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Autore: skonhet    24/08/2015    3 recensioni
Remus ha 36 anni, è stanco. I solchi sul viso sembrano intensificarsi ogni anno che invecchia, i capelli cominciano a farsi già bianchi, le rughe gli conferiscono un aspetto ancora più triste. Non piange più.
Terza classificata al Forever shot contest - II edizione indetto sul forum di EFP da Harry_Potter992.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nimphadora Tonks, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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13 dicembre 1996
 

Fa freddo fuori. L’atmosfera è quella che precede una nevicata, ma il cielo è terso e le nuvole corrono lontane, all’orizzonte, fuggendo dal calore tiepido del sole dicembrino.

C’è una sottile foschia che rende difficoltosa la visuale oltre i 100 metri, la brina illumina le piante a basso fusto di un verde intenso, che conferiscono al bosco un aspetto quasi esotico. La luce filtra tra gli aghi dei sempreverde o fende i rami spogli e tristi, dove ancora qualche foglia accartocciata resiste coraggiosamente all’implacabile inverno.

Remus ha gli occhi chiusi, lascia che il suono ovattato della natura lo circondi, proteggendolo come in un nido. Seduto sul terreno umido, a volte saggia la terra con le mani o accarezza il muschio che ricopre una pietra, bianca come marmo.
È sempre piuttosto difficile attendere con calma che la tempesta si compia, ma il gentile cinguettio degli uccelli lo rilassa e lo distrae dalla lenta e inesorabile trasformazione che il suo corpo sta già subendo. In intervalli sempre più brevi, man mano che passano le ore, una smorfia rompe la serenità del suo viso, prima di riacquisire un’espressione neutra. In quei momenti apre gli occhi per osservare qualche uccello che, credendolo parte del paesaggio, gli si è insolitamente avvicinato.

Remus ha 36 anni, è stanco. I solchi sul viso sembrano intensificarsi ogni anno che invecchia, i capelli cominciano a farsi già bianchi, le rughe gli conferiscono un aspetto ancora più triste. Non piange più.

Riguardando indietro, Remus può ricordare ogni luogo in cui si è trasformato. Da neonato la sua trasformazione era ancora abbastanza controllabile da restare nella sua cameretta, osservato dietro il buco della serratura dai genitori. Da bambino, già diventava pericoloso per loro restare in casa. Da adolescente, decisamente proibitivo. Quando tornava da Hogwarts, per le vacanze, il signor e la signora Lupin disponevano per lui un vecchio rifugio in un bosco poco lontano da casa. Gli porgevano le chiavi col sorriso stirato di chi teme colui che ha di fronte, ma non vuole darlo a vedere. Il rapporto con i suoi genitori, in quei fatidici giorni, si faceva piuttosto deprimente, come se fosse una questione di sopravvivenza: spesso, rinchiuso in quella baita arida, Remus piangeva silenziosamente il destino ingrato. Il mattino dopo si risvegliava sempre sotto gli abeti, accanto al muschio, raggomitolato come l’essere più innocuo del pianeta, pronto ad essere nuovamente amato da coloro che l’avevano messo al mondo.

Con Sirius, James e Peter era decisamente più sopportabile: le risate prima e dopo (e potrebbe quasi scommettere anche durante) facevano di quella disgrazia qualcosa su cui scherzare nelle serate successive, ammaccati in infermeria. Non una volta che si fosse sentito inadeguato o pericoloso, accanto a loro, probabilmente perché erano assurdamente irresponsabili. Rimpiange quei momenti con una tale intensità da percepire la nostalgia come un dolore fisico.

Ciò che fin da piccolo l’ha sempre terrorizzato è la solitudine e il caso ha voluto che ne fosse condannato. In trent’anni di vita ha però capito come sopravvivere a se stessi. Rientrare a casa solo, cenare solo, ascoltare musica solo, esperimentare cose nuove solo, trasformarsi solo. Nella sua serie di giornate sempre uguali, a volte si sorprende a parlare tra sé e sé: complimentarsi per la buona riuscita di un piatto, o borbottare leggendo la Gazzetta, ripetersi cosa comprare per cena. Rendersene conto gli procura un senso di inquietudine. “Stai diventando pazzo, vecchio mio” si ammonisce davanti uno specchio.

Sono le due del pomeriggio, il tramonto è ancora lontano. D’inverno è più dura, i raggi del sole lo lambiscono per poco tempo prima di perdere il senno. Tuttavia è abbastanza certo di non incontrare nessun sfortunato turista o escursionista sulla sua strada: d’estate invece diventa piuttosto difficile evitare famigliole in vacanza.

È concentrato sul verso di un uccello insolito prima di carpire un fruscio alle sue spalle:

“Remus”

Non ha bisogno di voltarsi. Sospira e riaprendo gli occhi incontra quelli perlacei di Ninfadora.

