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Autore: Calliope49    23/08/2015    2 recensioni
[Seguito di “By any other name”]
La regina di Inghilterra sta per giungere a Parigi da suo fratello, re Luigi. Un sicario straniero viene mandato a ucciderla, un agente al soldo del duca di Buckingham viene mandato per salvarla.
Nel mezzo, i moschettieri, Diane alle prese con il suo nuovo incarico e, ancora una volta, il confine tra “buoni” e “cattivi” che non è così preciso come si vorrebbe…
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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III
Una serata quasi perfetta
 
Le luci delle lanterne galleggiavano contro il buio della sera, nelle quiete perfetta dei giardini del Louvre.
«Il capitano non è ancora arrivato» mormorò Porthos, e lanciò un’occhiata ai gruppi di dame e gentiluomini che passeggiavano tra le aiuole e le siepi.
Prima del tramonto era stato allestito un rinfresco all’aperto, ora la folla di cortigiani confluiva verso la porta principale del palazzo in un ronzio di chiacchiere e risate.
«Il capitano starà cercando di tenersi lontano di tutto questo il più a lungo possibile» osservò Aramis.
Al limitare del parco, le guardie reali controllavano il perimetro lungo i cancelli. Oltre quel confine invalicabile, Parigi vibrava di luce e musica: tutti festeggiavano il sovrano, ogni rione della città aveva la sua piccola festa e in ogni taverna si facevano brindisi in onore del re. Forse persino ai bambini era stato concesso di rimanere svegli, per aspettare i fuochi d’artificio. Ogni singolo soldato era stato impiegato per controllare le strade, i moschettieri si muovevano come formiche tra i corridoi della reggia.
In qualche modo, era una bella serata. Le stelle che scintillavano tra le nuvole rade erano la promessa tangibile di una primavera imminente.
Quando i cortigiani furono tutti dentro al palazzo, Athos e d’Artagnan chiusero il portone, alcuni uomini del reggimento si piazzarono all’esterno davanti ai battenti chiusi.
Gli incidenti non erano una novità, in occasioni come quella: ospiti indesiderati che si confondevano alla folla e si introducevano a palazzo, domestici che approfittavano della confusione per scappare con piccoli tesori rubati ai loro padroni, signori ubriachi che dovevano essere gentilmente fatti allontanare. L’imponente servizio d’ordine non era privo di falle, ma Treville si era raccomandato - come ogni anno - di fare l’impossibile perché niente turbasse l’armonia della festa e soprattutto l’umore del re.
I corridoi del palazzo erano illuminati a giorno, il grande salone da ballo era un’esplosione di luce.
Un turbinio di gente si riversò attraverso le porte, sotto la volta del soffitto affrescato. I musicisti si sistemarono su un palchetto, seguendo le indicazioni di un minuscolo ometto con un’enorme parrucca di boccoli argentei.
Un ballo in maschera era l’occasione perfetta perché la corte francese desse sfogo a tutta la sua eccentricità. I signori e le dame sembravano grosse farfalle, nei loro abiti troppo colorati, occhi brillanti - per l’emozione o per il vino - scintillavano nei fori delle maschere più astruse. Volti di gatto o di uccello, visi di cartapesta incorniciati da piume di pavone, ghigni dipinti d’oro, tutti pigiati insieme nel fermento della festa, come la polvere da sparo che aspetta nella pancia di una bomba prima che si accenda la miccia.
In un modo o in un altro, quella serata sarebbe passata.
La folla si ammassò contro le pareti, in attesa che arrivasse il re.
Athos tenne la porta aperta per le ultime dame che si erano attardate lungo il corridoio. Non vide i loro visi nascosti dalle maschere ma un odore lo raggiunse, facendolo scattare. Era il profumo leggerissimo e dolce del gelsomino, attirò la sua attenzione come quando si scorge all’improvviso un volto noto in mezzo a una folla anonima, la sensazione istintiva di una nota stonata.
Non è possibile.
Era ancora troppo sensibile ai ricordi, ma una voce gli disse che non poteva essere lei. Si voltò, seguendo quel crocchio di signore, cercando di riconoscere nel passo di una di loro qualcosa di familiare, un indizio che gli desse la scusa per afferrarle una a una e strappare loro la maschera, tanto per sincerarsi che i suoi incubi non lo avevano raggiunto di nuovo.
Non è possibile, si ripeté e finì per convincersene. Era ancora immobile, con la mano stretta forte alla maniglia della porta e l’eco dei ricordi nelle ossa. Sussultò quando Porthos gli tirò una manata sulla spalla, con la sua delicatezza da pachiderma.
