gli occhi al cielo. «Non
so quante volte gli ho detto che dovevo andare. Trovava sempre una
scusa nuova per trattenermi», mi lamentai, iniziando a
camminare al suo fianco.
Noah rise, arruffandomi i capelli in un
gesto affettuoso. «Le persone diventano pedanti quando prendono
una cotta per qualcuno, non lo sapevi?», affermò con
tono malizioso.
Sbuffai mentre mi sistemavo il disordine in testa
regalatomi dal mio amico, stringendomi poi nel maglione. «Non
ha una cotta per me», ribattei, per niente convinta.
«Come
no, Greene! E' già tanto se non gli vengono gli occhi a cuore
quando ti vede», disse, ridendo ancora.
Gli colpii il
braccio con la mano. «Smettila, Noah!».
Se mi sforzavo
di ignorare le prese in giro di Noah e l'insistenza imbarazzante di
Aiden, mi resi conto che alla fine ero felice di avere tutto pronto
in vista di quella nuova occupazione. Avrei iniziato, come stabilito
dal principio, il mercoledì successivo dopo la pausa di metà
mattina, dalle undici a mezzogiorno, cominciando con solo un'ora di
“lezione”, giusto per conoscerci.
Mercoledì
mattina aprii gli occhi presto, in preda a una piacevole agitazione,
quella che si sperimenta nel momento in cui si sta per fare qualcosa
di nuovo: era tanto che non provavo un'emozione del genere, e fui
ancora più contenta di aver accettato l'offerta di
Deanna.
Cercai di fare tutto molto lentamente, in modo da far
passare il tempo e resistere fino alle undici. Preparai la colazione
e la consumai con finta calma, perdendo tempo a ripassare il
programma che avevo preparato per quella prima lezione mentre
sorseggiavo il caffè e sgranocchiavo i biscotti preparati da
Jessie. Invece di lasciare le stoviglie nel lavandino come mio
solito, addirittura le lavai appena finita colazione, dirigendomi poi
al piano di sopra per scegliere i vestiti da mettere. Cambiai idea
due o tre volte, optando infine per dei semplici jeans abbinati ad
una maglia a maniche lunghe, abbellita da qualche inserto di pizzo –
tutti indumenti che mi avevano fornito i volontari al guardaroba di
Alexandria.
Sentivo di non essermi vestita nel modo più
adatto, forse perché non assomigliavo affatto alle insegnanti
che avevo avuto quando ancora andavo a scuola, vestite sempre
eleganti e di tutto punto. Per qualche motivo volevo presentarmi al
meglio, nonostante sapessi che non era poi così importante –
per Samantha o per i bambini – il modo in cui ero vestita.
Dato
che era ancora presto, decisi di acconciarmi i capelli in una treccia
più elaborata del solito, giusto per far trascorrere il tempo
in modo ancora più impegnato.
Uscii di casa che mancava
un'ora abbondante alle undici, perciò feci un salto
all'ambulatorio per chiedere a Josie se avesse bisogno di aiuto:
nonostante la sala d'attesa fosse vuota – l'unico paziente
della mattina era stato Eric, che era andato lì per farsi
controllare la caviglia – rimasi con lei per farle compagnia.
Più il momento si avvicinava, più spesso il mio
stomaco si contorceva in fitte dolorose dovute al nervosismo; Josie
mi domandò se volevo qualche tranquillante, ma rifiutai con un
sorriso.
Era bello, dopo tanto tempo, essere nervosa per qualcosa
di normale, di nuovo.
Era bello che fosse l'emozione a provocarmi
fitte nello stomaco, e non la paura o l'angoscia.
Quando
l'orologio sul muro bianco dell'ambulatorio mi rese noto che
mancavano venti minuti alle undici, mi alzai e mi congedai da Josie,
afferrando la chitarra che da quella mattina mi portavo appresso, per
raggiungere il garage adibito a scuola.