“Vattene Tonks”

Dora porta un lungo cappotto grigio, stretto sulla vita sottile, che scopre un paio di galosce a fiori, totalmente fuori luogo. Remus abbozza un mezzo sorriso, espressione che lei mal interpreta.

“Quindi un minimo sei felice di vedermi”

No, non lo è, ma l’inadeguatezza di quella giovane ninfa lo intenerisce. Sa che porta quegli stivali assurdi perché detesta la pioggia e perché ha i piedi sempre freddi. Ninfadora è una creatura diurna, alla ricerca di raggi di sole come una lucertola, esageratamente esplosiva, sul confine dell’invadenza. Si rabbuia rendendosi conto di quante cose sappia di lei. E sospira: la pace interiore è effettivamente rotta.

“Ah bè, deciditi!” Si volta indispettita, i capelli, oggi corvini, come una frusta schiaffeggiano Remus, che suo malgrado si sorprende a spiarle la silhouette. Dora continua a camminare un po’ in tondo, accarezza il tronco di una giovane betulla, incespica sui passi ingombranti di quegli orribili stivali.

“Ti ho detto mille volte che non voglio nessuno con me, tantomeno una strega inesperta” Remus si allunga leggermente per sorreggerla mentre pronuncia queste parole. Si costringe ad essere rude con lei. Sa che è permalosa e punta a farla arrabbiare per salvarle la vita; in realtà, malgrado imbranata, è una delle poche persone a cui affiderebbe la sua vita.
Dora si ferma e lo fissa con lo sguardo imbambolato da cerbiatto ferito. Remus alza gli occhi; è sempre difficile con lei

“Sai cosa voglio dire…ti prego torna a casa”.

“So benissimo come comportarmi” lo rimbecca, acida. “Siamo tutti preoccupati per te…All’ordine-”

“Tu sola sei preoccupata per me” ribatte.

Tonks si siede di fronte a lui e col broncio di bambina comincia a giocherellare con un filo d’erba.
Remus la guarda attentamente, segue la linea spezzata del suo naso irregolare, cade sulle labbra strette nella frustrazione e la curva dolce del mento. Sente una forza antica muovergli la mano a scostarle una ciocca da davanti il viso, ma poco prima la ritira, e Dora se ne accorge.

“Ti faccio così schifo, non riesci neanche a toccarmi?” Si incrina la voce cristallina di Tonks, un angolo delle labbra ha un fremito. Remus si allarma.

“Non è così Dora lo sai…”

“Non chiamarmi così”
Si alza di nuovo, e gli dà le spalle.
Amare Remus Lupin è un destino infelice. Ogni gesto, parola pronunciata, hanno il solo scopo di preservare quella solitudine che lo rassicura e lo tortura contempo. Lei è la prima destinataria, ed è rifiutata con tale tristezza da non poterle permettere neanche di odiarlo.

Il giorno in cui Tonks ha capito di amarlo era un semplice martedì. Era ad Hogsmade in giro per negozi, alla ricerca di un nuovo mantello, quando è stata sorpresa da un cane randagio. Inizialmente pensò fosse Sirius, ma di fronte al suo atteggiamento indubbiamente canino e affettuoso, si sorprese ad accarezzarlo pensando a quella volta in cui Lupin, dopo aver rovesciato il tavolo e tutto il pranzo durante una riunione dell’ordine, le aveva leggermente scompigliato i capelli con un sorriso mesto, dicendole “Quanto sei carina”. In quel momento le attraversò il corpo una consapevolezza potente come un fulmine:

“Merlino, ma io lo amo!”

Dopo una notte insonne trascorsa a valutare con razionalità ogni segnale di quella sensazione che scoprì navigava in lei, inconsapevolmente, da molto tempo, il giorno successivo si diresse di buona lena a casa di Remus. Di fronte a lui, tempo di qualche convenevole e già gli aveva gettato le braccia al collo, stampato un bacio in bocca e dichiarato le sue intenzioni: “Ti amo, vuoi metterti con me?” Lui l’aveva guardata come se di fronte a lui si fosse smaterializzato uno stormo di Dissennatori e non fosse in grado di evocare un patrono.