«E così, il capitano ce l’ha fatta ad arrivare» disse Aramis, una punta di divertimento nella voce. «Ah, ma è una visione…».
Quell’ultimo commento non poteva essere indirizzato a Treville. Diane al suo braccio era uno spettacolo da togliere il respiro, avvolta in un abito di velluto rosso e raso color avorio, stringeva tra le mani una maschera di pizzo e nastri dorati.
Athos ammutolì e, anche quando fu perfettamente consapevole delle occhiate fin troppo divertite che i suoi compagni gli stavano rivolgendo, si sforzò di rimanere impassibile. Qualsiasi reazione avrebbe avuto, quei tre gliela avrebbero fatta scontare fino alla fine dei suoi giorni.
«Sì, Constance ha fatto un ottimo lavoro» disse d’Artagnan con una punta d’orgoglio.
«Ma va detto che partiva avvantaggiata» bofonchiò Aramis, poggiandosi col gomito alla spalla di Athos.
«Fossi in te, proverei davvero a portarla via, prima che qualcuno la rubi» aggiunse Porthos, appoggiandosi all’altra spalla.
Athos lanciò loro un’occhiata truce e si scrollò i compagni di dosso. «Probabilmente, il corsetto la ucciderà prima che qualcuno ne abbia il tempo» replicò atono, cercando di ignorare la sensazione inattesa di morsa allo stomaco e non riuscendo a fare niente per il mezzo sorriso un po’ fiero e un po’ inebetito che gli era salito alle labbra.
Diane si guardava attorno, nervosa. Suo zio stava registrando con gli occhi ridotti a fessura la posizione di ogni moschettiere schierato nella sala e aveva tutta l’aria di uno che avrebbe preferito essere al loro posto - naturalmente, l’idea di portare una maschera non l’aveva neppure sfiorato, c’era un limite al disagio che poteva autoinfliggersi per amore dell’obbedienza.
Un valletto annunciò l’arrivo del re e della regina e la folla si zittì.
Luigi fece il suo ingresso con sua moglie al braccio e sua sorella  e il cardinale al seguito. Tra le mani reggeva una maschera color rame con una corona di alloro.
I presenti si inchinarono, poi il re fece un cenno alla volta dei musicisti. Lui e Anna aprirono le danze e dopo qualche minuto la sala divenne un caleidoscopio di colori e luce.
 
***
 
«Oh, perdonatemi, io… sono leggermente indisposta e credo mi ritirerò molto presto. Sono venuta solo per non mancare di rispetto a sua maestà» disse la donna, la voce sottile che vibrava delle note della più squisita modestia.
L’uomo che le aveva teso la mano si allontanò e Milady mandò un sospiro di sollievo.
Non vedeva l’ora di lasciare quella sala. Era così paradossale trovarsi lì per salvarsi il collo quando in mezzo a quella gente c’erano almeno due uomini che glielo avrebbero torto volentieri.
Maledisse il duca di Buckingham, che l’aveva cacciata in quel guaio, maledisse il cardinale e maledisse Athos.
Il cardinale, per conto suo, era poco più che uno scheletro avvolto in troppi strati di porpora. Milady lo aveva visto da lontano ritrarsi quasi inorridito da quella folla e sprofondare in una poltrona. Non sembrava in grado di nuocere neppure a un cane, ma lei lo conosceva abbastanza da sapere che avrebbe potuto schiacciare i suoi nemici anche dal letto di morte.
In quanto ad Athos, era sempre dannatamente sgradevole vederlo e se l’era trovato tra i piedi all’ingresso della sala, tra tutti i moschettieri di cui brulicava il palazzo, era stato proprio lui ad aprirle la porta. Aveva dovuto sforzarsi di non guardarlo, per un attimo era stata certa che l’avrebbe riconosciuta nonostante la maschera. Si era imposta di continuare a camminare e mantenere la calma e quando si era allontanata abbastanza ed era sparita dalla portata del suo sguardo, si era resa conto che rivederlo non era comunque sgradevole abbastanza.
Aveva dovuto intrufolarsi a quella festa, doveva sincerarsi che la regina d’Inghilterra fosse ben protetta. C’erano un mucchio di guardie eppure Enrichetta Maria non era al sicuro nemmeno lì al Louvre.
Quello che Milady aveva scoperto, indagando sulle informazioni ricevute da Buckingham, era inquietante e soprattutto era qualcosa che andava ben al di là delle sue possibilità.