La porta più grande
del garage era chiusa – quel giorno faceva particolarmente
freddo – perciò mi infilai nella porticina collocata ad
un lato della struttura; mi ci volle qualche minuto per trovare il
coraggio di bussare. E se fossi stata troppo in anticipo? E se avessi
interrotto Samantha?
Inspirai dal naso ed espirai dalla bocca,
profondamente, appena prima di decidermi, finalmente, a bussare.
Samantha aprì la porta e, appena mi riconobbe, mi accolse con
un gran sorriso.
«Ben arrivata, Beth!».
«Buongiorno,
Samantha», mormorai. Era una donna giovane, e ciò mi
rincuorò, specialmente perché il suo sorriso era caldo
e rassicurante. «Spero di non essere troppo in anticipo».
«Sei
in perfetto orario. Prego, entra!», esclamò, invitandomi
con un gesto della mano. «Bambini, è arrivata Beth!»,
annunciò, mentre richiudeva la porta alle sue spalle.
Mi
sentii addosso otto o nove paia di occhi, incuriositi ma sorridenti.
Erano tutti bambini che non avranno avuto più di otto anni, ad
una prima occhiata. Erano seduti ognuno al proprio banco e stavano
disegnando tutto quello che a me parve avere a che fare con
l'autunno: l'arancione ed il rosso erano i colori che dominavano sui
loro fogli.
Da lì partimmo con le presentazioni e cercai
subito di ricordarmi tutti i nomi e i volti: Claire e Jacob erano i
bambini più piccoli e avevano entrambi tre anni. Alyssa,
Grace, Joseph, William e Liam ne avevano sei e Cody e Paige, i più
grandi, sette.
Avrei dovuto ricordarmene in modo da strutturare
al meglio le mie lezioni, infatti mi segnai tutti i nomi e le età
su un foglio.
Inizialmente fu difficile trovare il modo di dare
il via alla lezione, perché avvertivo tutta l'inesperienza
dalla mia parte, e ciò mi bloccava di tanto in tanto facendomi
perdere il filo del discorso o facendomi inciampare nelle mie stesse
parole mentre parlavo. Ma i bambini erano tanto buoni e cari, così
come Samantha, che presto l'insicurezza lasciò il posto alla
voglia di insegnare loro quanto bella e importante fosse la
musica.
Partii dalle nozioni fondamentali, illustrando loro un
pentagramma disegnato sulla lavagna bianca e riempendolo con le note
musicali. Ripetei le nozioni un paio di volte, per poi terminare la
lezione cantando assieme a loro una canzone che avevo imparato quando
ero stata a mia volta una bambina, una cantilena che rendeva più
facile ricordarsi i nomi delle note. Mi accompagnai con la chitarra
di Aiden, e quando finii di suonare i bambini mi applaudirono
entusiasti.
Samantha li esortò a mettere a posto i
pennarelli e i fogli negli scaffali, prima di avvicinarsi a me con un
gran sorriso.
«Sei andata alla grande, Beth», si
complimentò, posandomi una mano sulla spalla.
Mi lasciai
andare ad un sospiro di sollievo, come se avessi finalmente ripreso a
respirare dopo un'ora di apnea. «Non lo dici solo per farmi
contenta, vero?», scherzai, sorridendo timida.
«Assolutamente
no, sono sincera», replicò, serissima. «Deanna ci
ha visto lungo: ci sai fare con i bambini, oltre che con la
musica».
«Beh, grazie», risposi, imbarazzata da
tutti quei complimenti, mentre il mio pensiero correva
inevitabilmente a Judith e al soprannome che le aveva dato Daryl.
Risi tra me e me.
Visto che era quasi ora di pranzo e che le
parole di Samantha mi avevano trasmesso sicurezza, mi offrii di
aiutare lei e un'addetta alla dispensa, Macie, a servire il pranzo ai
bambini. Non c'era un reale motivo di trattenerli a pranzo, se non il
fatto che fosse un'occasione in più per permettere a quei
bambini di stare insieme, costruire amicizie e vivere il più
possibile una vita simile a quella di prima.