Da quel momento è cominciato una sorta di valzer. Tonks fa in modo di trovarsi ovunque ci sia anche Remus, e lui in risposta la rifiuta prima con pazienza, poi con irritazione, e infine si vede costretto ad accettarla con rassegnazione.
Per Dora ogni istante trascorso con lui è prezioso e si nutre della placida presenza che a volte lui le concede: allora si ritrovano in assurdi semi appuntamenti che li vedono passeggiare al parco, bere qualcosa insieme, perdersi in antiche librerie. Con un piccolo sforzo di immaginazione può fingere che lui sia davvero il suo fidanzato e che la ami anche quando sputazza il porridge per aver parlato a bocca piena. Lo travolge di tonnellate di parole e lo rende partecipe di qualunque singolo pensiero le attraversi la testa e gioisce come una bambina quando lui risponde usando più di cinque parole. Quando è particolarmente entusiasta lo prende per mano e lo trascina a vedere qualcosa che l’ha sorpresa; ogni volta che lo fa, arrossisce al solo contatto con la sua pelle tiepida.

Remus in quei momenti è vittima di tormentatissimi istinti. Il primo, debole, è quello dell’attrazione fisica: Dora è giovane, ha la pelle albicocca, un viso dolcissimo e un aspetto che non annoia mai. Se gli si presentasse nuda non crede che avrebbe la lucidità di rifiutarla ancora. Ne consegue un senso di protezione nei confronti di quella creatura così goffa e indifesa, una cerbiatta scoordinata ancora incapace di muoversi con le sue lunghe gambe sottili.
Poi subentra la negatività: come può una tale ninfetta avvicinarsi ad un uomo già così navigato? Quando passeggiano Remus nota gli sguardi degli altri uomini: Ninfadora non è una donna da far girare la testa, ma è comunque attraente e ha un forte potenziale. Potrebbe innamorarsi di un uomo giovane che la renda felice con facezie da ragazzi, a cui non dovrà fare da badante dopo qualche anno. La sua personalità, così solare, calorosa, ha il potere di illuminare le stanze più buie. Tutti la adorano, e spesso Remus quando torna a casa dopo una di quelle giornate “imposte” sente la solitudine morderlo ancora più forte. Si avvilisce capendo di aver bisogno della sua luce per illuminare le tenebre della sua esistenza.

Ma Remus non è un uomo egoista e non vuole cedere. Sa che ormai il sentimento è sbocciato, fin da quel primo bacio che l’ha tanto sconvolto, e che forse era deposto in lui fin dal primo giorno, quando Tonks era entrata a far parte dell’Ordine. Lei era una promettente studentessa appena uscita da Hogwarts e si era offerta di preparare la cena a tutti gli altri membri. Remus aveva trovato un suo capello sul pasticcio di carne; lei, per sdrammatizzare, gli aveva dimostrato di poter cambiare il suo colore persino una volta caduti, colorandolo di un forte verde pistacchio. La ricordava bellissima in quell’abito plissettato bianco: l’unico che le abbia mai visto addosso.
Per questo cerca di agire in modo da estirpare questo sentimento, in lui prima di tutto, ma soprattutto in Tonks. Un’anima tanto preziosa non può finire con un tale mostro, si ripete quando i suoi limiti vacillano.

Ora le guarda le spalle strette e reprime il bisogno di stringerla da dietro, sussurrarle sciocchezze in quelle delicate conchiglie che ha per orecchie. Qualunque cosa in lei è delizioso come un sorbetto.

“Mi dispiace, mi piace chiamarti così” Lo stomaco di Dora ha un guizzo e si volta esasperata. Anche a lei, segretamente, piace. È per questo che non vuole lo faccia.

“Smettila di trattarmi come una pivella!”

“Sei giovane, e questa è una prova che metterebbe in difficoltà anche un mago navigato”

Il tono è quello ragionevole di un adulto che vuole rendere partecipe un bambino di come va il mondo.

“Sono un Auror, so gestire questo genere di cose” protesta Tonks, allargando le braccia. Remus nota che quel cappotto le sta molto grande, teme sia dimagrita.

“Ma io non voglio mettere in pericolo nessuno, tanto meno te” tossicchia, è una frase che lo potrebbe esibire troppo “ti assicuro che non ho bisogno di aiuto quando mi trasformo, non voglio nessuno con me altrimenti lo chiederei esplicitamente” aggiunge, sviando il discorso.

Rimangono in silenzio per un momento, prima che Remus esclami “A proposito, come hai fatto a trovarmi?”

Aveva infatti optato per un posto nuovo, per sfuggire alle mire di Dora, puntuali come ogni luna piena. Nessuno sapeva del cambio di programma, altrimenti per lei sarebbe stato semplice estrarre l’informazione a qualcuno, con quegli occhioni.
Dora a questo punto arrossisce, temporeggia un po’.

“Il mio patronus è cambiato” sussurra, staccando una scaglia di corteccia di quercia. L’albero sembra rimbrottare, offeso.
Remus la guarda interrogativo, e lei sospira.