Per anni a Parigi aveva prosperato una rete criminale, una di quelle senza credo e senza bandiera, disposta a trafficare armi ai rivoltosi protestanti tanto quanto a ogni nobile che desiderasse rafforzare la propria personale armeria senza attirare l’attenzione. A tenere in mano le redini della faccenda, era stato per lungo tempo il conte Legrand - Milady lo ricordava, un omaccione paffuto con la faccia da putto, un vero lupo vestito da agnello. Da quello che era riuscita a scoprire, il conte era stato smascherato e giustiziato meno di un mese prima, ma chiunque si fosse occupato della cosa aveva pensato che la sua ragnatela si fosse dissolta con lui, e invece si sbagliava. Ed era su questa ragnatela, tessuta da tante troppe mani insospettabili, che ora il sicario stava facendo affidamento.
Se c’era una cosa che Milady ricordava della sua permanenza a Parigi, era l’identità delle giuste persone da corrompere per avere le informazioni che le servivano. Con un fiume di denaro inglese si era aperta la strada in quella selva di segreti ed era venuta a sapere che monsieur Masson, il profumista, aveva una preoccupante collezione di denaro spagnolo. Era andata a fargli visita, ma l’incontro con quella ragazzina aveva sconvolto i suoi piani. Era poi andata a finire che monsieur Masson ci aveva rimesso la gola: le autorità avevano detto che si era trattato di un furto e di fatto, chiunque avesse sgozzato quel caro signore, si era premurato di far sparire il denaro spagnolo dalla cassa della sua bottega.
Il sicario si stava muovendo e se davvero poteva contare su una rete clandestina di criminali armaioli, c’erano pochissime probabilità che la regina tornasse a Londra sana e salva.  
Tutta quella luce, quell’ammasso di colori e risate e musica, cominciava a darle alla testa.
Pensò che non ci fosse niente che poteva fare lì per aiutare la regina, ma tutti quei volti coperti non erano rassicuranti. Il sicario avrebbe potuto facilmente essersi mimetizzato tra gli invitati e ora magari era lì, ad attendere il momento giusto per colpire.
Ci pensò e un attimo dopo le parve improbabile. Se avesse attentato alla vita di Enrichetta Maria quella sera, non avrebbe fatto in tempo a lasciare la sala, non sarebbe uscito vivo dal palazzo.
Tuttavia, Milady si convinse a rimanere lì fino a quando quella ridicola festa non fosse finita. C’era solo da sperare che Dio non decidesse di giocarle un altro dei brutti scherzi che usava rifilarle di tanto in tanto.
Si sistemò sotto il palchetto dell’orchestra, facendo bene attenzione a tenersi alla larga dai moschettieri. Lanciò un’occhiata alla sala e vide Enrichetta Maria intenta a conversare con la regina francese e un’altra persona.
Per un attimo pensò di essersi ingannata, ma fissando meglio realizzò che l’altra persona tra le due regine era proprio lei, la giovane che aveva incontrato in profumeria. Quella sconosciuta l’aveva insospettita per il suo strano accento, ma si era resa subito conto che non poteva essere di qualcuno di pericoloso. Non avrebbe mai immaginato si trattasse di una dama di corte, quando l’aveva conosciuta non ne aveva affatto l’aria, ma ora sembrava un vero gioiello, con tutta la bellezza fresca della sua gioventù e l’eccitazione per la festa che le arrossava le gote. Milady pensò che al prossimo giro di danze, i signori presenti le sarebbero piovuti addosso come rapaci, a meno che l’uomo di cui era così teneramente - scioccamente - innamorata non fosse venuto a salvarla e a reclamarla per sé.
Scosse il capo e si dimenticò della ragazzina. Mentre passava in rassegna la sala, notò il capitano dei moschettieri che sembrava stesse cercando di mimetizzarsi con la tappezzeria, lontano dalla folla.
Sorrise sotto l’orlo dorato della maschera.
«Se solo i moschettieri sapessero…» sussurrò. Un piano cominciò a prendere forma nella sua mente mentre l’orchestra attaccava con una quadriglia.
 
***  
 
Quando la musica finì, il cavaliere, un signore alto con una maschera da pappagallo, si inchinò fino quasi a sfiorare il pavimento col becco.
Diane sentiva ancora il respiro leggermente affannato per il ballo. Non le erano mancati inviti per danzare e lei non aveva trovato nessuna ragione valida per rifiutarli. Nessuno di loro aveva attirato particolarmente la sua attenzione - nessuno di loro avrebbe mai potuto reggere il confronto con un moschettiere musone e affascinante - ma quella serata che tanto l’aveva preoccupata era finita per diventare un piacevole diversivo e anche se metà delle donne in quella sala ballavano meglio di lei, la ragazza si era ricordata di quanto, in fin dei conti, le piacesse danzare per il solo gusto di farlo.