Uscii dal garage
verso le due e mezza psicologicamente provata: lo stress, l'emozione
e il fatto che era parecchio tempo che non mi davo così tanto
da fare mi avevano dato il colpo di grazia. Avevo mal di testa e mi
sentivo stanca; l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era il momento
in cui mi sarei finalmente buttata sul divano e avrei riposato un
po'. Nonostante la stanchezza, però, ero felice di
quell'esperienza: il mercoledì dopo sarebbe sicuramente andato
meglio. Per un istante pensai di andare da Deanna per ringraziarla,
ma non ero sicura di riuscire a resistere, visto che il desiderio
pressante di riposarmi non mi lasciava stare.
Arrivai finalmente a
casa e, chiusa la porta alle mie spalle, abbandonai la chitarra di
Aiden vicino all'entrata e mi tolsi gli stivali, fiondandomi in
salotto.
La sensazione che mi pervase quando sprofondai tra i
morbidi cuscini del divano fu qualcosa di encomiabile che non provavo
da molto: per un attimo mi sembrò di tornare indietro nel
tempo, a quando mi stendevo dopo una giornata di scuola
particolarmente stancante.
Mi sistemai a pancia in giù,
abbracciando il cuscino e chiudendo gli occhi, lasciando andare un
mugolio di soddisfazione: mi addormentai subito.
Non so dopo
quanto tempo, ma ad un certo punto qualcosa mi trascinò
lentamente fuori dal sonno, anche se subito non mi resi conto di cosa
fosse. Ci vollero due o tre colpi alla porta per farmi finalmente
capire che qualcuno stava bussando. Socchiusi gli occhi per un
attimo, contrariata e senza la minima voglia di alzarmi.
«Chi
è?», domandai scocciata e con la voce impastata dal
sonno e attutita per metà dal cuscino.
«Ehi Beth,
sono Aaron!», esclamò il mio amico da dietro la porta.
Subito non riuscii a rendermi conto che era tornato da una delle sue
spedizioni, intontita com'ero dal sonno.
«Entra»,
dissi a voce più alta, sbuffando e chiudendo nuovamente gli
occhi, «è aperto».
Avvertii la porta aprirsi e
Aaron dire «permesso», con una strana euforia nella voce
alla quale non diedi subito peso. C'era qualcosa di strano nel modo
in cui stava muovendo per il corridoio, ma non avevo abbastanza forza
per aprire gli occhi e controllare. Tendendo l'orecchio e prestando
più attenzione alla frequenza e al rumore dei suoi passi, con
un po' di difficoltà, capii: Aaron non era solo.
La nebbia
che mi pesava sugli occhi e rallentava la mia consapevolezza iniziò
a diradarsi piano piano.
Aaron era stato fuori in perlustrazione,
era tornato, non era solo. Non era solo. C'erano altre persone con
lui. C'erano molte
altre
persone con lui.
Non feci in tempo a capire – finalmente –
ad aprire gli occhi e a scattare seduta che Aaron era già lì,
di fronte a me.
«Beth».
Ma non era sua la voce che
aveva chiamato il mio nome: era stata la voce di Maggie.
La
stessa Maggie che, in carne ed ossa di fianco a lui, mi stava
fissando con gli occhi spalancati e le labbra dispiegate in un
sorriso tremante.
Ci impiegai un secondo a finire tra le sue
braccia, le mie gambe si mossero da sole; o forse fu lei a venirmi
incontro e ci incontrammo a metà strada, non lo sapevo. E non
mi importava.
«Beth,
oh mio Dio, Beth», continuava a singhiozzare Maggie,
stringendomi a sé. Piangevamo, tutte e due. E ridevamo anche,
perché era impossibile liberare un'emozione a discapito di
un'altra, in quell'abbraccio che avevo creduto di non poter più
dare. Eravamo libere di esternare ogni cosa.