“Ti ho cercato sulla piana, qualche ora fa. Se libero il mio patrono, ora, mi conduce da te. È stato difficile, perché ti sei allontanato parecchio; lui mi ha solo indicato la direzione, ha cominciato a scavare ad est. Ho pensato ad un luogo appropriato per te e mi sono ricordata di questa foresta. Ci andavo con papà da bambina” Spiega frettolosamente. Questa storia del patrono la imbarazza, sente che è la prova evidente dell’ascendente che Remus ha su di lei. Spesso, quando lui non cede alle sue insistenze e torna a casa sola, si ripete che è forte e che non ha bisogno di lui e che non si metterà più in ridicolo. Ma l’amore che prova per lui è una forza irrazionale che non conosce orgoglio e che puntualmente la riconduce alla sua fonte.

Remus stringe gli occhi, un brivido gli scuote la spina dorsale e un forte peso gli stringe lo stomaco. La tragedia della sua vita ha coinvolto persino un’innocente; non c’è nulla che lo ferisce di più che far soffrire così Tonks. È in questo preciso istante che capisce di amarla. Un ramo di betulla scricchiola leggermente, l’umidità si è fatta talmente forte che possono odorarla, un piede di Dora sta scavando leggermente nella terra, lei lo osserva, e il sentimento che prova gli si palesa con una tale violenza da costringerlo a distogliere lo sguardo. Ha molte cose in mente Remus, sente un forte bisogno di parlarle, di discutere una volta per tutte di questa follia (che ora gli sembra tanto semplice) ma improvvisamente si accorge di un’ultima tenue luce arancio che filtra tra la foschia; il tramonto sta finendo, e sente uno spasmo più forte dei precedenti. Ha sbagliato, non ha fatto attenzione, ormai sono quasi le cinque.

Dora si accorge del cambiamento, indietreggia un po’.

“Rem?”

A Remus quasi ferisce quel passo indietro, ora che ha dato libera uscita ai sentimenti si ritrova a pensare che lo temi anche lei, gli sembra di rivedere i suoi genitori, un’ondata d’odio che sgorga direttamente dalla sua dannazione lo pervade. Si alza in piedi dolorante, senza guardarla, e con un secco movimento le intima di andar via.

“Vattene” la voce è mutata, astiosa e selvaggia, preannuncia l’inevitabile.
“No, voglio starti accanto, lascia che ti aiuti…”
Remus si gira furioso “Vattene!” ringhia, la pupilla ha invaso il grigio dell’iride malinconica, la schiena comincia a curvarsi. Dora ha giusto il tempo di sussultare prima di smaterializzarsi.

L’ultimo raggio lambisce la terra e scivola via, oltre la linea dell’orizzonte. La foschia inghiotte il giorno, si fa biancastra, illuminata dalla luce vergine della luna piena. Remus vede sparire Ninfadora, e si lascia andare al potere della belva.

*

L’alba. Remus apre gli occhi e la prima cosa che vede è un ramarro gonfio, che respira placido e pago della sua esistenza. Poi sente una leggera pioggerella inumidirgli i baffi, il freddo penetrargli nelle ossa. Una fitta di mal di testa lo costringe a riprendere coscienza di sé, e alzandosi bruscamente spaventa l’anfibio, che scivola via gracchiando.

Attraversa il bosco trascinando i piedi, distrutto. Dev’essere stata una nottata orribile, sente graffi ovunque. Deve aver sbranato un animale grosso questa volta, i piedi sono pesti di sangue; deve evitare i luoghi abitati questa volta, non può passare per semplice barbone, allungherà di molto il percorso. Quando torna umano non ha mai abbastanza energie per smaterializzarsi, è costretto a tornare a piedi.
Impiega due ore di cammino per arrivare a casa, zuppo, infastidito anche dagli irrigatori dei vicini. Apre la porta e di fronte a sé, semiaddormentata sul divano, scopre Tonks, la mano ancora affondata in un pacco di biscotti. Si ridesta spaventata al suono dei suoi passi.

“Rem! Scusa, temevo per te, avevi una faccia ieri sera…” tira via la mano dalla refurtiva con aria colpevole e si alza “Ho preparato qualcosa qualora avessi fame, non ti arrabbiare ma credo tu sia affamato dopo una nottata così, ti piace il pesce? Non è molto un cibo da lupo ma-“
Remus barcolla verso di lei, la spinge si nuovo a sedersi sul divano e sdraiandosi le poggia la testa sulle gambe. Le bacia una coscia sbiascicando “Grazie…” prima di chiudere gli occhi.

Dora rimane per qualche secondo interdetta, confusa da quel comportamento. Poi Remus sente la sua piccola mano di porcellana cominciare ad accarezzarlo e si lascia cullare fino ad addormentarsi. Non è più solo.

 

Note dell'autrice:
Comincio ad amare questa coppia e dopo La bellezza dell'asino ho deciso di riscrivire qualcosa.
Spero vi piaccia!

  
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