Tra una piroetta e l’altra, aveva scorto Porthos e d’Artagnan lanciarle cenni di incitamento.
Il pappagallo si tolse la maschera, ne emerse un viso sorridente e per niente sgradevole.
«Mi concedereste una passeggiata in giardino, mademoiselle?» fece l’uomo con un certo impeto.
Diane sgranò gli occhi. «Temo, monsieur, che faccia troppo freddo ormai»
«Di questo non dovete preoccuparvi» insistette lui con un’occhiata maliarda fin troppo eloquente.
No, ma potresti preoccupartene tu…
L’uomo le baciò la mano e la ragazza pensò che forse la situazione aveva finito per sfuggire al suo controllo. Si chiese se l’aver passato la serata a cambiare di continuo cavaliere non avesse dato di lei un’impressione sbagliata, eppure qualcosa in tutta la faccenda la divertiva, con quell’ilarità un po’ sfrontata che solo una giovane donna finalmente libera di respirare nel mondo può avere senza vergognarsene.
«Preferisco il clima che c’è in questa sala, monsieur» disse lei, ritirando la mano.
«Ho speranza di rivedervi?»
«Io non la definirei proprio una speranza».
L’espressione sicura del pappagallo si afflosciò e la maschera di cartapesta gli ricadde sulla faccia. Diane fece una rapida riverenza prima che il gentiluomo aggiungesse altro e si dileguò tra le coppie che si preparavano al prossimo ballo.
«Va bene, basta danze per stasera» sospirò sfilandosi la maschera e scostandosi un ciuffo di capelli che cominciavano a ribellarsi all’acconciatura.
«Eppure avrei detto che vi stavate divertendo come pochi» sussurrò una voce.
La giovane si voltò per trovarsi davanti lo sguardo d’acciaio di Richelieu. Sprofondato nella sua poltrona, il cardinale osservava la sala con aria annoiata, aspettando solo il momento opportuno di ritirarsi senza che il re si sentisse offeso dalla sua sparizione.
«Volete invitarmi per il prossimo ballo, Eminenza?».
Lui strabuzzò gli occhi. «La festa vi ha dato alla testa» borbottò. «Vi assicuro, mi siete simpatica, mademoiselle, nonostante i vaghi cenni di squilibrio e i discutibili gusti in fatto di compagnie»     
«Siete l’unica persona a palazzo a cui sto simpatica». Ed è un sentimento per nulla reciproco!
«Suvvia, la regina vi adora» replicò Richelieu con un’occhiata penetrante. Le sue parole andavano oltre il commento disinteressato. «E io non sono simpatico a nessuno qui dentro eppure me la sono cavata egregiamente»
«Be’, io non aspiro alla carica di primo ministro, quindi dell’antipatia altrui non ho che farmene»
«No. A cosa aspirate, allora, mi domando».
Diane ricambiò lo sguardo del cardinale con uguale intensità. «Aspiro a quello a cui aspirate voi o anche mio zio, Eminenza, servire fedelmente coloro che hanno riposto in me la loro fiducia»
«Una nobile aspirazione. Sempre se si pensa di aver scelto con saggezza chi servire»
«La saggezza non è mai stata il mio forte».
La ragazza regalò al cardinale un sorriso velenoso che lui le restituì.
«Ah, capitano» esclamò Richelieu dopo qualche istante, «stavo giusto parlando con vostra nipote di fiducia e saggezza, tutte cose che a voi piacciono molto».
Treville si era appena avvicinato, fece un vago cenno di assenso e lasciò cadere la provocazione.
«Credo sia quasi ora, Eminenza» disse funereo. 
«Di già? Sua maestà ha male ai piedi?»
«No, ma ha chiesto alla regina di ritirarsi, non vuole che stia troppo alzata, e molte dame andranno via con lei»
«Quasi ora per cosa?» domandò Diane. Il suo sguardo finì catturato da un candelabro dove le candele erano ridotte a grovigli di cera consumata. Si rese conto che doveva essere tardi, la sala era meno illuminata e molta gente sedeva stanca sui sofà accanto alle vetrate.
«Per la parte della serata dedicata ai soli uomini, mia cara» borbottò il cardinale, alzandosi e lisciandosi la mantella color sangue.
«Portate il re in giro per i bordelli di Parigi?»