Felicità,
sollievo, paura, era mischiato tutto insieme e buttato fuori assieme
alle lacrime che mi inzuppavano le guance. Si aggiunse anche il
cordoglio, quando mi resi conto che quella era la prima volta che
potevamo piangere in pace nostro padre, senza trattenere il dolore
perché dovevamo pensare a scappare, come era successo invece
alla prigione. Da sopra la spalla di Maggie incrociai lo sguardo
commosso di Rick: Rick, che era diventato il più caro amico e
alleato di mio padre, ed ora mi guardava con lo stesso sguardo
paterno. Mi venne da piangere ancora più forte.
«P-Papà...»,
iniziai a dire, la voce spezzata dai sussulti del pianto. Non c'era
bisogno che formulassi una frase completa, anche perché non
avrei saputo come continuare. Maggie capì lo stesso.
«Lo
so, piccola, lo so», singhiozzò, accarezzandomi i
capelli senza sciogliere l'abbraccio. Nelle sue parole colsi il
sollievo di poterlo finalmente piangere, lo stesso che avevo provato
io. Rimanemmo strette ancora per un po', finché i nostri visi
non diventarono completamente bagnati e convenimmo che,
effettivamente, sarebbe stato meglio sistemarci un attimo. Aaron ci
allungò due tovaglioli di carta che era andato a prendere
nella mia cucina, ed io e Maggie ci asciugammo le guance e soffiammo
il naso, ridacchiando imbarazzate.
Gli altri si strinsero intorno
a noi, impazienti di salutarmi: era così bello rivedere i loro
volti dopo averlo sperato così tanto, che la sensazione quasi
mi frastornò. Li abbracciai uno ad uno, e per me fu come
tornare alla vita, una stretta dopo l'altra. I loro sguardi commossi
e felici non li avrei più scordati per il resto dei miei
giorni, assieme alla sensazione di felicità autentica che
provai.
Rick mi abbracciò per ultimo, il viso serio ma gli
occhi accesi da una gioia che, in quegli ultimi minuti, avevo
imparato a riconoscere.
«Beth, grazie al cielo», mi
salutò con la voce intrisa di sollievo, lasciandomi un bacio
sulla fronte poco prima di scostarsi da me per farmi salutare Judith.
Tirai su col naso, ridendo, mentre altre lacrime iniziavano a
scorrere. «Ciao, Rick. E ciao anche a te, piccola spaccaculi»,
mormorai verso la piccola, sfiorandole la punta del naso.
Poi mi
bloccai: ecco cosa mancava, o meglio, chi. Nell'euforia del momento
che aveva annebbiato la mia vista, e guardando i loro volti come se
fossero qualcosa che faceva parte di una totalità indistinta,
non mi ero accorta che in quella schiera di volti, quello di Daryl
mancava.
Daryl non c'era.
«Dov'è Daryl?»,
domandai a bruciapelo, spalancando gli occhi per la preoccupazione.
Mi guardai intorno per cogliere un cambiamento nelle loro
espressioni, in particolare mi soffermai su quella di Carol: non si
era intristita o rabbuiata, perciò ne dedussi che a Daryl non
era successo nulla di male.
«Credo che Deanna stia finendo
il suo colloquio con lui in questo momento», confermò
Aaron, ed io ripresi a respirare.
Infatti, qualche attimo dopo,
sentii la porta di ingresso aprirsi lentamente e cigolare, seguita
dal rumore di passi incerti. Mi sembrò di vederlo, mentre si
guardava intorno diffidente, e non potei resistere un secondo di più.
Potevo finalmente rivederlo, era vivo, stava bene ed era finalmente
al sicuro, assieme a me e a tutti gli altri.
In tre falcate
attraversai il salotto e mi affacciai al corridoio, rimanendo sulla
soglia: lo vidi subito, accompagnato da Deanna e altri sconosciuti. E
lui vide me.
Era come se fosse uscito perfettamente dai miei
ricordi, dalla mia testa, con la balestra in spalla, il giubbotto di
pelle e i suoi occhi blu penetranti e sempre circospetti. Non mi era
mai sembrato tanto bello, mentre avvertivo il cuore battere impazzito
e le lacrime minacciarmi di uscire di nuovo.
Ci fissammo, da un
estremo del corridoio all'altro, per quello che a me sembrò un
tempo infinito e breve nello stesso momento. Lui era lì, lo
vedevo, ma questo non mi bastava: io dovevo sentirlo, dovevo sentire
il suo corpo contro il mio e la sua vicinanza, per convincermi che
fosse davvero così.
Daryl spalancò all'improvviso
gli occhi e lasciò cadere la balestra che aveva in mano –
come se solo in quel momento avesse realizzato che ero davvero lì.
«Beth!», esclamò, incredulo, mentre iniziava
ad avanzare verso di me; lo stesso feci io.
Quasi gli saltai in
braccio, logorata dall'impazienza di sentirlo finalmente stretto al
mio corpo. Le sue braccia erano perfettamente strette e incastrate
proprio sotto le mie, tanto che i miei piedi smisero di toccare terra
molto presto, perché lui mi sollevò e mi strinse forte
a sé.
Non avevo mai ricevuto un abbraccio del genere da
Daryl Dixon, infatti – le poche volte che era successo –
ero sempre stata io a prendere l'iniziativa o metterci più
calore, tra i due. Ma non quella volta.
La sua fragranza mi inondò
le narici: tabacco, cuoio, bosco, sudore, pelle. Era proprio come me
lo ricordavo.
I miei singhiozzi non mi sorpresero per niente, al
contrario degli strani respiri veloci e accorati che sentivo
provenire dalla mia spalla, dove era affondato il volto di Daryl. O
stava piangendo, o stava cercando di non piangere. Quel lato di Daryl
che avevo solo intravisto, il fatto che stesse reagendo in quel modo
per
me,
mi fece sciogliere il cuore come neve al sole.
Quando non riuscì
più a tenermi sospesa, iniziò a barcollare e mi posò
gentilmente a terra, ma io lo trattenni a me e, nella foga del
movimento, finii con la schiena contro al muro, mentre Daryl mi
sovrastava ancora, stringendomi ancora più forte contro la
parete. Affondai il volto nel suo petto, mentre il suo braccio destro
mi circondava la spalla e l'altro mi teneva contro di lui premendo
sulla schiena. Fu come se il tempo si fosse fermato, tornando poi ad
avere un senso. Come se le altre persone che stavano assistendo alla
scena non esistessero; quasi mi sembrava di vedere la sorpresa sui
loro volti dato che, alla prigione, non avevamo certo dimostrato di
avere il tipo di rapporto che spinge due persone ad abbracciarsi in
quel modo dopo essere state separate a lungo. Ma non mi importava, ci
sarebbe stato tutto il tempo per le spiegazioni.
Non ci potevo
credere: quel mese di agonia, paura, solitudine era stato difficile,
certo, ma la mia fiducia, la mia speranza, erano state ripagate.
Avevo di nuovo la mia famiglia, lì con me, e avevo Daryl.
Stretta nel suo abbraccio caldo e disperato, tutto quello che
avevamo passato insieme assunse ai miei occhi un nuovo significato,
assieme a tutti i pensieri su di lui che avevano popolato la mia
mente quando era lontano. Non potevo più ignorare il cuore
impazzito nel mio petto, né la gioia che stava facendo agitare
ogni mia singola cellula, o i miei occhi che agognavano nuovamente il
suo viso, diventato così dannatamente attraente quasi da un
momento all'altro. Non potevo più far finta di non capire
perché il mio pensiero fosse corso così spesso a lui,
mentre non c'era. Non sarei più stata in grado di fingere che
la voglia disperata di proteggerlo e tenerlo al sicuro, e soprattutto
di averlo vicino, fosse dettata da un affetto fraterno o da semplice
amicizia.