«Delizioso, ho fatto tagliare lingue per molto meno».
Treville sospirò con troppa enfasi. «Adesso tutti noi ci ritireremo e passeremo la serata a giocare a carte e a scacchi e a tenere compagnia a sua maestà» spiegò. «Immagina il divertimento!».
Diane ridacchiò scuotendo il capo. «Be’, almeno è un cambiamento, non passerai la sera sveglio alla guarnigione»
«Lo preferirei»
Il capitano dei moschettieri si stropicciò il viso con la mano. «Noto comunque che la tua serata è stata un successo» concluse senza troppa allegria e fece un cenno al moschettiere più vicino.
Aramis comparve come dal nulla accanto a Diane.
«Pare che quest’anno sia andato tutto bene» osservò Treville, scoccando un’occhiata al suo soldato.
«Liscio come l’olio, signore» rispose Aramis.
«Bene. Mandate a riposare quelli che sono qui da oggi pomeriggio, gli altri che restino di guardia fino ai fuochi d’artificio. E qualcuno riporti a casa mia nipote» ordinò il capitano, preparandosi a raggiungere mestamente Richelieu che era rimasto ad attenderlo sulla porta.
«Povero zio…» sospirò la ragazza quando lo vide sparire dietro il battente laccato.
«Non preoccuparti, ne ha viste di peggio» le rispose Aramis.
La nipote del capitano si voltò per osservare la sala che cominciava a svuotarsi.
La regina, accerchiata da un nugolo di dame, attraversò l’ampio salone ricevendo i saluti e gli omaggi di quelli che erano rimasti. Si fermò accanto a Diane e le sorrise con gli occhi stanchi.
La ragazza e il moschettiere si inchinarono.
«Spero che la serata sia stata di vostro gradimento, amica mia» disse la sovrana.
«Assolutamente, maestà. Dovremo rifarlo».
Le due giovani donne si scambiarono un’occhiata complice e un risolino.
«Mi si dice che abbiate anche spezzato un cuore o due»
«Nessun cuore che non si possa riparare, maestà».
Anna allargò il sorriso. «Buonanotte, Diane»
«Buonanotte, maestà».
La ragazza la vide lanciare un rapido sguardo ad Aramis e provò una fitta di malinconia al petto per la regina e per il suo amico. Per contrasto, si sentì fortunata e l’enormità e la felicità del suo primo amore le brillò tra i pensieri come un fuoco d’artificio.
«Come sta?» fece il moschettiere, strappandola ai suoi pensieri.
«Mh?»
«La regina. Sai, l’esito di questa gravidanza ci tiene tutti sulle spine, sua maestà ha già perso un bambino in passato»
Oh, Aramis…
«La regina sta molto bene, i medici di corte dicono che il bambino è in salute. L’ho sentito scalciare, sai, è… è forte. Non potrà che essere meraviglioso»
«Lo sarà senz’altro».
Aramis sorrise, un sorriso troppo rapido e troppo triste, poi si riscosse.
«Aspetta fuori alla sala» disse, indicandole una delle porte laterali. «Ti manderò qualcuno, d’accordo?».
Diane annuì, afferrò il braccio del moschettiere e gli posò un bacio sulla guancia.
«E questo per cos’era?» fece lui.
«Per nessuna ragione particolare» rispose Diane, avviandosi verso l’uscita.
Un valletto dall’aria stravolta le riconsegnò la sua mantella, la giovane vide la cipria sciolta e raggrumata sulla sua fronte umida e realizzò che fosse un bene che quella serata fosse finita. Divenne consapevole anche del male ai piedi e del bruciore in fondo alla schiena: non si sedeva da ore.
Guardò il proprio riflesso contro un vetro scurito dalla sera, affondò le mani nel tessuto morbido della gonna. Pensò che suo zio, il duca, avrebbe approvato.
Una stretta la prese all’improvviso, avvolgendole la vita. Diane ebbe un sussulto e si ritrovò tra le braccia di Athos, i suoi occhi azzurri puntati in viso.
«Un moschettiere che insidia una donna della regina?» mormorò con finta aria indignata.
«Puoi gridare, se vuoi» rispose lui prima di baciarla con foga. Quel suo mischiare tenerezza e passionalità era disarmante. Forse il primo amore è cieco e folle, ma Diane non avrebbe mai creduto di potersi arrendere con tanta fiducia e confidenza.