Io provavo qualcosa per Daryl Dixon, ormai non aveva più
senso mentire a me stessa.
Ne ero persino innamorata, forse.
Al
culmine di tutti quei pensieri, Daryl mi diede il colpo di grazia
scostandosi appena da me, per posarmi una mano tra il profilo della
mascella e il collo e appoggiare, per un istante troppo breve, le
labbra e la guancia contro la mia tempia sinistra, tornando poi ad
abbracciarmi. Il mio cuore prese il volo e la testa iniziò a
girarmi.
Se Daryl non mi avesse tenuta abbracciata così
saldamente, probabilmente sarei svenuta: troppe emozioni, per quel
giorno. Troppa confusione, in quel momento, per farsi domande e
trovare risposte. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci e capire,
ora che il mio cuore era libero da qualsiasi altra preoccupazione.
La
mia famiglia era lì, con me, al sicuro: nulla poteva più
spaventarmi.
"This
is a place where I don't feel alone
this
is a place where I feel at home."
w
(The
Cinematic Orchestra - To build a home)
Angolo
autrice.
Oh,
questa volta sono stata più brava, 12 pagine anziché
15! Stiamo facendo progressi :P
Beh, che dire di questo
capitolo... finalmente Beth ha potuto riabbracciare la sua famiglia,
era una lagna che non si sopportava più! Ahahah, scherzo,
ovviamente.
Mi dispiace farvia assaggiare il biscotto e poi
togliervelo, ovvero far comparire Daryl e finire il capitolo, ma
spero mi perdonerete! Come al solito, stava venendo troppo lungo, e
non volevo fare tutto frettolosamente solo per fare in modo che si
parlassero e facessero qualcosa di più dell'abbracciarsi.
Pensate solo che Daryl finalmente ha fatto la sua comparsa nella
storia, e non se ne andrà più. A me riempie di gioia, a
voi? Vi dico da subito che il prossimo capitolo sarà quasi
totalmente incentrato su di loro, quindi resistete un altro po' e
godetevi questa benedetta, agognata reunion!
Mi dispiace per la
prima parte super pallosa, ma volevo cercare di sviluppare bene il
personaggio ed il ruolo di Beth all'interno della comunità, in
modo da non dover riprendere poi più avanti questo aspetto!
Ci
tengo a puntualizzare una cosa sulla frase finale, che è
chiaramente il verso di una canzone (cercatela
su youtube, è stupenda!):
ho una playlist tutta mia che mi è servita di ispirazione per
questa storia; particolarmente ricorrente sarà il tema di
“casa” come posto in cui tornare, in cui arrivare, in cui
restare. Certo mi riferisco ad Alexandria come luogo, ma anche a Beth
che diventa la casa che Daryl ha cercato per tutta una vita. Quindi
si parla di legami affettivi; in particolare in questo capitolo,
volevo rendere accentuato il fatto che, come Rick e gli altri hanno
trovato una casa nuova, per Beth il vivere in Alexandria ha
riacquistato un nuovo significato appunto perché finalmente la
sua famiglia è lì con lei: finalmente, può
sentirsi a casa.
Ah, belli i mappazzoni psicologici!
Se vi
interessa vedere gli outfit (fa tanto fanfiction.net ahahah), le
immagini, le musiche e tutto ciò che mi ispira nella stesura
di questa storia, potete visitare il tumblr che ho aperto
appositamente per entrare in contatto più diretto con voi :)
http://blakieefp.tumblr.com/
è tutto qui!
Niente, direi che anche per stavolta è
tutto! Ringrazio veramente di cuore le persone che hanno recensito lo
scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le
preferite/seguite/da ricordare e chi più ne ha più ne
metta, e anche chi ha letto soltanto.
Spero che il capitolo vi sia
piaciuto, mi farebbe molto piacere ricevere qualche parere :)
Alla
prossima!
Un bacio,
Blakie