Aveva riflettuto per un po’ sulle parole della signora incontrata nella profumeria, sullo stare attenta a non affidarsi troppo all’amore di un uomo, ma si era scoperta incapace di seguire quel consiglio. Forse la sua gioventù la rendeva fiduciosa e ingenua, ma aveva consegnato il suo cuore ad Athos molto tempo prima e non aveva intenzione di farselo restituire.
«Non ti chiederò se hai passato una bella serata, mi sembra evidente» disse il moschettiere, scostandole una ciocca di capelli dalla tempia sudata e sfiorandole la fronte con le labbra.
Lei sorrise. «Non mi verrai a dire che sei geloso»
«Non mi verrai a dire che non ne ho il diritto».
La ragazza scoppiò a ridere, anche se lui sembrava prendere la questione molto sul serio.
«Per piacere, riportami a casa, prima che mi si stacchino i piedi» concluse.
Athos accennò un inchino aggraziato, da perfetto gentiluomo, e la lasciò accanto a una siepe nel giardino. Diane si avvolse nella mantella e rimase a fissare il cielo stellato, i domestici che ronzavano tra le aiuole per spegnere le lanterne e preparare tutto per i fuochi d’artificio.
Il moschettiere ricomparve qualche minuto dopo, trascinando per le briglie il suo cavallo nero. Prese la giovane per la vita e la depositò in sella, con l’ampia gonna dell’abito che copriva come una tenda l’intero dorso dell’animale.
«E tu?» chiese Diane.
Athos scrollò le spalle. «Ho voglia di camminare». Sempre tenendo il cavallo per le briglie, lo pilotò attraverso il giardino, fino al cancello principale. Scambiò qualche parola con le guardie davanti all’ingresso prima che loro gli aprissero una parte della cancellata.
La città era sveglia, più sveglia del solito. Luci accese nelle taverne e per le strade dissipavano le ombre della notte, come se niente di brutto potesse mai accadere in una sera come quella.
Diane osservò un uomo con la fisarmonica che suonava all’angolo di un viale, attorniato da ragazzini che ballavano.
«Sai» disse, muovendo le gambe a penzoloni accanto a una staffa, «penso che se lo avessi chiesto alla regina, ti avrebbe invitato al ballo».
Athos si voltò per guardarla da sopra la spalla. «Sono contento che tu non l’abbia fatto».
«Oh, andiamo. A parte il fatto che gli altri tre ti avrebbero preso in giro vita natural durante, sono sicura che te la saresti cavata meravigliosamente»
«Mi lusinga che tu lo creda»
«Non mi dirai che non hai mai partecipato a un ballo, voglio dire… prima».
Athos si fermò e si voltò a guardare Diane con un’espressione indecifrabile. Il cavallo diede un’energica scrollata di capo.
«Scusami» mormorò lei, mordendosi il labbro. «So che non ti piace parlare del passato».
«No, ma dovremo pur parlarne, prima o poi»
«Non è necessario, Athos. Non per forza ora, intendo»
«Non mi hai mai detto chi ti ha raccontato di mia moglie e cosa ti ha detto»
«È stata Constance - non prendertela con lei, l’ho praticamente costretta - non mi ha detto molto, solo che eri un nobile, che sposasti una donna che poi si rivelò essere, be’…».
Diane si chiese come poteva pretendere che Athos le parlasse di tutta quella storia se lei per prima non riusciva ad articolare frasi di senso compiuto al riguardo. Però lui aveva ragione, avrebbero dovuto affrontare anche quel fantasma, prima o poi.
«Sì, ora che mi ci fai pensare, non c’è poi molto da aggiungere» disse lui, riprendendo a camminare, il cavallo che lo seguiva docile nelle strade meno trafficate. «I fatti sono questi, ma raccontare cosa tutto ciò ha significato per me… non credo ci siano parole. Sono cresciuto con un castello di certezze e poi le ho viste tutte crollare per un unico singolo sbaglio».
Diane ispirò l’aria fredda della notte e sentì un po’ di quel freddo scenderle dalla gola al petto, formare una stalattite che le pungeva il cuore.
«Lo credi davvero, che sia stato uno sbaglio?»
«Come la chiameresti una cosa che non ti ha lasciato altro che rimpianti?»
«Penso solo che dev’esserci stata tanta, tantissima felicità prima, se poi ne è seguito così tanto dolore» mormorò la ragazza. Doveva ammettere almeno con se stessa che il pensiero la rendeva gelosa e triste. «E allora mi chiedo se, alla fine, non ne sia valsa in qualche modo la pena».
Era una riflessione brutale, un pensiero che apriva un taglio purulento sul volto di quella notte perfetta e bellissima, ma Diane pensò che non fosse giusto nasconderla, che quella cinica sincerità fosse uno dei tributi che richiedeva l’amore - il suo, almeno.
Athos sospirò. «Alla fine sì» ammise. Una vibrazione strana gli alterò la voce, come l’eco del vento tra le macerie. E le macerie c’erano ancora dentro di lui, frammenti forse troppo ingombranti di un amore che lo aveva fatto a pezzi. Diane si disse che gli doveva il coraggio di convivere con quei relitti, era il suo modo in cui farne valere la pena.
«L’ultima volta che ho incontrato mia moglie, era una spia al servizio del cardinale» proseguì il moschettiere. «Non occorre che tu sappia delle tante scelleratezze che lei e Richelieu avevano orchestrato assieme. Le giurai che l’avrei uccisa, se mi fosse ricapitata davanti. Ad ogni modo, quella che avevo sposato anni fa era un’altra donna e il conte de la Fère era un altro uomo».
Il cavallo si fermò, strusciando gli zoccoli contro il ciottolato. Quando Diane sollevò lo sguardo si accorse che erano davanti alla porta di casa.
«Quello che sono oggi…» aggiunse Athos, scuotendo il capo. Le parole annegarono da qualche parte nel silenzio della sera. «Tutto quello che so è che quando ti guardo non penso che tu sia la mia seconda chance. Forse sei molto più di quanto io meriti, ma sei la sola donna che io possa amare».
La ragazza ammutolì e un attimo dopo si sentì una perfetta idiota. Athos aveva il potere di confonderla e lei si sentiva una bimbetta ingenua quando non riusciva a far fronte a quelle emozioni. Non aveva parole per rispondergli, ma avrebbe voluto poter dire qualcosa di eloquente.
«Io…» farfugliò. C’era un’unica, singola cosa da dire. «Ti amo».
«Grazie a Dio, sarebbe stato tutto molto imbarazzante altrimenti»
«Athos! Cosa avevamo detto riguardo al senso dell’umorismo?»
«Uhm, dovresti darmi qualche lezione in proposito» disse lui con un mezzo sorriso. Le tese le braccia per aiutarla a scendere dalla sella. «Vieni qui».
Diane scivolò nella sua stretta, con le mani arpionate alle sue spalle. Quando gli sfiorò le labbra, si sentì il fragore di un’esplosione lontana e si voltò per vedere una pioggia di scintille colorate solcare il nero del cielo.
Il fuochi di artificio esplosero nel cielo di Parigi, regalando alle ombre riflessi di rosso, blu e verde.
Diane rimase a guardarli salire e sbocciare come immensi fiori sopra i tetti delle case, circondata dalle braccia di Athos e dalla sicurezza di una felicità che le sembrava scintillare come le stelle di quella sera.
«Sono bellissimi» mormorò. Lui annuì, affondando il viso nei suoi capelli.
Il vento soffiò per la città la cenere e l’odore di bruciato. Quando i fuochi cessarono, rimase a regnare un silenzio perfetto.
Diane strinse forte la mano di Athos. «Tu non mi lascerai sola in una sera come questa» gli disse.
«Agli ordini».
Il moschettiere andò a legare il cavallo a una staccionata lì vicino e la raggiunse sulla porta.
La casa era rimasta vuota tutto il giorno e dentro c’era un freddo quasi fastidioso. Diane non ebbe tempo di avvertirlo, perché si ritrovò così stretta ad Athos da sentire il calore esploderle nello stomaco come una pugnalata. Era desiderio e faceva male, era la sensazione di lacci che stringevano fino a ferire, l’urgenza di arrendersi e l’ansia di liberarsene.
Salirono le scale alla cieca, quasi inciampando. La porta della camera da letto di Diane si aprì quando ci finirono contro.
Il ricordo di quella notte di tempesta era ben presente nel cuore della ragazza, ma era avvolto dalla nebbia delle troppe cose che aleggiavano attorno a quel ritaglio di felicità. Ora l’amore era una luce visibile, senza alcuna ombra a sbavarne i contorni.
Urtarono contro lo scrittoio, una pila di libri rovinò sul pavimento. Athos non accennò a volersi staccare da lei, le dita che si impigliavano nei troppi lacci del vestito.
«Constance è stata maledettamente meticolosa» ansimò lui contro il suo collo.
«Non strappare niente o ci ucciderà entrambi»
«Penso che correrò il rischio».
Il vestito cadde con un tonfo leggero sulle assi di legno del pavimento. Athos inspirò spazientito quando le sue mani strusciarono contro le stecche del corsetto.
Diane gli sfilò la giacca e la lanciò da qualche parte nella penombra della camera. Il cuoio rigido del coprispalla da moschettiere urtò contro un piccolo specchio da toeletta e lo ruppe.
«Tuo zio ci ammazzerà…»
«Se ti sento nominare ancora una volta mio zio, ti ammazzo io!». Diane gli slacciò la cintura. Spada, pugnale, pistola caddero con un rumore infernale. Il corsetto si aprì e cadde in mezzo alle armi.  
Athos la spinse sul letto e il materasso cigolò quando le si stese accanto. 
Diane lo baciò a lungo, mentre lui le sfilava la sottoveste. L’idea di essere completamente nuda con un uomo la faceva sentire ancora in imbarazzo, ma se ne dimenticò presto quando le labbra di Athos scesero dalla sua gola al petto, lasciandole una scia umida sulla pancia. Alzò la testa sul guanciale quando sentì l’ispido della barba sfiorarle le cosce, e poi il piacere risalì in una scia languida dal bassoventre alla testa, confondendo il buio della stanza con il ricordo della luce dei fuochi d’artificio.
Affondò le mani tra le lenzuola e strinse, serrando le labbra in un impeto di pudicizia che le rendeva insopportabile l’idea di emettere anche un solo suono.
Quei pochi scampoli di autocontrollo si persero da qualche parte nella sua mente. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro, prendendo aria a fatica tra i gemiti.
Athos si sollevò e le cinse i fianchi, stringendola a sé mentre si spingeva dentro di lei.
 
***
 
Una luce fredda filtrava dalla finestra. Nel riverbero argentato della luna, Diane era una curva bianca sotto le lenzuola.
Athos era rimasto a guardarla mentre si addormentava con un senso di pace che passava dai lineamenti morbidi della ragazza al suo cuore.
Le accarezzò i capelli e vide il riflesso di un sorriso salirle alle labbra.
Doveva andarsene da lì e l’idea non gli piaceva, soprattutto lo metteva a disagio il dover sgusciare via da quella stanza e da quella casa come un ladro, ma sapeva che Diane avrebbe capito. Il moschettiere pensò che avrebbe dovuto sentirsi molto più in colpa per essere steso in quel letto con la nipote del suo capitano in casa sua, ma non si sentiva colpevole abbastanza, anche se gli era rimasto un briciolo di decenza che urlava a gran voce che non avrebbe dovuto tirare troppo la corda, che farsi trovare lì da Treville sarebbe stata una pessima idea su tutti i fronti.
Ritrovare i vestiti e le sue armi nella penombra fu un’impresa più ardua di quanto avesse creduto. Nel disordine della camera, rischiò di portarsi via la sottoveste della ragazza.
Attento a non fare il minimo rumore, afferrò la cintura, stringendo spada, pistola e pugnale in un’unica massa pesante di roba e sgusciò fuori dalla stanza. Prima di chiudere la porta della camera, si voltò verso il letto e sospirò. Avrebbe riso di se stesso, se si fosse ricordato come si faceva.
Scese le scale cauto. Quando uscì, vide con la coda dell’occhio qualcosa che gli fece mancare un battito.
Sulla cornice esterna della porta era infilato un pugnale che teneva appuntato contro il legno un foglio che frusciava come una bandiera nel vento della notte.
Ovviamente era troppo sperare che quella sera restasse perfetta. 
Athos lo guardò e staccò la lama con un gesto nervoso. Quello non era un modo rassicurante di consegnare la posta e anche se il messaggio era certamente indirizzato a Treville, il moschettiere pensò che fosse meglio leggerlo subito.
Benissimo… strinse i denti e accartocciò il foglio tra le mani con un moto di stizza. Aprì la porta con una brusca manata e tornò di sopra. Ora il suo passo era reso pesante dall’agitazione, ma quando fu di nuovo nella stanza di Diane la guardò dormire e si chiese se fosse davvero il caso di svegliarla. Una voce sgradevole gli ricordò che la ragazza lo avrebbe saputo comunque e che in ogni caso si sarebbe lasciata coinvolgere da quel guaio perché, con la nomina della regina, si sentiva autorizzata a credersi una specie moschettiere - e non c’era proprio niente che lui o suo zio potessero fare al riguardo.
«Diane…». La scosse nel modo più gentile che gli riuscì.
La ragazza si svegliò con un sussulto. «Cosa? Oh… non dirmi che è tornato mio zio»
«Vestiti, dobbiamo tornare a palazzo, abbiamo un problema».
 
 
 
  
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